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https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/il-consiglio-di-stato-ha-reso-il-parere-sulle-linee-guida-recante-indicazioni-in-materia-di-affidamenti-ai-servizi-sociali
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sulle Linee guida recante indicazioni in materia di affidamenti ai servizi sociali
Numero 03235/2019 e data 27/12/2019 Spedizione REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato Sezione Consultiva per gli Atti Normativi Adunanza di Sezione del 19 dicembre 2019 NUMERO AFFARE 01655/2019 OGGETTO: Autorità nazionale anticorruzione. Linee guida recanti indicazioni in materia di affidamenti di servizi sociali. LA SEZIONE Vista la nota 14 novembre 2019, prot. n. 91029, con la quale l’Autorità nazionale anticorruzione ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto; Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Vincenzo Neri; 1. La richiesta di parere. Con nota 14 novembre 2019, prot. n. 0091029, il Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) ha sottoposto al parere del Consiglio di Stato lo schema di Linee Guida recanti “Indicazioni in materia di affidamenti di servizi sociali”, alla luce delle disposizioni del d.lgs. 50/2016, come modificato dal d.lgs. 56/2017 nonché dal d.lgs. 117/2017. La documentazione in atti è corredata da una relazione AIR in cui sono riportati: il quadro normativo di riferimento, gli obiettivi d’intervento dell’Autorità, la descrizione degli indicatori che consentiranno di verificare il grado di raggiungimento di questi ultimi e l’attuazione dell’intervento nell’ambito della VIR. Nella relazione AIR sono esaminate le principali osservazioni formulate da parte degli stakeholder intervenuti e pervenute nel corso dello svolgimento di una consultazione pubblica in modalità aperta. L’Autorità riferisce che lo schema di linee guida è stato predisposto ai sensi dell’articolo 213, comma 2, del codice dei contratti pubblici al fine di superare le criticità derivanti dal mancato coordinamento tra la disciplina del terzo settore e la normativa dei contratti pubblici. Secondo l’ANAC, le linee guida perseguirebbero lo scopo di fornire delle indicazioni operative non vincolanti alle stazioni appaltanti tramite la diffusione di buone pratiche nell’affidamento dei servizi sociali. Il presidente dell’ANAC ha dunque ritenuto opportuno acquisire il parere del Consiglio di Stato anche per la chiarificazione delle questioni interpretative emerse in occasione di tale intervento regolatorio. Per il tramite del richiamo all’orientamento sostenuto dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato (nel parere n. 2052 del 20 agosto 2018), l’Autorità ha prospettato una ricostruzione della sfera di applicabilità della disciplina di matrice eurounitaria in materia di pubblici lavori, servizi e forniture fondata sulla distinzione tra le fattispecie assoggettate alle norme del codice dei contratti pubblici, quelle estranee nonché quelle escluse dall’operatività di quest’ultimo. Con riguardo agli affidamenti inclusi nel perimetro di rilevanza del d.lgs. 50/2016, le linee guida offrono indicazioni in materia di programmazione e progettazione del servizio, aggregazione e centralizzazione delle committenze, rotazione degli affidamenti, proroga tecnica e criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Riferisce la scrivente amministrazione che l’esigenza di determinare i profili caratterizzanti dei singoli istituti e di favorire l’individuazione di criteri univoci per l’esercizio delle scelte discrezionali delle stazioni appaltanti ha orientato la formulazione di ulteriori indirizzi interpretativi con riguardo ai regimi derogatori di cui agli articoli 112, comma 1, e 143, comma 2, del codice dei contratti pubblici. Inoltre, lo schema di linee guida in esame ritiene di poter fornire delle indicazioni applicative in merito ad alcuni istituti previsti dal codice del terzo settore e dalla normativa speciale e, in specie, alle convenzioni con le associazioni di volontariato e di promozione sociale ex articolo 56 del codice del terzo settore, ai provvedimenti di autorizzazione e accreditamento, alla co-programmazione e alla co-progettazione. Da ultimo, l’ANAC riferisce che, ai sensi dell’articolo 19 della direttiva 2014/23/UE, “le concessioni per i servizi sociali e altri servizi specifici elencati nell’allegato IV che rientrano nell’ambito di applicazione della presente direttiva sono soggette esclusivamente agli obblighi previsti dall’articolo 31, paragrafo 3, e dagli articoli 32, 46 e 47”. L’Autorità rileva altresì che, sulla base di tale previsione, “sembrerebbero doversi applicare, alle concessioni di servizi sociali, soltanto gli istituti espressamente richiamati”. Tuttavia l’amministrazione – dopo aver ricostruito il quadro normativo vigente sia per gli appalti sia per le concessioni – chiede l’avviso del Consiglio sull’opzione interpretativa accolta dal paragrafo 1.6 dello schema di linee guida, con cui è “stata proposta una soluzione in linea con le previsioni del Codice”. Nel citato paragrafo si stabilisce che “alle concessioni di servizi sociali si applicano le disposizioni indicate all’articolo 164 del codice dei contratti pubblici”. 2. Le linee guida dell’ANAC e il nuovo regolamento unico di cui all’articolo 216, comma 27-octies, del d.lgs. 50/2016. L’originario progetto di recepimento nell’ordinamento interno della disciplina eurounitaria in materia di regolazione del mercato dei contratti pubblici (direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE) includeva nel complesso novero di funzioni attribuite all’ANAC la “adozione di atti di indirizzo quali linee guida, bandi-tipo, contratti-tipo ed altri strumenti di regolamentazione flessibile, anche dotati di efficacia vincolante” [articolo 1, comma 1, lettera t), della l. 11/2016]. La medesima norma manteneva poi ferma “l'impugnabilità di tutte le decisioni e gli atti assunti dall'ANAC innanzi ai competenti organi di giustizia amministrativa”. I principi e criteri direttivi per l’esercizio della delega legislativa trovano tuttora attuazione nella disposizione generale di cui all’articolo 213, comma 2, del d.lgs. 50/2016, secondo cui l’ANAC esercita funzioni di promozione dell’efficienza e della qualità dell’attività delle stazioni appaltanti “attraverso linee guida, bandi-tipo, capitolati-tipo, contratti-tipo ed altri strumenti di regolazione flessibile, comunque denominati”. Oltre a recepire le indicazioni del legislatore delegante in ordine al regime di impugnabilità degli atti dell’Autorità, il medesimo comma 2 dell’articolo 213, “al fine di non confinare l’attività di rule making in una dimensione - per così dire - ‘statica’, ma di conferirle un ruolo dinamico e duttile rispetto all’evoluzione del sistema” (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere n. 966 del 13 aprile 2018), richiede che il procedimento di deliberazione delle suddette linee guida sia integrato dall’osservanza delle tecniche di consultazione dei potenziali destinatari dell’intervento, nonché di analisi e verifica dell’impatto della regolamentazione. All’ANAC è inoltre conferito il compito di soddisfare le esigenze di adeguata pubblicità dei provvedimenti e di provvedere al progressivo riordino degli stessi in testi unici integrati, “in modo che siano rispettati la qualità della regolazione e il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalla l. n. 11 del 2016 e dal presente codice”. I plurimi riferimenti alla portata integrativa e attuativa delle linee guida per la definizione del contenuto precettivo di singole norme del codice dei contratti pubblici completavano inoltre il quadro dei poteri di regolazione riconosciuti all’ANAC nel settore degli affidamenti di pubblici lavori, servizi e forniture. Alla luce del delineato sistema di funzioni attribuite all’Autorità, il Consiglio di Stato, in occasione dell’istituzione della Commissione speciale per l’esame dello schema di decreto legislativo recante il nuovo codice dei contratti pubblici, con parere n. 855 del 1 aprile 2016, ha ritenuto di poter enucleare tre distinte specie di linee guida: linee guida adottate con decreto del Ministro delle infrastrutture e trasporti, su proposta dell’ANAC, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari; linee guida adottate con delibera dell’ANAC a carattere vincolante erga omnes; linee guida adottate dall’ANAC a carattere non vincolante, alle quali dovrebbe assegnarsi un valore di indirizzo a fini di orientamento dei comportamenti di stazioni appaltanti ed operatori economici. Tale ricostruzione non mancava tuttavia di suscitare significative perplessità in merito ai criteri di distinzione tra gli atti connotati dall’obbligatorietà delle scelte di regolazione e quelli intesi a suggerire opzioni interpretative o pratiche applicative utili alla risoluzione delle questioni emerse nel corso delle procedure di affidamento. Prescindendo dalla linee guida recepite con decreto ministeriale, quanto alle altre, alle tesi secondo cui il tenore letterale dell’articolo 213, comma 2, del d.lgs. 50/2016 non avrebbe consentito di riconoscere alle linee guida alcun valore vincolante, se non nelle ipotesi espressamente previste dalla legge, si opponevano quanti, valorizzando l’opportunità di una valutazione casistica, affermavano l’intrinseca efficacia obbligatoria degli atti che avessero trovato espressione in precetti attuativi o integrativi della fonte primaria. Tale ricostruzione del contenuto dei poteri di regolazione esercitabili dall’ANAC in materia di affidamento dei contratti pubblici richiede oggi un puntuale adeguamento alle modifiche normative intervenute con il d.l. 32/2019, convertito, con modificazioni, dalla l. 55/2019. A seguito dell’introduzione del nuovo comma 27-octies dell’articolo 216 del d.lgs. 50/2016, infatti, la categoria delle linee guida vincolanti appare significativamente ridimensionata dalla prospettata adozione, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettere a) e b), della l. 400/1988, di “un regolamento unico recante disposizioni di esecuzione, attuazione e integrazione” del codice dei contratti pubblici. Al regolamento sarà in particolare affidata la disciplina delle seguenti materie: “a) nomina, ruolo e compiti del responsabile del procedimento; b) progettazione di lavori, servizi e forniture, e verifica del progetto; c) sistema di qualificazione e requisiti degli esecutori di lavori e dei contraenti generali; d) procedure di affidamento e realizzazione dei contratti di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie comunitarie; e) direzione dei lavori e dell'esecuzione; f) esecuzione dei contratti di lavori, servizi e forniture, contabilità, sospensioni e penali; g) collaudo e verifica di conformità; h) affidamento dei servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria e relativi requisiti degli operatori economici; i) lavori riguardanti i beni culturali”. A conferma del subingresso della fonte regolamentare nell’ambito oggettivo di intervento dell’originario potere di regolazione vincolante dell’ANAC, la norma in commento stabilisce la perdita di efficacia delle linee guida di cui all’articolo 213, comma 2, del d.lgs. 50/2016 vertenti sulle materie suindicate o comunque recanti una disciplina incompatibile con le disposizioni del regolamento unico. Fino alla data di entrata in vigore di quest’ultimo, si dispone la transitoria conservazione degli effetti delle linee guida e dei decreti adottati in attuazione delle previgenti disposizioni di cui agli articoli 24, comma 2, 31, comma 5, 36, comma 7, 89, comma 11, 111, commi 1 e 2, 146, comma 4, 147, commi 1 e 2, e 150, comma 2. Deve tuttavia rilevarsi che l’intervento regolamentare di cui al nuovo comma 27-octies non investa la totalità delle norme del codice dei contratti pubblici il cui contenuto precettivo può essere attuato o integrato dall’ANAC con linee guida vincolanti. Non muta infatti la formulazione dell’articolo 80, comma 13, del d.lgs. 50/2016, secondo cui è rimessa all’ANAC la precisazione dei mezzi di prova e delle specifiche carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto strumentali alla dimostrazione dei gravi illeciti professionali di cui al comma 5, lettera c), del medesimo articolo 80. Parimenti, risultano inalterati i poteri dell’Autorità con riguardo sia alle procedure di affidamento in caso di fallimento dell’esecutore o di risoluzione del contratto (articolo 110, comma 6, del d.lgs. 50/2016), sia al monitoraggio dell’Amministrazione aggiudicatrice sull’attività dell’operatore economico nei contratti di partenariato pubblico privato (articolo 181, comma 4, del d.lgs. 50/2016). Alla luce del delineato quadro normativo, deve pertanto concludersi che, a seguito degli interventi di riforma previsti dal d.l. 32/2019, convertito, con modificazioni, dalla l. 55/2019, il potere di adottare linee guida vincolanti sia limitato alle residue ipotesi in cui le norme del codice dei contratti pubblici espressamente rinviino all’apporto attuativo o integrativo dell’Autorità. Permane invece la facoltà dell’ANAC di suggerire soluzioni interpretative o prassi applicative attraverso gli strumenti di regolazione flessibile non muniti di efficacia obbligatoria previsti dall’articolo 213, comma 2, del d.lgs. 50/2016. Coerentemente a quanto sostenuto dal Consiglio di Stato, sezione I, con parere n. 2627 del 17 ottobre 2019, l’intervento delle linee guida non vincolanti – e il corrispondente potere dell’ANAC in materia di appalti e concessioni – deve ammettersi con riferimento alle disposizioni che disciplinano le procedure di affidamento dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (ivi comprese le concessioni) o l’esecuzione degli stessi. Va escluso, invece, che, al di fuori del perimetro ora indicato, l’ANAC abbia il potere di adottare linee guida, seppur di tipo non vincolante. Giova aggiungere che le disposizioni in materia di procedure di affidamento o quelle relative all’esecuzione dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture – rispetto alle quali si giustifica il potere di adottare linee guida non vincolanti – possono essere contenute sia nel Codice dei contratti pubblici sia in altri testi normativi a condizione che riguardino le materie ora indicate (“…è vero che l’art. 32 cit. si trova in un corpo legislativo diverso dal codice degli appalti ma è altrettanto vero che tale disposizione si occupa di un aspetto, seppur particolare, dell’esecuzione dei contratti già stipulati con le pubbliche amministrazioni e conseguentemente non vi sono ostacoli all’adozione di linee guida non vincolanti da parte dell’Anac…”, Consiglio di Stato, Sezione I, parere n. 2627 del 17 ottobre 2019). Tale conclusione si impone infatti alla luce dello stesso articolo 213 del codice di contratti pubblici, il quale, per un verso, dispone che “l'Autorità vigila sui contratti pubblici, anche di interesse regionale, di lavori, servizi e forniture nei settori ordinari e nei settori speciali” (comma 3, lettera a); per altro verso, con norma di carattere generale, prevede che “l’attività di regolazione” dei contratti pubblici è esercitata dall’ANAC “nei limiti di quanto stabilito dal presente codice” (comma 1). Le conclusioni cui ora si è pervenuti riguardano esclusivamente i poteri dell’ANAC riferibili al settore dei contratti pubblici; la Sezione, invece, non ritiene di dover (né di potere) estendere l’indagine agli altri poteri, anche regolamentari, attribuiti all’ANAC in differenti materie (trasparenza, anticorruzione, ecc.). Tutto ciò premesso, la Sezione reputa necessario e opportuno restituire all’Autorità richiedente la bozza di Linee guida al fine di: verificare la compatibilità delle linee guida con le disposizioni del predetto regolamento unico, in considerazione del fatto che alcuni istituti trattati nelle linee guida saranno oggetto di disciplina da parte del predetto regolamento; regolamento quest’ultimo che dovrebbe essere adottato entro centottanta giorni dall’entrata in vigore del già citato articolo 216, comma 27 octies, Codice. L’ANAC, a tal fine, potrà prendere in considerazione il testo pubblicato sulla gazzetta ufficiale anche se non ancora entrato in vigore; rivedere le linee guida – considerato anche quanto affermato nel parere della Prima Sezione di questo Consiglio n. 2627 del 17 ottobre 2019 nonché al paragrafo 2 del presente parere – con riferimento alle norme e agli istituti disciplinati dal Codice del Terzo settore che non possono rientrare nel campo di operatività delle linee guida non vincolanti. 3. Risposta al quesito formulato Occorre ora rispondere allo specifico quesito relativo all’estensione del regime applicabile alle concessioni di servizi sociali in relazione a quanto previsto dall’articolo 19 della direttiva 2014/23/UE (“Le concessioni per i servizi sociali e altri servizi specifici elencati nell’allegato IV che rientrano nell’ambito di applicazione della presente direttiva sono soggette esclusivamente agli obblighi previsti dall’articolo 31, paragrafo 3, e dagli articoli 32, 46 e 47”). L’ANAC, ritenendo che “l'esclusione delle concessioni di servizi sociali dall'ambito di applicazione del codice comporterebbe la necessità di rimettere ad atti interni delle stazioni appaltanti l'intera regolazione di elementi fondamentali dell'istituto e, in specie, tutta la disciplina contenuta nella parte III del codice per le concessioni di servizi”, per evitare un vuoto normativo, ha individuato una soluzione al paragrafo 1.6 di queste linee guida, in base al quale “alle concessioni di servizi sociali si applicano le disposizioni indicate all’articolo 164 del codice dei contratti pubblici”. Questa soluzione deve essere rimeditata. L’articolo 213, comma 2, del codice dei contratti pubblici dispone al quarto periodo che “l’ANAC, per l’emanazione delle linee guida, si dota, nei modi previsti dal proprio ordinamento, di forme e metodi di consultazione, di analisi e di verifica dell’impatto della regolazione, di consolidamento delle linee guida in testi unici integrati, organici e omogenei per materia, di adeguata pubblicità, anche sulla Gazzetta Ufficiale, in modo che siano rispettati la qualità della regolazione e il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalla legge n. 11 del 2016 e dal presente codice”. L’articolo 1, comma 1, lett. a), della legge n. 11 del 2016 individua, tra i criteri e i principi direttivi per il legislatore delegato, il “divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive”, come definiti dall'articolo 14, comma 24-ter, lett. b), della legge 28 novembre 2005, n. 246, ai sensi del quale “costituiscono livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie:[…]l'estensione dell'ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, ove comporti maggiori oneri amministrativi per i destinatari”. Pertanto, il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi (c.d. gold plating) esclude l’applicabilità di una disciplina aggravata introdotta attraverso le linee guida. Tale conclusione risulta confermata anche in relazione al caso di specie. Ed invero se, per un verso, è vero che si tratta di linee guida non vincolanti, per altro verso, è altrettanto vero che le stesse, anche alla luce della giurisprudenza della Sezione, per essere disattese richiedono che l’amministrazione specificamente motivi la ragione per cui decide di discostarsene. Si tratta dunque di atti provenienti da un’Autorità, particolarmente qualificata, con la conseguenza che devono mantenersi nell’ambito della cornice delineata dalle direttive e dal legislatore. P.Q.M. Nei termini suesposti è il parere della Sezione. IL SEGRETARIO Cinzia Giglio
Contratti della Pubblica amministrazione – Concessione – Servizi sociali – Gold plating– Applicabilità.           Anche alle concessioni di servizi sociali si applica il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi (c.d. gold plating) (1).   (1) L’Anac ha posto alla Sezione consultiva del Consiglio di Stato il quesito relativo all’estensione del regime applicabile alle concessioni di servizi sociali in relazione a quanto previsto dall’art. 19 della direttiva 2014/23/UE (“Le concessioni per i servizi sociali e altri servizi specifici elencati nell’allegato IV che rientrano nell’ambito di applicazione della presente direttiva sono soggette esclusivamente agli obblighi previsti dall’articolo 31, paragrafo 3, e dagli articoli 32, 46 e 47”). L’Anac, ritenendo che “l'esclusione delle concessioni di servizi sociali dall'ambito di applicazione del codice comporterebbe la necessità di rimettere ad atti interni delle stazioni appaltanti l'intera regolazione di elementi fondamentali dell'istituto e, in specie, tutta la disciplina contenuta nella parte III del codice per le concessioni di servizi”, per evitare un vuoto normativo, ha individuato una soluzione in base alla quale “alle concessioni di servizi sociali si applicano le disposizioni indicate all’art. 164 del codice dei contratti pubblici”. Questa soluzione non ha convinto la Sezione. L’art. 213, comma 2, del codice dei contratti pubblici dispone al quarto periodo che “l’ANAC, per l’emanazione delle linee guida, si dota, nei modi previsti dal proprio ordinamento, di forme e metodi di consultazione, di analisi e di verifica dell’impatto della regolazione, di consolidamento delle linee guida in testi unici integrati, organici e omogenei per materia, di adeguata pubblicità, anche sulla Gazzetta Ufficiale, in modo che siano rispettati la qualità della regolazione e il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalla legge n. 11 del 2016 e dal presente codice”. L’art. 1, comma 1, lett. a), l. n. 11 del 2016 individua, tra i criteri e i principi direttivi per il legislatore delegato, il “divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori  a quelli minimi richiesti dalle direttive”, come definiti dall'art. 14, comma 24-ter, lett. b), l. 28 novembre 2005, n. 246, ai sensi del quale “costituiscono livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie:[...]l'estensione dell'ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, ove comporti maggiori oneri amministrativi per i destinatari”. Pertanto, il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi (c.d. gold plating) esclude l’applicabilità di una disciplina aggravata introdotta attraverso le linee guida. Tale conclusione risulta confermata anche in relazione al caso di specie. Ed invero se, per un verso, è vero che si tratta di linee guida non vincolanti, per altro verso, è altrettanto vero che le stesse, anche alla luce della giurisprudenza della Sezione, per essere disattese richiedono che l’amministrazione specificamente motivi la ragione per cui decide di discostarsene. Si tratta dunque di atti provenienti da un’Autorità, particolarmente qualificata, con la conseguenza che devono mantenersi nell’ambito della cornice delineata dalle direttive e dal legislatore.
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/illegittima-l-esclusione-dal-concorso-per-finanzieri-della-candidata-in-stato-di-gravidanza
Illegittima l’esclusione dal concorso per finanzieri della candidata in stato di gravidanza
N. 08578/2021REG.PROV.COLL. N. 02421/2017 REG.RIC. N. 07882/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2421 del 2017, proposto da Comando Generale della Guardia di Finanza, Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; contro -OMISSIS-, rappresentata e difesa dagli avvocati Giorgio Carta, Giovanni Carta, Giuseppe Piscitelli, con domicilio eletto presso lo studio Giorgio Carta in Roma, viale Parioli 47; sul ricorso numero di registro generale 7882 del 2021, proposto da Ministero dell'Economia e delle Finanze, Comando Generale della Guardia di Finanza, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; contro -OMISSIS-, rappresentata e difesa dagli avvocati Giorgio Carta, Giovanni Carta, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Safina Marco, Mormile Salvatore, Salvato Salvatore, non costituiti in giudizio; per la riforma quanto al ricorso n. 2421 del 2017: della sentenza in forma semplificata del T.A.R. per il -OMISSIS-, Sede -OMISSIS-, Sezione II ter, n. -OMISSIS-, resa tra le parti, con cui è stato annullato il provvedimento del 5.09.2016 di esclusione dalla procedura di reclutamento dei candidati "idonei non vincitori" dei concorsi per allievi finanzieri indetti negli anni 2010 - 2011 e 2012 per un numero di posti pari a 400 unità poiché in stato di gravidanza; quanto al ricorso n. 7882 del 2021: per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il -OMISSIS-, Sezione II ter, n. -OMISSIS-, resa tra le parti, con cui è stata annullata la determinazione n. 117181 del 13 aprile 2017 di approvazione della graduatoria finale. Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 dicembre 2021 il Cons. Carmelina Addesso e udito l’Avv. dello Stato Liborio Coaccioli; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con i ricorsi in appello RG 2421/2017 e RG 7882/2021 il Ministero dell’Economia e delle Finanze –Comando Generale della Guardia di Finanza –ha impugnato le sentenze n. -OMISSIS- e n. -OMISSIS- con cui il Tribunale Amministrativo Regionale per il -OMISSIS-, -OMISSIS-, sez. II ter, ha accolto i ricorsi proposti dalla sig.ra -OMISSIS- avverso il provvedimento del 5.09.2016 di esclusione dalla procedura di reclutamento dei candidati "idonei non vincitori" dei concorsi per allievi finanzieri indetti negli anni 2010 - 2011 e 2012 per un numero di posti pari a 400 unità poiché in stato di gravidanza nonché avverso la determinazione n. 117181 del 13 aprile 2017 di approvazione della graduatoria finale. 2.Con ricorso al Tar -OMISSIS- RG -OMISSIS-, la sig.ra -OMISSIS- impugnava la determinazione del 5 settembre 2016 con la quale la Commissione per la verifica del mantenimento dei requisiti psicofisici, all’esito della visita medica preliminare, l’ha esclusa dalla procedura di reclutamento dei candidati “idonei non vincitori” dei concorsi per allievi finanzieri indetti negli anni 2010, 2011 e 2012 perché in stato di gravidanza. 2.1 La ricorrente impugnava, altresì, la determinazione n.160239 del 19 maggio 2016, con la quale il Comandante generale della G.d.F. ha indetto la procedura per il reclutamento dei candidati “idonei non vincitori” dei concorsi per allievi finanzieri indetti negli anni 2010, 2011 e 2012, per la parte in cui stabilisce che “le concorrenti che…risultano positive al test di gravidanza….sono escluse dalla procedura…laddove lo stato di temporaneo impedimento sussista ancora alla data del 31 agosto 2016” (art.4, commi 3 e 4). 2.2 Il Tar -OMISSIS-, con sentenza n. -OMISSIS-, resa ai sensi dell’art 60 c.p.a, accoglieva il ricorso, con compensazione delle spese, annullando il provvedimento di esclusione, unitamente alla norma del bando che dispone l’esclusione dal concorso nei confronti delle candidate che alla data del 31.08.2016 non possono essere sottoposte agli accertamenti sanitari di rito in quanto, in tale data, in stato di gravidanza. 2.3 Il Giudice di primo grado rilevava, in particolare, come la previsione del bando determinasse, in contrasto con i precetti costituzionali (segnatamente, gli artt. 3 e 51 Cost.) e comunitari (l’art 3 n. 1 della direttiva del Consiglio 76/207/CEE del 9 febbraio 1976 sulla parità di trattamento tra uomini e donne per quanto concerne l’accesso al lavoro), un’inammissibile disparità di trattamento nei confronti di una concorrente che vede così pregiudicata la sua maternità. 3. Con ricorso in appello R.G. 2421/2017, notificato in data 15 marzo 2017 e depositato in data 5 aprile 2017, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha chiesto la riforma della sopra indicata sentenza per i seguenti motivi: 1) Inammissibilità/irricevibilità del ricorso erroneamente respinta dal giudice di primo grado. Il provvedimento di esclusione è stato adottato alla luce di quanto previsto dall’art. 4, comma 4 della determinazione n. 160239/16, ossia il bando di concorso che avvia e disciplina le modalità di reclutamento dei candidati “idonei non vincitori” dei concorsi per il 2010, 2011 e 2012, con la conseguenza che, attesa la portata immediatamente escludente della clausola del bando, la stessa doveva essere immediatamente impugnata entro il termine di 60 giorni dalla pubblicazione (avvenuta il 20.05.2016), senza attendere l’adozione del provvedimento di esclusione. Per tale ragione, il ricorso al Tar proposto in data 28.09.2016 è certamente tardivo. Il ricorso, inoltre, è inammissibile per omessa notifica ad almeno uno dei controinteressati da identificarsi negli idonei non vincitori posizionati in graduatoria immediatamente dopo la sig.ra -OMISSIS-, la cui definitiva esclusione avrebbe determinato la nomina a vincitori dei predetti. 2) La determinazione n. 160239 del 19.05.2016 nel sancire, all’art 4 comma 4, che le candidate in stato di gravidanza sono escluse dalla procedura laddove lo stato di temporaneo impedimento sussista ancora alla data del 31 agosto 2016 ha proceduto ad una puntuale applicazione dell’art 3, comma 2, d.m. 17 maggio 2000, n. 155 (“Accertamento dell’idoneità al servizio nella Guardia di Finanza”), il quale prevede, al comma 3, che “l’accertamento nei riguardi dei candidati […] è effettuato entro il termine stabilito dal bando di concorso in relazione ai tempi necessari per la definizione della graduatoria.” Tale ultima disposizione perimetra, in termini temporali, lo svolgimento della procedura concorsuale che certamente non potrebbe rimanere aperta – in contrasto con l’art. 97 Cost. – per un periodo irragionevolmente lungo e non può essere procrastinato oltre il termine ultimo previsto per la definizione della graduatoria, nel caso di specie fissato al 31.08.2016. 3.1 In data 24 aprile 2017 si costituiva in giudizio l’appellata, che con successiva memoria del 3 maggio 2017, eccepiva l’inammissibilità del ricorso per carenza di specifiche doglianze alla sentenza impugnata nonché l’infondatezza nel merito, istando per la reiezione dello stesso. 3.2 Con ordinanza istruttoria n. -OMISSIS- la IV Sezione di questo Consiglio di Stato chiedeva “chiarimenti documentati in ordine allo stato della procedura di reclutamento, alla individuabilità di controinteressato specifico e determinato al momento della proposizione del ricorso in primo grado -in funzione dell’eventuale formazione e pubblicazione di elenco degli idonei ammessi al prosieguo della selezione, alla formazione di graduatoria finale e quindi alla sua eventuale impugnabilità”, fissando in prosieguo l’udienza del 15.11.2018. 3.3 Con deposito del 28.06.2018 Ministero forniva i chiarimenti richiesti, evidenziando che: - con determinazione n. 117181 in data 13.04.2017 erano stati dichiarati i vincitori della procedura straordinaria per l’arruolamento di 400 allievi finanzieri nell’anno 2016 attraverso lo “scorrimento delle graduatorie” degli idonei non vincitori dei concorsi indetti per gli anni 2010, 2011 e 2012; - tale determinazione era stata pubblicata telematicamente in data 15.05.2017 sul sito internet dell’Amministrazione all’indirizzo www.gdf.gov.it e nel relativo avviso era stato evidenziato che “…il presente avviso ha valore di notifica a tutti gli effetti e per tutti i candidati e dalla data di pubblicazione dello stesso decorrono i termini per esercitare le azioni impugnatorie previste dal relativo provvedimento…”; - alla data del 21.06.2018 tale provvedimento non risultava essere stato impugnato da parte dell’-OMISSIS- e ciò avrebbe potuto determinare l’improcedibilità del contenzioso promosso dall’interessata. 4. Avverso il suddetto provvedimento di approvazione della graduatoria, in data 13.09.2018, la sig.ra -OMISSIS- proponeva un nuovo ricorso al Tar (R.G. -OMISSIS-), deducendo che la determina di approvazione della graduatoria era stata pubblicata esclusivamente sul sito istituzionale della Guardia di Finanza, in contrasto con l’art. 15, co. 5 e 6, del DPR n. 487/1994 che impone la pubblicazione anche “nel Bollettino ufficiale della Presidenza del Consiglio dei Ministri o dell’amministrazione interessata” e la notizia di tale pubblicazione mediante avviso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Poiché, ai sensi del citato comma 6 dell’art. 15, il termine per le eventuali impugnative decorre dalla data di pubblicazione dell’avviso sulla Gazzetta Ufficiale, la ricorrente rilevava di essere ancora in termine per l’impugnativa, avendo acquisito conoscenza del provvedimento solo in data 28.06.2018, allorché l’Amministrazione aveva depositato in giudizio i chiarimenti richiesti. 5. Con ordinanza n. -OMISSIS-, la Quarta Sezione: -dichiarava infondata l’eccezione, altrimenti assorbente e riproposta con l’appello, relativa alla tardività dell’impugnazione della clausola escludente del bando, non essendo essa d’immediata lesività poiché, come esattamente osservato dall’appellata, lo stato di gravidanza poteva malauguratamente interrompersi per cause naturali anche prima della visita medica avvenuta il 5 settembre 2016, onde non vi era alcuna certezza sull’effettività del pregiudizio della clausola escludente; - rilevava che la definizione del ricorso di primo grado RG -OMISSIS- rivestiva carattere pregiudiziale rispetto all’appello RG 2421/2017 e disponeva, ai sensi del combinato disposto degli artt. 79 comma 1 c.p.a e 295 c.p.c., la sospensione del giudizio. 6. Con sentenza n. -OMISSIS- il TAR -OMISSIS-, sez II ter, accoglieva, con condanna dell’Amministrazione alle spese, il ricorso RG -OMISSIS- avverso la determinazione n. 117181 del 13 aprile 2017 di approvazione della graduatoria dei vincitori della procedura straordinaria di arruolamento nell’anno 2016 di 400 allievi finanzieri. Il Tar, in particolare, riteneva tempestiva l’impugnazione, osservando che, nella specifica materia dei concorsi pubblici, vige la regola generale dell’art.15 del d.P.R. n. 487/1994, che espressamente prevede la decorrenza del termine di impugnazione del bando dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del relativo avviso, e che tale regola, attuativa dell'art. 51, primo comma, e dell'art. 97, comma terzo, della Costituzione, deve ovviamente valere, per lo stesso principio, per gli altri atti della procedura concorsuale, ed in particolare per le graduatoria conclusiva della procedura. 6.1 Nel merito, il giudice di primo grado ribadiva le osservazioni già formulate nella sentenza n. -OMISSIS- in ordine all’illegittimità del provvedimento di esclusione e della relativa clausola del bando. 7. Con istanza del 4 agosto 2021 la signora -OMISSIS-, in considerazione della definizione del giudizio di primo grado avente ad oggetto l’atto di approvazione della graduatoria, chiedeva, ai sensi dell’art 80 c.p.a., la fissazione dell’udienza per la prosecuzione del giudizio di appello RG 2421/2017, in precedenza sospeso. 8. Con ricorso in appello RG 7882/2021, notificato in data 7.09.2021 e depositato in data 14.09.2021, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, Comando Generale della Guardia di Finanza, ha chiesto la riforma della sentenza del Tar -OMISSIS- n. -OMISSIS- sulla scorta dei seguenti motivi: 1) Il Tar ha errato nel rigettare l’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado proposta dall’Amministrazione, in quanto le previsioni di cui al D.P.R. n. 487/1994 non trovano automatica e completa applicazione nelle procedure concorsuali bandite dalla Guardia di Finanza, che sono soggette ad una normativa speciale. L’art 7 del d. lgs 199/1995 (recante “…attuazione dell’art.3 della legge 6 marzo 1992, n.216, in materia di nuovo inquadramento del personale non direttivo e non dirigente del Corpo della Guardia di finanza”), nella versione vigente al momento dell’indizione della procedura concorsuale straordinaria per l’arruolamento di 400 allievi finanzieri per il 2016, attribuisce ad un provvedimento del Comandante Generale (ovvero il bando di concorso) la concreta definizione delle modalità di svolgimento delle procedure selettive, ivi comprese le modalità di pubblicazione delle graduatorie di merito e delle determinazioni di nomina dei vincitori (che rappresentano l’atto finale dell’intera procedura concorsuale). Di conseguenza, il comma 6 dell’art 15 del DPR 487/1994 non poteva trovare applicazione alla procedura concorsuale che ha interessato l’-OMISSIS-, in quanto l’art. 9 del bando prevedeva che “ulteriori informazioni sul concorso possono essere reperite consultando il sito internet del Corpo all’indirizzo www.gdf.gov.it nella sezione relativa ai concorsi”. Poiché l’atto di approvazione della graduatoria è stato pubblicato sul sito internet dell’Amministrazione in data 5.05.2017 il ricorso di primo grado, notificato in data 13.09.2018, risulta tardivo; 2) la sentenza impugnata, nel ribadire le conclusioni a cui è pervenuta la sentenza n. -OMISSIS-, non può essere condivisa in quanto lo stato di gravidanza non può costituire un impedimento fisiologico all’espletamento dell’intera procedura. Il D.M. 155/2000, infatti, prevede, da un lato, che lo stato di gravidanza costituisce temporaneo impedimento all’accertamento (comma 2) e, dall’altro lato, che “…l’accertamento nei riguardi dei candidati […] è effettuato entro il termine stabilito dal bando di concorso in relazione ai tempi necessari per la definizione della graduatoria” (comma 3). La tutela della maternità, al pari della tutela della salute, trova sicuramente garanzia nei principi costituzionali e comunitari, ma detti principi devono essere confrontati e contemperati con analoghi principi vigenti nell’ordinamento a tutela dell’azione pubblica. 8.1 Deduce, infine, il Ministero appellante che la sig.ra -OMISSIS-, a seguito di partecipazione al successivo concorso, è stata arruolata in data 12.12.2018 e che, dopo aver frequentato con esito positivo il corso di formazione, presta attualmente servizio nella G.d.F. Tale sopravvenienza non determina, tuttavia, il venire meno dell’interesse dell’amministrazione alla definizione dei giudizi di appello, poiché, ove fossero respinti, sarebbe tenuta alla ricostruzione giuridica della carriera dell’interessata. 9. In data 29.09.2021 si è costituita nel giudizio RG 7882/2021 l’appellata -OMISSIS-, istando per la reiezione dell’appello. 10. Con ordinanza n. -OMISSIS- questa Sezione respingeva l’istanza di sospensione della sentenza impugnata per difetto di esigenze cautelari ostative all’immissione in servizio, in considerazione del fatto che la sig.ra -OMISSIS- è stata arruolata e presta attualmente servizio nella G.d.F. 11. In entrambi i giudizi le parti hanno depositato memorie e documenti, insistendo nelle rispettive difese. 12. All’udienza del 14 dicembre 2021 le cause sono state trattenute in decisione DIRITTO 13. In via preliminare, il Collegio dispone la riunione degli appelli ai sensi dell’art 70 c.p.a., in quanto connessi sul piano oggettivo e soggettivo. 14. Ciò posto, evidenti ragioni di pregiudizialità impongono l’esame, in via prioritaria, del ricorso RG 7882/2021, proposto dall’Amministrazione appellante avverso la sentenza di n. -OMISSIS- con cui il Tar -OMISSIS- ha accolto il ricorso della sig.ra -OMISSIS- avverso la determina prot. 117181 del 13 aprile 2017 di approvazione della graduatoria dei vincitori, ritenendolo tempestivo in quanto il provvedimento era stato pubblicato esclusivamente sul sito internet dell’Amministrazione, senza avviso sulla Gazzetta Ufficiale, come, invece, previsto dall’art. 15, comma 6, DPR 487/1994. 15. Con il primo motivo di appello, il Ministero appellante lamenta l’erroneità della sentenza, in quanto, contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, le procedure concorsuali bandite dalla Guardia di Finanza sono soggette alla disciplina speciale contenuta nel d.lgs 199/1995 che, all’art 7, sancisce che le procedure per l’arruolamento degli allievi finanzieri sono stabilite con determinazione del Comandante Generale della Guardia di Finanza. Nel caso di specie, il bando di concorso, adottato con determinazione del Comandante Generale in conformità al precetto legislativo, prevedeva espressamente, all’art 9, che ulteriori informazioni sul concorso potevano essere reperite consultando il sito internet del Corpo all’indirizzo www.gdf.gov.it nella sezione relativa ai concorsi. Inoltre, l’art 32, comma 1, l. 69/2009 prevede espressamente che gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti informatici. 16. Il motivo è infondato alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale in materia. 16.1 L’art 15, commi 6 e 7, del DPR 487/1994 (Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi) sancisce che le graduatorie dei vincitori dei concorsi sono pubblicate nel Bollettino ufficiale della Presidenza del Consiglio dei Ministri o dell'amministrazione interessata e che di tale pubblicazione è data notizia mediante avviso nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, da cui decorre il termine per le eventuali impugnative. 16.2 L’art. 7 d.lgs 199/1995, afferente ai concorsi per l’arruolamento degli allievi finanzieri, prevede che i bandi, indetti con determinazione del Comandante Generale della Guardia di Finanza, contengano una disciplina completa di tutte le fasi della procedura, con riferimento a: il numero e le tipologie dei posti da mettere a concorso, le modalità e la data di scadenza per la presentazione della domanda di ammissione al concorso; le date entro le quali gli aspiranti devono possedere e conservare i titoli e i requisiti richiesti per l'ammissione al concorso; le modalità e la data di scadenza per la presentazione della documentazione comprovante il possesso dei requisiti; la composizione della commissione giudicatrice; le modalità di accertamento dei requisiti e di esclusione dei concorrenti per difetto dei medesimi; le tipologie e le modalità di svolgimento e di valutazione delle prove e delle fasi concorsuali, nonché l'ordine di successione delle stesse; i titoli che devono essere valutati ai fini della redazione delle graduatorie finali di merito. La medesima disposizione prevede, altresì, al comma 3 che, con determinazione del Comandante Generale, sono approvate le graduatorie e sono nominati i vincitori. 16.3 Nessuna previsione è dedicata, nell’ambito della disciplina speciale, alle modalità di pubblicazione della graduatoria, una volta approvata, mentre il comma 5, sancisce, in via residuale, che “per quanto non disciplinato dal presente decreto si osservano le norme concernenti i pubblici concorsi laddove compatibili con la specificità del Corpo della guardia di finanza. A tal fine il bando di concorso tiene conto anche delle esigenze di funzionalità del medesimo Corpo e di economicità e snellezza dell'azione amministrativa”. 16.4 Non si rinviene, pertanto, nella disciplina del concorso per l’arruolamento nel Corpo della G.d.F., una specifica deroga alla modalità di pubblicazione della graduatoria prevista, in via generale, dall’art 15 DPR 487/1994, ma è presente, invece, una norma di chiusura che rinvia, per quanto non espressamente disciplinato, alle regole generali dei pubblici concorsi, sempre che siano compatibili con la specificità del Corpo. 16.5 Sotto quest’ultimo profilo, peraltro, non pare ravvisarsi alcuna incompatibilità tra la specialità della procedura di reclutamento e la pubblicazione dell’avviso sulla Gazzetta Ufficiale, né una simile incompatibilità è stata dedotta dall’Amministrazione appellante. 16.6 Una deroga alla regola della pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale avrebbe richiesto una previsione espressa e non può essere desunta, implicitamente, dalla specialità dell’impiego nelle Forze Armate. E anzi, proprio l’analitica regolazione delle varie fasi della procedura concorsuale per l’arruolamento del Corpo, in chiave derogatoria rispetto a quella contenuta nel DPR 487/1994, è sintomatica della volontà del legislatore di sottrare alla disciplina generale del concorso per il pubblico impiego esclusivamente le fasi espressamente regolamentate, con la conseguenza che per i profili non contemplati non può che riespandersi la regola generale, a cui lo stesso art 7 d.lgs 199/95, come sopra chiarito, rinvia, sia pure con la clausola di compatibilità. 16.7 Ne discende che la pubblicazione della graduatoria sul sito internet dell’Amministrazione, ove prevista nel bando, può essere aggiuntiva, ma mai sostitutiva di quella sulla Gazzetta Ufficiale, e, soprattutto, è inidonea alla decorrenza del termine di impugnazione. Ciò anche in considerazione del fatto che, ai sensi dell’art 41 comma 2 c.p.a, la pubblicazione rilevante ai fini della decorrenza del termine è solo quella prevista dalla legge o in base alla legge, sicché l'effetto conoscitivo opponibile erga omnes deve poggiare su una espressa base positiva. La circostanza che la graduatoria definitiva sia stata pubblicata sul sito on line non può, quindi, fondare una presunzione legale di conoscenza, in mancanza di una disposizione di legge che attribuisca valore ufficiale a tale forma di pubblicazione (cfr. Cons. Stato sez. V, 08/05/2018 n. 2757 con riferimento alla pubblicazione on line della graduatoria finale sul sito del CSM). 16.8 Per altro verso, anche a voler ritenere che l’art 7 d.lgs 199/1995 conferisca all’Amministrazione la facoltà di disciplinare le modalità di pubblicazione in deroga alla regola generale ai fini della decorrenza del termine di impugnazione, osserva il Collegio che non è dato rinvenire, nella lex specialis, alcuna specifica previsione in tal senso. Del tutto inidonea allo scopo, stante la genericità della formulazione, è la clausola dell’art 9 che dispone “ulteriori informazioni sul concorso possono essere reperite consultando il sito internet del Corpo all’indirizzo www.gdf.gov.it nella sezione relativa ai concorsi” (per tale ragione, la fattispecie si distingue da quella esaminata da Cons. Stato sez. IV 16/01/2019 n. 401 in cui la pubblicazione era avvenuta sul sito internet della Guardia di Finanza, ma sulla base di una previsione del bando che sanciva espressamente: “parimenti è resa disponibile sul citato sito internet la graduatoria unica di merito”). 16.9 E’ chiaro, infatti, che ove l’Amministrazione avesse voluto assegnare ad una disposizione del bando un effetto derogatorio rispetto alla regola generale della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della graduatoria (a prescindere dai profili afferenti all’individuazione della base legale di una siffatta clausola), sarebbe stato onere della stessa inserire nel bando una chiara previsione in tal senso, piuttosto che una clausola generica e ambigua, sia in considerazione della diretta incidenza sull’esercizio del diritto di difesa, sia alla luce del generale canone di correttezza e buona fede a cui deve essere improntata ogni relazione tra parte pubblica e privata, ivi compresa una procedura selettiva finalizzata all’arruolamento (come si desume dalla previsione generale dell’art. 1, comma 2-bis, della L. 7 agosto 1990, n. 241, aggiunto D.L. 16 luglio 2020, n. 76, secondo cui “i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”). 17. Privo di rilievo è l’assunto difensivo per cui la legittimità della pubblicazione telematica del provvedimento sarebbe in linea con quanto disposto dall’art. 32, comma 1 della legge n. 69/2009, che dispone “…a far data dal 1° gennaio 2010, gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati…” 17.1 La disposizione non può essere interpretata nel senso che la pubblicazione telematica degli atti amministrativi produce, in ogni caso e indiscriminatamente, effetti di pubblicità legale, ma si riferisce solo agli obblighi di pubblicazione “aventi effetto di pubblicità legale” in forza di specifiche norme di riferimento. In altri termini, al dichiarato scopo di eliminare gli sprechi relativi al mantenimento di documenti in forma cartacea, il legislatore si è limitato a modificare le modalità di pubblicazione degli atti (dalla forma cartacea a quella telematica), senza esplicare effetti innovativi sui singoli regimi previsti per fondare la presunzione di pubblicità legale degli stessi. 17.2 Sotto tale profilo, questo Consiglio di Stato, nel premettere che “ la pubblicazione sul sito istituzionale on line dell'ente che adotta l'atto, in mancanza di una disposizione normativa che attribuisca valore ufficiale a tale forma di ostensione, non può fondare alcuna presunzione legale di conoscenza” ha precisato che “In questo senso viene inteso il disposto dell'art. 32 L. n. 69 del 2009 (cfr. Cons. Stato, sez. V, 08 maggio 2018, n. 2757 e 27 agosto 2014, n. 4384), e del tutto conforme è la previsione generale contenuta all'articolo 54, comma 4bis, del Codice dell'amministrazione digitale 82 del 2005 secondo cui "la pubblicazione telematica produce effetti di pubblicità legale nei casi e nei modi espressamente previsti dall'ordinamento”. Dunque, la pubblicazione telematica dell'atto solo quando sia prevista e prescritta da specifiche determinazioni normative costituisce una forma di pubblicità in grado di integrare di per sé gli estremi della conoscenza erga omnes dell'atto pubblicato e di far decorrere il termine decadenziale di impugnazione (Cons. Stato, sez. V, 30 novembre 2015, n. 5398; Id., sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2287)”. (Cons Stato Sez. III, Sent., 28-09-2018, n. 5570). 17.3 E’ stato, altresì osservato che “l'obbligo di pubblicazione dei bandi per concorso a pubblico impiego nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana - previsto dall'art. 4 del D.P.R. n. 487 del 1994 - costituisce una regola generale attuativa dell'art. 51, primo comma, e dell'art. 97, comma terzo, della Costituzione. Tale regola ha la finalità di consentire la concreta massima conoscibilità della indizione di un concorso pubblico a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza sul territorio dello Stato e non è stata incisa - neanche per incompatibilità - dall'art. 35, comma 3, lett. a), del D.Lgs. n. 165-2001, che ha fissato il criterio della "adeguata pubblicità" in aggiunta e non in sostituzione della regola di carattere generale. Neppure rileva in contrario l'art. 32 della L. n. 69 del 2009, poiché il suo comma 7 ha ribadito il perdurante vigore delle disposizioni - anche di rango secondario - che in precedenza hanno disposto la pubblicazione di atti amministrativi sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica”. (Cons. Stato Sez. V, 25-01-2016, n. 227; Cons. Stato Sez. V, 12/11/2003, n. 7230). 18. per le ragioni sopra indicate il motivo è infondato e deve essere respinto. 19. Il secondo motivo è sovrapponibile al secondo motivo dell’appello RG 2421/2017 in quanto volto a censurare i capi della sentenza riproduttivi della sentenza n. -OMISSIS-, sicché può essere esaminato congiuntamente ad esso. 20. Passando all’esame dell’appello RG 2421/2017, il Collegio ne rileva l’infondatezza, circostanza che esime dall’esaminare l’eccezione di inammissibilità dell’appello per genericità dei motivi di impugnazione formulata dall’appellata -OMISSIS- (memoria depositata in data 3 maggio 2017). 21. Con il primo motivo l’appellante ripropone le eccezioni di irricevibilità e inammissibilità del ricorso già avanzate in primo grado e disattese dal Tar. Deduce, in particolare, il Ministero che la parte appellata avrebbe dovuto impugnare immediatamente la clausola del bando che prevedeva l’esclusione ove lo stato di gravidanza fosse ancora esistente alla data del 31 agosto 2016, poiché di natura immediatamente escludente; deduce, altresì, che il ricorso di primo grado era inammissibile per omessa notifica ad almeno uno dei controinteressati da identificarsi negli idonei non vincitori posizionati in graduatoria immediatamente dopo la sig.ra -OMISSIS-. 21.1 Il motivo è infondato. 22. Quanto all’irricevibilità per mancata immediata impugnazione della clausola del bando, il profilo è già stato esaminato e respinto, con condivisibili osservazioni, dall’ordinanza della Quarta Sezione di questo Consiglio di Stato n. -OMISSIS-, con cui è stata disposta la sospensione del giudizio di appello per pendenza del ricorso di primo grado RG -OMISSIS-. In quella sede è stata dichiarata “non fondata l’eccezione, altrimenti assorbente e riproposta con l’appello, relativa alla tardività dell’impugnazione della clausola escludente del bando, non essendo essa d’immediata lesività poiché, come esattamente osservato dall’appellata lo stato di gravidanza poteva malauguratamente interrompersi per cause naturali anche prima della visita medica avvenuta il 5 settembre 2016, onde non vi era alcuna certezza sull’effettività del pregiudizio della clausola escludente”. 23. Del pari infondata è l’eccezione di inammissibilità per omessa notifica ad almeno uno dei controinteressati per il rilievo dirimente che, al momento dell’impugnazione del provvedimento di esclusione, non esisteva ancora una graduatoria dei vincitori, essendo stata approvata solo con determina n. 117181 del 13 aprile 2017. 23.1 Contrariamente a quanto sostenuto dal Ministero, non possono essere qualificati come controinteressati sostanziali -oltre che formali, in quanto non indicati nel provvedimento di esclusione-gli idonei non vincitori postergati alla -OMISSIS- nella graduatoria del concorso 2011, poiché, al momento della proposizione del ricorso in primo grado, la procedura concorsuale era ancora in corso e non vi era certezza sul se e sul chi di essi sarebbe risultato vincitore. 23.2 Per giurisprudenza costante, prima della formazione della graduatoria dei vincitori non sono configurabili controinteressati in senso tecnico. In tale fase del procedimento concorsuale non si identificano, infatti, situazioni soggettive di interesse protetto in posizione antagonista rispetto a chi contesta il provvedimento di esclusione dal concorso, che potrebbero essere lese dall'accoglimento del ricorso (cfr. Cons stato V Sez. III 14-02-2014, n. 729). E’ stato, altresì, precisato che “a fronte di un provvedimento di esclusione da una procedura concorsuale, impugnato prima della formazione della graduatoria e della nomina dei vincitori, non è ravvisabile la qualità di controinteressato in capo ai candidati ammessi, posto che essi non sono portatori di interesse tutelabile a confrontarsi con una platea più ristretta di candidati; laddove, invece, sussiste un interesse pubblico alla più ampia partecipazione alla procedura selettiva in vista della più efficace selezione dei migliori concorrenti che, ove il provvedimento di esclusione sia illegittimo, è conseguentemente pretermesso assieme a quello del candidato escluso” (Cons. Stato Sez. IV Sent., 26/06/2012, n. 3774). 23.3 Alla luce delle sopra esposte considerazioni, il motivo è infondato e deve essere respinto. 24. Con il secondo motivo di appello, coincidente con il secondo motivo dell’appello RG 7882/2021, il Ministero appellante censura il capo della sentenza che ha ritenuto illegittimo sia il provvedimento di esclusione sia la relativa clausola del bando che prevede l’esclusione dal concorso laddove lo stato di impedimento dovuto a gravidanza sussista ancora alla data del 31 agosto 2016. Deduce, in particolare, che, contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, l’Amministrazione ha proceduto ad una corretta e puntuale applicazione dell’art 3, comma 3, DM 155/2000 che dispone che l’accertamento nei confronti dei candidati è effettuato entro il termine stabilito dal bando di concorso in relazione ai tempi necessari per la definizione della graduatoria; deduce, altresì, che le pur legittime esigenze di tutela della maternità devono essere bilanciate con i tempi di svolgimento della procedura a tutela della par condicio dei candidati e del buon svolgimento dell’amministrazione. 24.1 Il motivo è infondato. 24.2 Osserva il Collegio che il Ministero appellante, pur partendo da una premessa corretta, giunge a conclusioni non condivisibili. 24.3 Sul piano delle premesse, è certamente corretta l’affermazione per cui la tutela della situazione soggettiva di una candidata in stato di gravidanza non può ragionevolmente costituire e determinare un detrimento per la posizione giuridica soggettiva degli altri candidati e l’interesse dell’Amministrazione a definire la procedura selettiva entro termini ragionevolmente contenuti al fine di colmare le vacanze organiche (art. 97 Cost.). Siffatta circostanza, tuttavia, non è idonea a giustificare il sacrificio definitivo della prima mediante l’esclusione dal concorso, ma impone il giusto bilanciamento dei contrapposti interessi, in quanto espressione di diritti aventi pari dignità costituzionale. 24.4 L’esclusione definitiva della candidata in stato di gravidanza contrasta frontalmente sia con il quadro normativo di riferimento che con i principi elaborati sul punto dalla giurisprudenza, entrambi volti ad evitare ogni forma di discriminazione fondata sul sesso e a garantire la parità di trattamento tra uomo e donna anche con riferimento all’accesso al lavoro. 25. Sul piano sovranazionale, viene in rilievo, in primo luogo, la Convenzione ONU sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva dall’Italia con l. 14 marzo 1985, n. 132 che, all’art 11, sancisce “Gli Stati parte si impegnano a prendere ogni misura adeguata al fine di eliminare la discriminazione nei confronti della donna nel campo dell'impiego ed assicurare, sulla base della parità tra uomo e donna, gli stessi diritti”, e “per prevenire la discriminazione nei confronti delle donne a causa del loro matrimonio o della loro maternità e garantire il loro diritto effettivo al lavoro, gli Stati parte si impegnano a prendere misure appropriate tendenti a: (…) d) assicurare una protezione speciale alle donne incinte per le quali è stato dimostrato che il lavoro è nocivo”. 25.1 In ambito comunitario, l’art 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea dispone che “La parità fra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione”, mentre l’art 157 (ex art 141 del TCE) del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea prevede, al comma 1, che “Ciascuno Stato membro assicura l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore” e, al comma 3, che “Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adottano misure che assicurino l'applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.” 25.2 La disposizione da ultimo citata ha costituito la base normativa per l’adozione della direttiva 76/207/CEE del Consiglio del 9 febbraio 1976, nonché della più recente direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006, relative all’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. L’art. 2, comma 3, lett. c) della direttiva n. 2006/54/CE, riprendendo quanto già previsto dall’art 2 comma 7 della direttiva 76/207/CEE, precisa che “Ai fini della presente direttiva, la discriminazione comprende: (…)qualsiasi trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della direttiva 92/85/CEE”. L’art 14 dispone, altresì, che “è vietata qualsiasi discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto pubblico, per quanto attiene: a) alle condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione”. Infine, il ventitreesimo considerando della medesima direttiva sancisce che “Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia risulta chiaramente che qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso. Pertanto, occorre includere esplicitamente tale trattamento nella presente direttiva”. 25.3 La Corte di Giustizia, nel qualificare come discriminazione diretta fondata sul sesso tanto il rifiuto di assumere una donna a causa del suo stato di gravidanza quanto il licenziamento di una lavoratrice per la medesima ragione (sent. 8 novembre 1990, Dekker, C-177/88 e Handels- og Kontorfunktionaerernes Forbund, C-179/88; sent. del 4 ottobre 2001, Jiménez Melgar, C-438/99 e Tele Danmark A/S, C-109/00, nonchè sent. 30 giugno 1998, Brown, C-394/96), ha avuto cura di distinguere il caso della lavoratrice che si trova in stato di gravidanza da quella che versi in stato di malattia che sopraggiunga dopo il congedo di maternità, osservando che “Un tale stato patologico rientra quindi nel regime generale applicabile alle ipotesi di malattia. Infatti i lavoratori di sesso femminile e maschile sono del pari esposti alle malattie. Anche se è vero che taluni disturbi sono specifici dell'uno o dell'altro sesso, l'unico problema è quindi quello di sapere se una donna viene licenziata per le assenze dovute a malattia nelle stesse condizioni di un uomo; se per entrambi valgono le stesse condizioni non vi è discriminazione diretta in ragione del sesso” (sent. Handels- og Kontorfunktionaerernes Forbund, C-179/88, punti 16 e 17). La Corte ha, altresì, chiarito che “lo stato di gravidanza non è in alcun modo assimilabile ad uno stato patologico, a fortiori a un’indisponibilità non derivante da ragioni di salute, situazioni che invece possono motivare il licenziamento di una donna senza che per questo tale licenziamento sia discriminatorio in base al sesso. Nella citata sentenza Hertz, la Corte ha d' altronde nettamente distinto la gravidanza dalla malattia, anche nel caso di una malattia causata dalla gravidanza ma che sopraggiunga dopo il congedo di maternità. Essa ha precisato (punto 16) che non è il caso di distinguere tale malattia da qualsiasi altra malattia” (sentenza 14 luglio 1994, Carole Louise Webb C-32/93, punto 25). 26. Sul piano costituzionale rilevano non solo gli artt. 3 e 51 Cost, richiamati anche dal giudice di primo grado, ma anche l’art 4 Cost. (“la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”), l’art. 31 Cost. che qualifica compito della Repubblica l’agevolazione della formazione della famiglia e la protezione della maternità, e l’art. 37 Cost. che impone la fissazione di condizioni di lavoro per la donna compatibili con l'adempimento della sua funzione familiare. 26.1 Il legislatore ordinario, dal canto suo, ha dato attuazione ai precetti costituzionali, statuendo che «la parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione” (art. 1, comma 2, d.lgs 11 aprile 2006, n. 198 il c.d. Codice delle pari opportunità tra uomo e donna). 26.2 I principi sottesi al quadro normativo sopra richiamato, sono stati puntualizzati e ribaditi dalla Corte costituzionale, la quale ha sancito che “il principio posto dall'art. 37 - collegato al principio di uguaglianza - impone alla legge di impedire che possano, dalla maternità e dagli impegni connessi alla cura del bambino, derivare conseguenze negative e discriminatorie. Entrambe queste esigenze impongono, per lo stato di gravidanza e puerperio, di adottare misure legislative dirette non soltanto alla conservazione dell'impiego, ma anche ad evitare che nel relativo periodo di tempo intervengano, in relazione al rapporto di lavoro, comportamenti che possano turbare ingiustificatamente la condizione della donna ed alterare il suo equilibrio psico-fisico, con serie ripercussioni sulla gestazione o, successivamente, sullo sviluppo del bambino “(sentenza n.61 del 1991; cfr. anche 12 settembre 1995 n. 423, la quale ha precisato che il rilievo costituzionale del valore rappresentato dal ruolo di madre della lavoratrice comporta che, nel rapporto di lavoro, non possono frapporsi né ostacoli, né remore, alla gravidanza e alla cura del bambino nel periodo di puerperio). 27. L’impianto normativo, sia nazionale che sovranazionale, è univoco nell’escludere che lo stato di gravidanza possa rappresentare un ostacolo nell’accesso al lavoro o fonte di discriminazione nell’ambito del rapporto lavorativo. Per tale ragione, il DM 17/05/2000, n. 155 (Regolamento recante norme per l'accertamento dell'idoneità al servizio nella Guardia di finanza) non può che essere letto alla luce delle coordinate sopra richiamate, in quanto volto a garantire l’uguaglianza sostanziale dei candidati che aspirano all’arruolamento in Guardia di Finanza e ad evitare che la gravidanza, di per sé, possa costituire una causa di esclusione dal concorso, e, quindi, fonte di una discriminazione diretta fondata sul sesso, la cui eliminazione si impone come un obiettivo multilivello. 27.1 L’uguaglianza sostanziale tra i candidati, senza distinzione di genere, sarebbe frustrata in via definitiva se lo stato di gravidanza si trasformasse da impedimento temporaneo all’accertamento a causa definitiva di esclusione. Giova, sotto tale profilo, richiamare i principi espressi dalla Corte di Giustizia, secondo cui il rifiuto d'assunzione per motivo di gravidanza può opporsi solo alle donne e rappresenta, quindi, una discriminazione diretta a motivo del sesso (sent. 8 novembre 1990, Dekker, C-177/88, punto 12). 27.2 Contrariamente a quanto sostenuto dal Ministero appellante, il comma 3 del citato decreto- secondo cui l'accertamento nei riguardi dei candidati che partecipano ai concorsi per il reclutamento nella Guardia di finanza è effettuato entro il termine stabilito dal bando di concorso in relazione ai tempi necessari per la definizione della graduatoria- non può essere letto in stretta correlazione con il comma 2, nel senso che l’accertamento nei confronti della candidata in gravidanza è precluso definitivamente oltre il termine stabilito dal bando. Osta a siffatta interpretazione la duplice considerazione per cui, sul piano logico, la durata dell’impedimento in questione non può che essere condizionata dallo sviluppo fisiologico della gravidanza e, sul piano giuridico, la lettura congiunta dei due commi suggerita dalla difesa erariale trasformerebbe l’impedimento da temporaneo in definitivo, configurando una clausola di esclusione non prevista espressamente dal bando e riferita esclusivamente alle candidate di sesso femminile. 27.3 L’opzione ermeneutica sostenuta dal Ministero appellante, lungi dall’attuare un equo bilanciamento degli interessi coinvolti, conferisce natura recessiva alla situazione soggettiva dell’appellata rispetto all’esigenza di contenimento dei tempi della procedura, in contrasto con l’interpretazione non solo letterale, ma anche teleologica del citato art 3, comma 2, DM 155/2000 che, invece, ha chiaramente indicato nella natura temporanea dell’impedimento lo strumento attraverso cui attuare l’equo bilanciamento tra l’interesse dell’aspirante e quello dell’Amministrazione. Dalla qualificazione della gravidanza come temporaneo impedimento all’accertamento discende, in via conseguenziale, una ammissione con riserva della candidata, come correttamente ritenuto dal Tar. 27.4 Sotto tale profilo, l’art. 2139 comma 1 bis d. lgs 66/2010 (inserito dall' art. 28, comma 5, lett. c, d.lgs. 27 dicembre 2019, n. 172), nel prevedere che l’accertamento di idoneità al servizio venga rinviato, per le candidate in stato di gravidanza, e svolto nel primo concorso utile successivo, si limita unicamente a disciplinare e chiarire, sul piano pratico-operativo, la fase posteriore alla cessazione dell’impedimento e le conseguenze dell’esito positivo dell’accertamento successivamente svolto, con riferimento alla frequenza del corso di formazione, agli effetti giuridici ed economici. La citata novella, tuttavia, nulla ha innovato in punto di temporaneità dell’impedimento che, già sulla base del DM 155/2000, non poteva che tradursi in una sospensione dell’accertamento dell’idoneità fino alla cessazione della causa impeditiva. 28. Privi di pregio sono gli assunti di parte appellante secondo cui la soluzione accolta dal giudice di primo grado, ove confermata, condurrebbe a esiti irrazionali, quali il differimento sine die delle prove scritte, in caso di gravidanza sussistente in tale data, o degli accertamenti di idoneità fisica, nel caso in cui fosse dedotto non uno stato di gravidanza, ma di infermità del candidato. 28.1 Sul piano letterale, l’art 3 D.M. 155/2000 qualifica come impedimento temporaneo solo la gravidanza e solo ai fini dell’accertamento dell’idoneità al servizio, non riferendosi né alle prove scritte che, di per sé, non mettono a rischio la salute della donna e del nascituro, né ad uno stato di infermità la cui durata non è suscettibile di predeterminazione, non trattandosi di uno stato fisiologico ma patologico dell’organismo. 28.2 Sul piano sostanziale, è chiaro che nel caso di gravidanza al momento delle prove scritte, la tutela non potrebbe essere concessa negli stessi termini, in quanto, da un lato, come già osservato, la prova in sé non costituisce un fattore di pericolo per la salute della donna e del nascituro (in caso contrario, il rischio discenderebbe non dalla prova, ma dallo stato di salute della candidata e integrerebbe una situazione patologica di infermità, insuscettibile di apprezzamento diverso da quella che colpisse qualunque altro concorrente) e, dall’altro lato, il differimento delle prove scritte pregiudicherebbe in via definitiva la par condicio dei concorrenti e il buon andamento dell’amministrazione, vanificando la stessa finalità della procedura. 28.3 Sotto tale profilo è stato, infatti, osservato che “E' legittimo il provvedimento con cui la p.a. neghi ad una candidata in stato di gravidanza il differimento delle prove scritte per la partecipazione ad un concorso a pubblici impieghi, per evitarle il pregiudizio derivante dal viaggio di andata e ritorno dal luogo di residenza a quello di svolgimento delle prove stesse. Infatti, la deroga allo svolgimento contemporaneo delle selezioni concorsuali, prima ancora di tradire i principi di tempestività, celerità di espletamento, riconducibili in sintesi al "buon andamento" di cui all'art. 97 cost., comporterebbe un'insanabile lesione del principio costituzionale d'imparzialità, attesa: 1) l'inevitabile diversificazione delle prove della candidata e di altri interessati; 2) la riconoscibilità delle prove medesime; 3) il ritardo delle procedure di esame e valutazione della totalità degli elaborati” (Cons. Stato Sez. III, 03/12/2002, n. 2155). 28.4 La diversità di situazioni sopra indicate rende ragionevole, pertanto, la diversità di trattamento, e non è idonea a giustificare l’estensione alla fattispecie per cui è causa dello sbarramento temporale all’accertamento rappresentato dal termine ultimo indicato dal bando. 28.5 La situazione della candidata in gravidanza al momento dell’accertamento è, del pari, non assimilabile a quella di chi versa nel medesimo momento in condizioni di infermità, per la già ricordata considerazione che la gravidanza è una situazione peculiare del sesso femminile, ad evoluzione fisiologica predeterminata e, in linea di massima, prevedibile, mentre l’infermità è una condizione comune a entrambi i sessi, la cui durata è, sul piano prognostico, non predeterminabile. Da ciò discende che l’applicazione del limite temporale previsto dall’art 3, comma 3, DM 155/2000 esclusivamente a chi versi in stato di infermità non evidenzia alcuna irragionevolezza della disciplina, non determinando alcuna discriminazione nell’accesso all’impiego fondata sul sesso che il comma 2 del medesimo articolo 3 mira ad evitare. 29. In conclusione, gli appelli, come sopra riuniti, sono infondati e devono essere respinti. 30. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando: - riunisce gli appelli RG 2421/2017 e RG 7882/2021; -li respinge entrambi. Condanna l’amministrazione appellante alla refusione in favore della parte appellata delle spese del presente grado di giudizio che liquida in euro 5.000,00 (cinquemila/00), oltre a spese generali e accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all'articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 dicembre 2021 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Presidente FF Giancarlo Luttazi, Consigliere Francesco Frigida, Consigliere Carla Ciuffetti, Consigliere Carmelina Addesso, Consigliere, Estensore Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Presidente FF Giancarlo Luttazi, Consigliere Francesco Frigida, Consigliere Carla Ciuffetti, Consigliere Carmelina Addesso, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Concorso - Guardia di finanza - Esclusione – Per stato di gravidanza – Illegittimità.  ​​​​       E’ illegittima l’esclusione di una candidata dal concorso per allievi finanzieri perché in stato di gravidanza, contrastando tale esclusione sia con il quadro normativo di riferimento che con i principi elaborati sul punto dalla giurisprudenza, entrambi volti ad evitare ogni forma di discriminazione fondata sul sesso e a garantire la parità di trattamento tra uomo e donna anche con riferimento all’accesso al lavoro (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che l’impianto normativo, sia nazionale che sovranazionale, è univoco nell’escludere che lo stato di gravidanza possa rappresentare un ostacolo nell’accesso al lavoro o fonte di discriminazione nell’ambito del rapporto lavorativo.  L’uguaglianza sostanziale tra i candidati, senza distinzione di genere, sarebbe frustrata in via definitiva se lo stato di gravidanza si trasformasse da impedimento temporaneo all’accertamento a causa definitiva di esclusione. Giova, sotto tale profilo, richiamare i principi espressi dalla Corte di Giustizia, secondo cui il rifiuto d'assunzione per motivo di gravidanza può opporsi solo alle donne e rappresenta, quindi, una discriminazione diretta a motivo del sesso (sent. 8 novembre 1990, Dekker, C-177/88, punto 12). Per tale ragione, l’art. 3, d.m. 17 maggio 2000, n. 155 (Regolamento recante norme per l'accertamento dell'idoneità al servizio nella Guardia di finanza) - secondo cui l'accertamento nei riguardi dei candidati che partecipano ai concorsi per il reclutamento nella Guardia di finanza è effettuato entro il termine stabilito dal bando di concorso in relazione ai tempi necessari per la definizione della graduatoria - non può che essere letto nel senso di essere volto a garantire l’uguaglianza sostanziale dei candidati che aspirano all’arruolamento in Guardia di Finanza e ad evitare che la gravidanza, di per sé, possa costituire una causa di esclusione dal concorso, e, quindi, fonte di una discriminazione diretta fondata sul sesso, la cui eliminazione si impone come un obiettivo multilivello. Il comma 3 del citato decreto non può essere letto in stretta correlazione con il comma 2, nel senso che l’accertamento nei confronti della candidata in gravidanza è precluso definitivamente oltre il termine stabilito dal bando. Osta a siffatta interpretazione la duplice considerazione per cui, sul piano logico, la durata dell’impedimento in questione non può che essere condizionata dallo sviluppo fisiologico della gravidanza e, sul piano giuridico, la lettura congiunta dei due commi suggerita dalla difesa erariale trasformerebbe l’impedimento da temporaneo in definitivo, configurando una clausola di esclusione non prevista espressamente dal bando e riferita esclusivamente alle candidate di sesso femminile. Dalla qualificazione della gravidanza come temporaneo impedimento all’accertamento discende, in via conseguenziale, una ammissione con riserva della candidata, come correttamente ritenuto dal Tar. Sotto tale profilo, l’art. 2139, comma 1 bis, del Codice militare, nel prevedere che l’accertamento di idoneità al servizio venga rinviato, per le candidate in stato di gravidanza, e svolto nel primo concorso utile successivo, si limita unicamente a disciplinare e chiarire, sul piano pratico-operativo, la fase posteriore alla cessazione dell’impedimento e le conseguenze dell’esito positivo dell’accertamento successivamente svolto, con riferimento alla frequenza del corso di formazione, agli effetti giuridici ed economici. La citata novella, tuttavia, nulla ha innovato in punto di temporaneità dell’impedimento che, già sulla base del d.m. n. 155 del 2000, non poteva che tradursi in una sospensione dell’accertamento dell’idoneità fino alla cessazione della causa impeditiva. ​​​​​​​La situazione della candidata in gravidanza al momento dell’accertamento è, del pari, non assimilabile a quella di chi versa nel medesimo momento in condizioni di infermità, per la già ricordata considerazione che la gravidanza è una situazione peculiare del sesso femminile, ad evoluzione fisiologica predeterminata e, in linea di massima, prevedibile, mentre l’infermità è una condizione comune a entrambi i sessi, la cui durata è, sul piano prognostico, non predeterminabile. Da ciò discende che l’applicazione del limite temporale previsto dall’art. 3, comma 3, d.m. n. 155 del 2000 esclusivamente a chi versi in stato di infermità non evidenzia alcuna irragionevolezza della disciplina, non determinando alcuna discriminazione nell’accesso all’impiego fondata sul sesso che il comma 2 del medesimo art. 3 mira ad evitare. 
Concorso
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/sulla-legittimazione-del-creditore-ipotecario-ad-impugnare-l-ordinanza-di-acquisizione-del-bene-del-debitore-al-patrimonio-del-comune
Sulla legittimazione del creditore ipotecario ad impugnare l’ordinanza di acquisizione del bene del debitore al patrimonio del Comune
N. 07453/2022 REG.PROV.COLL. N. 01338/2018 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1338 del 2018, proposto da Romano Costruzioni S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Tommaso Rainone, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Palma Campania, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Salvatore Maffettone, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Napoli, via Foria n. 42; per l'annullamento Dell'atto del Comune di Palma Campania prot. n. 28153 del 22.11.2017 e di ogni altro atto presupposto consequenziale o comunque connesso Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Palma Campania; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 22 novembre 2022 la dott.ssa Antonella Lariccia e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO Con ricorso notificato in data 22.03.2018 la società ricorrente invoca l’annullamento, previa sospensione, degli atti in epigrafe lamentando: -Sull’eccesso di potere sub specie di omessa istruttoria in merito alla sussistenza del presupposto legittimante l’acquisizione al patrimonio del Comune; -Sull’eccesso di potere sub specie di errata interpretazione dell’art. 31 comma 3 D.P.R. 380/2001; -Sulla violazione dell’art. 31 comma 3 D.P.R. 380/2001 e sul difetto di motivazione del gravato provvedimento. Espone la ricorrente di essere creditrice della proprietaria del fondo oggetto del provvedimento impugnato, su cui ha trascritto in data 14-11-2016 pignoramento, su cui insiste un fabbricato di due piani costruito in difformità rispetto al titolo abilitativo (permesso di costruire n. 17/2005), difformità accertate dall’Amministrazione in data 28-09-2007; al suddetto accertamento ha fatto seguito l’ordine di demolizione del 24-11-2008, la cui inosservanza è stata accertata dal C.do di Polizia Municipale del 14-04-2009, cui ha fatto seguito la presentazione, da parte della proprietaria dell’immobile abusivo, dapprima di una D.I.A. per il ripristino della sagoma, della superficie e della volumetria originariamente assentita, in data 17-10-2013, e in seguito di un’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. 380/2001, in data 16-06-2014); tali istanze sono rimaste senza esito ed il Comune ha disposto l’acquisizione delle opere abusive in data 22-11-2017, con provvedimento trascritto il 02-03-2018, previo frazionamento della particella catastale su cui insiste l’immobile abusivo in due particelle: la 716 e la 717, avvenuto in data 15.02.2018. La ricorrente precisa di essere venuta a conoscenza delle difformità realizzate sull’immobile e dei successivi atti solo attraverso l’accesso agli atti riguardanti il titolo edilizio, effettuato in data 31-01-2018, e di avere presentato, in data 27-02-2018, un’istanza volta ad ottenere l’annullamento in autotutela del provvedimento di acquisizione e della presupposta ordinanza di demolizione. Si è costituito in giudizio il Comune di Palma Campania eccependo l’inammissibilità e infondatezza del ricorso ed il TAR, dopo avere denegato l’invocata sospensiva con ordinanza n. 641/2018 confermata dal Consiglio di Stato con ordinanza n. 4379/2018, all’udienza di smaltimento del 22.11.2022 ha trattenuto la causa per la decisione. Il ricorso è inammissibile attesa la carenza di legittimazione della società ricorrente ad agire in giudizio per ottenere l’annullamento degli atti impugnati. Ed invero, ritiene il Collegio che, in via generale, il creditore ipotecario (al pari di qualsiasi creditore – anche chirografario - che trascriva pignoramento immobiliare) deve ritenersi privo di legittimazione ad agire con riguardo all’intera serie dei provvedimenti contemplati dall’art 31 T.U. edilizia. E’ noto che la legittimazione ad impugnare un provvedimento amministrativo deve essere direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal provvedimento e postula l'esistenza di un interesse attuale e concreto all'annullamento dell'atto; altrimenti l'impugnativa verrebbe degradata al rango di azione popolare a tutela dell'oggettiva legittimità dell'azione amministrativa, con conseguente ampliamento della legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, in insanabile contrasto con il carattere di giurisdizione soggettiva che la normativa legislativa e quella costituzionale hanno attribuito al vigente sistema di giustizia amministrativa (Cons. Stato, sez. IV, 13/12/2012, n. 6411). Non solo, ma un interesse, perché possa essere tutelabile con un'azione giurisdizionale amministrativa, deve essere, oltre che attuale, personale, ossia differenziato dall'interesse generico di ogni cittadino alla legalità dell'azione amministrativa, ed anche la lesione, da cui discende l'interesse all'impugnativa, oltre che attuale, deve essere diretta, nel senso che incide in maniera immediata sull'interesse legittimo della parte ricorrente; di conseguenza un soggetto giuridico, pur dotato di interesse di fatto, può essere privo di giuridica legittimazione a proporre un'azione giudiziaria, qualora la stessa, sia pure strumentalmente, sia volta a provocare effetti giuridici (ancorché indiretti e mediati) nella sfera di un altro soggetto, in quanto l'esercizio nell'ambito del giudizio amministrativo dell'azione non può essere delegato fuori da una espressa previsione di legge, né surrogato dall'azione sostitutoria di un altro soggetto, ancorché portatore di interessi convergenti o connessi (Cons. Stato, sez. V, 13/05/2014, n. 2439). Al riguardo, è stato condivisibilmente osservato che “è certamente ammissibile per il creditore ipotecario intervenire ad adiuvandum nel caso di impugnazione proposta dal destinatario dell’ordine di demolizione (o del successivo provvedimento dichiarativo dell’acquisizione al patrimonio comunale), ma, al contrario, laddove quest’ultimo rimanga inerte e, quindi, lasci spirare il termine decadenziale per l’impugnazione dei provvedimenti di diffida e di ordine di demolizione, un ricorso autonomo da parte del creditore pignorante non può ritenersi ammissibile perché chiaramente avente natura “surrogatoria” e comunque inconciliabile con la già intervenuta definitività degli accertamenti relativamente al carattere abusivo delle opere e, quindi, alla necessità di procedere con la demolizione” (cfr. T.A.R. Valle D’Aosta, 12 ottobre 2018, n. 48), nonché con l’adozione dei successivi consequenziali provvedimenti contemplati dall’art. 31 T.U. edilizia. Anche in relazione a tali provvedimenti, a parere del Collegio, emerge il difetto di legittimazione in capo al creditore pignorante che giammai potrebbe - a differenza ad esempio dell’aggiudicatario la cui legittimazione a chiedere la sanatoria di eventuali abusi realizzati sui beni acquistati (ove consentita) è espressamente prevista dalla legge – attivarsi per eseguire la demolizione o evitarla richiedendo la sanatoria di eventuali abusi (proprio perché tale facoltà non è contemplata da nessuna norma), e pertanto è destinato a subire in fatto anche gli effetti dell’acquisizione al patrimonio comunale del bene che consegua all’ingiunta ineseguita demolizione; tale conclusione trova ulteriore conferma proprio nella circostanza che – come è stato pure condivisibilmente osservato - l’acquisizione gratuita al patrimonio Comunale dà luogo ad un acquisto a titolo originario, destinato a caducare i vincoli preesistenti insieme al precedente diritto dominicale, senza che rilevi l’anteriorità della eventuale trascrizione e/o iscrizione gravante sui beni acquisiti (Cass., sez. VI, ord. 06 ottobre 2017, n. 23453). Per quanto sin qui osservato lo spiegato ricorso va dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione ad agire della società ricorrente mentre sussistono i presupposti di legge per dichiarare integralmente compensate tra le parti le spese di lite. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania Napoli (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 22 novembre 2022 con l'intervento dei magistrati: Maria Laura Maddalena, Presidente Antonella Lariccia, Consigliere, Estensore Germana Lo Sapio, Consigliere Maria Laura Maddalena, Presidente Antonella Lariccia, Consigliere, Estensore Germana Lo Sapio, Consigliere IL SEGRETARIO
Edilizia ed urbanistica – Acquisizione al patrimonio del Comune – Giustizia amministrativa – Legittimazione al ricorso – Creditore ipotecario – Inammissibilità Il creditore ipotecario non è legittimato ad impugnare l’ordinanza di acquisizione avente ad oggetto beni insistenti sul fondo di proprietà del debitore, atteso che l’azione produrrebbe effetti giuridici nella sfera di un altro soggetto, e che - nel giudizio amministrativo – l’esercizio dell’azione non può essere delegato fuori da una espressa previsione di legge, né surrogato dall’azione sostitutoria di un altro soggetto, ancorché portatore di interessi convergenti o connessi. Conformi: T.a.r. per la Valle D’Aosta, sez. unica, 12 ottobre 2018, n. 48. Difformi: T.a.r. per il Piemonte, sez. II, 27 giugno 2018, n. 791.
Edilizia
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Tutela monocratica nelle more della decisione collegiale
N. 00024/2020 REG.PROV.CAU. N. 00068/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia (Sezione Prima) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 68 del 2020, integrato da motivi aggiunti, proposto da Reale S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Umberto Baldi, Stefano Paroni, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Trieste, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Maritza Filipuzzi, Valentina Frezza, Sara De Biaggi, Alda De Gennaro, domiciliataria ex lege in Trieste, via del Teatro Romano 7; per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, del provvedimento del Comune di Trieste notificato via P.E.C. alla ricorrente in data 18/12/2019 (prot. Corr. 95/100/2019 e protocollo in uscita aooc1424/2019/0254489) contenente il divieto di prosecuzione dell'intervento previsto dalla Segnalazione Certificata di Inizio Attività alternativa al Permesso di Costruire per ristrutturazione edilizia con cambio di destinazione d'uso sub prot. gen. 191133, presentata il 21/09/2019 , nonché per l’annullamento di ogni atto comunque connesso, presupposto o conseguente. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari e proposta dal ricorrente; Preso atto che l’art. 84, 1^ e 2^ comma del decreto legge 17 marzo 2020 n. 18 ha previsto che i procedimenti cautelari siano in questo momento decisi con decreto monocratico con il rito dell’art. 56 C.P.A e fissazione della trattazione collegiale, in caso di accoglimento a data successiva al 6 aprile 2020; Verificato altresì che, come previsto dalla norma sopracitata, sono stati rispettati i termini di cui all’art . 55, comma 5 C.P.A.; Preso atto che : sull’istanza cautelare non è stato finora provveduto con decreto monocratico in quanto la medesima era iscritta al ruolo della camera di consiglio dell’8 aprile 2020 e pertanto suscettibile di essere definita collegialmente in virtù della previsione derogatoria di cui all’84, 2^ comma 1^ capoverso del decreto legge 17 marzo 2020 n. 18; che tuttavia quanto sopra non è potuto avvenire non avendo le parti presentato nei termini di legge la necessaria richiesta congiunta di passaggio in decisione: che per quanto sopra l’istanza cautelare dovrà essere decisa nel corso della camera di consiglio del 29 aprile 2020; Ritenuto che nelle more si debba comunque provvedere con decreto monocratico ex art. 84, 1^ c. d.l. citato; Ritenuto peraltro che l’istanza cautelare non risulti allo stato accoglibile in quanto non si ravvisano allo stato preponderanti elementi di fondatezza né risulta dimostrata l’attualità del danno, anche alla luce delle precisazioni contenute nella memoria del Comune. Ritenuto pertanto che l’ìstanza vada respinta . P.Q.M. Rigetta l’istanza e mantiene fissata per la trattazione collegiale la camera di consiglio del 29 aprile 2020. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così dato in Trieste il giorno 8 aprile 2020. IL SEGRETARIO
Processo amministrativo - Covid-19 - Tutela cautelare - Decisione cautelare collegiale - Calendarizzata in periodo ricompreso fra il 6 e il 15 aprile 2020 – Mancata decisione alla camera di consiglio – Per mancata presentazione di congiunta richiesta delle parti di passaggio in decisione - Art. 84, comma 2, d.l. n. 18 del 2020 – Decisione monocratica - Necessità.       Ove sull’istanza cautelare non si sia provveduto in sede collegiale, alla camera di consiglio fissata nel periodo dal 6 al 15 aprile 2020, ai sensi dell’art. 84, comma 2, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, per mancata presentazione di congiunta richiesta delle parti di passaggio in decisione, nelle more della successiva camera di consiglio deve provvedersi con decreto monocratico ai sensi dell’art. 84, comma 1, decreto-legge n. 18 cit. (1). (1) Ha ricordato il decreto che l’art. 84, commi 1 e 2, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 ha previsto che i procedimenti cautelari siano in questo momento decisi con decreto monocratico con il rito dell’art. 56 c.p.a. e fissazione della trattazione collegiale, in caso di accoglimento a data successiva al 6 aprile 2020. Nella specie sull’istanza cautelare non è stato finora provveduto con decreto monocratico in quanto la medesima era iscritta al ruolo della camera di consiglio dell’8 aprile 2020 e pertanto suscettibile di essere definita collegialmente in virtù della previsione derogatoria di cui all’84, comma 2, primo capoverso, d.l. n. 18 del 2020. La decisione collegiale non è stata, nella specie, però possibile non avendo le parti presentato nei termini di legge la necessaria richiesta congiunta di passaggio in decisione.
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/non-va-sospeso-l-obbligo-generalizzato-di-uso-della-mascherina-per-gli-studenti-di-et-c3-a0-inferiore-a-12-anni
Non va sospeso l’obbligo generalizzato di uso della mascherina per gli studenti di età inferiore a 12 anni
N. 01804/2021 REG.PROV.CAU. N. 03099/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 3099 del 2021, proposto dai sigg.ri -OMISSIS- quali genitori esercenti la patria potestà sui figli minori, rappresentati e difesi dagli avvocati Alessandro Gaetani, Samanta Forasassi e Sara Forasassi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Presidenza del Consiglio dei Ministri, non costituito in giudizio; nei confronti Ministero della Salute, non costituito in giudizio; per la riforma dell'ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente l’utilizzo delle mascherine sui minori di età superiore ai sei anni; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi degli artt. 56, 62, co. 2 e 98, co. 2, cod. proc. amm.; Rilevato che gli appellanti, con articolati richiami a letteratura scientifica a loro avviso rilevante, contestano l’obbligo generalizzato di uso della mascherina per i loro figli, scolari di età inferiore a 12 anni, senza che nella fattispecie rilevi il caso - già affrontato dalla giurisprudenza anche del Consiglio di Stato - di bambini con problemi respiratori o che abbiano evidenziato segni di affaticamento connessi all’uso della mascherina in classe; Rilevato che a fronte della documentazione scientifica depositata dagli appellanti, che questo Giudice ha certo valutato anche nella presente sede di delibazione sommaria, esistono altre documentazioni scientifiche, e in particolare gli studi posti a base delle censurate valutazioni del C.T.S. e conseguentemente dei decreti impugnati, da cui emergono conclusioni differenti, cioè nel senso della tollerabilità fisica anche per i bambini da 6 a 12 anni dell’uso della mascherina, e ciò viene ritenuto sufficiente a disporne l’uso obbligatorio, tenuto conto delle sempre maggiori evidenze di contagi di minori anche molto giovani; Considerato, ma ciò evidentemente rientra nell’ambito delle decisioni amministrative su cui il Giudice può esprimere semmai una valutazione di ragionevolezza, che non risulta adottata, né a livello di governo territoriale né a livello scolastico, alcuna prescrizione volta a dotare ciascuna classe almeno di un saturimetro, apparecchio assai economico e semplice da usare per qualunque maestro, onde eventualmente segnalare immediatamente casi di scarsa ossigenazione del sangue; Rilevato che, in tali circostanze, nel contrasto tra valutazioni scientifiche, tutte certamente meritevoli di attenzione, l’obbligo contestato non si caratterizza per la “manifesta irragionevolezza” che, sola, consentirebbe a questo Giudice un intervento inibitorio; nella sostanza, invece, gli appellanti chiederebbero in questa sede che il Giudice valuti, con scelta preferenziale tra due motivate opinioni scientifiche, quella da loro propugnata; ciò comporterebbe la inammissibile surroga giurisdizionale rispetto alle decisioni di cui il Governo si assume per intero tutta la responsabilità; P.Q.M. respinge l’istanza cautelare. Fissa per la discussione collegiale la camera di consiglio del 22 aprile 2021. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1, 2 e 5, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera f), del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, manda alla Segreteria di procedere, in caso di riproduzione in qualsiasi forma, all’oscuramento delle generalità dei soggetti esercenti la potestà genitoriale e di ogni altro dato idoneo ad identificare i minori interessati. Così deciso in Roma il giorno 2 aprile 2021. IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Covid-19 – Scuola – Didattica a distanza – D.P.C.M. 2 marzo 2021 – Obbligo generalizzato di uso della mascherina per gli studenti di età inferiore tra i 6 e i 12 anni – Non va sospeso.        Deve essere respinta l’istanza di sospensione dell’obbligo generalizzato di uso della mascherina per gli studenti tra i 6 e i 12 anni, non caratterizzandosi per la “manifesta irragionevolezza” che, sola, consentirebbe al giudice amministrativo un intervento inibitorio (1). 
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/non-c3-a8-dovuto-l-assegno-alimentare-al-dipendente-sospeso-dal-servizio-per-violazione-dell-obbligo-di-vaccinarsi-contro-il-covid-19
Non è dovuto l’assegno alimentare al dipendente sospeso dal servizio per violazione dell’obbligo di vaccinarsi contro il Covid-19
N. 00092/2022 REG.PROV.CAU. N. 00222/2022 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 222 del 2022, proposto da Ministero della Difesa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale, n. 6; contro -OMISSIS-, non costituito in appello; per la riforma dell'ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Terza) n. 123/2022, resa tra le parti Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi degli artt. 56, 62, c. 2 e 98, c. 2, c.p.a.; Rilevato che: - l’ordinanza cautelare appellata, a fronte di un ricorso proposto contro un provvedimento di sospensione di un militare dal servizio per inadempimento dell’obbligo di sottoporsi a vaccinazione anticovid, ha accolto il ricorso solo in limitata parte, e in particolare in relazione alla mancata concessione di un assegno alimentare, mentre ha respinto la domanda di sospensione del provvedimento di sospensione dal servizio, fissando il merito all’udienza del 6.12.2022; - l’appello del Ministero della difesa contesta l’ordinanza del Tar sotto il profilo che la normativa primaria (d.l. n. 44/2021) non consente, in caso di sospensione dal servizio per inadempimento dell’obbligo vaccinale suddetto, la corresponsione di alcun tipo di emolumento, nemmeno dell’assegno alimentare; - sotto il profilo del periculum in mora, l’appello evidenzia che la corresponsione dell’assegno alimentare disincentiva la sottoposizione a vaccinazione e mette a repentaglio la riuscita della campagna vaccinale; Ritenuto che: - al fine della concessione della misura cautelare, occorra la contemporanea sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora; - nella presente vicenda l’appello presenta fumus boni iuris in quanto la disciplina sull’obbligo di vaccinazione per Covid-19 prevede, in caso di inadempimento dell’obbligo, la sospensione dal servizio senza retribuzione e altri emolumenti comunque denominati; tale disciplina non consente la corresponsione di assegno alimentare, a differenza di altre ipotesi di sospensione dal servizio; si tratta di disciplina speciale, che non consente estensione analogica di regole dettate per altri casi di sospensione dal servizio; ove si intenda, come il giudice di primo grado, dubitare della costituzionalità della previsione, la stessa non può tuttavia essere disapplicata, non essendo consentito un sindacato diffuso di costituzionalità, ma va piuttosto rimessa alla Corte costituzionale, sicché non è consentita la sospensione del provvedimento amministrativo fondato su una norma primaria della cui costituzionalità si dubiti, senza una contemporanea rimessione della norma di legge alla Corte costituzionale; diversamente, la sospensione del provvedimento amministrativo si traduce in una non consentita disapplicazione della legge; - tuttavia, l’appello non evidenzia periculum in mora, o, meglio, il Ministero della difesa difetta della legittimazione a dedurre in giudizio il tipo di periculum in mora denunciato; invero, il Ministero della difesa non è il soggetto pubblico responsabile del buon andamento della campagna vaccinale e più in generale non è l’Amministrazione preposta alla tutela della salute pubblica, e non è pertanto legittimato a lamentare in giudizio il pericolo per la stessa; nel rapporto tra Ministero della difesa e dipendente, il provvedimento cautelare di primo grado impone al Ministero della difesa di corrispondere al dipendente un assegno alimentare; il Ministero non deduce in che modo la corresponsione al dipendente di un assegno alimentare provochi al Ministero medesimo un danno grave e irreparabile tale da richiedere un provvedimento monocratico urgente nella mora della decisione cautelare collegiale; P.Q.M. Respinge la domanda di misure cautelari monocratiche. Fissa, per la discussione, la camera di consiglio del 6 aprile 2022. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all'articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità della parte appellata. Così deciso in Palermo il giorno 10 marzo 2022. IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Covid-19 – Vaccino – Obbligo – Inadempimento – Conseguenza – Sospensione senza retribuzione – Assegno alimentare – Non è dovuto.             La disciplina sull’obbligo di vaccinazione per Covid-19 prevede, in caso di inadempimento dell’obbligo, la sospensione dal servizio senza retribuzione e altri emolumenti comunque denominati, ivi incluso l’assegno alimentare (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che la disciplina sull’obbligo di vaccinazione per Covid-19 prevede, in caso di inadempimento dell’obbligo, la sospensione dal servizio senza retribuzione e altri emolumenti comunque denominati. Tale disciplina non consente la corresponsione di assegno alimentare, a differenza di altre ipotesi di sospensione dal servizio; si tratta di disciplina speciale, che non consente estensione analogica di regole dettate per altri casi di sospensione dal servizio; ove si intenda, come il giudice di primo grado, dubitare della costituzionalità della previsione, la stessa non può tuttavia essere disapplicata, non essendo consentito un sindacato diffuso di costituzionalità, ma va piuttosto rimessa alla Corte costituzionale, sicché non è consentita la sospensione del provvedimento amministrativo fondato su una norma primaria della cui costituzionalità si dubiti, senza una contemporanea rimessione della norma di legge alla Corte costituzionale; diversamente, la sospensione del provvedimento amministrativo si traduce in una non consentita disapplicazione della legge.
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/mancanza-della-fase-dell-audizione-in-sede-di-ricorso-straordinario-al-capo-dello-stato
Mancanza della fase dell’audizione in sede di ricorso straordinario al Capo dello Stato
Numero 02848/2019 e data 12/11/2019 Spedizione REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato Sezione Prima Adunanza di Sezione del 23 ottobre 2019 NUMERO AFFARE 00191/2019 OGGETTO: Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per il coordinamento amministrativo. Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da Telecom Italia s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, avv. Agostino Nuzzolo, avverso il d.P.C.M. prot. n. USG 0005924 P-4.2.1. VSGF del 28 settembre 2017 di accertamento degli obblighi di notifica di cui al decreto legge 15 marzo 2012, n. 21, contro la Presidenza del Consiglio dei ministri, nei confronti di Vivendi Societè Anonyme; LA SEZIONE Vista la relazione pervenuta in data 4 febbraio 2019 con la quale la Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per il coordinamento amministrativo ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto; esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Vincenzo Neri; Premesso. 1. Con ricorso straordinario la società Telecom Italia s.p.a. chiede l’annullamento del provvedimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 28 settembre 2017, emesso all’esito del procedimento relativo all’accertamento degli obblighi di notifica di cui al decreto legge 15 marzo 2012, n. 21 nei confronti delle società Vivendi s.a. e TIM s.p.a. In particolare, il provvedimento impugnato ha accertato: 1) che “Tim detiene asset che sono da ritenersi attivi di rilevanza strategica per l’interesse nazionale nel settore delle comunicazioni, ai sensi e per le finalità dell’art. 2 del decreto-legge n. 21/12”; 2) “la sussistenza in capo a Vivendi SA dell’obbligo di notifica, ai sensi dell’art 1, comma 5, del decreto-legge n. 21/12” e “la sussistenza in capo a Tim s.p.a. dell’obbligo di notifica, ai sensi dell’art 2, comma 2, del decreto-legge n. 21/12”; 3) la tardività della notifica effettuata da Vivendi s.a. rispetto ai termini prescritti dalla legge e la mancanza di notifica da parte della Tim s.p.a.; concludendo, tra l’altro, “con l’accertamento della sussistenza dell’obbligo, in capo a Vivendi SA, di notifica, ai sensi dell’art 1, comma 5, del decreto-legge n. 21/12 di ogni acquisizione di partecipazione in Tim s.p.a. che ha portato la stessa a detenere azioni in misura superiore alle soglie indicate dallo stesso comma della violazione dello stesso (…) con l’accertamento della sussistenza dell’obbligo, in capo a Tim s.p.a., di notifica, ai sensi dell’art 2, comma 2, del decreto-legge n. 21/12 dell’acquisto da parte di Vivendi del controllo e della disponibilità, a far data dal 4 maggio 2017, degli attivi di Tim ai sensi dello stesso comma e, della violazione dello stesso”. La Presidenza del Consiglio dei ministri dispone altresì l’avvio di un ulteriore “procedimento per l’eventuale irrogazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 2, comma 4 del decreto legge n. 21 del 2012 per l’inottemperanza all’obbligo di notifica”. La vicenda prende le mosse dall’investimento effettuato da Vivendi s.a., società di diritto francese quotata alla Borsa di Parigi e operante nel settore media e telecomunicazioni, nel capitale sociale di Telecom Italia s.p.a., a seguito del quale la Presidenza del Consiglio dei ministri, in data 5 agosto 2017, ha comunicato alle due società l’avvio del procedimento di accertamento degli obblighi di notifica ai sensi degli articoli 1 e 2 del d.l. 15 marzo 2012, n. 21, recante le “norme in materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni”. In data 13 settembre 2017, la Consob, con comunicazione prot. n. 106341/17, ha concluso che “la partecipazione di Vivendi in Tim debba essere qualificata come di controllo, ai sensi dell’art. 2359 c.c. e dell’art. 93 TUF, oltre che della disciplina con operazioni con parti correlate”; il provvedimento è stato impugnato da Vivendi dinanzi al TAR Lazio, ove è stato assegnato il numero r.g. 11251/17. Il procedimento avviato il 5 agosto 2017 si è concluso con il provvedimento della Presidenza del Consiglio dei ministri del 28 settembre 2017 ora impugnato. Anche questo provvedimento è stato impugnato da Vivendi dinanzi al TAR Lazio in data 22 dicembre 2017, ove è stato assegnato il numero r.g. 120/18. Con d.P.C.M. 16 ottobre 2017 il Governo, ai sensi del d.l. 15 marzo 2012 n. 21, ha esercitato poteri speciali mediante l’imposizione di specifiche prescrizioni e condizioni a Telecom Italia s.p.a. e alle società da quest’ultima controllate, Telecom Italia Sparkle s.p.a. e Telsy elettronica e telecomunicazioni s.p.a., oltre che a Vivendi. Con successivo decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri, in data 8 maggio 2018, è stata irrogata una sanzione a Tim s.p.a.; il provvedimento è stato impugnato dinnanzi al TAR Lazio, ove pende il ricorso con il n.R.G. 6666/18. La Presidenza del Consiglio dei ministri nella relazione ha concluso per l’infondatezza del ricorso. La società Vivendi s.a., in qualità di azionista di Telecom Italia s.p.a., ha presentato atto di intervento ad adiuvandum. La ricorrente Telecom Italia s.p.a., in data 3 maggio 2019, ha presentato istanza di audizione e, in data 29 maggio, ha prodotto con deposito diretto copia della sentenza non definitiva del TAR Lazio n. 6310 del 23 maggio 2019 (emessa nel giudizio da essa proposto numero r.g. 6666/18) e, in data 12 giugno 2019, copia delle memorie di merito e di replica depositate nello stesso giudizio. 2. La ricorrente affida il ricorso a due censure di illegittimità. Con il primo motivo deduce “violazione degli artt. 49 e 63 TFUE; violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 della legge 241/1990; violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del D.L. 21/2012, artt. 4 e 8 del D.P.R. 86/2014; violazione dei termini per la conclusione del procedimento; elusione e sviamento di potere; esaurimento del potere”. In particolare, il provvedimento di accertamento impugnato sarebbe intervenuto quando i termini per la conclusione del relativo procedimento di accertamento e del procedimento per l’irrogazione dell’eventuale sanzione erano decorsi ed il potere della Presidenza del Consiglio dei ministri conseguentemente esaurito, rilevando che, in ossequio al principio generale di cui all’art. 2, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241, i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni, se non sia previsto un termine diverso. Il procedimento, infatti, è stato avviato il 5 agosto 2017 e concluso con il provvedimento di accertamento il 28 settembre 2017. La ricorrente espone, in primo luogo, che le reiterate proroghe dell’organo procedente non varrebbero a salvare la tempestività del provvedimento, posto che ai sensi dell’art. 2, comma 7 cit., i termini possono essere sospesi una sola volta “per l’acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni”, circostanze che, a detta della ricorrente, non sono poste a fondamento delle sospensioni disposte. In secondo luogo, il provvedimento di accertamento avrebbe arbitrariamente ed artificiosamente separato il procedimento per l’accertamento degli obblighi di notifica dal procedimento sanzionatorio, senza che la normativa (d.P.R. 86/2014; art. 17 l. 689/1981) contempli la separazione delle tappe della fase istruttoria, ma piuttosto un unico procedimento volto all’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 1 e 2 del d.l. 21/2012. A prescindere dalla sussistenza di due distinti procedimenti o di un unico procedimento, la ricorrente rileva comunque l’inutile decorrenza del termine, sia in relazione all’accertamento dell’obbligo di notifica, sia in relazione alla possibilità di irrogare la sanzione e, in definitiva, l’esaurimento del potere della Presidenza del Consiglio dei ministri. Con il secondo motivo, la ricorrente rileva “Violazione e falsa applicazione degli artt. 49 e 63 TFUE; violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del D.L. 21/2012; elusione, eccesso e sviamento di potere; carenza di istruttoria, difetto di motivazione, irragionevolezza”. Secondo la ricorrente, l’accertamento da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri della sussistenza dell’obbligo di notifica in capo a Telecom Italia, ai sensi dell’art. 2 del d.l. 21/2012, sarebbe basato su una lettura errata, nonché contraddittoria, della norma medesima. A detta di Telecom Italia, infatti, il provvedimento impugnato non indica la delibera, l’atto o l’operazione adottata dalla società, che fanno sorgere l’obbligo di notifica ai sensi dell’art. 2, comma 2, ma si limita a ricondurre l’obbligo di notifica alla presunta acquisizione del controllo di fatto da parte di Vivendi. Per la ricorrente, “l’unica interpretazione legittima del comma 2 – vale a dire l’unica compatibile con il diritto europeo e con le intenzioni del legislatore italiano del 2012 - è quella per la quale l’obbligo di notifica e l’esercizio dei poteri speciali devono corrispondere ad atti di disposizione degli asset strategici o della relativa azienda”. Le delibere alle quali è ricondotto il controllo di fatto da parte di Vivendi (delibera di rinnovo CdA e presa d’atto), posto a fondamento dell’obbligo di notifica, non avrebbero ad oggetto la disponibilità degli asset strategici e, dunque, indipendentemente dalla qualificazione della partecipazione di Vivendi s.a. in Telecom Italia s.p.a., la sussistenza di detto obbligo sarebbe esclusa. 3. La società ricorrente ha depositato direttamente presso il Consiglio di Stato la sentenza non definitiva del TAR Lazio n. 6310 del 23 maggio 2019, emessa nel giudizio n.R.G. 6666/2018 instaurato da Tim s.p.a., la memoria di merito e la memoria di replica depositate da Tim s.p.a. nello stesso giudizio. Inoltre, la ricorrente - ricevuta la nota del 28 febbraio 2019 con cui la Presidenza del Consiglio dei ministri ha comunicato la trasmissione del ricorso al Consiglio di Stato per l’acquisizione del parere di rito - ha chiesto di essere sentita dalla Sezione. Le ragioni poste dalla ricorrente a sostegno di questa richiesta risiedono, per un verso, nella natura giurisdizionale del procedimento per ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e, per altro verso, nella circostanza che gli artt. 6 CEDU e 24 Cost. riconoscono alla parte il diritto ad un equo processo, diritto quest’ultimo che include anche il diritto ad una udienza orale. Considerato. 4. Sul deposito diretto di documenti al Consiglio di Stato, la Sezione osserva che, nel ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, è esclusa questa possibilità. Ed invero, ai sensi dell’articolo 49, comma 2 del R.D. n. 444/1942 “I memoriali o documenti che gli interessati credono di sottoporre al Consiglio di Stato devono essere rassegnati al Ministero, cui spetta di provvedere. Non può tenersi conto di alcun documento non trasmesso dal Ministero. Il Consiglio di Stato può chiedere al Ministero le notizie e i documenti che reputi necessari”. Per orientamento consolidato, la Sezione consultiva “all’infuori della procedura di presentazione diretta del ricorso straordinario” ex art. 11 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, “non può tener conto di atti che non le siano stati trasmessi dal ministero competente (articolo 49 del regolamento emanato con regio decreto 21 aprile 1942 n. 444)” (Cons. Stato, sez. I, 7 giugno 2017, n. 1485; Cons. Stato, sez. I, 28 agosto 2013, n. 3670; Cons. Stato, sez. II, 26 ottobre 2011, n. 399; Cons. Stato, sez. II, 16 febbraio 2011, n. 1702; Cons. Stato, sez. II, 26 gennaio 2011, n. 1163; Cons. Stato, sez. I, 4 novembre 2009, n. 591). Per tale ragione la Sezione, come si dirà più avanti, dispone l’invio della documentazione al Ministero affinché la esamini e riferisca con relazione integrativa. 5. Sull’istanza di audizione in sede di ricorso straordinario, la Sezione osserva che la questione in passato poteva essere agevolmente risolta in senso negativo, atteso il chiaro tenore dell’articolo 49 R.D. 21 aprile 1942 n. 444 (“Gli affari sui quali è chiesto parere non possono essere discussi con l'intervento degli interessati o dei loro rappresentanti o consulenti”). Oggi, alla luce degli sviluppi giurisprudenziali sulla fisionomia del rimedio e sui principi conseguentemente applicabili, è necessario svolgere un ulteriore approfondimento. 5.1. Per un verso non v’è dubbio che il ricorso straordinario abbia perso la sua connotazione, tipicamente ed esclusivamente, di rimedio amministrativo. Le novità introdotte dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 militano, infatti, nel senso di un progressivo avvicinamento del ricorso straordinario ai rimedi di tipo giurisdizionale. Innanzitutto, il parere emesso in sede di ricorso straordinario ha assunto un carattere vincolante. L’art. 14, comma 1 del d.P.R. 1199/1971, come modificato nel 2009, prevede che “la decisione del ricorso straordinario è adottata con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministero competente, conforme al parere del Consiglio di Stato”. È stata abrogata, infatti, la disposizione di cui al comma 1, seconda parte, dell’art. 14 secondo cui “qualora il Ministro competente per l'istruttoria del ricorso non intenda proporre al Consiglio dei Ministri una decisione difforme dal parere del Consiglio di Stato, la decisione del ricorso deve essere conforme al parere predetto”. La legge del 2009 ha inoltre modificato l’art. 13 del d.P.R. 1199/1971, attribuendo espressamente al Consiglio di Stato in sede consultiva la possibilità di sollevare questioni di legittimità alla Corte Costituzionale. Così, “se ritiene che il ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una questione di legittimità costituzionale che non risulti manifestamente infondata, sospende l'espressione del parere e, riferendo i termini e i motivi della questione, ordina alla segreteria l'immediata trasmissione degli atti alla Corte”. 5.2. Tale percorso legislativo ha trovato conferma nella giurisprudenza della Corte di Cassazione e in quella del Consiglio di Stato. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, mutando orientamento rispetto al passato, hanno affermato che “lo sviluppo normativo che ha segnato la disciplina del ricorso straordinario depone nel senso dell’assegnazione al decreto presidenziale emesso, su conforme parere del Consiglio di Stato, della natura sostanziale di decisione di giustizia e, quindi, di un carattere sostanzialmente giurisdizionale. Ne deriva il superamento della linea interpretativa tradizionalmente orientata nel senso della natura amministrativa del decreto presidenziale, seppure contrassegnata da profili di specialità tali da segnalare la contiguità alle pronunce del giudice amministrativo”. In secondo luogo – considerando il parere emesso in sede di ricorso straordinario una “decisione caratterizzata dal crisma dell’intangibilità, propria del giudicato” e, cioè, una “decisione di giustizia inquadrabile nel sistema della giurisdizione amministrativa”, con la conseguente collocazione “del decreto che definisce il ricorso al Capo dello Stato, resa in base al parere obbligatorio e vincolante del Consiglio di Stato, nel novero dei provvedimenti del giudice amministrativo di cui alla lettera b) dell’art. 112, comma 2, c.p.a.” – le Sezioni Unite hanno concluso nel senso che “il ricorso per l’ottemperanza deve essere proposto, ai sensi dell'art. 113, comma 1, dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica “il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta” (Cass., Sez. Un., 28 gennaio 2011, n. 2065). Il Consiglio di Stato ha aderito al dictum delle Sezioni Unite, affermando che, siccome “il petitum proposto in sede di ricorso straordinario” è “perfettamente equiparabile […] ad una domanda giudiziale”, non può essere esclusa la “possibilità di esperire il ricorso per l’ottemperanza” dinanzi al Consiglio di Stato, “al fine di ottenere l’esecuzione del decreto presidenziale”. Come noto è intervenuta anche l’Adunanza Plenaria che non ha ritenuto di discostarsi dall’orientamento delle Sezioni Unite, per cui “il ricorso per ottemperanza si propone, ex art.113 co.1, dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica il giudice che ha emesso il provvedimento della cui esecuzione si tratta” (Cons. Stato, Ad. Plen., 26 marzo 2012, n. 18). 5.3. Giova precisare tuttavia che, per l’opinione prevalente, il ricorso straordinario continua ad avere una connotazione sui generis. In primo luogo, occorre ricordare che per l’art. 49, comma 1, R.D. 444/1942 “gli affari sui quali è chiesto parere non possono essere discussi con l’intervento degli interessati o dei loro rappresentanti o consulenti”. Il parere, dunque, è espresso in una seduta non pubblica e non è ammessa la discussione orale, né occorre dare avviso alle parti della data della seduta e dei nomi dei componenti dell’adunanza (così Cons. Stato, sez. I, 26 ottobre 2005, n. 1407 e Cons. Stato, sez. III, 9 gennaio 2003, n. 3600/02). In secondo luogo, lo stesso Consiglio di Stato, nel riconoscimento della ‘giurisdizionalizzazione’ del rimedio de quo, afferma la non totale equiparabilità ai rimedi giurisdizionali, evidenziando “la specificità (e la sommarietà) della procedura originata dal ricorso straordinario, a confronto con quella disciplinata dal codice del processo amministrativo secondo i canoni più rigorosi del giusto processo” (Cons. Stato, sez. III, 4 agosto 2011, n. 4666) ed affermando che “il procedimento di giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario conduce a qualificare il rimedio come tendenzialmente giurisdizionale nella sostanza, ma formalmente amministrativo” e dunque “l’equiparazione alla giurisdizione” non “può dirsi piena”. In particolare poi, “il modello di istruttoria previsto dal d.P.R. 1199/1971, basato sull'affidamento dell’indagine e dell’acquisizione degli atti rilevanti alle strutture ministeriali, senza contraddittorio orale con le parti, e con esclusione di strumenti come la consulenza tecnica d'ufficio che invece sono entrati nel processo amministrativo, risulta lontano dal modulo processuale. Il contraddittorio previsto dall'attuale disciplina è di tipo scritto, difettando una disciplina di pubblicità del dibattimento” (Cons. Stato, Sez. I, 7 maggio 2012, n. 2131). Analogamente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che “la raggiunta natura di decisione di giustizia non significa anche che ogni aspetto della procedura (in particolare, l'istruttoria) sia pienamente compatibile con il canone costituzionale dell'art. 24 Cost., e con la garanzia del pieno contraddittorio, del diritto alla prova e all'accesso agli atti del procedimento; nonché - dopo il noto nuovo corso della giurisprudenza costituzionale (Corte cost. nn. 348 e 349 del 2007) - con il parametro interposto del diritto ad un processo equo ex art. 6 CEDU” (Cass., Sezioni Unite, 19 dicembre 2012 n. 23464). 5.4. Sulla base di quanto sin qui detto, dunque, non vi è coincidenza tout court con gli altri rimedi giurisdizionali sul piano dei principi applicabili; conseguentemente deve pervenirsi alla conclusione che la non perfetta operatività delle garanzie della pubblicità e della oralità, pur nel rispetto del contradditorio, non va a collidere con le norme costituzionali e convenzionali in materia (art. 24 Cost e art. 6 CEDU). Di recente, anche la Corte Costituzionale - che già si era espressa nel senso che “al fine della verifica del rispetto del principio di pubblicità, occorre guardare alla procedura giudiziaria nazionale nel suo complesso: sicché, a condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, l’assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio di cui si tratta” (Corte Cost. 11 marzo 2011 n. 80) - con la sentenza 9 febbraio 2018 n. 24 ha affrontato nuovamente e trasversalmente la questione dell’applicabilità delle regole convenzionali in tema di equo processo. Per la Corte “il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è, come noto, rimedio alternativo al ricorso giurisdizionale al giudice amministrativo, spettando al ricorrente di scegliere liberamente fra l’una e l’altra via, con l’unica conseguenza che una volta scelta una non è più possibile intraprendere l’altra, e salva restando naturalmente la facoltà dei controinteressati di chiedere la trasposizione in sede giurisdizionale del ricorso straordinario eventualmente prescelto dal ricorrente”. E “del resto, che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo si traggano conclusioni negative sulla riferibilità alla decisione del ricorso straordinario delle garanzie convenzionali in tema di equo processo è confermato dalle pronunce nelle quali la stessa Corte si è direttamente occupata di questo particolare rimedio. Ciò è avvenuto in tre occasioni, e in due delle quali proprio con specifico riferimento alla previsione dell’art. 6 della CEDU” (Corte cost., 9 febbraio 2018, n. 24). Va, infatti, ricordato che nella decisione 28 settembre 1999, Nardella contro Italia, la Corte EDU ricostruisce la disciplina dell’istituto del ricorso straordinario come rimedio speciale ed esclude che esso – del ritardo nella cui decisione il ricorrente si doleva nel caso di specie – ricada nell’ambito di applicazione della Convenzione. Per la stessa ragione osserva che il ricorso al Presidente della Repubblica non rientra fra quelli che devono essere esperiti previamente al ricorso ex art. 35 della Convenzione stessa. Ciò premesso, nella pronuncia è sottolineato come, optando per il gravame speciale del ricorso straordinario, il ricorrente (che pure è stato informato della possibilità di proporre il ricorso giurisdizionale) sceglie esso stesso di esperire un rimedio che si pone fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 6 della Convenzione. Sulla base dei medesimi argomenti e richiamando il caso Nardella, nella decisione 31 marzo 2005, Nasalli Rocca contro Italia, la Corte EDU ha dichiarato irricevibile un ricorso proposto a essa dal ricorrente che aveva preventivamente esposto le sue ragioni in alcune lettere al Presidente della Repubblica. La Corte osserva che tali lettere, anche a volerle considerare equivalenti a un rimedio straordinario, non ricadono comunque nella sfera di applicazione dell’art. 35 della Convenzione. Particolarmente significativo è che alle stesse conclusioni la Corte di Strasburgo pervenga nella sentenza 2 aprile 2013, Tarantino e altri contro Italia, successiva quindi alla riforma del 2009, dove ribadisce che la parte ricorrente, «presentando un appello speciale al Presidente della Repubblica nel 2007, non ha avviato un procedimento contenzioso del tipo descritto all’articolo 6 della Convenzione (si veda Nardella c. Italia (dec.), n. 45814/99, CEDU 1999-VII, e Nasalli Rocca (dec.), sopra citata), e che, pertanto, la disposizione non è applicabile» (paragrafo 62). 5.5. In definitiva, considerato che il ricorso straordinario non è totalmente equiparabile ai rimedi giurisdizionali e che, sulla base della giurisprudenza richiamata, non vi è contrasto né con la Costituzione né con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la richiesta di audizione deve essere respinta. 6. In ultimo, va notato che la ricorrente Telecom Italia s.p.a. ha impugnato un provvedimento che vede come destinatari la società Vivendi s.a. e la società Tim s.p.a. Pur essendo il Collegio consapevole dell’identità sostanziale dell’attuale ricorrente Telecom Italia s.p.a. e della società destinataria del provvedimento qui impugnato, è opportuno che la Presidenza del Consiglio dei ministri chiarisca anche il profilo della legittimazione ad impugnare da parte di Telecom Italia s.p.a. un atto formalmente rivolto a Tim s.p.a. 7. In conclusione, sulla base di quanto sin qui esposto, si chiede alla Presidenza del Consiglio dei ministri di predisporre una relazione integrativa per riferire: - sulla legittimazione di Telecom Italia s.p.a. ad impugnare un atto rivolto a Tim s.p.a.; - sulla documentazione che è stata oggetto di deposito diretto innanzi al Consiglio di Stato; - sugli sviluppi della vicenda nel frattempo intervenuti, con particolare riferimento al ricorso proposto dalla società Vivendi s.a. dinanzi al TAR Lazio per l’annullamento del provvedimento oggetto del presente ricorso. La Presidenza del Consiglio dei ministri, ricevuto il presente parere interlocutorio, provvederà a predisporre la relazione e a trasmetterla a parte ricorrente, contestualmente assegnando un congruo termine per la presentazione di eventuali memorie che parte ricorrente dovrà depositare esclusivamente presso l’Amministrazione, ai sensi dell’art. 49, secondo comma, del R.D. 21 aprile 1942, n. 444; la Presidenza, quindi, farà pervenire a questa Sezione la relazione integrativa e le memorie di parte, unitamente alle proprie controdeduzioni, oppure invierà alla Sezione una comunicazione attestante l’avvenuta trasmissione della relazione integrativa e la mancata presentazione di memorie da parte dell’interessata. P.Q.M. sospende l’adozione del parere in attesa degli adempimenti istruttori sopra specificati. IL SEGRETARIO Carola Cafarelli
Ricorso straordinario al Capo dello Stato – Forma - Audizione delle parti – Esclusione – Violazione art. 6 C.E.D.U. – Non viola.           L’art. 49, comma 1, r.d. n. 444 del 1942 – a mente del quale “gli affari sui quali è chiesto parere non possono essere discussi con l’intervento degli interessati o dei loro rappresentanti o consulenti” – non contrasta con l’art. 6 C.ED.U. alla luce della lettura che ne ha dato la giurisprudenza nazionale e la Corte EDU (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che la ‘giurisdizionalizzazione’ del ricorso straordinario al Capo dello Stato non determina la totale equiparabilità ai rimedi giurisdizionali in considerazione della specificità e della sommarietà della procedura originata dal ricorso straordinario, a confronto con quella disciplinata dal codice del processo amministrativo. L’equiparazione alla giurisdizione” non “può dirsi piena”, soprattutto con riferimento al modello di istruttoria previsto dal d.P.R. n. 1199 del 1971, che è basato sull'affidamento dell’indagine e dell’acquisizione degli atti rilevanti in capo alle strutture ministeriali, senza contraddittorio orale con le parti. Ha ancora ricordato la Sezione che anche la Corte Costituzionale - che già si era espressa nel senso che “al fine della verifica del rispetto del principio di pubblicità, occorre guardare alla procedura giudiziaria nazionale nel suo complesso: sicché, a condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, l’assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio di cui si tratta” (Corte cost. 11 marzo 2011 n. 80) - con la sentenza 9 febbraio 2018 n. 24 ha affrontato nuovamente e trasversalmente la questione dell’applicabilità delle regole convenzionali in tema di equo processo. Per la Corte “il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è, come noto, rimedio alternativo al ricorso giurisdizionale al giudice amministrativo, spettando al ricorrente di scegliere liberamente fra l’una e l’altra via, con l’unica conseguenza che una volta scelta una non è più possibile intraprendere l’altra, e salva restando naturalmente la facoltà dei controinteressati di chiedere la trasposizione in sede giurisdizionale del ricorso straordinario eventualmente prescelto dal ricorrente”. E “del resto, che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo si traggano conclusioni negative sulla riferibilità alla decisione del ricorso straordinario delle garanzie convenzionali in tema di equo processo è confermato dalle pronunce nelle quali la stessa Corte si è direttamente occupata di questo particolare rimedio. Ciò è avvenuto in tre occasioni, e in due delle quali proprio con specifico riferimento alla previsione dell’art. 6 della CEDU” (Corte cost., 9 febbraio 2018, n. 24).  Va, infatti, ricordato che nella decisione 28 settembre 1999, Nardella contro Italia, la Corte EDU ricostruisce la disciplina dell’istituto del ricorso straordinario come rimedio speciale ed esclude che esso – del ritardo nella cui decisione il ricorrente si doleva nel caso di specie – ricada nell’ambito di applicazione della Convenzione. Per la stessa ragione osserva che il ricorso al Presidente della Repubblica non rientra fra quelli che devono essere esperiti previamente al ricorso ex art. 35 della Convenzione stessa. Ciò premesso, nella pronuncia è sottolineato come, optando per il gravame speciale del ricorso straordinario, il ricorrente (che pure è stato informato della possibilità di proporre il ricorso giurisdizionale) sceglie esso stesso di esperire un rimedio che si pone fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 6 della Convenzione. Sulla base dei medesimi argomenti e richiamando il caso Nardella, nella decisione 31 marzo 2005, Nasalli Rocca contro Italia, la Corte EDU ha dichiarato irricevibile un ricorso proposto a essa dal ricorrente che aveva preventivamente esposto le sue ragioni in alcune lettere al Presidente della Repubblica. La Corte osserva che tali lettere, anche a volerle considerare equivalenti a un rimedio straordinario, non ricadono comunque nella sfera di applicazione dell’art. 35 della Convenzione. Particolarmente significativo è che alle stesse conclusioni la Corte di Strasburgo pervenga nella sentenza 2 aprile 2013, Tarantino e altri contro Italia, successiva quindi alla riforma del 2009, dove ribadisce che la parte ricorrente, «presentando un appello speciale al Presidente della Repubblica nel 2007, non ha avviato un procedimento contenzioso del tipo descritto all’articolo 6 della Convenzione (si veda Nardella c. Italia (dec.), n. 45814/99, CEDU 1999-VII, e Nasalli Rocca (dec.), sopra citata), e che, pertanto, la disposizione non è applicabile» (paragrafo 62). 
Ricorso straordinario al Capo dello Stato
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Condanna del finanziere e pena accessoria della rimozione
N. 00486/2020REG.PROV.COLL. N. 04068/2017 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4068 del 2017, proposto dal sig. -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Guglielmo Panucci, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Girolamo Oliviero De Sena Plunkett in Roma, via San Tommaso D’Aquino, 116; contro Ministero dell’economia e delle finanze – Comando generale della Guardia di finanza, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia – Milano - Sezione Terza, n-OMISSIS-, resa tra le parti, concernente la presa d’atto della cessazione dal servizio permanente nella Guardia di finanza a seguito di condanna alla pena accessoria della rimozione dal grado inflitta in sede penale. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Amministrazione intimata; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 dicembre 2019 il consigliere Luca Lamberti e uditi per le parti l’avvocato Guglielmo Panucci e l’avvocato dello Stato Maria Letizia Guida; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Oggetto del presente giudizio è la determinazione prot. n. 22718 del 15 aprile 2016, con cui il Comandante regionale della Lombardia della Guardia di finanza ha dato atto che il -OMISSIS-, già sospeso precauzionalmente dall’impiego a titolo discrezionale, è rimosso dal grado a decorrere dal 25 novembre 2015 con decorrenza, ai soli fini giuridici, dal 17 luglio 2010. Nel provvedimento si osserva che: - con determinazione del 16 luglio 2010 il Comandante interregionale dell’Italia Nord-Occidentale aveva adottato, nei confronti del-OMISSIS-, il provvedimento di sospensione precauzionale dall’impiego a titolo facoltativo con decorrenza 17 luglio 2010, in conseguenza della condanna penale inflitta al militare in primo grado per il reato di cui all’art. 317 c.p.; - in data 25 novembre 2015 era divenuta definitiva (a seguito di dichiarazione di inammissibilità del ricorso in Cassazione) la condanna penale alla pena della reclusione per anni 3 e mesi 8 per il reato di cui all’art. 319-quater c.p. (così riqualificata l’originaria imputazione), inflitta con la sentenza della Corte di appello di Milano in data 10 gennaio 2014; - con ordinanza in data 29 marzo 2016 la Corte di appello di Milano aveva corretto la citata sentenza del 10 gennaio 2014, applicando al condannato la pena accessoria della rimozione, non specificamente menzionata nel corpo della sentenza; - con istanza del 5 aprile 2016 la locale Procura generale aveva chiesto la correzione dell’errore materiale contenuto in siffatta ordinanza, consistente nell’indicazione della pena principale comminata, quantificata in anni 4 di reclusione anziché in anni 3 e mesi 8. Ritenendo che, “ai sensi dell’art. 130 c.p.p., la correzione delle ordinanze inficiate da errori od omissioni che non determinano nullità e la cui eliminazione non comporta una modificazione essenziale dell’atto è disposta, anche d’ufficio, dal giudice che ha emesso il provvedimento e che, pertanto, la richiamata ordinanza del 26 marzo 2016 non è affetta da nullità, continuando ad esplicare i propri effetti”, il Comandante regionale, a tenore dell’art. 867, commi 3 e 5, cod.ord.mil. e sulla base della delega di funzioni conferita dal Comandante generale del Corpo, ha dato atto dell’effetto giuridico della rimozione di diritto del -OMISSIS-a decorrere dal 25 novembre 2015, con decorrenza giuridica retrodatata all’inizio della sospensione precauzionale dall’impiego. Con coevo provvedimento prot. n. 227266 il Comandante regionale ha, altresì, disposto la chiusura del procedimento disciplinare di stato in corso nei confronti del-OMISSIS-, in considerazione del venire meno del requisito soggettivo dell’appartenenza al Corpo. 2. L’interessato ha impugnato i predetti provvedimenti (oltre agli altri connessi) avanti il T.a.r. per la Lombardia, chiedendone l’annullamento (con conseguente condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno) sulla scorta delle seguenti censure. a) In primo luogo, il ricorrente ha osservato che, ai sensi dell’art. 2149, comma 8, cod.ord.mil., “Fermo restando quanto previsto dall'articolo 866, per il personale del Corpo della Guardia di finanza la perdita del grado è disposta, previo giudizio disciplinare, in caso di condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici oppure una delle pene accessorie di cui all'articolo 19, primo comma, numeri 2) e 6), del codice penale”; l’art. 866, viceversa, stabilisce che “La perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue a condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all'articolo 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale”. Il ricorrente ha, pertanto, sostenuto che, di regola, il personale della Guardia di finanza possa essere rimosso dal grado solo a seguito di procedimento disciplinare, salvo il caso in cui la sentenza penale di condanna abbia, altresì, irrogato la sanzione accessoria della rimozione. Nel caso di specie, tuttavia, da un lato la sentenza della Corte di Appello del 10 gennaio 2014 non menzionava siffatta pena accessoria, dall’altro la successiva ordinanza del 29 marzo 2016 era oggetto sia di un procedimento di correzione di errore materiale radicato dalla locale Procura Generale, sia di impugnazione presso la Corte di cassazione formulata dal medesimo ricorrente. Ad avviso del ricorrente, tali procedimenti, ancora pendenti, impedirebbero di annettere valenza di giudicato all’ordinanza del 29 marzo 2016, con conseguente assenza del presupposto normativo cui è subordinato l’effetto ex lege della rimozione. b) In secondo luogo, il ricorrente ha lamentato che l’applicazione della rimozione senza previo procedimento disciplinare sarebbe contraria a pronunce della Corte costituzionale (si fa riferimento, in particolare, alla sentenza n. 363 del 30 ottobre 1996), al principio generale contenuto nell’art. 9 della l. n. 19 del 1990, nonché al disposto dell’art. 2149, comma 8, cod.ord.mil.; ove, tuttavia, tale ultima disposizione fosse interpretata come ammissiva della possibilità di disporre la rimozione senza previo giudizio disciplinare, il ricorrente ha dedotto questione di legittimità costituzionale per violazione degli articoli 3, 97, 52 e 117 (nonché anche 4, 24 e 35) della Costituzione. c) In terzo luogo, il ricorrente ha contestato la retrodatazione al 17 luglio 2010 degli effetti della rimozione, che, di contro, avrebbe dovuto decorrere “dal momento della notifica del provvedimento all’interessato o, a tutto concedere, dal momento del passaggio in giudicato della pena accessoria della rimozione”. d) In quarto luogo, il ricorrente ha lamentato l’illegittimità della sospensione, a decorrere dal mese di maggio 2016, del trattamento economico in godimento, in assenza “di alcun preventivo decreto ministeriale che avesse disposto la perdita del grado ovvero la cessazione permanente dall’impiego e dal diritto alla riscossione del relativo stipendio”. 3. Costituitasi in resistenza l’Amministrazione, con la sentenza indicata in epigrafe il T.a.r. ha respinto il ricorso, confutando tutte le censure ivi articolate. 4. Il-OMISSIS- ha interposto appello, riproponendo criticamente –attraverso l’articolazione di tre mezzi di gravame (da pagina 6 a pagina 18 del ricorso) - le censure di prime cure. Si è costituita l’Amministrazione. Il ricorso è stato trattato alla pubblica udienza del 12 dicembre 2019, in vista della quale le parti hanno versato in atti difese scritte. 5. Il ricorso in appello non merita accoglimento. 5.1. Il Collegio, preliminarmente, rileva la tardività della memoria depositata da parte ricorrente in data 29 novembre 2019, di cui, dunque, non si terrà conto. Ai sensi dell’art. 73 c.p.a., infatti, le parti possono versare in atti difese scritte “fino a trenta giorni liberi prima dell’udienza”: nella specie, detto termine scadeva in data 11 novembre 2019. Né il fatto che tale memoria contenga anche la nomina di nuovo difensore può legittimare la violazione dei termini processuali, difettando un’apposita norma che autorizzi una deroga di tal fatta. 5.2. Quanto al merito, il Collegio esamina direttamente il ricorso di primo grado - che, del resto, individua e perimetra ab origine l’oggetto del giudizio, ai sensi dell’art. 104 c.p.a. - ed evidenzia quanto segue, con riferimento all’ordine delle doglianze articolato nel ricorso di primo grado. 6. Premesso che il ricorrente non ha titolo per censurare, in questa sede, assunte violazioni procedimentali in tesi verificatesi nel corso del procedimento penale (i cui esiti e contenuti costituiscono un dato di fatto per l’Amministrazione prima e per il giudice amministrativo poi), il Collegio osserva che l’art. 2149, comma 8, cod.ord.mil. stabilisce che la perdita del grado, con riferimento al personale della Guardia di finanza, consegue, di regola, a procedimento disciplinare, “fermo restando quanto previsto dall'articolo 866”, ai sensi del quale, per quanto qui di interesse, “la perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue a condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione …”. Dal combinato disposto delle due norme, dunque, si trae che, nei particolari casi in cui un militare della Guardia di finanza sia attinto da una condanna penale definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o per delitto (comune) che comporti la pena accessoria della rimozione, l’effetto giuridico della rimozione si produca di pieno diritto, senza che sia necessario instaurare il procedimento disciplinare (o, eventualmente, proseguire il procedimento in precedenza già avviato). Come noto, la rimozione: - costituisce una pena militare accessoria (art. 24 c.p.m.p.); - “si applica a tutti i militari rivestiti di un grado appartenenti a una classe superiore all'ultima; è perpetua, priva il militare condannato del grado e lo fa discendere alla condizione di semplice soldato o di militare di ultima classe. La condanna alla reclusione militare, salvo che la legge disponga altrimenti, importa la rimozione quando è inflitta per durata superiore a tre anni” (art. 29 c.p.m.p); - di regola, “decorre, ad ogni effetto, dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile” (art. 34 c.p.m.p.). A tenore dell’art. 33 c.p.m.p. la rimozione, inter alia, si applica ex lege ai casi in cui la pena della reclusione cui sia stato condannato, in sede penale, il militare debba essere sostituita, in fase esecutiva, con la pena della reclusione militare. Nella vicenda di specie accade proprio questo: ai sensi dell’art. 63, n. 3, c.p.m.p., infatti, la condanna inflitta al ricorrente, militare in s.p.e., è sostituita di diritto con la condanna alla reclusione militare “per egual durata”, giacché la relativa misura (anni 3 e mesi 8) non importa, ai sensi dell’art. 29 c.p., l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, con conseguente inoperatività della più rigida previsione di cui all’art. 63, n. 2, c.p.m.p.. Il Collegio osserva, incidentalmente, che la rimozione (e le misure interdittive equiparabili), come ripetutamente affermato da questo Consiglio (cfr. da ultimo Sez. IV, ord. n. 1606 del 2016; Sez. VI, n. 389 del 2014; Sez. IV, n. 4292 del 2012; Sez. IV, n. 6437 del 2010) e come, del resto, riconosciuto dallo stesso ricorrente (cfr. atto di appello, pag. 7), proprio in quanto produce, quale effetto ineludibile, specifico e caratteristico, la perdita del grado, determina conseguentemente ed automaticamente, a valle, ai sensi dell’art. 923, comma 1, lett. i], cod.ord.mil., la cessazione del rapporto d’impiego. Del resto, la Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 268 del 2016), nel dichiarare costituzionalmente illegittimi gli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1, lettera i], cod.ord.mil. “nella parte in cui non prevedono l’instaurarsi del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici”, ha espressamente e specificamente valorizzato, a sostegno della decisione di accoglimento, il carattere “provvisorio e, quindi, tale da non escludere la prosecuzione del rapporto momentaneamente interrotto” proprio della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici. Vi sono, dunque, evidenti ragioni per ritenere il decisum della Corte non estensibile alle conseguenze delle pene accessorie di carattere perpetuo, quali l’interdizione perpetua dai pubblici uffici (art. 28 c.p.), l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego (art. 32-quinquies c.p.) e, appunto, la rimozione. Con specifico riferimento all’interdizione perpetua dai pubblici uffici ed all’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego, infatti, nell’arresto citato supra la Corte ha espressamente sostenuto, con argomentazioni perfettamente riferibili anche all’ipotesi della rimozione, che “solo eccezionalmente l’automatismo [della destituzione del militare] potrebbe essere giustificato: segnatamente quando la fattispecie penale abbia contenuto tale da essere radicalmente incompatibile con il rapporto di impiego o di servizio, come ad esempio quella sanzionata anche con la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici ex art. 28, secondo comma, cod. pen. (sentenze n. 286 del 1999 e n. 363 del 1996) o dell’estinzione del rapporto di impiego ex art. 32-quinquies c.p.. Queste ragioni di incompatibilità assoluta con la prosecuzione del rapporto di impiego – che giustifica l’automatismo destitutorio non come sanzione disciplinare, ma come effetto indiretto della pena già definitivamente inflitta – non sussiste in relazione all’interdizione temporanea dai pubblici uffici ex art. 28, terzo comma, cod. pen., connotata per definizione da un carattere provvisorio e, quindi, tale da non escludere la prosecuzione del rapporto momentaneamente interrotto”. Le esposte considerazioni consentono di ritenere superate le argomentazioni svolte nella precedente pronuncia della Corte costituzionale n. 363 del 1996, oltretutto riferite ad un corpus normativo frattanto abrogato. 7. Non vi sono, di converso, ragioni per sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 2149, comma 8, cod.ord.mil.. La disposizione, come visto, fa salvo “quanto previsto dall'articolo 866”: questa disposizione, a sua volta, fa riferimento a condanne per un reato che “comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all'articolo 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale”. Il riferimento, dunque, non è a condanne che esplicitamente irroghino, tra l’altro, la pena accessoria della rimozione, ma a condanne che “comportino”, di diritto, siffatta pena accessoria. In sostanza, la norma che si trae dall’articolo in commento dimostra chiaramente, tramite l’esposta scelta lessicale, di prescindere dal tenore letterale della sentenza di condanna e di guardare, viceversa, alle relative conseguenze in diritto. Del resto, in una più ampia visione sistemica, la rimozione, quale pena accessoria perpetua che opera ope legis, non ope judicis e che è predeterminata nella specie e nella durata, trova (recte, deve trovare) applicazione indipendentemente dalla relativa menzione nella sentenza di condanna. Calando tali considerazioni generali nella fattispecie di cui al presente giudizio, si ha che già all’indomani della sentenza della Cassazione del 25 novembre 2015, l’Amministrazione avrebbe potuto adottare il provvedimento ricognitivo della cessazione del rapporto d’impiego: la sentenza della Corte d’appello di Milano del 10 gennaio 2014, infatti, comportava ex lege la pena accessoria della rimozione. Tale conclusione è, per vero, confermata: - sia dall’ordinanza della Corte di appello di Milano del 29 marzo 2016, emessa con la procedura prevista per la correzione dell’errore materiale, ove si precisa che “è possibile procedere … in quanto la richiesta pena accessoria discende con assoluta automaticità dalla condanna irrevocabile”; - sia dalla successiva ordinanza emessa in data 28 novembre 2017, con le forme dell’incidente di esecuzione, dalla medesima Corte a definizione del giudizio di opposizione (così riqualificato dalla Corte di cassazione, con ordinanza del 16 marzo 2017, l’originario ricorso per cassazione radicato dall’odierno ricorrente), ove si sostiene che “quella richiesta (rimozione dal grado) è una pena accessoria, che a norma degli articoli 29, 33 e 63 del c.p.m.p. consegue di diritto ed in modo automatico alla condanna per il reato di cui all’art. 319-quater c.p. e che, ove sia stata omessa in sentenza dal giudice della cognizione, può essere disposta dal giudice dell’esecuzione nelle forme del relativo procedimento”. 8. La retrodatazione della decorrenza giuridica della cessazione del rapporto di impiego al momento della prima applicazione della misura della sospensione precauzionale dal servizio risponde al disposto della norma speciale di cui all’art. 867, comma 5, cod.ord.mil., ai sensi della quale “la perdita del grado decorre dalla data di cessazione dal servizio, ovvero, ai soli fini giuridici, dalla data di applicazione della sospensione precauzionale, se sotto tale data, risulta pendente un procedimento penale o disciplinare che si conclude successivamente con la perdita del grado, salvo che il militare sia stato riammesso in servizio”. Nella specie, osserva il Collegio, l’odierno ricorrente, per quanto agli atti, non è mai stato riammesso in servizio per tutto il periodo intercorrente tra la prima applicazione della misura precauzionale, disposta allorché era già pendente il procedimento penale a suo carico, e la definizione del giudizio penale stesso: ricorrono, quindi, gli estremi della disposizione in commento. 8.1. Non ha pregio, in senso contrario, l’osservazione del ricorrente, secondo cui la disposizione dell’art. 867, comma 5, cod.ord.mil. non troverebbe applicazione per il personale della Guardia di finanza, in quanto non richiamata nella versione dell’art. 2136 del medesimo codice vigente ratione temporis. Sul punto, il Collegio osserva che: a) in base al combinato disposto degli artt. 1, comma 2, cod.ord.mil. e 10, l. n. 189 del 1959, al personale della Guardia di finanza continuano ad applicarsi automaticamente tutte le disposizioni in materia di disciplina previste per gli appartenenti all’Esercito Italiano (e ciò per il carattere strutturalmente militare del Corpo e per la sua sottoposizione alla disciplina militare – cfr. Corte cost. n. 35 del 2000 e n. 30 del 1997); b) l’art. 2149, comma 8, cod.ord.mil. detta una disciplina di coordinamento che presuppone logicamente proprio l’applicazione, tra l’altro, anche dell’art. 867 cod.ord.mil. (sebbene non espressamente richiamato); c) la novella apportata dal d.lgs. n. 126 del 2018 (che ha incluso nell’art. 2136 il richiamo, tra l’altro, anche all’art. 867) non ha avuto valenza innovativa, ma semplicemente ricognitiva, in ossequio a ragioni di chiarezza e di qualità della regolazione; 8.2. Più in generale, del resto, il Collegio rileva altresì che: d) nel regime giuridico rilevante ai fini di causa (ossia quello intercorrente tra il t.u. n. 165 del 2001 e l’entrata in vigore del codice dell’ordinamento militare), al Comandante generale della Guardia di finanza spettavano compiti di gestione del personale, ivi incluso l’esercizio della potestà sanzionatoria (cfr. Cons. giust. amm., n. 435 del 2013); e) tale assetto è stato espressamente riconosciuto e confermato dai menzionati artt. 2135 e 2149 cod.ord.mil.; f) l’art. 1375 cod.ord.mil. (ai sensi del quale “la potestà sanzionatoria di stato compete al Ministro della difesa o autorità militare da lui delegata”) è applicabile (per espresso richiamo di cui alla lettera ee] dell’art. 2136, comma 1, cod.ord.mil.) al Corpo della Guardia di finanza ma, ovviamente, nei limiti derivanti dal combinato disposto dei su menzionati articoli 2135 e 2136, comma 3, cod.ord.mil.; g) il riparto delle competenze fra i vari livelli gerarchici del Corpo è operato, in materia di disciplina, dall’art. 2149 cod.ord.mil. (cfr., in particolare, il comma 4, che individua, per il personale diverso dagli ufficiali, la competenza del Comandante regionale). 9. In ordine, infine, all’interruzione del trattamento economico, è sufficiente evidenziare che, nella specie, il Comandante regionale ha agito nell’esercizio della delega rilasciata dal Comandante generale, nel rispetto delle norme che stabiliscono i criteri di gestione del personale sopra illustrate e, in particolare, in applicazione del principio di delegabilità delle funzioni in materia disciplinare, sancito dal menzionato art. 1375 cod.ord.mil. (sulla legittimità della delega dal Ministro ai vertici delle Forze armate, anche prima dell’entrata in vigore del codice dell’ordinamento militare, cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 1213 del 2007). 10. Per le esposte ragioni, dunque, il ricorso deve essere respinto con l’onere delle spese, liquidate come in dispositivo in base ai criteri stabiliti dal regolamento n. 55 del 2014 e dall’art. 26, comma 1, c.p.a. 10.1. In proposito, il Collegio osserva che la pronuncia si basa su ragioni manifeste, sì che risultano integrati i presupposti applicativi dell’art. 26, comma 1, c.p.a., secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. IV, nn. 1117 e 1186 del 2018; Sez. IV, 24 maggio 2016, n. 2200; Cass. civ., Sez. VI, 2 novembre 2016, n. 2215, cui si rinvia ai sensi dell’art. 88, comma 2, lettera d], c.p.a. anche in ordine alle modalità applicative ed alla determinazione della misura indennitaria). P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna l’appellante a rifondere all’Amministrazione appellata le spese di lite del grado, liquidate in complessivi € 5.000,00. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le persone citate nel presente provvedimento. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 dicembre 2019 con l'intervento dei magistrati: Vito Poli, Presidente Luca Lamberti, Consigliere, Estensore Nicola D'Angelo, Consigliere Silvia Martino, Consigliere Giuseppa Carluccio, Consigliere Vito Poli, Presidente Luca Lamberti, Consigliere, Estensore Nicola D'Angelo, Consigliere Silvia Martino, Consigliere Giuseppa Carluccio, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Militari, forze armate e di polizia – Guardia di finanza - Condanna penale definitiva non sospesa – Pena accessoria della rimozione – Effetti Ai sensi degli artt. 866 e 2149, comma 8, cod. mil., applicabile anche al Corpo della Guardia di finanza, nei casi in cui un militare della Guardia di finanza sia attinto da una condanna penale definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o per delitto (comune) che comporti la pena accessoria della rimozione, l’effetto giuridico della rimozione si produca di pieno diritto, senza che sia necessario instaurare il procedimento disciplinare o, eventualmente, proseguire il procedimento in precedenza già avviato (1). (1) Ha ricordato la Sezione che la rimozione: - costituisce una pena militare accessoria (art. 24 c.p.m.p.); - “si applica a tutti i militari rivestiti di un grado appartenenti a una classe superiore all'ultima; è perpetua, priva il militare condannato del grado e lo fa discendere alla condizione di semplice soldato o di militare di ultima classe. La condanna alla reclusione militare, salvo che la legge disponga altrimenti, importa la rimozione quando è inflitta per durata superiore a tre anni” (art. 29 c.p.m.p); - di regola, “decorre, ad ogni effetto, dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile” (art. 34 c.p.m.p.). A tenore dell’art. 33 c.p.m.p. la rimozione, inter alia, si applica ex lege ai casi in cui la pena della reclusione cui sia stato condannato, in sede penale, il militare debba essere sostituita, in fase esecutiva, con la pena della reclusione militare. Nella vicenda di specie accade proprio questo: ai sensi dell’art. 63, n. 3, c.p.m.p., infatti, la condanna inflitta al ricorrente, militare in s.p.e., è sostituita di diritto con la condanna alla reclusione militare “per egual durata”, giacché la relativa misura (anni 3 e mesi 8) non importa, ai sensi dell’art. 29 c.p., l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, con conseguente inoperatività della più rigida previsione di cui all’art. 63, n. 2, c.p.m.p.. La Sezione osserva, incidentalmente, che la rimozione (e le misure interdittive equiparabili), come ripetutamente affermato da questo Consiglio (cfr. da ultimo Sez. IV, ord. n. 1606 del 2016; Sez. VI, n. 389 del 2014; Sez. IV, n. 4292 del 2012; Sez. IV, n. 6437 del 2010) e, proprio in quanto produce, quale effetto ineludibile, specifico e caratteristico, la perdita del grado, determina conseguentemente ed automaticamente, a valle, ai sensi dell’art. 923, comma 1, lett. i], cod.ord.mil., la cessazione del rapporto d’impiego. Del resto, la Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 268 del 2016), nel dichiarare costituzionalmente illegittimi gli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1, lettera i], cod.ord.mil. “nella parte in cui non prevedono l’instaurarsi del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici”, ha espressamente e specificamente valorizzato, a sostegno della decisione di accoglimento, il carattere “provvisorio e, quindi, tale da non escludere la prosecuzione del rapporto momentaneamente interrotto” proprio della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici. Vi sono, dunque, evidenti ragioni per ritenere il decisum della Corte non estensibile alle conseguenze delle pene accessorie di carattere perpetuo, quali l’interdizione perpetua dai pubblici uffici (art. 28 c.p.), l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego (art. 32-quinquies c.p.) e, appunto, la rimozione. Con specifico riferimento all’interdizione perpetua dai pubblici uffici ed all’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego, infatti, nell’arresto citato supra la Corte ha espressamente sostenuto, con argomentazioni perfettamente riferibili anche all’ipotesi della rimozione, che “solo eccezionalmente l’automatismo [della destituzione del militare] potrebbe essere giustificato: segnatamente quando la fattispecie penale abbia contenuto tale da essere radicalmente incompatibile con il rapporto di impiego o di servizio, come ad esempio quella sanzionata anche con la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici ex art. 28, secondo comma, cod. pen. (sentenze n. 286 del 1999 e n. 363 del 1996) o dell’estinzione del rapporto di impiego ex art. 32-quinquies c.p.. Queste ragioni di incompatibilità assoluta con la prosecuzione del rapporto di impiego – che giustifica l’automatismo destitutorio non come sanzione disciplinare, ma come effetto indiretto della pena già definitivamente inflitta – non sussiste in relazione all’interdizione temporanea dai pubblici uffici ex art. 28, terzo comma, cod. pen., connotata per definizione da un carattere provvisorio e, quindi, tale da non escludere la prosecuzione del rapporto momentaneamente interrotto”. Le esposte considerazioni consentono di ritenere superate le argomentazioni svolte nella precedente pronuncia della Corte costituzionale n. 363 del 1996, oltretutto riferite ad un corpus normativo frattanto abrogato. La Sezione ha escluso che ci siano ragioni per sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 2149, comma 8, cod.ord.mil.. La disposizione, come visto, fa salvo “quanto previsto dall'articolo 866”: questa disposizione, a sua volta, fa riferimento a condanne per un reato che “comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all'articolo 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale”. Il riferimento, dunque, non è a condanne che esplicitamente irroghino, tra l’altro, la pena accessoria della rimozione, ma a condanne che “comportino”, di diritto, siffatta pena accessoria. In sostanza, la norma che si trae dall’articolo in commento dimostra chiaramente, tramite l’esposta scelta lessicale, di prescindere dal tenore letterale della sentenza di condanna e di guardare, viceversa, alle relative conseguenze in diritto. Del resto, in una più ampia visione sistemica, la rimozione, quale pena accessoria perpetua che opera ope legis, non ope judicis e che è predeterminata nella specie e nella durata, trova (recte, deve trovare) applicazione indipendentemente dalla relativa menzione nella sentenza di condanna. Calando tali considerazioni generali nella fattispecie di cui al presente giudizio, si ha che già all’indomani della sentenza della Cassazione del 25 novembre 2015, l’Amministrazione avrebbe potuto adottare il provvedimento ricognitivo della cessazione del rapporto d’impiego: la sentenza della Corte d’appello di Milano del 10 gennaio 2014, infatti, comportava ex lege la pena accessoria della rimozione. Tale conclusione è, per vero, confermata: - sia dall’ordinanza della Corte di appello di Milano del 29 marzo 2016, emessa con la procedura prevista per la correzione dell’errore materiale, ove si precisa che “è possibile procedere … in quanto la richiesta pena accessoria discende con assoluta automaticità dalla condanna irrevocabile”; - sia dalla successiva ordinanza emessa in data 28 novembre 2017, con le forme dell’incidente di esecuzione, dalla medesima Corte a definizione del giudizio di opposizione (così riqualificato dalla Corte di cassazione, con ordinanza del 16 marzo 2017, l’originario ricorso per cassazione radicato dall’odierno ricorrente), ove si sostiene che “quella richiesta (rimozione dal grado) è una pena accessoria, che a norma degli articoli 29, 33 e 63 del c.p.m.p. consegue di diritto ed in modo automatico alla condanna per il reato di cui all’art. 319-quater c.p. e che, ove sia stata omessa in sentenza dal giudice della cognizione, può essere disposta dal giudice dell’esecuzione nelle forme del relativo procedimento”. La retrodatazione della decorrenza giuridica della cessazione del rapporto di impiego al momento della prima applicazione della misura della sospensione precauzionale dal servizio risponde al disposto della norma speciale di cui all’art. 867, comma 5, cod.ord.mil., ai sensi della quale “la perdita del grado decorre dalla data di cessazione dal servizio, ovvero, ai soli fini giuridici, dalla data di applicazione della sospensione precauzionale, se sotto tale data, risulta pendente un procedimento penale o disciplinare che si conclude successivamente con la perdita del grado, salvo che il militare sia stato riammesso in servizio”.
Militari, forze armate e di polizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/localizzazione-di-impianti-di-distribuzione-carburanti
Localizzazione di impianti di distribuzione carburanti
N. 02696/2022REG.PROV.COLL. N. 07652/2017 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7652 del 2017, proposto dalla società Auchan S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Paolo Giovanni Borghi, Marco Sica, Mariano Protto, con domicilio eletto presso lo studio Mariano Protto in Roma, via Cicerone 44; contro Comune di Nerviano, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituito nel giudizio di riassunzione; Città Metropolitana di Milano, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, (sezione seconda), n. 686 del 17 gennaio 2017, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Nerviano; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 marzo 2022 il consigliere Giuseppe Rotondo; udito per la parte appellante l’avvocato Giovanni Corbyons su delega dichiarata di Paolo Giovanni Borghi; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con ricorso n.r.g. 2884/2015, la Società AUCHAN s.p.a. impugnava innanzi al Tar per la Lombardia, in uno con gli atti presupposti, la nota del Comune di Nerviano, prot. n. 27208, in data 30 settembre 2015, avente ad oggetto, “Comunicazione ai sensi dell’art. 88, comma 1 della L.R. 6/2010 e s.m.i. – Impianto di distribuzione carburanti ubicato in Viale De Gasperi, s.n.c. – Diniego”, con la quale si rendeva noto che “non è possibile rilasciare il permesso di costruire di cui all’istanza del 20 maggio 2015 pervenuta il 21.05.2015 prot. 13479”. 2. Il diniego, emanato dopo l’esame delle osservazioni sul preavviso di rigetto, veniva anticipato dai seguenti motivi ostativi: -“l'area interessata dall'intervento in progetto non ricade tra quelle individuate dall'art. 45 delle Norme di Attuazione del vigente Piano di Governo del Territorio, costituente localizzazione effettuata in ossequio alle disposizioni regionali vigenti in materia; ne consegue che l'intervento proposto risulta in contrasto con quanto ulteriormente specificato all'art. 51 comma 5 delle stesse Norme di Attuazione; - in capo alla Società richiedente, non essendo la stessa titolare dell'autorizzazione relativa all'impianto esistente, non sussiste il titolo per chiederne l'ampliamento; - contrariamente a quanto indicato nella richiesta in esame, anche in funzione di quanto evidenziato al punto 2), l'intervento non costituisce ristrutturazione totale dell'impianto esistente, non rilevando dagli elaborati grafici di progetto la fattispecie di cui all'art. 82, comma 1 lett. I) della L.R. 6/2010 e s.m.i.: "ristrutturazione totale dell'impianto: il completo rifacimento dell'impianto così come definito alla lettera c) comprendente la totale sostituzione o il riposizionamento delle attrezzature petrolifere" né un impianto ad uso privato”. 3. Seguiva il diniego definitivo: “Punto 1 - - ciò che viene definito "potenziamento" dell'impianto di distribuzione carburanti, è sostanzialmente un ampliamento dello stesso impianto mediante la realizzazione di nuove costruzioni/manufatti che, conseguentemente, devono necessariamente rispettare le prescrizioni del vigente Piano di Governo del Territorio. - vengono fatte diverse puntualizzazioni sulla possibilità/necessità di prevedere attività accessorie e complementari seppur l'ammissibilità delle stesse con riferimento alle specifiche destinazioni d'uso non sia stato oggetto dei motivi ostativi della suddetta nota del 19.06.2015 prot. 16805, non essendo stato ritenuto l'intervento nel suo complesso assentibile poiché in contrasto con il già citato PGT. Al riguardo si fa comunque rilevare che anche qualora tali edifici accessori fossero stati ritenuti compatibili con le norme comunali, le relative dimensioni risultano oltre i limiti di cui all'art 45 delle Norme di Attuazione (determinati in ossequio alle disposizioni regionali); - contrariamente a quanto osservato il potere pianificatorio è stato esercitato nel rispetto delle disposizioni regionali vigenti in materia di distribuzione carburanti. Le disposizioni contenute nell'art. 45 delle Norme di Attuazione del vigente PGT sono il risultato di un'analisi della rete distributiva esistente, riportata nel quadro conoscitivo (elaborato 01- Relazione illustrativa del Quadro Conoscitivo) e richiamata nel nell'elaborato R1 Relazione illustrativa del Piano delle Regole Pertanto si conferma la non ammissibilità dell'intervento in progetto, non ricadendo l'area interessata tra quelle individuate dall'art. 45 delle Norme di Attuazione del vigente Piano di Governo del Territorio, costituente localizzazione effettuata in ossequio alle disposizioni regionali vigenti in materia; ne consegue che l'intervento proposto risulta in contrasto con quanto ulteriormente specificato all'art. 51 delle stesse Norme di Attuazione. Punto 2 - pur prendendo atto di quanto puntualizzato, si rileva che dal contratto di affitto in essere non si evince l'autorizzazione ad Auchan S.p.A. a richiedere ed ottenere titoli abilitativi relativi alla tipologia delle opere in progetto, oltre a non risultare l'area interessata dalle stesse oggetto di tale contratto”. 4. Proponeva ricorso la Ditta, articolando 12 autonomi motivi (da pagina 8 a pagina 37 del ricorso di primo grado). 5. Si costituiva il Comune di Nerviano, per resistere al ricorso. 6. Il T.a.r. per la Lombardia, sez. II, con sentenza n. 686 del 22 marzo 2017 – i) respingeva il primo motivo del ricorso incentrato sulla asserita formazione del silenzio assenso sulla originaria istanza di permesso di costruire; ii) esaminava e disattendeva le tre censure articolate nel secondo motivo di ricorso, negando con dovizia di argomenti: la configurabilità della violazione dell’art. 10 bis l. n. 241 del 1990, la genericità della motivazione del diniego, la possibilità di accogliere parzialmente l’istanza di permesso di costruire; iii) respingeva, sempre con dovizia di argomenti, il decimo e dodicesimo motivo incentrati sulla illegittimità dell’art. 45 n.t.a. e sulla inapplicabilità dell’art. 86, l.r. n. 6 del 2010, singulatim, ovvero in sede di rilascio del singolo titolo edilizio, invece che in sede di pianificazione, e quindi nell’ambito del suo recepimento all’interno dello strumento urbanistico generale; iv) assorbiva l’esame degli ulteriori motivi (facendo corretta applicazione dei principi elaborati dalla Adunanza plenaria n. 5 del 2015, § 9.3.4.3, in relazione al c.d. assorbimento per ragioni di economia processuale); v) compensava fra le parti le spese di lite. 7. Ha proposto appello la ditta, sviluppando quattro autonomi mezzi di gravame per contrastare i capi sfavorevoli (da pagina 9 a pagina 21 dell’appello); con il quinto mezzo sono stati espressamente riproposti i motivi assorbiti in prime cure 8. Si è costituito il Comune per resistere. 9. A seguito del decesso dell’unico difensore dell’ente (avvenuto in data 30 gennaio 2021 e comunicato in data 26 settembre 2021), il giudizio è stato prima interrotto (con decreto n. 1768 del 12 ottobre 2021) e poi riassunto con atto notificato dalla ditta in data 18 dicembre 2021 a cura della ditta Margherita distribuzione s.p.a. (nuova denominazione della società Auchan) 10. La ditta ha presentato memoria difensiva il 14 febbraio 2022. 11. All’udienza del 17 marzo 2022, l’appello viene trattenuto per la decisione. DIRITTO 12. Preliminarmente, il Collegio dà atto che, a seguito della proposizione dell’appello, è riemerso l’intero thema decidendum del giudizio di primo grado – che perimetra necessariamente il processo di appello ex art. 104 c.p.a. – sicchè, per ragioni di economia dei mezzi processuali e semplicità espositiva, secondo la logica affermata dalla decisione della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 5 del 2015, verranno presi direttamente in esame gli originari motivi posti a sostegno del ricorso introduttivo (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, n. 1137 del 2020). 13. L’appello è infondato. 14. L’oggetto del giudizio involge: i) la determinazione del Comune di Nerviano – prot. n. 27208 del 30 settembre 2015, recante il rigetto della domanda di permesso di costruire presentata, in data 20 maggio 2015, dalla ditta Auchan s.p.a. (successivamente Margherita distribuzione s.p.a.), per ottenere l’ampliamento dell’impianto di distribuzione di carburanti ubicato in viale De Gasperi s.n.c.; ii) gli artt. 45 e 51 delle n.t.a. del Piano di governo del territorio (PGT), approvato con deliberazione comunale n. 13 del 6 aprile 2010. 15. Con il primo motivo, la Società sostiene che si sarebbe formato il silenzio-assenso sulla domanda di rilascio del permesso di costruire. Segnatamente, dovrebbe escludersi “recisamente che la notifica del preavviso faccia ri-decorrere integralmente il termine” di conclusione del procedimento. 16. Il motivo è infondato. 17.La previsione di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 – nel testo ratione temporis vigente - secondo cui la comunicazione del preavviso di rigetto “interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo” è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza amministrativa nel senso che il termine di conclusione del procedimento debba ritenersi interrotto per effetto della comunicazione del preavviso di rigetto, con la conseguenza che esso riprende a decorrere ex novo, e non solo per la parte non consumata, dal momento in cui vengono presentate le osservazioni di parte ovvero dalla inutile scadenza del termine per la loro produzione. 17.1. L’effetto interruttivo segnava, infatti, un preciso limite all’attività del responsabile del procedimento che doveva necessariamente attenersi alla ripresa dei termini iniziali, ciò in quanto l’interruzione dei termini era riferita, non già alla presentazione delle osservazioni bensì, alla comunicazione del diniego; tale comunicazione si poneva, pertanto, come il momento centrale del nuovo sub procedimento che veniva a incardinarsi per effetto della determinazione volta a respingere la richiesta dell’istante. 17.2. Tale la ratio, la norma costituiva - nello schema ordinamentale previgente la novella introdotta nel 2020 ad opera dell'art. 12, comma 1, lett. e) del d.l. 16 luglio 2020, n. 76 – l’opportuno, e perciò plausibile sul piano della ragionevolezza, contemperamento operato dal legislatore tra la funzione garantista, assicurata dal pieno contraddittorio, e quella acceleratoria rappresentata dalla necessità di assicurare tempi certi e celeri alla definizione del procedimento. 17.3. Depone, in tal senso, anche il senso letterale della disposizione in esame, ove messa a confronto con il testo di recente novellato. 17.4. L’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, nel testo ratione temporis vigente, recitava al comma 1, terzo periodo, che “la comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni …”. 17.5. Il nuovo periodo del comma 1, così recita: “La comunicazione di cui al primo periodo sospende i termini di conclusione dei procedimenti, che ricominciano a decorrere dieci giorni dopo la presentazione delle osservazioni o, in mancanza delle stesse, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo”. La locuzione “ricominciano a decorrere” segna chiaramente il tratto di continuità temporale tra il periodo già decorso e quello successivo; laddove la locuzione “iniziano nuovamente a decorrere” indica(va) una cesura temporale tra i medesimi. 18. Consegue a tanto, che il provvedimento, tenuto conto dell’effetto interruttivo (e non sospensivo) indicato dalla norma, è stato correttamente adottato nel termine di conclusione del procedimento. 19. Con il secondo motivo di gravame, la Società ha lamentato ulteriore violazione del più volte menzionato art. 10-bis, sotto il profilo della carenza di motivazione: solo con il diniego impugnato e non nel preavviso di rigetto, il Comune avrebbe rilevato che “anche qualora tali edifici accessori fossero stati ritenuti compatibili con le norme comunali, le relative dimensioni risultano oltre i limiti di cui all’art 45 delle Norme di Attuazione (determinati in ossequio alle disposizioni regionali)”; né il Comune avrebbe indicato per quali servizi accessori e in che misura i suddetti limiti dimensionali sarebbero stati superati; in ogni caso, la domanda avrebbe dovuto essere accolta quanto meno con riferimento ai servizi accessori che non utilizzano indici edificatori e all’aggiunta del prodotto GPL. 20. Le censure sono infondate. 21. Il permesso di costruire richiesto dalla Società sconta, nella particolarità della fattispecie, la mera verifica circa la sussistenza in concreto dei presupposti indicati in astratto dalla fonte paradigmatica di riferimento. 22. Trattandosi di attività vincolata trova applicazione l’art. 21-octies, comma 1, primo periodo, della legge n. 241 del 1990 ai sensi del quale “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. 23. Nel caso di specie, osta al rilascio del titolo l’articolo 45 delle N.T.A. del P.G.T. 23.1. Tale disposizione stabilisce, al comma 5 che, per tutti gli impianti di distribuzione carburanti da realizzarsi sul territorio comunale, debbono essere rispettati i seguenti indici: a) slp per servizi accessori all’utente minore o uguale a 150 mq. per ogni impianto; b) RC minore o uguale al 50%, riferito a edifici, pensiline e altre strutture fisse; c) H minore o uguale 4,50 m riferita agli edifici; d) altezza massima minore o uguale a 5,00 m riferita all’intradosso delle pensiline. 23.2. La norma in esame è chiara nel suo tenore dispositivo e testuale; sarebbe bastato alla Società operare il mero raffronto tra le prescrizioni urbanistiche e il proprio progetto per avvedersi che l’intervento programmato contrastava con la norma regolatrice della fattispecie, nel senso della non piena sovrapponibilità della fattispecie concreta a quella astratta contemplata nell’atto fonte. 23.3. Sul punto, la Società ha chiarito che “l’autolavaggio rispetta incontestabilmente tutti gli indici posti dalla norma”; non altrettanto risulta con riguardo all’autofficina e al superamento dei limiti dimensionali di 150 mq. 24. L’appellante sostiene, che, ad ogni modo e comunque, la domanda avrebbe dovuto essere accolta quanto meno con riferimento ai servizi accessori che non utilizzano indici edificatori e all’aggiunta del prodotto GPL. 25. La censura è infondata. 26. La sussistenza delle condizioni e presupposti stabiliti in astratto dalla norma deve riguardare l’integralità della domanda, dunque il complessivo contenuto del provvedimento richiesto, non potendosi ipotizzare formazioni “parziali” del provvedimento amministrativo, a fortiori ove si fosse trattato di silenzio-assenso (Cons. Stato, sez. IV, n. 3805/2016). 27. Con il terzo motivo di appello, la Società lamenta l’omesso esame del terzo motivo originario in cui è stata dedotta la inapplicabilità alla fattispecie delle n.t.a. 28. Il motivo è inammissibile oltre che infondato. 28.1. L’inammissibilità rileva a cagione del fatto che il motivo è basato sull’errato presupposto che (i) il progetto sia conforme alla legge regionale n. 6 del 2010: censura tuttavia apodittica, non essendovi in merito alcuna prova; (ii) gli artt. 45 e 51 n.t.a ammettano il potenziamento di impianti preesistenti al di fuori degli ambiti a ciò preposti: circostanza smentita per tabulas al punto 5, primo periodo, dell’art. 45 delle n.t.a. 28.2. L’infondatezza riposa sulla considerazione che il progetto presentato dalla Società non può essere annoverato come mero “potenziamento” dell’impianto di carburante esistente. L’intervento contempla, invero, la realizzazione di nuovi manufatti che ne modificano, in senso aggiuntivo, l’offerta mediante la costruzione di autofficina e autolavaggio. 29. Se, dunque, se ne può condividere la qualificazione in termini di “potenziamento” avuto riguardo alla installazione di impianti per l’erogazione di prodotti GPL, trattandosi di implementare il medesimo servizio principale (carburanti), non altrettanto è consentito fare con riferimento a costruzioni nuove con destinazione diversa da quella principale. 30. Il progetto, pertanto, correttamente è stato esaminato alla luce delle prescrizioni recate dal nuovo P.G.T., trattandosi di nuovi impianti insediativi, diversi per funzione da quello principale (distribuzione carburante). 31. Con il quarto motivo di appello (corrispondente al decimo motivo del ricorso introduttivo), la Società avversa la sentenza laddove questa non avrebbe colto il “fulcro” delle censure relative alla “fissazione di un limite di superficie fisso pari a 150 mq”. 32. Il motivo verrà trattato più avanti, per ragioni di economia. 33. Con il quinto motivo di appello, la Società ripropone i motivi dati per assorbiti in primo grado dal T.a.r., nn. 4- 5-6-7-8-9-11. 34. Con il quarto motivo del ricorso introduttivo, la Società ha lamentato la violazione delle disposizioni normative in tema di concorrenza e liberalizzazione degli impianti, circa la loro localizzazione. 34.1. L’art. 45 delle NTA si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 32 del 1998, secondo cui gli impianti di distribuzione carburanti devono ritenersi, in linea di principio, compatibili con qualsiasi destinazione urbanistica. 35. Il motivo è infondato. 35.1. L’art. 2 comma 1-bis, del d.lgs. n. 32 del 1998, si limita a prevedere la compatibilità funzionale degli impianti di carburante con le diverse parti del territorio comunale, ad eccezione di quelle comprese in zona territoriale omogenea A ovvero soggette a particolari vincoli paesaggistici, ambientali o monumentali, con l'effetto che essi non devono di necessità essere collocati in zona territoriale omogenea a destinazione industriale; rimane comunque salva la potestà comunale di individuare le caratteristiche delle aree sulle quali possono essere realizzati tali impianti. 35.2. Il d.lgs. n. 32/1998 configura un potere conformativo della rete distributiva dei carburanti particolare rispetto all’ambito esclusivamente urbanistico, affidando ai Comuni il compito di definire i criteri, requisiti e caratteristiche delle aree su cui possono essere istallati gli impianti di distribuzione carburanti, con un apposito atto di raccordo con la disciplina urbanistica, in modo da consentire la razionalizzazione della rete di distribuzione e la semplificazione del procedimento di autorizzazione di nuovi impianti su aree private. 35.3. Il significato della norma è quello secondo cui è in facoltà degli enti locali consentire, in sede di pianificazione della rete, la localizzazione dei nuovi impianti anche nelle zone del P.R.G. soggette a diversa destinazione, purché non sottoposte a particolari vincoli. 35.4. In tal senso, anche la legislazione concorrente regionale. 35.5. La legge regionale Lombardia 2 febbraio 2010, n. 6 (Testo unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere), disciplina, al Capo IV, la “vendita dei carburanti per uso di autotrazione”. 35.6. L’art. 82, lett. j), stabilisce che “Ai fini dell'applicazione del presente capo e dei provvedimenti attuativi di cui all'articolo 83 si intende per (…) servizi accessori all'utente: servizi di erogazione e controllo aria ed acqua, servizi di lubrificazione, officina leggera, elettrauto, gommista, autolavaggio (…)”. 35.7. Il successivo articolo 85 regola le “Competenze dei comuni” e stabilisce che “I comuni esercitano le funzioni amministrative concernenti: (…) ) la definizione del piano urbanistico di localizzazione degli impianti stradali di distribuzione di carburanti di cui all'articolo 86, comma 2”. 35.8. L’art. 86 (Localizzazione impianti) dispone che “I comuni individuano i criteri di inquadramento territoriale, i requisiti e le caratteristiche urbanistiche delle aree private sulle quali possono essere installati i nuovi impianti di distribuzione carburanti, o realizzate le ristrutturazioni totali degli impianti esistenti, anche in relazione ad attività commerciali integrative. Contestualmente i comuni stabiliscono le norme applicabili a tali aree, comprese quelle sulle dimensioni delle superfici edificabili, in presenza delle quali i comuni stessi sono tenuti a rilasciare il permesso di costruire per la realizzazione dell'impianto”. 36. Il Comune di Nerviano, in sede di adozione del P.G.T., ha esercitato, agli artt. 45 e 51 delle N.T.A., il potere di pianificazione e localizzazione dei nuovi impianti di distribuzione carburanti, anche in relazione ad attività commerciali integrative, individuando le zone di localizzazione degli impianti. 37. Le norme sulla localizzazione costituiscono il risultano della analisi della rete distributiva esistente, che l’Amministrazione indica come “riportata nel quadro conoscitivo (elaborato Q1 – Relazione illustrativa del Quadro Conoscitivo) e richiamata nell’elaborato R1 relazione illustrativa del Piano delle Regole”. 38. Le relative previsioni pianificatorie, frutto di una analisi della rete distributiva, confluite nell’apposito elaborato allegato al Piano delle Regole, facente parte del P.G.T. comunale, peraltro non specificamente avversate quanto all’analisi condotta e alle valutazioni ivi svolte, supportano congruamente le divisate decisioni urbanistiche. 39. Ne consegue che, correttamente il divieto opposto al progetto nella sua unicità, prevedendo come sopra anticipato nuove costruzioni, e non trattandosi di un mero potenziamento dell’impianto esistente (mediante la sola installazione di colonnine GPL), ha scontato la previa verifica di (in)compatibilità con la localizzazione programmata dal Piano. 40. Le ragioni sottese alla infondatezza del motivo appena esaminato, valgono anche a confutazione del settimo, ottavo e decimo motivo del ricorso introduttivo, coi quali la società ricorrente ha dedotto violazione degli artt. 85, 86 e 87-ter della legge regionale n. 6 del 2010, dovendosi riscontrare la competenza del Comune in materia di localizzazione degli impianti, nei limiti e nel rispetto delle analisi, valutazioni e pianificazioni sopra evidenziate. In particolare, quanto al decimo motivo del ricorso introduttivo, a mezzo del quale la Società ha lamentato l’illegittimità della “fissazione di un limite di superficie fisso pari a 150 mq” per le attività di cui all’art. 82, comma 1, lett. j), l.r. 6/2010, lo stesso si disvela anche inammissibile per carenza di interesse in quanto, assodato che la localizzazione delle attività è stata legittimamente pianificata dal Comune sulla base delle fonti regionali e nazionali, nessun giovamento ne potrebbe trarre la Società da un suo eventuale accoglimento stante la “Destinazione vietata –Carburanti”. 41. Con il motivo n. 9 del ricorso di primo grado, la Società ha lamentato la violazione delle norme euro-unitarie e nazionali in tema di concorrenza e liberalizzazione (direttiva 2006/123/CE, c.d. Bolkestein). 42. Il motivo è infondato. 43. Gli atti impugnati per nulla impediscono il libero accesso al mercato da parte degli operatori, atteso che non introducono forme di discriminazione basate sull’appartenenza territoriale o su rendite di posizioni; né limitano la libertà di circolazione dei servizi o di stabilimento. 44. La rete distributiva degli impianti di carburante, programmata dal Comune all’esito delle analisi ed elaborazioni di settore, risponde, infatti, alla diversa e legittima logica di pianificazione del territorio, in vista di un razionale assetto delle misure di sfruttamento del medesimo. 45. In tema di violazione della disciplina del commercio e, più in generale, sui limiti opponibili alle liberalizzazioni in materia di commercio, il Collegio richiama la propria giurisprudenza (Cons. Stato, sez. IV, sentenza 4 maggio 2017, n. 2026), secondo cui “È legittimo il provvedimento con cui il Comune decide di non dare seguito al progetto di insediamento di un parco commerciale in una certa zona, ove il diniego prescinda del tutto da valutazioni estrinseche di natura prettamente economica o commerciale, ma dipenda da limiti imposti dagli atti della pianificazione urbanistica, compatibili rispetto agli obiettivi di tutela del territorio e dell’ambiente, ivi compreso quello urbano (nella specie, l’ente locale aveva già previsto, nell’ambito del territorio comunale, in rapporto al tessuto urbano e insediativo, altra area deputata a ospitare le dette strutture di vendita)”; in particolare, secondo questa decisione (in senso analogo Cons. Stato, sez. V, 13 gennaio 2014, n. 70): i) va riconosciuta l’esigenza di operare un ponderato bilanciamento tra il diritto ad aprire nuovi esercizi commerciali e i valori sottesi alle scelte effettuate in sede di pianificazione urbanistica relativamente all’insediamento delle strutture produttive e commerciali; ii) pur in base a tale premessa, vanno tuttavia valorizzati i motivi imperativi di interesse generale che, nel caso di specie, si ponevano a fondamento dell’imposizione di vincoli di natura urbanistica; segnatamente, tali vincoli apparivano in linea con il perseguimento degli obiettivi di garantire la protezione dell’ambiente e assicurare la razionale gestione del territorio; iii) siffatti motivi di interesse generale sono puntualmente evidenziati dall’art. 31 del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito in legge n. 214 del 2011, e, come si evince dalla giurisprudenza costituzionale, sono funzionali a far sì che il venir meno degli ostacoli al libero esercizio dell’attività economica, che si rivelino inutili o sproporzionati, non travolga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale (cfr. Corte cost., n. 39 del 2016); con l’avvertenza finale che per potersi configurare una situazione di contrasto con la disciplina anticoncorrenziale è necessario provare la volontà di alterare maliziosamente le condizioni di mercato (cfr. Cass. civ., sez. I, 3 aprile 2020, n. 7676), prova che non è stata fornita nel caso di specie. 46. Considerazioni, queste ultime, che fanno ragione della infondatezza anche dell’undicesimo motivo del ricorso di primo grado, col quale la Società ha contestato la classificazione in area agricola della zona di intervento. 47. Al riguardo può soggiungersi che rileva l’ampia e insindacabile latitudine del potere regionale di attribuire, in sede di approvazione del Piano, la destinazione di zona agricola e di introdurre conseguenti e congruenti limitazioni (anche solo) per preservare l’integrità del territorio nonché salvaguardare. 48. L’undicesimo motivo s’appalesa, sotto altro profilo, anche inammissibile perché sollecita il giudice a esercitare, al di fuori dei tassativi casi di giurisdizione di merito sanciti dall’art. 134 c.p.a., un sindacato di merito sul contenuto delle scelte pianificatorie riservate all’amministrazione, scelte che, in ogni caso, non trasmodano nella abnormità (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, n. 245 del 2020; n. 4071 del 2018; n. 4037 del 2017). 49. Con il dodicesimo motivo del ricorso introduttivo, la Società, infine, ha censurato il diniego sul presupposto che l’Amministrazione avrebbe potuto rilasciare il titolo in deroga ai sensi dell’art. 86, comma5, della legge regionale n. 6 del 2010. 50. Il motivo è infondato. 50.1. Non costa in atti che la Società abbia instato l’amministrazione ai fini di un eventuale rilascio del permesso di costruire mediante deroga, così da poterne contestare in giudizio il mancato esame. E’ difatti mancata, in assenza di sollecitazione, ogni attività valutativa (discrezionale) in merito alla opportunità di una autorizzazione in deroga sul piano della sua compatibilità con l’interesse pubblico, ciò che ne impedisce oggi il riscontro di legittimità. 51. L’infondatezza di tutti i motivi di gravame fin qui esaminati, rende recessivo, perché irrilevante ai fini della realizzazione dell’interesse sostanziale, l’esame dei motivi nn. 5 e 6 con i quali l’appellante aveva contestato l’asserita carenza di legittimazione “non essendo la stessa titolare dell’autorizzazione relativa all’impianto esistente” (motivo n. 5) nonché dedotto invalidità derivata dai vizi precedenti (motivi n. 6). Degli stessi se ne può disporre, pertanto, l’assorbimento in applicazione dei principi elaborati dalla Adunanza plenaria n. 5 del 2015, § 9.3.4.3, in relazione al c.d. assorbimento per ragioni di economia processuale. 52. Per quanto sin qui esposto, l’appello s’appalesa infondato e va, pertanto, respinto. 53. Nulla si dispone per le spese del grado, stante la mancata costituzione del Comune nel giudizio di riassunzione. 54. Il Collegio rileva, inoltre, che l’infondatezza del ricorso in appello si fonda su ragioni manifeste in modo da integrare i presupposti applicativi dell’art. 26, comma 2, c.p.a. secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 2205 del 2018; n. 2879 del 2017; 5497 del 2016, cui si rinvia ai sensi dell’art. 88, comma 2, lettera d), c.p.a. anche in ordine alle modalità applicative ed alla determinazione della sanzione), conformemente ai principi elaborati dalla Corte di cassazione (cfr. da ultimo sez. VI, n. 11939 del 2017; n. 22150 del 2016). 54.1. A tanto consegue il pagamento della sanzione nella misura di € 4.000,00. 55. La condanna dell’appellante, ai sensi dell’art. 26, comma 2, c.p.a. rileva, infine, eventualmente, anche agli effetti di cui all’art. 2, comma 2-quinquies, lettere a) e d), della legge 24 marzo 2001, nr. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Nulla per le spese. Condanna l’appellante, ai sensi dell’art. 26, comma 2, c.p.a., al pagamento della somma di € 4.000,00 (quattromila/00) da versare secondo le modalità di cui all’art. 15, disp. att. c.p.a., mandando alla Segreteria per i conseguenti adempimenti Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 marzo 2022 con l'intervento dei magistrati: Vito Poli, Presidente Francesco Gambato Spisani, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Giuseppe Rotondo, Consigliere, Estensore Michele Conforti, Consigliere Vito Poli, Presidente Francesco Gambato Spisani, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Giuseppe Rotondo, Consigliere, Estensore Michele Conforti, Consigliere IL SEGRETARIO
Urbanistica – Localizzazione - Impianti di distribuzione carburanti – Condizione.                 La localizzazione di impianti di distribuzione carburanti incontra i   limiti della esigenza di salvaguardia ambientale insita nella destinazione di zona agricola (1).     (1) Ha affermato la Sezione che  l’art. 2 comma 1-bis, del d.lgs. n. 32 del 1998, si limita a prevedere la compatibilità funzionale degli impianti di carburante con le diverse parti del territorio comunale, ad eccezione di quelle comprese in zona territoriale omogenea A ovvero soggette a particolari vincoli paesaggistici, ambientali o monumentali, con l'effetto che essi non devono di necessità essere collocati in zona territoriale omogenea a destinazione industriale; rimane comunque salva la potestà comunale di individuare le caratteristiche delle aree sulle quali possono essere realizzati tali impianti.  Il d.lgs. n. 32/1998 configura un potere conformativo della rete distributiva dei carburanti particolare rispetto all’ambito esclusivamente urbanistico, affidando ai Comuni il compito di definire i criteri, requisiti e caratteristiche delle aree su cui possono essere istallati gli impianti di distribuzione carburanti, con un apposito atto di raccordo con la disciplina urbanistica, in modo da consentire la razionalizzazione della rete di distribuzione e la semplificazione del procedimento di autorizzazione di nuovi impianti su aree private.  Il significato della norma è quello secondo cui è in facoltà degli enti locali consentire, in sede di pianificazione della rete, la localizzazione dei nuovi impianti anche nelle zone del P.R.G. soggette a diversa destinazione, purché non sottoposte a particolari vincoli. 
Urbanistica
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/alla-corte-costituzionale-i-limiti-alla-proposizione-o-continuazione-di-azioni-esecutive-nei-confronti-degli-enti-del-servizio-sanitario-della-regione
Alla Corte costituzionale i limiti alla proposizione o continuazione di azioni esecutive nei confronti degli enti del servizio sanitario della Regione Calabria
N. 00356/2022 REG.PROV.COLL. N. 01108/2021 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 1108 del 2021, proposto da Detto Factor S.p.a. - in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Alessia Melchiorri, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Giuseppe Brogno, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l'ottemperanza - della sentenza del Tribunale di Cosenza del 5 maggio 2015, n. 668; - della sentenza del Tribunale di Cosenza del 14 agosto 2015, n. 1366. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza; Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 febbraio 2022 il dott. Francesco Tallaro e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; I. – I fatti di causa I.1. – Con ricorso notificato il 21 giugno 2021 e depositato il successivo 1 luglio, Detto Factor S.p.a. - in liquidazione si è rivolta a questo Tribunale Amministrativo Regionale per ottenere l’ottemperanza di due sentenze, in forza delle quali essa vanterebbe nei confronti dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza ancora un credito di € 2.882.792,59 per sorte capitale, oltre agli interessi ammontanti, alla data del 31 aprile 2021, ad € 1.836.321,09, nonché oltre a € 44.339,42 a titolo di spese legali (così composte: € 11.472,00 liquidate nelle sentenze; € 26,94 a titolo di esborsi per copie delle sentenza; € 4,98 quali spese di notifica; € 32.835,50 per tassa di registro). I.2. – Invero, su ricorso proposto da Detto Factor S.p.a. - in liquidazione, quale cessionaria dei crediti vantati dall’Istituto Ninetta Rosano S.r.l. per l’erogazione di prestazioni di pronto soccorso rese nel corso dell’anno 2007, in data 7 agosto 2009 il Tribunale di Cosenza aveva emesso il decreto ingiuntivo n. 1247, con il quale avevo intimato all’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza il pagamento della somma di € 996.587,68, oltre alla corresponsione di interessi moratori, per come richiesti in ricorso, nella misura di cui all’art. 5 d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, calcolati dal 31° giorno dalla presentazione della fattura per il 70% del credito e dal 91° giorno dalla presentazione della fattura per il restante 30%, nonché alla rifusione delle spese e competenze del procedimento monitorio. Proposta opposizione da parte dell’azienda ingiunta, il Tribunale di Cosenza l’aveva rigettata con sentenza del 5 maggio 2015, n. 668, passata in cosa giudicata. Con la sentenza vi era stata altresì condanna di parte opponente alla rifusione, in favore di parte opposta, delle spese della fase di opposizione. I.3. – La seconda sentenza di cui Detto Factor S.p.a. ha chiesto l’ottemperanza è stata pronunciata sempre dal Tribunale di Cosenza il 14 agosto 2015, n. 1366. Essa è stata resa sull’opposizione proposta dall’ASP di Cosenza avverso il decreto ingiuntivo del 31 dicembre 2010, n. 1594, ottenuto dalla diversa società Beta Skye S.r.l. per ulteriori crediti vantati dall’Istituto Ninetta Rosano S.r.l. e da questa ceduti all’istante. Il Tribunale di Cosenza ha rigettato la predetta opposizione, ma ha poi revocato, in virtù del parziale pagamento intervenuto nelle more, il decreto ingiuntivo opposto, condannando l’azienda intimata al pagamento, in favore di Beta Skye S.r.l., della somma di € 1.886.204,91, oltre alla corresponsione di interessi ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2002 dalla costituzione in mora del 25 gennaio 2011, nonché alla rifusione delle spese processuali, con distrazione in favore del costituito procuratore. I.4. – Come anticipato, Detto Factor S.p.a. ha chiesto che il Tribunale Amministrativo Regionale adito ordini all’ASP di Cosenza il compimento degli atti utili e necessari a dare piena esecuzione al giudicato derivante dalle due sentenze, fissando un termine perentorio per il pagamento del complessivo importo di € 4.769.744,42, oltre ulteriori interessi ex d.lgs. n. 231 del 2002 dall’1 maggio 2021, nonché il pagamento delle spese liquidate in ciascuna sentenza e la rifusione delle spese successive, comprese quelle di registrazione. La società ricorrente ha, inoltre, chiesto la condanna dell’azienda intimata al ristoro di tutti i danni connessi alla violazione o elusione del giudicato per fatto e volontà imputabili solo alla pubblica amministrazione; nonché la nomina immediata di un Commissario ad acta. I. 5. – L’ASP di Cosenza si è costituita in giudizio con memoria depositata il 28 luglio 2021. Con essa è stata dedotta l’inammissibilità del ricorso in ottemperanza, in base a quanto disposto dall’art. 117, comma 4 d.l. 19 maggio 2020, n. 34, conv. con mod con l. 17 luglio 2020, n. 77, come modificato dall'art. 3, comma 8 d.l. 31 dicembre 2020, n. 183, conv. con mod. con l. 26 febbraio 2021, n. 21. Tale norma – nelle more del giudizio dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza della Corte costituzionale del 24 novembre 2021, n. 236 – prevedeva la sospensione sino al 31 dicembre 2021 delle azioni esecutive proposte nei confronti degli Enti del Servizio Sanitario Nazionale. I.6. – Con memoria depositata il 18 gennaio 2022, in vista della trattazione del ricorso, l’ASP di Cosenza ha integrato le proprie difese, deducendo: a) quanto alla sentenza n. 668 del 2015: - a1) il credito si sarebbe estinto in forza dell’ordinanza del Tribunale di Cosenza del 22 dicembre 2021, a definizione della procedura esecutiva n. 387/2012 R.G.E.; - a2) in ogni caso, il giudizio di ottemperanza risulterebbe ab origine inammissibile per difetto di legittimazione attiva, avendo Detto Factor S.p.a. – in liquidazione ceduto in blocco a Rubicon SPV S.r.l. “ogni e qualsiasi credito”; - a3) non vi sarebbe, inoltre, prova della notifica del titolo esecutivo presso la sede legale dell’ASP di Cosenza, per come richiesto dall’art. 14 d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, conv. con l. 28 febbraio 1997, n. 30; - a4) infine, con determina del 10 giugno 2019, n. 377, sarebbe stato disposto e quindi eseguito un pagamento di € 690,000,00, a seguito di provvedimento di assegnazione, ancora una volta da parte del Tribunale di Cosenza, con ordinanza n. 294 del 2018, relativa al procedimento n. 1221/2016 R.G.E. b) quanto alla sentenza n. 1366 del 2015: - b1) vi sarebbe un evidente difetto di legittimazione attiva, essendo stata parte del giudizio la Beta Skye S.r.l. e non già la Detto Factor S.p.a. - in liquidazione; - b2) in ordine alle spese legali vi sarebbe ulteriore ragione di carenza di legittimazione attiva, essendo state distratte in favore dei procuratori costituiti; - b3) anche tale credito sarebbe stato ceduto in blocco a Rubicon SPV S.r.l.; - b4) in ogni caso, vi sarebbe stato, come si evincerebbe dagli avvisi di pagamento nn. 5892 dell’1 giugno 2010, 6110 del 7 agosto 2010, 8440 del 9 settembre 2010 e 10050 del 9 novembre 2010, il pagamento del credito riconosciuto con la sentenza. Infine, l’ASP di Cosenza ha dedotto che il ricorso in ottemperanza sarebbe inammissibile o comunque improcedibile in virtù della sospensione delle esecuzioni nei confronti degli Enti del Servizio Sanitario della Regione Calabria disposta con il sopravvenuto art. 16-septies, comma 2, lett. g) d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, conv. con mod. con l. 17 dicembre 2021, n. 215. I.7. – Il 21 gennaio 2022 Detto Factor S.p.a. ha depositato a sua volta memoria, prendendo posizione sulle eccezioni processuali e di merito sollevate dall’azienda intimata. Innanzitutto, essa ha negato che i crediti di cui si tratta rientrino tra quelli ceduti a Rubicon SPV S.r.l. Quindi, ha escluso che i pagamenti effettuati dall’ASP di Cosenza possano essere ritenuti liberatori, essendo stati effettuati nei confronti della società cedente. Ha poi precisato che l’ordinanza del Tribunale di Cosenza del 22 dicembre 2021, a definizione della procedura n. 387/2021 R.G.E., è successiva alla proposizione del ricorso in ottemperanza e, in ogni caso, ha assegnato solo le somme necessarie alla rifusione delle spese di lite liquidate con la sentenza n. 668 del 2015. Ha inoltre allegato che, se è vero che la sentenza n. 1366 del 2015 è stata resa in favore di Beta Skye S.r.l., tale società avrebbe retrocesso a Detto Factor S.p.a. – in liquidazione i crediti oggetto della pronuncia. Ancora, ha lamentato l’illegittimità, anche per contrasto con gli artt. 2 e 24 Costituzione, del citato art. 16-septies, comma 2, lett. g) d.l. n. 215 del 2021. Infine, ha ipotizzato il rinvio nella trattazione del ricorso, onde attendere l’esito di due procedure esecutive avviate per i medesimi crediti. I.8 – Il ricorso, previo deposito di ulteriore memoria di replica da parte dell’ASP di Cosenza, è stato trattato all’udienza camerale del 9 febbraio 2022 e spedito in decisione. II. – La questione di legittimità costituzionale È opinione del Tribunale Amministrativo Regionale che sia rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16-septies, comma 2, lett. g) d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, come introdotto dalla legge di conversione, e cioè la l. 17 dicembre 2021, n. 215, per contrasto con l’art. 24 Cost., da solo e, nella misura in cui riguardi anche il giudizio d’ottemperanza svolto davanti al giudice amministrativo, in combinata lettura con l’art. 113 Cost. III. – La rilevanza della questione III.1. – La disposizione della cui compatibilità con la Costituzione si dubita così recita: «al fine di coadiuvare le attività previste dal presente comma (e cioè le attività di controllo, liquidazione e pagamento delle fatture, sia per la gestione corrente che per il pregresso, nonché le attività di monitoraggio e di gestione del contenzioso, NDR), assicurando al servizio sanitario della Regione Calabria la liquidità necessaria allo svolgimento delle predette attività finalizzate anche al tempestivo pagamento dei debiti commerciali, nei confronti degli enti del servizio sanitario della Regione Calabria di cui all'articolo 19 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive (…). Le disposizioni della presente lettera si applicano fino al 31 dicembre 2025». III.2. – La previsione normativa deve trovare applicazione, oltre che alle azioni esecutive proposte ai sensi del codice di procedura civile, anche al giudizio di ottemperanza, che, secondo la consolidata giurisprudenza amministrativa, ha funzione e natura esecutiva, allorché sia attivato ai fini dell’esecuzione di un provvedimento di giudice civile. Si è infatti chiarito che, in sede di ottemperanza di un titolo formatosi davanti al giudice ordinario, il giudice amministrativo deve svolgere un'attività meramente esecutiva senza possibilità d'integrare la sentenza, (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 13 maggio 2016, n. 1952; Cons. Stato, Sez. V, 2 febbraio 2009, n. 561; Cons. Stato, Sez. VI, 8 settembre 2008, n. 4288; C.G.A., 8 settembre 2014, n. 522) dovendosi limitare all'accertamento dell'esistenza di un comportamento omissivo o elusivo e all'attuazione del disposto della pronuncia del giudice civile passata in giudicato, trovando in essa un limite invalicabile ( in tal senso, Cons. Stato, Sez. IV, 18 gennaio 2016, n. 145). Non a caso, si ritiene pacificamente applicabile al giudizio di ottemperanza la sospensione delle procedure esecutive individuali prevista tanto all’art. 243-bis, comma 4 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, in caso di avvio della procedura di riequilibrio di bilancio di un Ente locale (cfr. CGA 28 ottobre 2014, n. 586; TAR Sicilia – Catania, Sez. I, 11 luglio 2013 , n. 2045), tanto dall’art. 248, comma 2 del medesimo testo normativo per il caso di dissesto (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 4 settembre 2018, n. 5184; TAR Lazio – Roma, Sez. II, 8 novembre 2021, n. 11440; III. 3. – Occorre, a questo punto, prendere posizione su un orientamento formatosi nella giurisprudenza amministrativa a proposito della sospensione delle esecuzioni nei confronti degli Enti del Servizio Sanitario disposta in passato con leggi che saranno richiamate ultra. Un certo orientamento (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 11 luglio 2013, n.3726; TAR Calabria – Reggio Calabria, 31 luglio 2020, n. 480) ritenne che la sospensione operasse soltanto per la fase propriamente esecutiva, svolta dal Commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo, giacché l'accoglimento, da parte del giudice, della domanda di ottemperanza si risolve nell’ordine alla stessa amministrazione debitrice di provvedere all'esecuzione entro un dato termine, rafforzando così un ordine che scaturisce già dal dictum giurisdizionale rimasto ineseguito. Questo Tribunale ritiene non condivisibile l’orientamento testé descritto. Innanzitutto, esso opera una distinzione, quanto agli effetti della sospensione, tra la fase dell’ottemperanza svolta davanti al giudice amministrativo e la fase curata dal Commissario ad acta da esso nominato. Di tale distinzione, però, non v’è traccia nelle varie previsioni legislative succedutesi, che, come quella oggi in rilievo, si limitano a vietare che le azioni esecutive vengano “intraprese” o “proseguite” nei confronti degli enti del Servizio Sanitario Nazionale. Peraltro, l’uso del verbo “intraprendere” richiama semanticamente e logicamente l’attenzione alla fase introduttiva dell’azione d’ottemperanza, e cioè al momento della proposizione del ricorso. In secondo luogo, la distinzione in questione appare artificiale, se solo si consideri che entrambe le fasi – quella davanti al giudice amministrativo, quella che vede il Commissario ad acta come protagonista – hanno come unica finalità l’attuazione del comando giurisdizionale contenuto nel provvedimento del giudice ordinario. Infine, una simile opzione ermeneutica comporterebbe spreco di attività giurisdizionale, richiedendo la pronuncia del giudice amministrativo sulla domanda di ottemperanza senza che, poi, il privato possa ottenere la soddisfazione del credito agitato esecutivamente; e comportando elevate probabilità di incidenti di esecuzione proprio in ordine all’applicabilità della ridetta sospensione. III.4. – Emerge, dunque, in tutta la sua evidenza la rilevanza dei dubbi di legittimità costituzionale. Ai sensi dell’art. 16-septies, comma 2, lett. g) d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, infatti, questo Tribunale Amministrativo Regionale dovrebbe dichiarare, immediatamente e in via del tutto preliminare, improcedibile il ricorso proposto da Detto Factor S.p.a. – in liquidazione, senza dover esaminare le altre argomentazioni difensive che l’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza ha esposto. III.5 – Infatti, è vero che l’Ente intimato ha dedotto anche, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso per mancata notificazione della sentenza n. 668 del 2015 all’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza, ai sensi dell’art. 14 d.l. n. 660 del 1996. Tale eccezione di natura preliminare, però, riguarda uno solo dei due titoli esecutivi su cui si fonda l’azione di ottemperanza, sicché, ove anche fosse fondata, non escluderebbe la necessità di questo Tribunale di pronunciarsi sull’azione di ottemperanza proposta da Detto Factor S.p.a. – in liquidazione per la soddisfazione del credito accertato con la sentenza n. 1366 del 2015. D’altra parte, a parere del Tribunale, la questione, posta dall’eccezione di mancata notifica del titolo, deve essere logicamente affrontata solo allorché si ammetta in via generale l’attuale esperibilità dell’azione di ottemperanza nei confronti degli Enti del Servizio Sanitario della Regione Calabria, cosa che la norma, della cui legittimità si dubita, esclude. III.6. – Le altre difese articolate dall’Azienda Sanitaria Provinciale intimata attengono al merito. Infatti, la questione relativa all’avvenuta soddisfazione dei crediti agitati esecutivamente afferisce all’attuale esistenza del credito vantato da Detto Factor S.r.l. Le problematiche relative alla titolarità dal lato attivo dei crediti, posto che la sentenza n. 1366 del 2015 ha pronunciato in favore di Beta Skye S.r.l. e posto che vi sarebbe stata la cessione in blocco e pro soluto dei crediti a Rubicon SPV S.r.l., riguardano anch’esse la fondatezza dell’azione di ottemperanza, necessitando di un esame di merito precluso dall’art. 16-septies, comma 2, lett. g) d.l. n. 146 del 2021. IV – La non manifesta infondatezza della questione IV.1. – Il dubbio di incompatibilità tra l’art. 16-septies, comma 2, lett. g) d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, e l’art. 24 Cost. è alimentato dall’esame della giurisprudenza della Corte costituzionale Essa ha ripetutamente affermato che la garanzia di poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti comprende anche l’esecuzione forzata, che è diretta a rendere effettiva l’attuazione del provvedimento del giudice (sentenza n. 522 del 2002). La tutela in sede esecutiva, infatti, è componente essenziale del diritto di accesso al giudice: l’azione esecutiva rappresenta uno strumento indispensabile per l’effettività della tutela giurisdizionale perché consente al creditore di soddisfare la propria pretesa in mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore (ex plurimis, cfr. le sentenze n. 225 del 2018, n. 198 del 2010, n. 335 del 2004, n. 522 del 2002 e n. 321 del 1998; ordinanza n. 331 del 2001). La fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, proprio in quanto componente intrinseca ed essenziale della funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria (sentenza n. 419 del 1995), stante che «il principio di effettività della tutela giurisdizionale […] rappresenta un connotato rilevante di ogni modello processuale» (sentenze n. 225 del 2018 e n. 304 del 2011). È certo riservata alla discrezionalità del legislatore la conformazione degli istituti processuali, con il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della disciplina (ex plurimis, sentenze n. 44 del 2016, n. 10 del 2013 e n. 221 del 2008); ma tale limite è valicato «ogniqualvolta emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire» (sentenza n. 225 del 2018; negli stessi termini, tra le tante, sentenze n. 87 del 2021, n. 271 del 2019, n. 44 del 2016 e n. 335 del 2004). La sospensione delle procedure esecutive deve costituire, pertanto, un evento eccezionale: «un intervento legislativo − che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore − può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie qualora […] siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale» (sentenza n. 186 del 2013). È ben vero che il legislatore ordinario – in presenza di altri diritti meritevoli di tutela – può procrastinare la soddisfazione del diritto del creditore alla tutela giurisdizionale anche in sede esecutiva. Deve però sussistere un ragionevole bilanciamento tra i valori costituzionali in conflitto, da valutarsi considerando la proporzionalità dei mezzi scelti in relazione alle esigenze obiettive da soddisfare e alle finalità perseguite (ex plurimis, cfr. le sentenze n. 212 del 2020, n. 71 del 2015, n. 17 del 2011, n. 229 e n. 50 del 2010, n. 221 del 2008 e n. 1130 del 1988). IV.2. – Sulla base dei principi testé illustrati, la Corte ha già dichiarato illegittimo, con sentenza del 12 luglio 2013, n. 186, l'art. 1, comma 51, l. 13 dicembre 2010, n. 220, sia nel testo risultante a seguito delle modificazioni introdotte dall'art. 17, comma 4, lettera e), d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con mod. con l. 15 luglio 2011, n. 111, sia nel testo risultante a seguito delle ulteriori modificazioni apportate dall'art. 6-bis, comma 2, lettere a) e b), d.l. 13 settembre 2012, n. 158, conv. con mod. con l. 8 novembre 2012, n. 189, nella parte in cui prevedeva che, nelle Regioni già commissariate in quanto sottoposte a piano di rientro dei disavanzi sanitari, non potessero essere intraprese o proseguite azioni esecutive, anche ai sensi dell'articolo 112 c.p.a., nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, fino al 31 dicembre 2012. La Corte ha ribadito che un intervento legislativo - che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore - può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie qualora, per un verso, siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale (sentenze n. 155 del 2004 e n. 310 del 2003) e, per altro verso, le disposizioni di carattere processuale che incidono sui giudizi pendenti, determinandone l'estinzione, siano controbilanciate da disposizioni di carattere sostanziale che, a loro volta, garantiscano, anche per altra via che non sia quella della esecuzione giudiziale, la sostanziale realizzazione dei diritti oggetto delle procedure estinte (sentenze n. 277 del 2012 e n. 364 del 2007). Viceversa, la disposizione in quella sede censurata, la cui durata nel tempo, inizialmente prevista per un anno, era stata differita di ulteriori due anni sino al 31 dicembre 2013, oltre a prevedere la estinzione delle procedure esecutive iniziate e la contestuale cessazione del vincolo pignoratizio gravante sui beni bloccati ad istanza dei creditori delle aziende sanitarie ubicate nelle Regioni commissariate, con derivante e definitivo accollo, a carico degli esecutanti, della spese di esecuzione già affrontate, non prevedeva alcun meccanismo certo, quantomeno sotto il profilo di ordinate procedure concorsuali garantite da adeguata copertura finanziaria, in ordine alla soddisfazione delle posizioni sostanziali sottostanti ai titoli esecutivi inutilmente azionati. Essa, pertanto, si poneva, in entrambe le sue versioni, in contrasto con l'art. 24 Cost. in quanto, in conseguenza della norma censurata, venivano vanificati gli effetti della tutela giurisdizionale già conseguita dai numerosi creditori delle aziende sanitarie procedenti nei giudizi esecutivi. Costoro non soltanto si trovano, in alcuni casi da più di un triennio, nella impossibilità di trarre dal titolo da loro conseguito l'utilità ad esso ordinariamente connessa, ma dovevano, altresì, sopportare, in considerazione della automatica estinzione (o, nella versione precedente, della inefficacia) delle procedure esecutive già intraprese e della liberazione dal vincolo pignoratizio dei beni già asserviti alla procedura, i costi da loro anticipati per l'avvio della procedura stessa. Né si verificava la condizione che, secondo la giurisprudenza costituzionale, rende legittimo il blocco delle azioni esecutive, cioè la previsione di un meccanismo di risanamento che, come detto, canalizzasse in una unica procedura concorsuale le singole azioni esecutive, con meccanismi di tutela dei diritti dei creditori che non si rinvenivano nei piani di rientro cui la disposizione faceva riferimento, sicché la posizione sostanziale dei creditori trovasse una modalità sostitutiva di soddisfazione. La disposizione in esame, infatti, non conteneva la disciplina di tale tipo di procedura né identificava le risorse finanziarie da cui attingere per il suo eventuale svolgimento. La Corte ha, altresì, considerato rilevante la circostanza che, con la disposizione censurata, il legislatore statale avesse creato una fattispecie di ius singulare che determinava lo sbilanciamento fra le due posizioni in gioco, esentando quella pubblica, di cui lo Stato risponde economicamente, dagli effetti pregiudizievoli della condanna giudiziaria, con violazione del principio della parità delle parti di cui all'art. 111 Cost. Né poteva, infine, valere a giustificare l'intervento legislativo censurato il fatto che questo potesse essere ritenuto strumentale ad assicurare la continuità della erogazione delle funzioni essenziali connesse al servizio sanitario: infatti, a presidio di tale essenziale esigenza già risultava da tempo essere posta la previsione di cui all'art. 1, comma 5, del d.l. 18 gennaio 1993, n. 9, conv. con mod. con l. 18 marzo 1993, n. 67, in base alla quale è assicurata la impignorabilità dei fondi a destinazione vincolata essenziali ai fini della erogazione dei servizi sanitari. IV.3. – Recentissimamente, con la sentenza del 7 dicembre 2021, n. 236, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 8, d.l. 31 dicembre 2020, n. 183, conv. con l. 26 febbraio 2021, n. 21, che, in ragione dell’emergenza derivante dall’epidemia di Covid-19, aveva prorogato la sospensione delle esecuzioni e l’inefficacia dei pignoramenti nei confronti degli enti del Servizio sanitario nazionale, già precedentemente disposta. Dopo aver ripercorso la motivazione della precedentemente evocata sentenza n. 186 del 2013, la Corte ha precisato che, nonostante l’evoluzione dell’emergenza sanitaria e la possibilità di ricalibrare su di essa la programmazione di cassa, la disposizione censurata aveva prorogato la misura in danno dei creditori per un intero anno senza alcun aggiornamento della valutazione comparativa tra i loro diritti giudizialmente accertati e gli interessi dell’esecutato pubblico. In tal modo, gli effetti negativi della protrazione del “blocco” delle esecuzioni venivano lasciati invariabilmente a carico dei creditori, tra i quali pure possono trovarsi anche soggetti cui è stato riconosciuto un risarcimento in quanto gravemente danneggiati nella salute o operatori economici a rischio di espulsione dal mercato. Costituzionalmente tollerabile ab origine, la misura era divenuta sproporzionata e irragionevole per effetto di una proroga di lungo corso e non bilanciata da una più specifica ponderazione degli interessi in gioco, che ha leso il diritto di tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. nonché, al contempo, la parità delle parti e la ragionevole durata del processo esecutivo. Il protratto sacrificio imposto ai creditori sul piano della tutela giurisdizionale avrebbe potuto essere ricondotto a conformità con i parametri costituzionali ove fosse stata approntata una tutela alternativa di contenuto sostanziale, che però non era stata nella specie predisposta. IV.4. – Ebbene, la disposizione che in questa sede va applicata replica, a parere di questo Tribunale, tutti i profili di illegittimità evidenziati con riferimento ai precedenti provvedimenti di sospensione. Essa impedisce, per un lunghissimo periodo di quattro anni (che si aggiungono ai quasi due anni in cui, sino alla sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2021, le procedure esecutive nei confronti di tutti gli Enti del Servizio Sanitario Nazionale sono rimaste sospese), l’accesso alla tutela esecutiva. Non prevede una procedura concorsuale idonea a garantire la soddisfazione, quanto meno pro quota, delle pretese dei creditori. Crea un’ingiustificata disparità tra debitore pubblico e creditori privati, tra i quali possono ben esservi soggetti socialmente o economicamente svantaggiati. Per tali ragioni, essa si pone in diretto contrasto con l’art. 24 Cost., che invece assicura a tutti il diritto ad agire, anche esecutivamente. IV. 5 – La violazione dell’art. 24 Cost. si apprezza, trattandosi di giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo, anche in combinato disposto con l’art. 113 Cost, che assicura sempre «la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa» e ne vieta l’esclusione o la limitazione a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. Infatti, ciò che la norma in questione determina è proprio l’impossibilità per il creditore degli Enti del servizio sanitario regionale della Calabria di ottenere dal giudice amministrativo la tutela giurisdizionale esecutiva, in ragione del provvedimento giurisdizionale definitivo ottenuto dal giudice ordinario. Risulta quindi violato anche l’art. 113 Cost. V. – Il giudizio presente va quindi sospeso, con trasmissione, ai sensi dell’art. 23 l. 11 marzo 1953, n. 87, degli atti alla Corte costituzionale, affinché decida della questione di legittimità costituzionale che, con la presente ordinanza, incidentalmente si pone. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Seconda) sospende il giudizio e, ai sensi dell’art. 23 l. 11 marzo 1953, n. 87, dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale affinché si pronunci sulla rilevante e non manifestamente infondata questione di legittimità costituzionale dell’art. 16-septies, comma 2, lett. g) d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, come introdotto dalla legge di conversione, e cioè la l. 17 dicembre 2021, n. 215, per contrasto con gli artt. 24 e 113 Cost. Manda alla Segreteria di comunicare alle parti la seguente ordinanza e di notificarla al Presidente del Senato della Repubblica, al Presidente della Camera di Deputati e al Presidente del Consiglio dei Ministri. Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del giorno 9 febbraio 2022 con l'intervento dei magistrati: Giovanni Iannini, Presidente Francesco Tallaro, Primo Referendario, Estensore Manuela Bucca, Referendario Giovanni Iannini, Presidente Francesco Tallaro, Primo Referendario, Estensore Manuela Bucca, Referendario IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Giudizio di ottemperanza - Azione esecutiva – Regione Calabria – Servizio sanitario regionale - Art. 16-septies, comma 2, lett. g), d.l. n. 146 del 2021 – Limiti – Violazione artt. 24 e 113 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.                 È rilevante e non manifestamente infondata la questione di    legittimità costituzionale dell’art. 16-septies, comma 2, lett. g), d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, come introdotto dalla legge di conversione, e cioè la l. 17 dicembre 2021, n. 215, per contrasto con l’art. 24 Cost., da solo e, nella misura in cui riguardi anche il giudizio d’ottemperanza svolto davanti al giudice amministrativo, in combinata lettura con l’art. 113 Cost. nella parte in cui prevede che «al fine di coadiuvare le attività previste dal presente comma (e cioè le attività di controllo, liquidazione e pagamento delle fatture, sia per la gestione corrente che per il pregresso, nonché le attività di monitoraggio e di gestione del contenzioso), assicurando al servizio sanitario della Regione Calabria la liquidità necessaria allo svolgimento delle predette attività finalizzate anche al tempestivo pagamento dei debiti commerciali, nei confronti degli enti del servizio sanitario della Regione Calabria di cui all'art. 19, d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive (…). Le disposizioni della presente lettera si applicano fino al 31 dicembre 2025» (1).    (1) Analoghe remissioni sono state disposte con ordd. 28 febbraio 2022, n. nn. 357 e 358.  Ha chiarito la Sezione che il dubbio di incompatibilità tra l’art. 16-septies, comma 2, lett. g), d.l. 21 ottobre 2021, n. 146, e l’art. 24 Cost. è alimentato dall’esame della giurisprudenza della Corte costituzionale  Essa ha ripetutamente affermato che la garanzia di poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti comprende anche l’esecuzione forzata, che è diretta a rendere effettiva l’attuazione del provvedimento del giudice (sentenza n. 522 del 2002).  La tutela in sede esecutiva, infatti, è componente essenziale del diritto di accesso al giudice: l’azione esecutiva rappresenta uno strumento indispensabile per l’effettività della tutela giurisdizionale perché consente al creditore di soddisfare la propria pretesa in mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore (ex plurimis, cfr. le sentenze n. 225 del 2018, n. 198 del 2010, n. 335 del 2004, n. 522 del 2002 e n. 321 del 1998; ordinanza n. 331 del 2001).  La fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, proprio in quanto componente intrinseca ed essenziale della funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria (sentenza n. 419 del 1995), stante che «il principio di effettività della tutela giurisdizionale […] rappresenta un connotato rilevante di ogni modello processuale» (sentenze n. 225 del 2018 e n. 304 del 2011).  È certo riservata alla discrezionalità del legislatore la conformazione degli istituti processuali, con il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della disciplina (ex plurimis, sentenze n. 44 del 2016, n. 10 del 2013 e n. 221 del 2008); ma tale limite è valicato «ogniqualvolta emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire» (sentenza n. 225 del 2018; negli stessi termini, tra le tante, sentenze n. 87 del 2021, n. 271 del 2019, n. 44 del 2016 e n. 335 del 2004).  La sospensione delle procedure esecutive deve costituire, pertanto, un evento eccezionale: «un intervento legislativo − che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore − può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie qualora […] siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale» (sentenza n. 186 del 2013).  È ben vero che il legislatore ordinario – in presenza di altri diritti meritevoli di tutela – può procrastinare la soddisfazione del diritto del creditore alla tutela giurisdizionale anche in sede esecutiva.  Deve però sussistere un ragionevole bilanciamento tra i valori costituzionali in conflitto, da valutarsi considerando la proporzionalità dei mezzi scelti in relazione alle esigenze obiettive da soddisfare e alle finalità perseguite (ex plurimis, cfr. le sentenze n. 212 del 2020, n. 71 del 2015, n. 17 del 2011, n. 229 e n. 50 del 2010, n. 221 del 2008 e n. 1130 del 1988).  Sulla base dei principi testé illustrati, la Corte ha già dichiarato illegittimo, con sentenza del 12 luglio 2013, n. 186, l'art. 1, comma 51, l. 13 dicembre 2010, n. 220, sia nel testo risultante a seguito delle modificazioni introdotte dall'art. 17, comma 4, lettera e), d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. con mod. con l. 15 luglio 2011, n. 111, sia nel testo risultante a seguito delle ulteriori modificazioni apportate dall'art. 6-bis, comma 2, lettere a) e b), d.l. 13 settembre 2012, n. 158, conv. con mod. con l. 8 novembre 2012, n. 189, nella parte in cui prevedeva che, nelle Regioni già commissariate in quanto sottoposte a piano di rientro dei disavanzi sanitari, non potessero essere intraprese o proseguite azioni esecutive, anche ai sensi dell'articolo 112 c.p.a., nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, fino al 31 dicembre 2012.  La Corte ha ribadito che un intervento legislativo - che di fatto svuoti di contenuto i titoli esecutivi giudiziali conseguiti nei confronti di un soggetto debitore - può ritenersi giustificato da particolari esigenze transitorie qualora, per un verso, siffatto svuotamento sia limitato ad un ristretto periodo temporale (sentenze n. 155 del 2004 e n. 310 del 2003) e, per altro verso, le disposizioni di carattere processuale che incidono sui giudizi pendenti, determinandone l'estinzione, siano controbilanciate da disposizioni di carattere sostanziale che, a loro volta, garantiscano, anche per altra via che non sia quella della esecuzione giudiziale, la sostanziale realizzazione dei diritti oggetto delle procedure estinte (sentenze n. 277 del 2012 e n. 364 del 2007).  Viceversa, la disposizione in quella sede censurata, la cui durata nel tempo, inizialmente prevista per un anno, era stata differita di ulteriori due anni sino al 31 dicembre 2013, oltre a prevedere la estinzione delle procedure esecutive iniziate e la contestuale cessazione del vincolo pignoratizio gravante sui beni bloccati ad istanza dei creditori delle aziende sanitarie ubicate nelle Regioni commissariate, con derivante e definitivo accollo, a carico degli esecutanti, della spese di esecuzione già affrontate, non prevedeva alcun meccanismo certo, quantomeno sotto il profilo di ordinate procedure concorsuali garantite da adeguata copertura finanziaria, in ordine alla soddisfazione delle posizioni sostanziali sottostanti ai titoli esecutivi inutilmente azionati.  Essa, pertanto, si poneva, in entrambe le sue versioni, in contrasto con l'art. 24 Cost. in quanto, in conseguenza della norma censurata, venivano vanificati gli effetti della tutela giurisdizionale già conseguita dai numerosi creditori delle aziende sanitarie procedenti nei giudizi esecutivi.  Costoro non soltanto si trovano, in alcuni casi da più di un triennio, nella impossibilità di trarre dal titolo da loro conseguito l'utilità ad esso ordinariamente connessa, ma dovevano, altresì, sopportare, in considerazione della automatica estinzione (o, nella versione precedente, della inefficacia) delle procedure esecutive già intraprese e della liberazione dal vincolo pignoratizio dei beni già asserviti alla procedura, i costi da loro anticipati per l'avvio della procedura stessa.  Né si verificava la condizione che, secondo la giurisprudenza costituzionale, rende legittimo il blocco delle azioni esecutive, cioè la previsione di un meccanismo di risanamento che, come detto, canalizzasse in una unica procedura concorsuale le singole azioni esecutive, con meccanismi di tutela dei diritti dei creditori che non si rinvenivano nei piani di rientro cui la disposizione faceva riferimento, sicché la posizione sostanziale dei creditori trovasse una modalità sostitutiva di soddisfazione.  La disposizione in esame, infatti, non conteneva la disciplina di tale tipo di procedura né identificava le risorse finanziarie da cui attingere per il suo eventuale svolgimento.  La Corte ha, altresì, considerato rilevante la circostanza che, con la disposizione censurata, il legislatore statale avesse creato una fattispecie di ius singulare che determinava lo sbilanciamento fra le due posizioni in gioco, esentando quella pubblica, di cui lo Stato risponde economicamente, dagli effetti pregiudizievoli della condanna giudiziaria, con violazione del principio della parità delle parti di cui all'art. 111 Cost.  Né poteva, infine, valere a giustificare l'intervento legislativo censurato il fatto che questo potesse essere ritenuto strumentale ad assicurare la continuità della erogazione delle funzioni essenziali connesse al servizio sanitario: infatti, a presidio di tale essenziale esigenza già risultava da tempo essere posta la previsione di cui all'art. 1, comma 5, del d.l. 18 gennaio 1993, n. 9, conv. con mod. con l. 18 marzo 1993, n. 67, in base alla quale è assicurata la impignorabilità dei fondi a destinazione vincolata essenziali ai fini della erogazione dei servizi sanitari.  Recentissimamente, con la sentenza del 7 dicembre 2021, n. 236, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 8, d.l. 31 dicembre 2020, n. 183, conv. con l. 26 febbraio 2021, n. 21, che, in ragione dell’emergenza derivante dall’epidemia di Covid-19, aveva prorogato la sospensione delle esecuzioni e l’inefficacia dei pignoramenti nei confronti degli enti del Servizio sanitario nazionale, già precedentemente disposta.  Dopo aver ripercorso la motivazione della precedentemente evocata sentenza n. 186 del 2013, la Corte ha precisato che, nonostante l’evoluzione dell’emergenza sanitaria e la possibilità di ricalibrare su di essa la programmazione di cassa, la disposizione censurata aveva prorogato la misura in danno dei creditori per un intero anno senza alcun aggiornamento della valutazione comparativa tra i loro diritti giudizialmente accertati e gli interessi dell’esecutato pubblico.  In tal modo, gli effetti negativi della protrazione del “blocco” delle esecuzioni venivano lasciati invariabilmente a carico dei creditori, tra i quali pure possono trovarsi anche soggetti cui è stato riconosciuto un risarcimento in quanto gravemente danneggiati nella salute o operatori economici a rischio di espulsione dal mercato.  Costituzionalmente tollerabile ab origine, la misura era divenuta sproporzionata e irragionevole per effetto di una proroga di lungo corso e non bilanciata da una più specifica ponderazione degli interessi in gioco, che ha leso il diritto di tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. nonché, al contempo, la parità delle parti e la ragionevole durata del processo esecutivo.  Il protratto sacrificio imposto ai creditori sul piano della tutela giurisdizionale avrebbe potuto essere ricondotto a conformità con i parametri costituzionali ove fosse stata approntata una tutela alternativa di contenuto sostanziale, che però non era stata nella specie predisposta.  Ebbene, la disposizione che in questa sede va applicata replica, a parere di questo Tribunale, tutti i profili di illegittimità evidenziati con riferimento ai precedenti provvedimenti di sospensione.  Essa impedisce, per un lunghissimo periodo di quattro anni (che si aggiungono ai quasi due anni in cui, sino alla sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2021, le procedure esecutive nei confronti di tutti gli Enti del Servizio Sanitario Nazionale sono rimaste sospese), l’accesso alla tutela esecutiva.  Non prevede una procedura concorsuale idonea a garantire la soddisfazione, quanto meno pro quota, delle pretese dei creditori.  Crea un’ingiustificata disparità tra debitore pubblico e creditori privati, tra i quali possono ben esservi soggetti socialmente o economicamente svantaggiati.  Per tali ragioni, essa si pone in diretto contrasto con l’art. 24 Cost., che invece assicura a tutti il diritto ad agire, anche esecutivamente.  La violazione dell’art. 24 Cost. si apprezza, trattandosi di giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo, anche in combinato disposto con l’art. 113 Cost, che assicura sempre «la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa» e ne vieta l’esclusione o la limitazione a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.    Infatti, ciò che la norma in questione determina è proprio l’impossibilità per il creditore degli Enti del servizio sanitario regionale della Calabria di ottenere dal giudice amministrativo la tutela giurisdizionale esecutiva, in ragione del provvedimento giurisdizionale definitivo ottenuto dal giudice ordinario.  Risulta quindi violato anche l’art. 113 Cost.   
Processo amministrativo
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Concorsi riservati ai docenti di musica precari delle Istituzioni di Alta formazione artistica musicale e coreutica (Afam) statali e statizzazione delle Afam non statali
N. 08529/2020REG.PROV.COLL. N. 00089/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 89 del 2020, proposto da Alfonso Soldano, rappresentato e difeso dall'avvocato Luca Di Felice, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Istruzione dell'Universita' e della Ricerca, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; nei confronti Francesco Mirabella, Alessandro Stella non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza in forma semplificata 18 ottobre 2019, n. 1999 del Tribunale amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Terza. . Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Istruzione dell'Universita' e della Ricerca; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 dicembre 2020 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti gli avvocati L’udienza si svolge ai sensi dell’art. 25, co.2, del decreto-legge del 28 ottobre 2020, n. 137 attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto della circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa. FATTO 1.˗ Il Ministero dell’istruzione, dell'Universita' e della Ricerca, con decreto 14 agosto 2018, n. 597, ha previsto che l’inserimento in apposite graduatorie nazionali per l’attribuzione di incarichi di insegnamento a tempo indeterminato o determinato sia riservato, ai sensi dell’art. 1, comma 655, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), esclusivamente al personale docente che abbia prestato tre anni di servizio nelle Istituzioni statali di Alta formazione artistica musicale e coreutica (d’ora innanzi solo Afam). Gli odierni appellanti, docenti che hanno prestato o prestano servizio presso gli ex Istituti musicali pareggiati (oggi Istituti superiori di studi musicali e coereutici), non hanno, pertanto, potuto partecipare alla suddetta procedura di reclutamento. Il sistema, infatti, gli ha precluso di presentare la domanda di partecipazione per via telematica. Per questa ragione tale domanda è stata inoltrata soltanto in modalità cartacea. 2.˗ La parte ha impugnato il suddetto decreto innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, per i motivi riproposti in sede di appello e riportati nei successivi punti. Con ricorso per motivi aggiunti è stata impugnata anche la graduatoria definitiva. 3.˗ Il Tribunale amministrativo, con sentenza semplificata 18 ottobre 2019, n. 1999, ha rigettato il ricorso, ritenendo legittima la scelta amministrativa di limitare la partecipazione alla procedura di inserimento nelle graduatorie in esame soltanto al personale docente che ha prestato servizio presso le Afam statali. 4.˗ Il ricorrente di primo grado hanno proposto appello. 5.˗ Si è costituita in giudizio l’amministrazione resistente, chiedendo il rigetto dell’appello. 6.˗ La Sezione, con ordinanza istruttoria 22 giugno 2020, n. 3979, ha chiesto al Ministero resistente di depositare “una relazione finalizzata a chiarire quale sia l’attuale stadio dei processi di statizzazione e razionalizzazione dei docenti degli Istituti non statali di Alta Formazione Artistica Musicale e Coeretica e il loro inquadramento nei ruoli statali, ai sensi dell’art. 22-bis del decreto-legge n. 50 del 2017, con indicazione dei tempi di conclusione di tali processi”. Il Ministero ha adempiuto depositando, in data 22 settembre 2020, la relazione istruttoria richiesta. 7.˗ La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 10 dicembre 2020. DIRITTO 1.˗ La questione all’esame della Sezione attiene alla legittimità del decreto ministeriale 14 agosto 2018, n. 597, il quale ha previsto che l’inserimento in apposite graduatorie nazionali per l’attribuzione di incarichi di insegnamento a tempo indeterminato o determinato sia riservato, ai sensi dell’art. 1, comma 655 della legge 27 dicembre 2017, n. 205, esclusivamente al personale docente che abbia prestato tre anni di servizio nelle Afam statali e non anche nelle Afam non statali. 2.˗ L’appello non è fondato. 3.˗ Con un primo articolato motivo, l’appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ritenuto illegittima la esclusione degli stessi dalla procedura in esame. In particolare, si assume che il personale docente delle Afam statali e non statali dovrebbe essere equiparato ai fini che rilevano in questa sede per le seguenti ragioni: i) l’art. 1, comma 655, della legge n. 205 del 2017, fa riferimento genericamente alle Afam, senza distinguere Afam statali e non statali; ii) il personale delle suddette istituzioni scolastiche è stato sempre sottoposto al medesimo regime giuridico; iii) dai lavori preparatori relativi alla suddetta legge n. 205 del 2017 risulta che era stato inizialmente inserito nel testo presentato alla Camera un emendamento che limitava l’ambito applicativo della suddetta normativa soltanto alle Afam statali ma tale emendamento è stato eliminato nel passaggio parlamentare del testo al Senato, come confermerebbe anche il dossier predisposto dall’ufficio studi presso la Camera; iv) il suddetto art. 1, comma 655, richiama le graduatorie nazionali di cui all’art. 19, comma 2, del decreto-legge 12 settembre 2013, n. 104, che sarebbero riferite ai docenti di tutte le Afam, incluse quelle non statali. Il motivo non è fondato. Su un piano generale di disciplina, la legge 21 dicembre 1999, n. 508 è stata adottata al fine della riforma «delle Accademie di belle arti, dell'Accademia nazionale di danza, dell'Accademia nazionale di arte drammatica, degli Istituti superiori per le industrie artistiche (Isia), dei Conservatori di musica e degli Istituti musicali pareggiati». L’art. 2, comma 2, ha disposto che i «Conservatori di musica, l'Accademia nazionale di danza e gli Istituti musicali pareggiati sono trasformati in Istituti superiori di studi musicali e coreutici». Il comma 7 dello stesso art. 2 ha demandato a regolamenti di delegificazione la disciplina concreta di vari profili delle Istituzioni Afam, tra i quali quelli relativi: i) alle «procedure di reclutamento del personale»; ii) agli ordinamenti didattici. Il successivo comma 8 ha previsto i principi e criteri direttivi, tra i quali la «possibilità di prevedere, contestualmente alla riorganizzazione delle strutture e dei corsi esistenti e, comunque, senza maggiori oneri per il bilancio dello Stato, una graduale statizzazione, su richiesta, degli attuali Istituti musicali pareggiati e delle Accademie di belle arti legalmente riconosciute, nonché istituzione di nuovi musei e riordino di musei esistenti, di collezioni e biblioteche, ivi comprese quelle musicali, degli archivi sonori, nonché delle strutture necessarie alla ricerca e alle produzioni artistiche» (lett. e). Per quanto attiene al reclutamento, in attesa dell’adozione del regolamento di disciplina della procedure di reclutamento del personale, è stato adottato l’articolo 19, comma 2, del decreto-legge 12 settembre 2013, n. 104, il quale ha previsto che: «Il personale docente che non sia già titolare di contratto a tempo indeterminato nelle istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, che abbia superato un concorso selettivo ai fini dell’inclusione nelle graduatorie di istituto e abbia maturato almeno tre anni accademici di insegnamento presso le suddette istituzioni alla data di entrata in vigore del presente decreto, è inserito (…) in apposite graduatorie nazionali utili per l’attribuzione degli incarichi di insegnamento a tempo determinato in subordine alle graduatorie di cui al comma 1 del presente articolo, nei limiti dei posti vacanti disponibili». Il predetto regolamento di delegificazione è stato emanato con decreto del Presidente della Repubblica 7 agosto 2019, n. 143, recante «le procedure e le modalità per la programmazione e il reclutamento del personale docente e del personale amministrativo e tecnico del comparto Afam». Per quanto attiene agli ordinamenti didattici, l’art. 11 decreto del Presidente della Repubblica 8 luglio 2005, n. 212, la cui rubrica reca «Istituzioni non statali», ha previsto che, in attesa dell’adozione dello specifico regolamento di delegificazione, «l'autorizzazione a rilasciare i titoli di Alta formazione artistica, musicale e coreutica può essere conferita, con decreto del Ministro, a istituzioni non statali già esistenti alla data di entrata in vigore della legge». Su un piano specifico di disciplina, che rileva in questa sede, l’art. 1, comma 655 della legge n. 205 del 2017 ha previsto che: «Il personale docente che non sia già titolare di contratto a tempo indeterminato nelle istituzioni di cui al comma 653 che abbia superato un concorso selettivo ai fini dell'inclusione nelle graduatorie di istituto e abbia maturato, fino all'anno accademico 2020/2021 incluso, almeno tre anni accademici di insegnamento, anche non continuativi, negli ultimi otto anni accademici, in una delle predette istituzioni nei corsi previsti dall'articolo 3 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 luglio 2005, n. 212, e nei percorsi formativi di cui all'articolo 3, comma 3, del regolamento di cui al decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca 10 settembre 2010, n. 249, è inserito in apposite graduatorie nazionali utili per l'attribuzione degli incarichi di insegnamento a tempo indeterminato e determinato, in subordine alle vigenti graduatorie nazionali per titoli e di quelle di cui al comma 653, nei limiti dei posti vacanti disponibili. L'inserimento è disposto con modalità definite con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca». L’art. 1, comma 653, della predetta legge, richiamato dal suddetto comma 655, ha previsto che: i) «al fine di superare il precariato nelle istituzioni dell'alta formazione artistica musicale e coreutica sono stanziati 1 milione di euro per l'anno 2018, 6,6 milioni di euro per l'anno 2019, 11,6 milioni di euro per l'anno 2020, 15,9 milioni di euro per l'anno 2021, 16,4 milioni di euro per l'anno 2022, 16,8 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2023 al 2025, 16,9 milioni di euro per l'anno 2026, 17,5 milioni di euro per l'anno 2027, 18,1 milioni di euro per l'anno 2028 e 18,5 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2029»; ii) «a decorrere dall'anno 2018 le graduatorie nazionali di cui all'articolo 19, comma 2, del decreto-legge 12 settembre 2013, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2013, n. 128, sono trasformate in graduatorie nazionali ad esaurimento, utili per l'attribuzione degli incarichi di insegnamento con contratto a tempo indeterminato e determinato, in subordine alle vigenti graduatorie nazionali per titoli. Il personale delle graduatorie nazionali di cui al secondo periodo resta incluso nelle medesime anche a seguito dell'emanazione del regolamento di cui all'articolo 2, comma 7, lettera e), della legge 21 dicembre 1999, n. 508». Le disposizioni sopra riportate devono essere interpretate nel senso che esse si riferiscono soltanto al personale docente dell Afam statali e non anche delle Afam non statali. A tale risultato si perviene in applicazione dei seguenti criteri interpretativi. Sul piano letterale, il generico riferimento alle Afam, senza distinzione tra Afam statali e non statali, non può costituire elemento determinante ai fini dell’ampliamento del campo applicativo della disposizione a tutte le istituzioni scolastiche. Il legislatore, come risulta dalla normativa generale sopra riportata e contrariamente a quanto sostenuto dagli appellanti, quando ha inteso fare esplicito riferimento alle Afam non statali le ha espressamente qualificate come tali e ciò sin dalla legge fondamentale del 1999. Sul piano sistematico, vengono in rilievo una serie di indici che depongono nel senso della limitazione del significato alle sole Afam statali. Il primo indice, che valorizza lo stesso contesto normativo in cui è collocata la norma in esame, è rappresentato dalla interpretazione coordinata dei commi sopra riportati. Il comma 655, al fine di individuare il perimetro applicativo soggettivo della norma e, dunque, il personale docente che potrà essere inserito nelle graduatorie nazionali ai fini dell’attribuzione degli incarichi di insegnamento, rinvia al comma 653, il quale, nell’indicare le somme stanziate a tali fini, fa riferimento al bilancio statale. Il che pone in correlazione, come correttamente rilevato dal primo giudice, le somma stanziate e le Afam statali. Il secondo indice, che valorizza un contesto normativo più ampio, è rappresentato dal contenuto dell’art. 22-bis del decreto legge 24 aprile 2017, n. 50, il quale prevede che «a decorrere dall'anno 2017, gli istituti superiori musicali non statali e le accademie non statali di belle arti (…) sono oggetto di graduali processi di statizzazione e razionalizzazione» (comma 1). Tale norma demanda ad appositi decreti del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, la definizione dei criteri per la statizzazione, che consistono, in particolare, nella determinazione delle relative dotazioni organiche e, soprattutto, nella «verifica delle modalità utilizzate per la selezione del predetto personale, prevedendo ove necessario il superamento di specifiche procedure concorsuali pubbliche, l'anzianità maturata con contratti di lavoro flessibile, pari ad almeno tre anni, anche non continuativi, negli ultimi otto anni e la valutazione di titoli accademici e professionali». Il Ministero dell’istruzione, rispondendo al quesito istruttorio posto con la richiamata ordinanza della Sezione n. 3979 del 2020, ha fatto presente che, con nota 28 novembre 2020, lo stesso Ministero ha avviato, con gli altri Ministeri interessati, la costituzione di un apposito tavolo di consultazione per la redazione del decreto di fissazione dei criteri. Si è precisato che il personale assunto con procedura selettiva potrà transitare nei ruoli dello Stato se in servizio alla data del 24 aprile 2017. Da quanto riportato risulta come il legislatore e il Governo abbiamo previsto due procedure complementare ma differenti per il personale in servizio presso Afam statali e non statali, che tengono conto delle oggettive diversità tra tale personale derivante soprattutto dalle modalità di assunzione. Il che giustifica ulteriormente la riserva degli stanziamenti per la creazione di graduatorie nazionali ai fini dell’attribuzione di incarichi di insegnamento soltanto a favore delle Afam statali. Il terzo indice, che valorizza lo stesso contesto costituzionale in cui si inserisce la norma in esame, è rappresentato dall’art. 33, comma 3, Cost, il quale dispone che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Si tratta di una scelta costituzionale che impone di distinguere le istituzioni scolastiche statali e non statali, con chiara preclusione, in questo specifico ambito, di operatività del principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118, comma 4, Cost.), che, al contrario, postula una preferenza per lo svolgimento di attività di interesse pubblico da parte di soggetti privati ove questi siano in grado di offrire prestazioni adeguate. Ciò non implica, ovviamente, che il legislatore non possa decidere di creare particolari canali di accesso al personale precario presso istituzioni scolastiche non statali ma questo può avvenire sulla base di una espressa e chiara presa di posizione da parte del legislatore stesso. Sul piano della ratio legis, dai lavori preparatori non emergono elementi per ritenere che vi sia stata la volontà di includere nell’ambito applicativo del comma 655 anche il personale delle Afam non statali. Risulta, invero, agli atti del processo formativo delle norme in esame, soltanto la dichiarazione del Ministro dell’epoca, il quale ha affermato, in data 1° dicembre 2017, che l’approvazione della finanziaria del 2018 avrebbe consentito anche di fissare «i criteri per la statizzazione», il che fa emergere ancora più chiaramente la volontà legislativa e governativa di dare avvio a due percorsi complementari e differenti per il perseguimento dell’obiettivo comune di superare il precariato presso le Afam. Né, per pervenire ad un esito differente, è rilevante il rilievo dell’appellante secondo cui l’art. 1, comma 655, richiamerebbe le graduatorie nazionali di cui all’art. 19, comma 2, del decreto-legge n. 104 del 2013, che sarebbero riferite ai docenti di tutte le Afam. Come già esposto, tale decreto-legge ha avuto una mera finalità transitoria in attesa dell’adozione del regolamento di delegificazione e il comma 655, prendendo atto di ciò, si è limitato a disporre che le suddette graduatorie vengano trasformate in graduatorie ad esaurimento. 4.˗ Per le ragioni sin qui indicate l’appello deve essere rigettato. La Sezione rivolge all’Amministrazione una raccomandazione affinché acceleri la statizzazione del personale precario delle Afam non statali al fine di completare i complessi processi di riforma delle istituzionali scolastiche pubbliche e private. 5.˗ La novità delle questioni trattate giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando: a) rigetta l’appello proposto con il ricorso indicato in epigrafe; b) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 dicembre 2020 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Silvestro Maria Russo, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore Dario Simeoli, Consigliere Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Silvestro Maria Russo, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore Dario Simeoli, Consigliere IL SEGRETARIO
Pubblica istruzione – Concorso - Concorsi riservati ai docenti di musica precari Riserva al personale docente che abbia prestato tre anni di servizio nelle Istituzioni di Alta formazione artistica musicale e coreutica (Afam) statali e non anche nelle Afam non statali – D.M. n. 597 del 2018 – Legittimità.       E’ legittimo il decreto del Ministero dell’istruzione, dell’Università e della Ricerca del 14 agosto 2018, n. 597, il quale ha previsto che l’inserimento in apposite graduatorie nazionali per l’attribuzione di incarichi di insegnamento a tempo indeterminato o determinato sia riservato, ai sensi dell’art. 1, comma 655, l. 27 dicembre 2017, n. 205, esclusivamente al personale docente che abbia prestato tre anni di servizio nelle Istituzioni di Alta formazione artistica musicale e coreutica (Afam) statali e non anche nelle Afam non statali (1). 
Pubblica istruzione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/criterio-di-scomputo-del-periodo-feriale-in-caso-di-termine-lungo-di-impugnazione-calcolato-a-mesi-e-dies-ad-quem-per-la-proposizione-dell-appello
Criterio di scomputo del periodo feriale in caso di termine lungo di impugnazione (calcolato a mesi) e dies ad quem per la proposizione dell’appello
N. 00028/2022 REG.PROV.PRES. N. 00272/2022 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 272 del 2022, proposto da Annalisa Del Fabro, Vittorio Del Fabro, rappresentati e difesi dall'avvocato Nicolò D'Alessandro, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Catania, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Leonardo Arcidiacono, Daniela Macrì, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Terza) n. 2573/2021, resa tra le parti . Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l’art. 72-bis c.p.a.; Rilevato che l’appello sembra suscettibile di immediata definizione in rito in quanto appare irricevibile; vista la tempistica per la fissazione dell’udienza ai sensi dell’art. 72-bis c.p.a., rilevato che la prima data utile è quella del 6.4.2022, fissa la trattazione dell’udienza il 6.4.2022 ai sensi dell’art. 72-bis c.p.a. Al fine della instaurazione del contraddittorio su questione rilevata d’ufficio si osserva sin da ora quanto segue: - è appellata la sentenza del Tar Sicilia – Catania, 30 luglio 2021 n. 2573; - l’appello risulta notificato in data 2.3.2022, e tale termine sembra successivo al termine lungo semestrale al netto del periodo feriale; - invero, nel c.p.a. il termine lungo per appellare è di sei mesi decorrenti dalla pubblicazione della sentenza (art. 92, c. 3 c.p.a.); - per il computo dei termini a mesi, si osserva il calendario comune (art. 155 c. 2 c.p.a.); - la scadenza del termine che si computa a mesi si verifica nel mese di scadenza e nel giorno di questo corrispondente al giorno del mese iniziale; se nel mese di scadenza manca tale giorno, il termine si compie con l’ultimo giorno dello stesso mese (art. 2963, c. 4 e c. 5 c.c.); - i termini processuali sono sospesi dal primo agosto al 31 agosto di ciascun anno (art. 54, c. 2, c.p.a.); - dato che il dies a quo è nella specie costituito dal 30.7.2021, e dovendosi interamente scomputare il mese di agosto 2021, i sei mesi vengono a scadere il 28 febbraio 2021 (giorno non festivo), in ossequio alle regole sopra citate, recate dall’art. 2963 c. 4 e c. 5 c.c., ossia che la scadenza si verifica nel mese di scadenza nel giorno corrispondente al dies a quo nel mese iniziale, e se nel mese finale manca tale giorno, la scadenza si compie con l’ultimo giorno del mese; - parte appellante sembra invece aver calcolato il termine con un procedimento che non pare consentito dalle vigenti norme processuali, e in particolare calcolando prima i sei mesi senza scomputare il periodo dal 1 al 31 agosto 2021, arrivando così al 30 gennaio 2022, e poi sommando i 31 giorni del periodo feriale; in tal modo, avendo il mese di febbraio 2022 28 giorni, il termine ultimo diventerebbe il 2.3.2022; - il criterio di calcolo seguito da parte appellante non sembra trovare fondamento nelle regole sulla “sospensione dei termini” nel periodo feriale, periodo che va scomputato dal termine complessivo, e non sommato alla fine ad esso, perché con la somma finale di 31 giorni si crea una indebita commistione tra computo del termine a mesi e a giorni; P.Q.M. Fissa per la trattazione della causa la camera di consiglio del 6.4.2022 ai sensi dell’art. 72-bis c.p.a. Manda alla Segreteria per la comunicazione alle parti costituite. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Palermo il giorno 21 marzo 2022. IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Appello – Termine lungo – Computo - Criterio di scomputo del periodo feriale       Nel Codice del processo amministrativo il termine lungo per appellare è di sei mesi decorrenti dalla pubblicazione della sentenza; per il computo dei termini a mesi, si osserva il calendario comune; la scadenza del termine che si computa a mesi si verifica nel mese di scadenza e nel giorno di questo corrispondente al giorno del mese iniziale; se nel mese di scadenza manca tale giorno, il termine si compie con l’ultimo giorno dello stesso mese; i termini processuali sono sospesi dal primo agosto al 31 agosto di ciascun anno. ​​​​​​​
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/applicazione-della-disciplina-del-whistleblower-nelle-forze-armate
Applicazione della disciplina del whistleblower nelle Forze armate
N. 08150/2021REG.PROV.COLL. N. 01148/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1148 del 2021, proposto dal Comando generale dell’Arma dei Carabinieri e dal Ministero della Difesa, in persona dei loro legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12; contro -OMISSIS- rappresentato e difeso dagli avvocati Gianfranco Di Mattia, Francesco Romagnolo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per -OMISSIS-, resa tra le parti, in tema di trasferimento di sede di servizio. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza pubblica del giorno 12 ottobre 2021 il Cons. Italo Volpe e udito l’avvocato Ugo De Luca, su delega dell’avvocato Gianfranco Di Mattia; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Col ricorso in epigrafe il Ministero della difesa (di seguito “Ministero”) ha impugnato la sentenza del Tar -OMISSIS- pubblicata il-OMISSIS-, che – con l’onere delle spese – ha in particolare: - dichiarato improcedibile, per sopravvenuto difetto di interesse, l’originario ricorso principale ed il primo di quelli per motivi aggiunti aventi ad oggetto: -- il ricorso principale, i seguenti atti: --- provvedimento n. 353482/T3-7, datato 31.1.2020, del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, I Reparto-SM-Ufficio Personale Brigadieri, comunicato il 3.2.2020, col quale l’originario ricorrente, pure in epigrafe indicato, Comandante della stazione di -OMISSIS-, è stato trasferito d’autorità al Reparto Carabinieri Parco nazionale del-OMISSIS- con mansioni di addetto senza alloggio di servizio; --- provvedimento in data 21.2.2020, n. 353482 C/1-7, del Comando generale di conferma del trasferimento, con rigetto di istanza di autotutela; --- provvedimento di cui a nota 13.3.2020, n. 353482-2, emesso a seguito di riesame su conforme istanza del ricorrente per la nuova valutazione della sua posizione, anche a seguito della richiesta applicazione della l.n. 104/1992, con il deposito di nuovi documenti; --- provvedimento di cui a nota 17.4.2020, n. 353482/C/3-9, col quale, a seguito di ulteriore domanda di riesame del ricorrente, si sono confermati i precedenti provvedimenti; --- provvedimento di cui a nota 24.4.2020, n. 353482/c3-13, trasmessa il 28.4.2020 con nota n. 28/58-16, emesso a seguito di ulteriore domanda di riesame avanzata con lettera 22.4.2020; --- provvedimento di concessione dei benefici di cui alla l.n. 104/1992, nel punto in cui non ha concesso il beneficio di cui all’art. 33, co. 5; -- i primi motivi aggiunti, volti all’annullamento del provvedimento n. 353482/C4-13, datato 18.7.2020, del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, I Reparto-SM-Ufficio Personale Brigadieri, comunicato il 22.7.2020, col quale, in asserita esecuzione dell’ordinanza cautelare n. 413/2020, pubblicata il 9.7.2020, è stata confermata la determinazione n. 353482/T3-7 di trasferimento del ricorrente al Reparto Carabinieri -OMISSIS- - accolto il secondo ricorso per motivi aggiunti, per l’effetto annullando gli atti e i provvedimenti con esso impugnati, costituiti da: -- provvedimento n. 353482/C4-29, datato 20.10.2020, del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, I Reparto-SM-Ufficio Personale Brigadieri, comunicato il 21.10.2020 col quale, in asserita esecuzione dell’ordinanza cautelare n. 629/2020, pubblicata il 15.10.2020, è stato determinato “il trasferimento (…) dal Reparto Carabinieri -OMISSIS-alla Stazione Carabinieri -OMISSIS-quale addetto, con immediata esecuzione”; -- provvedimento di cui a nota 19.10.2020, n. 6637, che, in violazione della ordinanza n. 629/2020 del 15.10.2020, ha ribadito al ricorrente di essere in carico al Reparto -OMISSIS-. - inoltre disposto l’invio di copia della sentenza alla Procura della Repubblica presso la Corte dei Conti di Roma per il seguito di competenza. 1.1. In fatto, la sentenza ha riepilogato che: - il ricorrente aveva esposto: -- di essersi arruolato nel Corpo Forestale dello Stato nel 1992 e, con la sua riforma, di essere stato dall’1.1.2017 inquadrato nella Regione Carabinieri Forestale-OMISSIS- -- di essere stato trasferito a domanda alla Stazione Carabinieri -OMISSIS-con l’incarico, per circa dieci anni, del suo comando; -- di essere stato trasferito alla Stazione Carabinieri Forestale di -OMISSIS- il 9.4.2018 dove, dall’1.7.2018, gli venivano attribuite le stesse mansioni di Comandante; -- che, nonostante un sempre corretto disimpegno dei compiti d’istituto, era da poco entrato in conflitto, per ritenute “ingiuste pressioni” patite, con il Maggiore Comandante del NIPAAF-Nuclei investigativi di polizia ambientale agroalimentare e forestale, operante nella Sede provinciale di-OMISSIS- -- di avere nel maggio 2019 denunciato i fatti all’Autorità giudiziaria e all’ANAC; -- di essere stato quindi oggetto di denuncia e di un procedimento disciplinare; -- di essere stato oggetto, col citato provvedimento 31.1.2020, n. 353482/T3-7, del pure indicato trasferimento, che tuttavia rivelava un intento punitivo esplicito sia per la distanza da coprire rispetto al suo luogo di residenza (-OMISSIS- sia per la difficoltà di accedervi (causa un tempo di percorrenza medio di quasi due ore), con altresì conseguente impedimento della dovuta assistenza alla propria suocera, cui era stata riconosciuta una condizione di invalidità rilevante ai sensi della l.n. 104/1992; -- peraltro, la permanenza a -OMISSIS- avrebbe potuto comportare un’eventuale incompatibilità con il controinteressato Maggiore, pure in epigrafe indicato, che, per quanto in servizio presso il Comando Provinciale -OMISSIS- era però residente proprio a -OMISSIS-, insieme a diversi componenti della sua famiglia; -- pertanto, se l’avvenuta assegnazione d’autorità era dovuta ad un’effettiva volontà di eliminazione di una situazione di oggettiva incompatibilità ambientale, la stessa appariva invece, nei fatti, illogica; - con favorevole ordinanza cautelare n. 413/2020 s’era tra l’altro evidenziato che “(…) sembrerebbe emergere prima facie un profilo di contraddittorietà nell’agire dell’Amministrazione procedente che, da un lato, ha disposto un trasferimento d’autorità del ricorrente per incompatibilità ambientale rispetto a vicende intercorse con il proprio superiore (…); dall’altro lato, tuttavia, ha indicato come sede di trasferimento il Comune -OMISSIS-, ove il (… detto superiore) risiede (…) tale assetto provvedimentale non appare coerente con le finalità tipicamente perseguite per il tramite del trasferimento per incompatibilità ambientale”; - col citato provvedimento n. 353482/C4-13 del 18.7.2020, in asserita esecuzione della predetta ordinanza cautelare n. 413/2020 era stato confermato il trasferimento del ricorrente, poi impugnato con motivi aggiunti; - con successiva favorevole ordinanza cautelare n. 629/2020 tra l’altro si rilevava “(…) quanto al fumus boni iuris, che il provvedimento adottato dall’Amministrazione resistente – all’esito del riesame disposto con l’ordinanza cautelare n. 413/2020 – non risolve il problema di incompatibilità (…) in quanto il ricorrente, restando assegnato al Reparto CC -OMISSIS- -OMISSIS- ed ivi svolgendo le sue funzioni istituzionali, è nella effettiva condizione di poter incidere su affari ed interessi del (… controinteressato) e della sua famiglia (…), a prescindere dal dato fattuale della dimora di quest’ultimo in -OMISSIS- piuttosto che nel Comune -OMISSIS-, quale suo luogo di residenza anagrafica; (…) che l’attuale assetto amministrativo della posizione lavorativa del ricorrente realizza la situazione di incompatibilità ambientale che l’Amministrazione stessa avrebbe voluto sanare, con evidente danno grave ed irreparabile per tutte le parti in causa”; - interveniva poi il citato provvedimento n. 353482/C4-29 del 20.10.2020, di trasferimento del ricorrente, con immediata esecuzione, dal Reparto Carabinieri -OMISSIS- -OMISSIS- (-OMISSIS-) alla Stazione Carabinieri Forestale di -OMISSIS-, quale addetto, oggetto quindi dei secondi motivi aggiunti. 1.2. In diritto, la sentenza ha deciso, qui in sintesi: - la ricordata improcedibilità del ricorso principale e dei primi motivi aggiunti in quanto gli atti con essi impugnati erano “stati integralmente superati e, comunque, resi oggettivamente inefficaci dal provvedimento n. prot. 353482/C4-29 in data 20.10.2020”, di ulteriore trasferimento del ricorrente; - la fondatezza dei secondi motivi aggiunti perché: -- prima di un ulteriore e del tutto nuovo trasferimento, per evitare l’amplificazione del contenzioso già in essere, “ci si sarebbe dovuti premurare di aprire, ad esempio, un fronte di dialogo con il ricorrente (…)”; -- emergeva “in modo nitido l’intento punitivo che si è voluto esercitare nei confronti del ricorrente, trasferendolo senza alcuna evidente giustificazione oggettiva presso una sede “ubicata a 160 chilometri dal Comune di -OMISSIS- e raggiungibile, con l’utilizzo del mezzo privato, in 2 ore e 9 minuti””; -- v’era stata “una evidente violazione del codice di comportamento militare (in particolare dell’art. 10, n. 7 del medesimo), oltre ad una parimenti manifesta violazione dell’art. 54 bis del D.lgs. n. 165/2001”; -- sebbene predicato, in verità non era stato operato un “equo bilanciamento” fra la volontà di trasferire il ricorrente e l’esigenza di consentirgli l’assistenza della suocera; -- la motivazione non dimostrava come “le due situazioni possano contemperarsi, apparendo se mai che si sia mirato a realizzare l’impossibilità di un loro contemperamento”; -- era arbitrario ritenere che la situazione di conflittualità fra ricorrente e controinteressato avesse comportato il dover “delineare un “perimetro di incompatibilità” fra i due delle dimensioni dell’intera Provincia -OMISSIS- sussistendo oggettivamente la possibilità di un impiego del ricorrente presso altre linee di comando nella medesima Provincia, idonee a garantire che non vi siano interferenze illegittime e/o inopportune fra le parti interessate”; -- come sostenuto dal ricorrente, e non contestato, secondo la struttura e i compiti dell’Arma dei Carabinieri non può sussistere alcuna interferenza diretta fra la linea di comando del NIPAAF e il Reparto operativo del ricorrente, da cui anche un vizio di travisamento dei fatti. 2. I temi censori dell’appello del Ministero si incentrano: a) sulla violazione di legge degli artt. 54-bis del d.lgs. n. 165/2001 e 10, n. 7, del d.m. n. 26573/2018; b) sul procedimento; c) sul bilanciamento di contrapposti interessi; d) sul perimetro di incompatibilità. 2.1. Ad avviso di parte, qui in sintesi, la sentenza è erronea in quanto: a.1) ai sensi dell’art. 7, co. 7, del codice di comportamento militare il divieto di sanzioni ovvero di misure discriminatorie è comunque riferito a quelle dovute “per motivi connessi alla denuncia presentata” dal militare. Occorre dunque un necessario nesso causale tra la denuncia e la misura eventualmente adottata, idoneo ad evidenziarne il carattere discriminatorio o punitivo. Ciò nella specie non ricorreva giacchè il censurato trasferimento era “motivato dall’esigenza di escludere qualsiasi rapporto, anche indiretto, con il (… controinteressato), al fine di superare la perdurante situazione di incompatibilità”. L’istituto del trasferimento, del resto, vale a restituire serenità all’ambiente di lavoro in cui opera il dipendente. Nella specie peraltro, tenuto conto che gli stessi primi Giudici, in sede cautelare, avevano rilevato la persistenza dell’incompatibilità ambientale nella sede -OMISSIS-, dato che nel locale reparto il ricorrente si trovava “nella effettiva condizione di poter incidere su affari ed interessi del (… controinteressato) e della sua famiglia (…)” e considerato che il ‘perimetro di incompatibilità’ era stato individuato nell’intera Provincia -OMISSIS- avuto riguardo al perimetro geografico di competenza territoriale del Nucleo Investigativo, di cui il controinteressato era Comandante, “Atessa è risultata essere la sede con disponibilità organica più vicina a Rodi Garganico, anche in considerazione dell’esigenza assistenziale a favore della suocera, ivi domiciliata”, del ricorrente. Sotto altro aspetto poi, i primi Giudici s’erano sostituiti all’ANAC (istituzionalmente competente a ricevere e esaminare ‘segnalazioni di illeciti da parte dei dipendenti’ ai sensi dell’art. 54-bis del d.lgs. n. 165/2001), ad essa spettando accertare se una pretesa misura ritorsiva o discriminatoria fosse conseguente all’avvenuta segnalazione di illeciti ad opera dell’appellato. Nella specie, peraltro le intervenute denunce per ‘abuso d’ufficio’ e ‘atti persecutori’ non avevano avuto alcun seguito giudiziario né disciplinare. Infine, secondo il Consiglio di Stato (Sez. IV, 30.11. 2020, n. 7562) “l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità in ordine alla valutazione delle ragioni di opportunità che giustificano tale tipologia di trasferimenti (… onde …) il giudice chiamato a valutare la legittimità dei provvedimenti che dispongono questa misura deve limitarsi al riscontro dell’effettiva sussistenza della situazione di incompatibilità venutasi a creare”; b.1) l’Amministrazione è stata costretta ad intervenire nelle more del giudizio, dovendo evitare che il ricorrente continuasse ad operare, anche indirettamente, alle dipendenze del controinteressato. Tra i due la situazione si era deteriorata quando, una volta sospeso il trasferimento presso il reparto -OMISSIS-, il ricorrente ha anche arbitrariamente riassunto l’incarico presso la stazione di -OMISSIS-, senza attendere l’esecuzione dell’ordinanza da parte dell’Amministrazione. Le ragioni di incompatibilità ambientale sono continuate a persistere, dato che il ricorrente “non ha mai ottemperato al trasferimento sin dal 5 febbraio 2020, atteso che è stato quasi costantemente assente dal servizio per periodi di riposo medico/aspettativa per infermità temporanea e fruizione di licenza, nonchè permessi per l’assistenza alla suocera disabile”. Anche da ciò l’esigenza dell’individuazione del detto ‘perimetro di incompatibilità’. Né c’è stata alcuna lesione della pretesa partecipativa del ricorrente, messo invece nella condizione di esporre le proprie difese o aspettative. Dove peraltro sarebbe voluto andare non erano risultate vacanze organiche per il suo ruolo di Sovrintendente, donde l’impossibilità di soddisfare le sue aspettative. In ogni caso, “I provvedimenti di trasferimento d’autorità di militari, ivi compresi quelli assunti per ragioni di incompatibilità ambientale, sono qualificabili come “ordini” (…) e “in quanto strettamente connessi alle esigenze organizzative dell’Amministrazione ed alla disciplina che connota il rapporto di servizio del relativo personale, sono sottratti all’applicazione della normativa generale sul procedimento amministrativo; pertanto (…) possono essere adottati senza la previa comunicazione di avvio del procedimento” (C.d.S., Sez. IV, 11.3.2020, n. 1732); c.1) fermo il diritto del dipendente di cui all’art. 33, co. 5, della l.n. 104/1992, nel caso di incompatibilità ambientale “il medesimo articolo accorda una prevalenza all’interesse dell’Amministrazione al prestigio e alla rimozione di eventuali pregiudizi, rispetto al legittimo interesse del dipendente a non essere trasferito in altra sede senza il proprio consenso per assistere il familiare disabile”. Così anche C.d.S., Sez. IV, 24.1.2020, n. 333; d.1) le diverse sedi indicate dal ricorrente (Stazione -OMISSIS-e reparto Biodiversità di Foresta Umbra, inclusi i dipendenti Nuclei di Lesina e Margherita di Savoia) non risultavano disponibili, per assenza di vacanze organiche nel suo ruolo. Il dimensionamento del ‘perimetro di incompatibilità’ aveva dovuto tenere conto dell’aggravarsi della situazione, nonchè della “assunzione medio tempore dell’incarico di Comandante del Nucleo Investigativo” ossia di un “ruolo [che, n.d.r.] implica l’espletamento di un’attività capillare su tutto il territorio della provincia, consistente nella direzione, nel coordinamento e nel controllo delle attività di polizia giudiziaria condotte nella provincia di competenza”. Né s’è potuto reimpiegare il militare in altra sede, nell’ambito della linea operativa “Parco”, che fosse alle dirette dipendenze del reparto -OMISSIS- -OMISSIS-, tenuto conto del rischio di possibili incidenze su affari e interessi del controinteressato e della sua famiglia. 3. Costituitosi, l’appellato con memoria del 5.3.2021 ha controdedotto: - precisando che nel frattempo, con atto del 15.12.2020, lo stesso era stato ulteriormente trasferito ‘d’autorità’ ed assegnato, quale addetto, alla Stazione Carabinieri “Parco” di S. Marco in Lamis; - sottolineando i diversi profili che, a suo avviso, denotavano la volontà punitiva sottostante i censurati trasferimenti; - insistendo, quanto ai trasferimenti contestati, sul fatto che l’Amministrazione aveva comunque omesso un apposito bilanciamento dei contrapposti interessi, le esigenze familiari addotte, un adeguato confronto partecipativo; - delineando anche un ulteriore profilo di illegittimità del contestato trasferimento (di violazione della normativa sindacale di riferimento) conseguente al fatto di essere, incontestabilmente, Segretario Provinciale del SIULM, onde il trasferimento medesimo – diversamente dall’accaduto – avrebbe dovuto conseguire al previo nulla osta all’associazione sindacale di sua appartenenza, affinchè “ogni diversa collocazione territoriale (…) doveva essere approvata anticipatamente dall’Organizzazione Sindacale”. 4. Con ordinanza n. 1218/2021, pubblicata il 10.3.2021, è stato ritenuto che “la miglior tutela assicurabile a fonte della proposta domanda cautelare consiste nella sola fissazione dell’udienza per la discussione del merito della controversia, in occasione della quale soltanto possono appropriatamente valutarsi le contrapposte tesi delle parti”. 5. Con memoria del 22.7.2021 il Ministero ha riepilogato i diversi argomenti che, a suo avviso, sostengono la tesi dell’erroneità della sentenza impugnata. 6. Con memoria del 21.9.2021 l’appellato ha replicato, adombrando un sopravvenuto difetto d’interesse alla decisione, in ragione dell’ulteriore citato trasferimento del 15.12.2020, eccependo che l’atto d’appello aveva violato l’art. 104 c.p.a., in quanto basato su nuove argomentazioni e eccezioni mai adombrate in primo grado e comunque riepilogando le ragioni per le quali, a suo avviso, l’appello sarebbe infondato nel merito. 7. La causa quindi, chiamata alla pubblica udienza di discussione del 12.10.2021, è stata ivi trattenuta in decisione. 8. L’appello è fondato e merita perciò di essere accolto. 9. Vale preliminarmente osservare che l’ultimo (per quanto consta) trasferimento, in ordine di tempo, della parte appellata (di cui sub 3., primo trattino, supra) pare essergli risultato soddisfacente o, quanto meno, non tale da dovervisi opporre. Lo si ricava anche dal fatto che la parte inferirebbe da ciò un possibile profilo di sopravvenuta improcedibilità dell’appello. Tanto, però, non risulta condivisibile in quanto, esclusa la ricorrenza di una intervenuta cessazione della materia del contendere, la valutazione di un’eventuale sopravvenuta carenza d’interesse alla decisione del ricorso in epigrafe sarebbe semmai spettata alla parte appellante, che al riguardo invece non ha effettuato precisazioni in tal senso né ha chiesto che essa venisse dichiarata con le pertinenti conseguenze d’ordine processuale. 10. Quanto, poi, al merito della controversia, occorre osservare che l’insieme dell’impianto argomentativo della parte appellata, fin dal suo originario ricorso, si è posato sull’assunto che i trasferimenti (non graditi) disposti dal Ministero sarebbero stati esclusivamente giustificati da un suo intento discriminatorio ovvero punitivo. Un assunto di tal genere, tuttavia, non poteva essere meramente supposto od affermato. Piuttosto doveva essere in ipotesi circonstanziatamente dimostrato, cosa che invece nella specie non risulta essere avvenuto. Né può essere condiviso il tentativo della parte appellata di far sostanziare un assioma secondo il quale la punitività o ritorsività di un trasferimento d’ordine (militare) potrebbe essere desunto dalla distanza della sede di trasferimento da quella di residenza ovvero, e più in generale, degli affetti della parte che ne risulta interessata. Ove mai vero infatti, per simmetria logica, se ne dovrebbe allora ricavare che un trasferimento in sede distante sarebbe sempre punitivo mentre uno in sede prossima, al contrario, dovrebbe sempre giudicarsi favorevole, se non addirittura soccorrevole. Un’equivalenza di tal genere, tuttavia, risponderebbe ad una logica meramente meccanicistica e scevra da ogni possibilità di valutazione delle circostanze del caso. Cosa che, invece, deve restare sempre salvaguardata. Piuttosto, l’intera ricostruzione fattuale della vicenda oggetto del presente giudizio dimostra (come del resto sostenuto dal Ministero) l’oggettiva ricorrenza di una fattispecie di profonda incompatibilità ambientale tra appellato e controinteressato, suscettibile di determinare – se oltremodo tollerata – solo disdoro per l’immagine dell’Arma dei Carabinieri. 11. Dato ciò, vale allora ricostruire in sintesi il quadro che emerge, in ordine al tema centrale della questione in esame, sulla scorta di ormai consolidati o comunque condivisibili orientamenti giurisprudenziali. 11.1. In primo luogo, per C.d.S., IV, n. 3242/2020, “l’ordinamento militare è connotato da un peculiare carattere di specialità e autosufficienza rispetto all’ordinamento generale, manifestata, tra l’altro, dalla circostanza che la fonte della sua disciplina - il d.leg. n. 66 del 2010 - è denominata «codice dell'ordinamento militare». Con il lemma «codice» si va ad indicare, difatti, un sistema conchiuso e autosufficiente di principî e di regole, tendenzialmente autoreferenziale e impermeabile a discipline esterne, cosicché, in linea di massima, al personale militare rimane estranea e non applicabile la disciplina posta per il personale civile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 2 marzo 2020, n. 1489).”. E di tanto è fondamentalmente corollario quanto detto da C.d.S., IV, n. 1489/2020, per cui vale “il principio della autosufficienza della disciplina contenuta nel codice dell’ordinamento militare (…) in forza del quale lo statuto del personale militare è costituito dalle sole norme recate dal codice ovvero da esso richiamate o da leggi speciali che espressamente vi deroghino. La peculiarità del rapporto di servizio del personale militare è tale, infatti, da rendere impossibile un confronto su basi omogenee fra lo statuto del predetto personale militare e quello civile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 2381 del 2007): in questa direzione si è mosso il legislatore enfatizzando la specificità dello statuto del personale militare (art. 19, l. n. 183 del 2010).”. 11.2. Poi, per C.d.S., Ad. plen., n. 1/2016, “b) è qualificabile come d’ufficio il trasferimento diretto a soddisfare in via primaria l’interesse pubblico, da ritenersi prioritario nei casi di assegnazione di funzioni superiori o spiccatamente diverse o di maggiore responsabilità rispetto a quelle precedentemente ricoperte, senza che rilevino le eventuali dichiarazioni di assenso o di disponibilità dell’interessato; (…) d) anche nella vigenza della l. n. 100 del 1987, il trasferimento del militare ad altra sede, disposto a seguito della soppressione dell’ente o della struttura alla quale il suddetto dipendente era originariamente assegnato, si qualificava necessariamente come trasferimento d’ufficio (…)”. 11.3. E nonostante la ricorrenza di un presupposto fattuale obiettivamente diverso da quello del caso cui si riferisce il brano motivazionale sopra riportato, è stato ancora significativamente detto da C.d.S., IV, n. 5560/2021, che “b) l’istituto del trasferimento (o del diniego di trasferimento) per incompatibilità ambientale dei dipendenti pubblici ha come principale funzione quella di preservare il decoro e il prestigio dell’Amministrazione, potenzialmente compromessi da quei comportamenti, anche non disciplinarmente sanzionabili, tenuti dai dipendenti stessi che rendono la loro permanenza non più opportuna in una determinata sede (…); il trasferimento (o il mancato trasferimento) per incompatibilità ambientale viene, pertanto, disposto per ragioni di tutela dell’interesse pubblico e non presuppone la sussistenza della colpa in capo al soggetto interessato dal provvedimento; l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità in ordine alla valutazione delle ragioni di opportunità che giustificano tale tipologia di trasferimenti (o di dinieghi di trasferimenti) i quali, proprio per questa ragione, non necessitano nemmeno di una particolare motivazione; ne consegue che il giudice, chiamato a valutare la legittimità dei provvedimenti che dispongono questa misura, deve limitarsi al riscontro dell'effettiva sussistenza della situazione di incompatibilità venutasi a creare nonché della proporzionalità del rimedio adottato per rimuoverla (Cons. Stato, sez. IV, n. 7562 del 2020; sez. IV, n. 7088 del 2019; sez. V, n. 5783 del 2019); (…) d) nel concetto (…) rientra per costante giurisprudenza anche la necessità di prevenire o di eliminare situazioni, anche solo potenziali, di incompatibilità ambientale (Cons. Stato, sez. IV, n. 1732 del 2020; sez. IV n. 118 del 2020; sez. IV n. 3771 del 2017; Cass. n. 13938 del 2017); e) la scelta dell’Amministrazione è legittima anche quando, in assenza di diffusa motivazione nel provvedimento finale, le ragioni della scelta si ritraggano univocamente dall’istruttoria (Cons. Stato, sez. V, n. 5772 del 2012).”. 11.4. Importante rammentare, inoltre, che per C.d.S., IV, n. 3819/2021, “15. Nella giurisprudenza di questo Consiglio (da ultimo Sez. IV, 7 gennaio 2020, n. 118), costituisce principio consolidato quello secondo cui, il trasferimento per motivi di opportunità ed incompatibilità ambientale (ai sensi dell’art. 55, co. 4, del d.P.R. 24 aprile 1982, n. 335 recante "Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni di polizia") non ha carattere sanzionatorio né disciplinare, non postulando comportamenti sanzionabili in sede penale e (o) disciplinare, ed è condizionato solo alla valutazione del suo presupposto essenziale, costituito dalla sussistenza oggettiva di una situazione di fatto lesiva del prestigio, decoro o funzionalità dell'amministrazione che sia, da un lato, riferibile alla presenza del dipendente in una determinata sede e, dall'altro lato, suscettibile di rimozione attraverso l'assegnazione del medesimo ad altra sede. 15.1. Infatti, la finalità della disposizione è individuata nella tutela del prestigio e del corretto funzionamento degli uffici pubblici e nella garanzia della regolarità e continuità dell'azione amministrativa, eliminando la causa obiettiva dei disagi che derivano dalla presenza del dipendente presso un determinato ufficio, a prescindere dall'imputabilità al dipendente stesso di eventuali profili soggettivi di colpa nelle vicende che hanno determinato tali disagi (da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, n. 507 del 2019; ex multis, Sez. III, n. 4234 del 2015; n. 3077 del 2015; principi affermati sin da epoca più risalente, Sez. IV, n. 2686 del 2011; Sez. VI, n. 8376 del 2010; Sez. IV, n. 598 del 2008). 15.2. Di conseguenza, ai fini dell’adozione di un provvedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale non è significativa l’origine della situazione venutasi a creare, nel senso che questa può prescindere da ogni giudizio di rimproverabilità della condotta all’interessato, essendo sufficiente che il prestigio dell’amministrazione sia messo in pericolo (da ultimo, Cons. Stato Sez. III, n. 3784 del 2018; Sez. VI, n. 731 del 2009). 15.3. D’altra parte, costituisce principio pacifico anche quello secondo cui, nella materia in argomento, competono all’Amministrazione ampi e penetranti poteri discrezionali, sindacabili da parte del giudice amministrativo unicamente ab externo, in relazione ai noti vizi di grave e manifesta illogicità, travisamento dei fatti ed incompletezza della motivazione, rimanendo esclusa ogni indagine di merito (Cons. Stato, sez. III, n. 4234 del 2015 cit.; Sez. VI, nn. 4057 e 2824 del 2009, Sez. IV, n. 4716 del 2008). 15.4. Discrezionalità riconosciuta come caratterizzata da maggiore ampiezza rispetto a quella di cui gode l’Amministrazione nei confronti degli altri pubblici dipendenti, proprio in ragione della tutela dell’interesse a che una funzione come la pubblica sicurezza sia scevra da dubbi e da equivoci sul comportamento dei suoi agenti (Cons. Stato, Sez. VI, nn. 337 e 777 del 2009).”. Ricorda inoltre lo stesso precedente che l’istituto del trasferimento per motivi di incompatibilità ambientale non è proprio ovvero esclusivo di una determinata categoria di personale pubblico ovvero alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, giacchè ad esempio: - “Rispetto ai magistrati, la giurisprudenza ha ricondotto l’istituto a situazioni oggettive d’impossibilità di esercitare le funzioni, al di fuori di ogni giudizio di riprovevolezza della condotta, mettendo in risalto la differenza ontologica rispetto al procedimento disciplinare (Cons. Stato, Sez. IV, n. 3587 del 2011 e n. 143 del 2010, riferite a magistrati ordinari; Sez. IV, n. 3712 del 2010, riferita a magistrati militari).” - (…) “Rispetto al lavoro pubblico contrattualizzato, si muove sostanzialmente nella medesima direzione la giurisprudenza della Cassazione civile che ha sempre escluso la natura disciplinare, ed ha ravvisato quella cautelare, dell’istituto in esame, rinvenendo la ragione fondante dello stesso nelle esigenze tecniche, organizzative e produttive compromesse da fatti, valutati discrezionalmente, idonei ad essere nocivi per il prestigio e il buon andamento dell’ufficio in una determinata sede.”; - “L’istituto in argomento è stato ricondotto ai principi generali fissati dall’art. 2103 c.c., quando non regolato dalla contrattazione collettiva o da norme speciali, quali, a titolo di esempio, gli artt. 468 e 469 del d.lgs. n. 297 del 1994 per gli insegnanti (cfr. Cass. civ., sez. lav., n. 27226 del 2018; n. 10833 del 2017; n. 2143 del 2017; n. 11589 del 2003).”. 11.5. E non va pretermesso quanto pure aggiunto dal predetto precedente, ove pure è stato affermato che “la lettera dell’art. 55 cit. [del d.P.R. n. 335/1982, nd.r.], co. 3 e 4, è inequivocabile nel riferire la valutazione delle esigenze di servizio e delle situazioni di famiglia al solo trasferimento d’ufficio disciplinato dal comma 3, mentre, nessun rilievo è dato alle situazioni di famiglia o personali nella regolamentazione del trasferimento per incompatibilità ambientale. 18.2. Infatti, il co. 4 dell’art. 55 cit. prende autonomamente in considerazione (…) tre diverse ipotesi di trasferimento: - quello disposto per evitare la lesione del prestigio dell’amministrazione; - quello disposto per evitare una situazione di pericolo per lo stesso dipendente; - quello disposto per la ricorrenza di gravissime ed eccezionali situazioni personali. 18.3. Dalla suddetta tripartizione, autonoma rispetto alla fattispecie del co. 3, discendono due conseguenze: a) che il trasferimento, anche in soprannumero, può avere il suo esclusivo fondamento in situazioni gravissime ed eccezionali del dipendente, ivi comprese quelle personali e familiari; b) che le situazioni familiari e personali del dipendente non entrano in gioco comparativamente quando il trasferimento è disposto per incompatibilità ambientale o per evitare situazioni di pericolo per il dipendente. (…) 18.5. Può aggiungersi che l’amministrazione, nell’individuare la sede ad quem, incontra un limite concettuale interno, derivante dalla funzione dell’istituto, che è costituito dal non poter assumere, il trasferimento disposto, connotazioni sanzionatorie, essendo le stesse estranee alla sua ratio. 18.6. In definitiva, le ragioni personali e familiari possono assumere indirettamente rilievo solo se la sede di destinazione è così lontana dal luogo di residenza da non trovare alcun collegamento con l’oggettiva incompatibilità ambientale dando corso ad un trasferimento vessatorio (in tal direzione, cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 3512 del 2009).”. E le enunciazioni sopra riportate, se adeguate ad un contesto ordinamentale non militare, a maggior ragione devono poter valere in rapporto ad un Corpo militare, quale appunto l’Arma dei carabinieri. 12. Tornando allora al caso di specie, escluso (anche per carenza di un’appropriata dimostrazione in tal senso) che nella specie i censurati trasferimenti abbiano risposto ad intendimenti ritorsivi o punitivi ad opera del Ministero ed assodata piuttosto la ricorrenza di una significativa situazione di incompatibilità ambientale, la legittimità dell’operato della parte appellante trova adeguato conforto nella doviziosità dei precedenti giurisprudenziali sopra ricordati. Si è trattato, nel caso in discorso, di trasferimenti ‘d’ordine’ ai sensi dell’art. 976 c.o.m., secondo il quale, dopo la prima assegnazione della sede di servizio del militare, i trasferimenti possono avvenire se a domanda oppure d’autorità. Ed è da escludere che quelli sgraditi dalla parte appellata, e per i quali è causa, siano stati trasferimenti a domanda. Trasferimenti d’autorità peraltro conseguenti ad un’accertata situazione di incompatibilità ambientale, per la cui sussistenza in concreto e per la cui perimetrazione dimensionale (dell’ambiente interessato da detta incompatibilità) l’Amministrazione di riferimento ha ampio margine di valutazione tecnica e di merito, la cui scrutinabilità in sede giurisdizionale, peraltro ab externo, presuppone vizi macroscopici d’irragionevolezza ed incongruenza che nel caso in discorso neppure risultano comprovati. Trattandosi poi di trasferimento d’autorità per incompatibilità ambientale, eminentemente volti alla tutela dell’interesse pubblico, teso a preservare il decoro e il prestigio dell’Amministrazione, essi – oltre che godere di un’ampia discrezionalità in ordine alla valutazione delle ragioni di opportunità che li giustificano – non presupponevano la colpa in capo all’interessato né abbisognavano di una particolare o diffusa motivazione. In sede giurisdizionale, per reputarli esenti da vizio residuo, è sufficiente peraltro riscontrare – come appunto nella fattispecie – un’effettiva sussistenza della presupposta situazione di incompatibilità venutasi a creare, oltre che un’adeguata proporzionalità del rimedio (ossia il trasferimento) occorrente a rimuoverla. Proporzionalità non intaccata dagli argomenti della parte appellata, anche perché il perimetro geografico dell’area di incompatibilità è materia di valutazione discrezionale dell’Amministrazione, non misurabile sulla base di una mera disagevolezza della nuova sede da raggiungere rispetto a quella precedente. 13. E, come visto, la giurisprudenza neppure accorda prevalenza automatica, onde resistere ad un trasferimento del tipo in argomento, a ragioni soggettive quali quelle legate alla fruizione dei benefici di cui alla l.n. 104/1992. In disparte il fatto, nella fattispecie, che il soggetto abbisognevole di ausilio era la suocera della parte appellata e quest’ultima neppure ha offerto un quadro illustrativo delle ragioni per le quali esclusivamente lui, e non altresì ulteriori membri della sua famiglia, fosse in grado di offrire detto ausilio. Un ausilio quanto meno temporaneo, all’occorrenza, durante le fasi di trasferimento tra la sede di servizio conseguita per trasferimento e quella di residenza della persona da ausiliare. 14. Ad avviso del Collegio, poi, non vale il sospetto di antisindacalità adombrato dalla parte appellata nei riguardi del ricordato suo trasferimento alla sede di Atessa. Quest’ultimo, invero, risulta risalire all’ottobre del 2020 mentre, per quanto acquisito documentalmente in atti, la designazione della parte appellata a ‘segretario provinciale’ di organizzazione sindacale è stata del dicembre di quello stesso anno. 15. Parte appellata, infine, sospetta i provvedimenti che hanno disposto i censurati trasferimenti come suscettibili di aver violato le disposizioni in materia di c.d. whistleblowing. E ciò per due aspetti: - perché i trasferimenti sarebbero intervenuti in conseguenza di segnalazioni ad opera della parte appellata effettuate ai sensi di detta materia; - perché quest’ultima esplicitamente vieta all’amministrazione datoriale condotte ritorsive direttamente conseguenti a segnalazioni di tal genere. 15.1. Si è già detto che quelli censurati e in discorso non risultano essere stati provvedimenti ritorsivi o punitivi. E già questo depriva di rilievo l’assunto di parte. 15.2. Ma vale poi ricordare che, in occasione del parere reso dal Consiglio di Stato in occasione dell’esame di un atto generale connesso all’introduzione nell’ordinamento della disciplina sopra citata (v. parere n. 615/2020 del 24.3.2020, adottato dalla Sezione I^ nell’adunanza del 4 .3.2020, avente ad oggetto la “Richiesta di parere in ordine al documento «Linee Guida in materia di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza in ragione di un rapporto di lavoro, ai sensi dell'art. 54-bis, del dlgs. n. 165/2001 (c.d. whistleblowing)»”), è stato affermato che occorresse “una puntuale perimetrazione dell’ambito applicativo in modo da evitare che la nuova disciplina possa essere strumentalmente utilizzata per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori. Di questo aspetto si è occupato lo stesso Consiglio di Stato (Sez. VI, n. 28/2020) quando ha annotato che la disciplina di cui all’art. 54-bis del d.lgs. n. 165/2001 si pone «in rapporto di eccezione rispetto al principio generale di accessibilità nei casi in cui sussista un interesse giuridicamente rilevante. Tale eccezionalità è suffragata anche dalla lettura della disposizione stessa, che collega la sua applicabilità a una serie di presupposti molto stringenti (in particolare, l'interesse dell'integrità della pubblica amministrazione e i soggetti tassativamente indicati come destinatari della segnalazione). Ne deriva che l’istituto, secondo le regole delle norme eccezionali, non possa essere applicato “oltre i casi e i tempi in esse considerati”, secondo la regola di cui all’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale».” Ed invero in occasione di C.d.S., VI, n. 28/2020, è stato sostenuto che “Se quindi le ragioni pubbliche devono necessariamente sussistere, la lettera della legge (che riporta, tra i presupposti di applicabilità dell’istituto stesso, che la segnalazione sia fatta “nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione” (…) deve essere letta in senso opposto, come già lo stesso T.A.R. aveva fatto in occasione della citata sentenza n. 3880/2018, quando aveva affermato che “l’istituto del whistleblowing non è utilizzabile per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori. Questo tipo di conflitti infatti sono disciplinati da altre normative e da altre procedure.” E tale lettura va confermata, evidenziando come, in tema di applicazione dell’istituto del cd. Whistleblowing (…), ogni qualvolta si sia in presenza di una segnalazione (…) non motivata “nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione” (come avviene quando vi confluiscano anche scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro), la segnalazione stessa non è sottratta all’accesso (…).”. Ebbene, le segnalazioni effettuate all’Autorità di riferimento dalla parte appellata appaiono motivate non tanto dall’esigenza di una mera e lata volontà di concorrere a perseguire ‘l’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione’ quanto piuttosto da un interesse personale e, comunque, strettamente connesso a ‘rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori’. Così essendo allora, e fermo comunque quanto osservato sub 15.1. supra, non può ravvisarsi interferenza alcuna tra le predette avvenute segnalazioni e l’esigenza del Ministero di perseguire, attraverso i disposti trasferimenti, una soluzione alla constatata situazione di rilevante incompatibilità ambientale. Cade così anche la supposta violazione dell’art. 10, co. 7, del decreto del Ministero n. 26573/2018. 16. Alla luce delle ragioni sopra esposte, dunque, il ricorso in epigrafe va accolto e per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, va respinto l’originario ricorso introduttivo. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in favore del Ministero, per il doppio grado di giudizio, in complessivi euro 6.000,00. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, e per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, respinge l’originario ricorso introduttivo di primo grado. Condanna parte appellata al pagamento in favore di quella appellante delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate in complessivi euro 6.000,00. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui agli artt. 52, co. 1 e 2, del d.lgs. n. 196/2003 e 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27.4.2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità della parte appellata, nonché di ogni altro dato informativo, ovunque ricorra, idoneo a risalire ad esse, ivi inclusi gli estremi della sentenza appellata. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 ottobre 2021 con l’intervento dei magistrati: Giulio Castriota Scanderbeg, Presidente Giancarlo Luttazi, Consigliere Italo Volpe, Consigliere, Estensore Francesco Frigida, Consigliere Carla Ciuffetti, Consigliere Giulio Castriota Scanderbeg, Presidente Giancarlo Luttazi, Consigliere Italo Volpe, Consigliere, Estensore Francesco Frigida, Consigliere Carla Ciuffetti, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Militari, forze armate e di polizia – Trasferimenti – Disciplina.  Militari, forze armate e di polizia – Trasferimenti – Segnalazione whistleblower – Carattere ostativo – Esclusione.              Il trasferimento del militare, anche per ragioni di incompatibilità ambientale, rientra nel genus degli ordini militari e ad essi non si applicano, ex art. 1349 c.m., le garanzie della l. n. 241 del 1990, mentre prevalgono le esigenze poste a base del trasferimento per incompatibilità ambientale prevalgono su quelle relative ai benefici di cui all’art. 33 comma 5, l. n. 104 del 1992 (1).              Il trasferimento di un militare intervenuto in conseguenza di segnalazioni non viola la disciplina in materia di c.d. whistleblowing nel caso in cui le appaiono motivate non tanto dall’esigenza di una mera e lata volontà di concorrere a perseguire l’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, quanto, piuttosto, da un interesse personale e, comunque, strettamente connesso a rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori (2).    (1) Ha ricordato la Sezione che l’ordinamento militare è connotato da un peculiare carattere di specialità e autosufficienza rispetto all’ordinamento generale, manifestata, tra l’altro, dalla circostanza che la fonte della sua disciplina - il d.lgs. n. 66 del 2010 - è denominata «codice dell'ordinamento militare».  Con il lemma «codice» si va ad indicare, difatti, un sistema conchiuso e autosufficiente di principî e di regole, tendenzialmente autoreferenziale e impermeabile a discipline esterne, cosicché, in linea di massima, al personale militare rimane estranea e non applicabile la disciplina posta per il personale civile (Cons. Stato, sez. IV, 2 marzo 2020, n. 1489).”. E di tanto è fondamentalmente corollario quanto detto dal citato Cons. Stato, sez. IV, n. 1489 del 2020, per cui vale “il principio della autosufficienza della disciplina contenuta nel codice dell’ordinamento militare (…) in forza del quale lo statuto del personale militare è costituito dalle sole norme recate dal codice ovvero da esso richiamate o da leggi speciali che espressamente vi deroghino.  La peculiarità del rapporto di servizio del personale militare è tale, infatti, da rendere impossibile un confronto su basi omogenee fra lo statuto del predetto personale militare e quello civile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 2381 del 2007): in questa direzione si è mosso il legislatore enfatizzando la specificità dello statuto del personale militare (art. 19, l. n. 183 del 2010)  Per i militari i trasferimenti ‘d’ordine’ ai sensi dell’art. 976 c.o.m., dopo la prima assegnazione della sede di servizio del militare, possono avvenire se a domanda oppure d’autorità. Trasferimenti d’autorità peraltro conseguenti ad un’accertata situazione di incompatibilità ambientale, per la cui sussistenza in concreto e per la cui perimetrazione dimensionale (dell’ambiente interessato da detta incompatibilità) l’Amministrazione di riferimento ha ampio margine di valutazione tecnica e di merito, la cui scrutinabilità in sede giurisdizionale, peraltro ab externo, presuppone vizi macroscopici d’irragionevolezza ed incongruenza che nel caso in discorso neppure risultano comprovati.  Trattandosi poi di trasferimento d’autorità per incompatibilità ambientale, eminentemente volti alla tutela dell’interesse pubblico, teso a preservare il decoro e il prestigio dell’Amministrazione, essi – oltre che godere di un’ampia discrezionalità in ordine alla valutazione delle ragioni di opportunità che li giustificano – non presupponevano la colpa in capo all’interessato né abbisognavano di una particolare o diffusa motivazione.  In sede giurisdizionale, per reputarli esenti da vizio residuo, è sufficiente peraltro riscontrare un’effettiva sussistenza della presupposta situazione di incompatibilità venutasi a creare, oltre che un’adeguata proporzionalità del rimedio (ossia il trasferimento) occorrente a rimuoverla. Proporzionalità non intaccata dagli argomenti della parte appellata, anche perché il perimetro geografico dell’area di incompatibilità è materia di valutazione discrezionale dell’Amministrazione, non misurabile sulla base di una mera disagevolezza della nuova sede da raggiungere rispetto a quella precedente.  La giurisprudenza neppure accorda prevalenza automatica, onde resistere ad un trasferimento del tipo in argomento, a ragioni soggettive quali quelle legate alla fruizione dei benefici di cui alla l.n. 104 del 1992.    (2) Ha ricordato la Sezione che in occasione del parere reso dal Consiglio di Stato in occasione dell’esame di un atto generale connesso all’introduzione nell’ordinamento della disciplina sopra citata (v. parere n. 615/2020 del 24 marzo 2020, adottato dalla Sezione I^ nell’adunanza del 4 .3.2020, avente ad oggetto la “Richiesta di parere in ordine al documento «Linee Guida in materia di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza in ragione di un rapporto di lavoro, ai sensi dell'art. 54-bis, d.lgs. n. 165 del 2001 (c.d. whistleblowing)»”), è stato affermato che occorresse “una puntuale perimetrazione dell’ambito applicativo in modo da evitare che la nuova disciplina possa essere strumentalmente utilizzata per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori. Di questo aspetto si è occupato lo stesso Consiglio di Stato (sez. VI, n. 28 del 2020) quando ha annotato che la disciplina di cui all’art. 54-bis, d.lgs. n. 165 del 2001 si pone «in rapporto di eccezione rispetto al principio generale di accessibilità nei casi in cui sussista un interesse giuridicamente rilevante. Tale eccezionalità è suffragata anche dalla lettura della disposizione stessa, che collega la sua applicabilità a una serie di presupposti molto stringenti (in particolare, l'interesse dell'integrità della pubblica amministrazione e i soggetti tassativamente indicati come destinatari della segnalazione). Ne deriva che l’istituto, secondo le regole delle norme eccezionali, non possa essere applicato “oltre i casi e i tempi in esse considerati”, secondo la regola di cui all’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale».”  Ed invero in occasione di Cons. St., sez. VI, n. 28 del 2020, è stato sostenuto che “Se quindi le ragioni pubbliche devono necessariamente sussistere, la lettera della legge (che riporta, tra i presupposti di applicabilità dell’istituto stesso, che la segnalazione sia fatta “nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione” (…) deve essere letta in senso opposto nel senso che “l’istituto del whistleblowing non è utilizzabile per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori. Questo tipo di conflitti infatti sono disciplinati da altre normative e da altre procedure.”  E tale lettura va confermata, evidenziando come, in tema di applicazione dell’istituto del cd. Whistleblowing (…), ogni qualvolta si sia in presenza di una segnalazione (…) non motivata “nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione” (come avviene quando vi confluiscano anche scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro), la segnalazione stessa non è sottratta all’accesso (…).”. 
Militari, forze armate e di polizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/raccolta-scommesse-e-controllo-autorizzatorio
Raccolta scommesse e controllo autorizzatorio
Numero 01279/2020 e data 10/07/2020 Spedizione REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato Sezione Prima Adunanza di Sezione del 8 luglio 2020 NUMERO AFFARE 00748/2020 OGGETTO: Ministero dell'interno. Richiesta di parere in merito all'interpretazione dell'art. 1, comma 644, della legge n. 190/2014, in tema di raccolta scommesse da parte di soggetti non collegati al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli; LA SEZIONE Vista la relazione trasmessa con nota n. prot. 557/PAS/U/006531/13500F del 17 giugno 2020, con la quale il Ministero dell’interno ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto; Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Paolo Carpentieri; Premesso: 1. Con nota n. prot. 557/PAS/U/006531/13500F del 17 giugno 2020 il Ministero dell’interno ha chiesto il parere del Consiglio di Stato in merito all'interpretazione dell'art. 1, comma 644, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge di stabilità 2015), in tema di raccolta scommesse da parte di soggetti non collegati al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli. 2. Dopo un’ampia esposizione del quadro normativo generale e delle difficoltà interpretative ed applicative emerse nel corso dell'attività disimpegnata dal Dipartimento della pubblica sicurezza, riguardanti un particolare aspetto del quadro normativo afferente il settore delle scommesse, il Ministero ha formulato i due seguenti quesiti specifici: «a) se l'art. 1, comma 644, della legge n. 190/2014 si applichi solo ai soggetti che operavano nel settore dei giochi leciti alla data del 30 ottobre 2014, senza la concessione rilasciata da A.D.M., ovvero anche ai soggetti che a quella stessa data ancora non operavano, consentendo loro entro 7 giorni dall'avvio dell'attività la comunicazione di cui al comma 644; b) se il sistema dei controlli che il Questore deve espletare, ai sensi del ripetuto art. 1, comma 644, della legge n. 190/2014, sia destinato a culminare nel rilascio di un'autorizzazione espressa di polizia, corrispondente a quella di cui all'art. 88 TULPS, ovvero si inserisca in un regime amministrativo del tipo di quello contemplato dall'art. 19 della legge n. 241/1990». 3. Il Ministero ha riferito di avere sottoposto la questione, in una logica di leale collaborazione istituzionale, all'attenzione dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli (A.D.M.), che ha reso il parere trasmesso in copia, nel quale, condividendo l'opportunità di chiedere l'autorevole parere di questo Consiglio di Stato, ha proposto, rispetto al primo quesito, “una lettura che concilia entrambe le disposizioni, per cui l'obbligo di comunicazione alla Questura può riguardare solo coloro che, successivamente al 30 ottobre 2014, avviano un'attività di raccolta scommesse quale punto vendita di uno di quei soggetti che, pur già attivi alla predetta data, non hanno proceduto alla regolarizzazione o ne siano decaduti”. Considerato. 1. La legge 23 dicembre 2014, n. 190 (legge di stabilità per l’anno 2015), nel comma 643, ha introdotto un insieme di disposizioni (originariamente temporanee, “In attesa del riordino della materia dei giochi pubblici in attuazione dell'articolo 14 della legge 11 marzo 2014, n. 23” di delega fiscale al Governo, delega poi non esercitata e decaduta) dirette alla regolarizzazione, a decorrere dal 1° gennaio 2015, della posizione dei “soggetti attivi alla data del 30 ottobre 2014, che comunque offrono scommesse con vincite in denaro in Italia, per conto proprio ovvero di soggetti terzi, anche esteri, senza essere collegati al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli” (regolarizzazione da effettuarsi mediante la presentazione, non oltre il 31 gennaio 2016 – termine così prorogato dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 926 - all'Agenzia delle dogane e dei monopoli di una dichiarazione di impegno alla regolarizzazione fiscale per emersione, con successivo versamento del dovuto, nonché di una domanda di rilascio di titolo abilitativo ai sensi dell'articolo 88 del testo unico delle leggi di polizia, di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 – d’ora innanzi “TULPS”, e di collegamento al totalizzatore nazionale, con impegno di sottoscrizione presso l'Agenzia delle dogane e dei monopoli del disciplinare di raccolta delle scommesse, predisposto dall'Agenzia). In base alla lettera g) del comma 643, la presentazione della domanda conferisce al titolare dell'esercizio ovvero del punto di raccolta il diritto di gestire analoga raccolta, anche per conto di uno degli attuali concessionari, esclusivamente fino alla data di scadenza nell'anno 2016 delle concessioni di Stato vigenti per la raccolta delle scommesse. L'art. 1, comma 1048, della legge n. 205 del 2017 (legge di stabilità 2018), nonché, da ultimo, il decreto-legge 26 ottobre 2019, n. 124, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 2019, n. 157 (art. 24, comma 1), hanno prorogato fino all'aggiudicazione delle nuove concessioni e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2020, le concessioni in essere e la titolarità dei punti di raccolta regolarizzati ai sensi dell'articolo 1, comma 643, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, nonché dell'articolo 1, comma 926, della legge 28 dicembre 2015, n. 208 (il termine è stato da ultimo ulteriormente prorogato di sei mesi dall’art. 69, comma 3, del decreto-legge n. 18 del 2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 27 del 2020). In base alla lettera h) del comma 643, il titolare dell'esercizio ovvero del punto di raccolta avrebbe perso il diritto suddetto in caso di mancato rilascio del titolo abilitativo di cui all'articolo 88 del TULPS ovvero di mancato versamento anche di una sola delle rate di cui alla lettera e), con conseguente chiusura dell'esercizio. 2. Il comma 644 del medesimo art. 1 della legge n. 190 del 2014 ha poi disciplinato la posizione dei “soggetti di cui al comma 643 che non aderiscono al regime di regolarizzazione di cui al medesimo comma 643”, ovvero dei soggetti “che, pur avendo aderito a tale regime, ne sono decaduti”. Riguardo a tali soggetti il comma 644, ferma “l'applicazione di quanto previsto dall'articolo 4, comma 4-bis, della legge 13 dicembre 1989, n. 401, e successive modificazioni” (ossia le sanzioni penali previste per l’esercizio abusivo di attività di giuoco o di scommessa), ha imposto una pluralità di obblighi e divieti (in materia di antiriciclaggio, di obblighi di identificazione, di oneri e responsabilità in tema di privacy, di divieto di raccolta per eventi non inseriti nel palinsesto dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli e di scommesse che consentono vincite superiori a euro 10.000, in tema di misure di contrasto alla ludopatia, etc.). Di particolare rilievo, ai fini della soluzione al quesito qui in trattazione, è la previsione della lettera e) del comma 644 in esame, secondo la quale “e) il titolare dell'esercizio o del punto di raccolta comunica i propri dati anagrafici e l'esistenza dell'attività di raccolta di gioco con vincita in denaro al questore territorialmente competente entro sette giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione e, successivamente, entro sette giorni dalla data di avvio dell'attività. . . . Chiunque esercita un punto di raccolta di scommesse, ai sensi del presente comma, deve essere in possesso dei requisiti soggettivi corrispondenti a quelli richiesti per il rilascio del titolo abilitativo di cui all'articolo 88 del testo unico di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni. Ove ne accerti l'insussistenza, il questore dispone la chiusura immediata dell'esercizio o del punto di raccolta. Gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza dispongono delle facoltà previste dall'articolo 16 del testo unico di cui al regio decreto n. 773 del 1931”. Ai sensi della lettera h), numero 5) del comma 644, la violazione delle disposizioni di cui alla lettera e) è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria di euro 5.000 [raddoppiata qualora il titolare dell'esercizio o del punto di raccolta, nonché il proprietario dell'immobile in cui opera l'esercizio o il punto di raccolta, non provvedano alla comunicazione di cui alla lettera e) nel termine di sette giorni dalla contestazione], nonché con la chiusura dell'esercizio nel caso in cui sia il titolare dell'esercizio o del punto di raccolta ad omettere la dichiarazione. 3. Per disporre di un quadro di riferimento normativo completo, occorre avere presenti altresì le seguenti (già citate) due norme di proroga. 3.1. La legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016), art. 1, comma 926, nel prorogare al 2016, ha stabilito che “Ai soggetti indicati dall'articolo 1, comma 643, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, che non hanno aderito entro il 31 gennaio 2015 alla procedura di regolarizzazione di cui al medesimo comma, nonché a quelli attivi successivamente alla data del 30 ottobre 2014, che comunque offrono scommesse con vincite in denaro in Italia, per conto proprio ovvero di soggetti terzi, anche esteri, senza essere collegati al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli, fermo in ogni caso il fatto che, in tale caso, il giocatore è l'offerente e che il contratto di gioco è pertanto perfezionato in Italia e conseguentemente regolato secondo la legislazione nazionale, è consentito regolarizzare la propria posizione alle condizioni di cui ai commi 643, 644 e 645 del medesimo articolo 1 della legge n. 190 del 2014, ai quali, a tale fine, sono apportate le seguenti modificazioni . . .”. 3.2. La successiva legge di bilancio per l’anno 2018 – legge 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 1048 - ha così previsto: “Al fine di contemperare i princìpi secondo i quali le concessioni pubbliche sono attribuite secondo procedure di selezione concorrenziali con l'esigenza di perseguire, in materia di concessioni di raccolta delle scommesse su eventi sportivi, anche ippici, e non sportivi, ivi compresi gli eventi simulati, un corretto assetto distributivo, anche a seguito dell'intesa sancita in sede di Conferenza unificata, l'Agenzia delle dogane e dei monopoli attribuisce con gara da indire entro il 30 giugno 2020 le relative concessioni alle condizioni già previste all'articolo 1, comma 932, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, con un introito almeno pari a 410 milioni di euro. A tal fine, le concessioni in essere, nonché la titolarità dei punti di raccolta regolarizzati ai sensi dell'articolo 1, comma 643, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, nonché dell'articolo 1, comma 926, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, sono prorogate fino all'aggiudicazione delle nuove concessioni e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2020, a fronte del versamento della somma annuale di euro 7.500 per diritto afferente ai punti vendita aventi come attività principale la commercializzazione dei prodotti di gioco pubblici, compresi i punti di raccolta regolarizzati, e di euro 4.500 per ogni diritto afferente ai punti vendita aventi come attività accessoria la commercializzazione dei prodotti di gioco pubblici”. 4. Il primo quesito (“se l'art. 1, comma 644, della legge n. 190/2014 si applichi solo ai soggetti che operavano nel settore dei giochi leciti alla data del 30 ottobre 2014, senza la concessione rilasciata da A.D.M., ovvero anche ai soggetti che a quella stessa data ancora non operavano, consentendo loro entro 7 giorni dall'avvio dell'attività la comunicazione di cui al comma 644”) appare, ad avviso della Sezione, di agevole soluzione. Occorre invero operare una lettura unitaria e non atomistica del complesso delle disposizioni introdotte dai citati commi 643 e 644. 4.1. Deve aversi presente che la norma in esame – commi 643-644 dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014 – nasce dall’esigenza di porre rimedio a un ampio contenzioso che si era in precedenza generato riguardo alla possibilità di operare in Italia da parte di primari bookmaker e gestori di case da gioco stabiliti in altri paesi dell’Unione, che agivano nel mercato italiano tramite l'intermediazione di numerose agenzie, comunemente denominate «centri di trasmissione dati» («CTD»), che offrono i loro servizi in locali aperti al pubblico in cui mettono a disposizione degli scommettitori un percorso telematico che consente di accedere al server del bookmaker estero, al di fuori, dunque, del collegamento al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli. Come ha ricordato il Ministero, le linee interpretative vincolanti in questa materia sono state dettate dalle note sentenze della Corte di giustizia del Lussemburgo 6 marzo 2007, nelle cause riunite C-338/04, C-359/04 E C-360/04 (Placanica), 16 febbraio 2012, nelle cause riunite C-72/10 e C-77/10 (Costa-Cifone) e 12 settembre 2013, nelle cause C-660/11 e C-8/12 (Biasci), in base alle quali gli artt. 43 CE e 49 CE ostano alla normativa nazionale che escludeva dal settore dei giochi di azzardo gli operatori costituiti sotto forma di società di capitali le cui azioni sono quotate nei mercati regolamentati (per difetto di identificabilità dei soci), ostano altresì alla successiva normativa nazionale che ha imposto l'obbligo per i nuovi concessionari (chiamati in esecuzione della sentenza “Placanica”) di insediarsi ad una distanza minima da quelli già esistenti, ostano inoltre a una normativa nazionale che impedisca di fatto qualsiasi attività transfrontaliera nel settore del gioco indipendentemente dalla forma di svolgimento della suddetta attività e, in particolare, nei casi in cui avviene un contatto diretto fra il consumatore e l’operatore ed è possibile un controllo fisico, per finalità di pubblica sicurezza, degli intermediari dell’impresa presenti sul territorio. 4.2. La medesima giurisprudenza eurounitaria ha peraltro chiarito (sentenza Biasci, cause riunite C‑660/11 e C‑8/12, cit.) che “l’obiettivo attinente alla lotta contro la criminalità collegata ai giochi d’azzardo è idoneo a giustificare le restrizioni alle libertà fondamentali derivanti da tale normativa, purché tali restrizioni soddisfino il principio di proporzionalità e nella misura in cui i mezzi impiegati siano coerenti e sistematici (v., in tal senso, citate sentenze Placanica e a., punti da 52 a 55, nonché Costa e Cifone, punti da 61 a 63)”. Il Giudice eurounitario ha in tal modo legittimato il sistema della cd. doppia autorizzazione, affermando che gli articoli 43 CE e 49 CE devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale che imponga alle società interessate a esercitare attività collegate ai giochi d’azzardo l’obbligo di ottenere un’autorizzazione di polizia, in aggiunta a una concessione rilasciata dallo Stato al fine di esercitare simili attività, rilevando in sostanza che l'obiettivo della lotta contro la criminalità collegata ai giochi d'azzardo è idoneo a giustificare quelle misure restrittive che soddisfino il principio di proporzionalità. La Corte del Lussemburgo ha altresì escluso l’obbligo dello Stato, nel cui territorio si intende svolgere l’attività di raccolta delle scommesse, di riconoscere i titoli concessori/autorizzatori rilasciati dallo Stato di stabilimento dell’operatore economico (non esistendo allo stato attuale un “obbligo di mutuo riconoscimento delle autorizzazioni rilasciate dai vari Stati membri: v., in tal senso, sentenze dell’8 settembre 2010, Stoß e a., C-316/07, da C-358/07 a C-360/07, C-409/07 e C-410/07, Racc. pag. I-8069, punto 112, nonché del 15 settembre 2011, Dickinger e Ömer, C-347/09, Racc. pag. I-8185, punti 96 e 99)”, con la conseguenza per cui “il fatto che un operatore debba disporre sia di una concessione sia di un’autorizzazione di polizia per poter accedere al mercato di cui trattasi non è, in sé, sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito dal legislatore nazionale, ossia quello della lotta alla criminalità collegata ai giochi d’azzardo”. 4.2.1. Questa impostazione – secondo la quale la disciplina dei giochi d’azzardo incide (anche) sulla materia dell’ordine pubblico, giustificando la vigenza del regime autorizzatorio previsto dagli artt. 86 e 88 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 - è stata ribadita recentemente dalla Corte costituzionale con la sentenza 27 febbraio 2019, n. 27 [“Questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi più volte riguardo alla disciplina dei giochi leciti, ricondotta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordine pubblico e sicurezza» per le modalità di installazione e di utilizzo degli apparecchi da gioco leciti e per l’individuazione dei giochi leciti. Si tratta di profili, infatti, che evocano finalità di prevenzione dei reati e di mantenimento dell’ordine pubblico (sentenze n. 72 del 2010 e n. 237 del 2006), giustificando la vigenza del regime autorizzatorio previsto dagli artt. 86 e 88 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza)]”. In questa stessa direzione si muove, infine, la giurisprudenza di questo Consiglio e del Giudice amministrativo di primo grado (si vedano, in tema, il parere di questa Sezione 15 gennaio 2020, n. 137 e la sentenza della Sez. III, 10 agosto 2018, n. 4905; per recenti casi applicativi cfr. Tar Lombardia, Brescia, 12 maggio 2020, n. 354; TAR Liguria, Sez. II, 11 aprile 2019, n. 345; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 16 aprile 2019, n. 848), nonché quella penale (Cass. pen., sez. III, n. 20879 del 2018; Id., n. 51843 del 2018). 4.2.2. La Corte di Giustizia dell'Unione europea, peraltro, ha di recente chiarito – esaminando la disciplina tedesca (sentenza n. 336 del 4 febbraio 2016, in causa C-336/14, Sebat) – che l’art. 56 TFUE osta a che uno Stato membro punisca l’intermediazione senza autorizzazione di scommesse sportive nel suo territorio effettuata per conto di un operatore titolare di una licenza per l’organizzazione di scommesse sportive in un altro Stato membro qualora il rilascio di un’autorizzazione all’organizzazione di scommesse sportive sia subordinato all’ottenimento, da parte di detto operatore, di una concessione sulla base di una procedura di assegnazione di concessioni che non rispetta i principi di parità di trattamento e di non discriminazione in ragione della nazionalità, nonché l’obbligo di trasparenza che ne deriva. Con la conseguenza che un operatore economico, autorizzato nel paese d'origine, può legittimamente esercitare il gioco d'azzardo in un altro Stato membro qualora la legislazione di quest'ultimo ostacoli o impedisca l'ottenimento di una concessione (fermo restando l’obbligo di munirsi, per i centri di raccolta delle scommesse, delle previste autorizzazioni di polizia). 4.3. Avendo presente queste coordinate ermeneutiche, che consentono di comprendere il contesto e le cause giustificative dell’intervento normativo della legge n. 190 del 2014 in esame, è possibile esaminare il primo dei due quesiti posti dal Ministero. Come già anticipato sopra, occorre a tal proposito leggere in stretto raccordo tra loro i due commi, 643 e 644, dell’art. 1 della legge di stabilità per l’anno 2015, poiché essi introducono, nel loro insieme, una disciplina sostanzialmente unitaria volta a garantire, anche in applicazione della surricordata giurisprudenza, la possibilità per gli operatori del settore dei giochi d’azzardo stabiliti in altri paesi dell’Unione, non collegati al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli, di proseguire nell’attività svolta in Italia tramite esercizi o punti di raccolta, gestiti localmente da soggetti concessionari o comunque aderenti, tramite connessione, ai centri di trasmissione dati («CTD») collocati all’estero, regolarizzando la posizione sia fiscale che amministrativa di questi ultimi. Il comma 643 identifica, coerentemente con tale finalità, la platea soggettiva dei suoi destinatari nei “soggetti attivi alla data del 30 ottobre 2014, che comunque offrono scommesse con vincite in denaro in Italia, per conto proprio ovvero di soggetti terzi, anche esteri, senza essere collegati al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli”. Questa delimitazione dell’ambito soggettivo di applicabilità della disciplina di regolarizzazione deve valere anche per il successivo comma 644, che non a caso esordisce avendo riguardo ai “soggetti di cui al comma 643 che non aderiscono al regime di regolarizzazione di cui al medesimo comma 643”, ovvero a coloro “che, pur avendo aderito a tale regime, ne sono decaduti”. Tale delimitazione, riferita a una data passata, è intrinseca del resto alla logica stessa e alla funzione di “regolarizzazione” di situazioni pregresse propria dell’intervento normativo in esame, che perciò non può aprire nuove e ulteriori possibilità future di inizio ex novo delle attività oggetto di regolarizzazione, ma deve logicamente e necessariamente riferirsi per definizione a situazioni precedenti (da regolarizzare). La ratio sottesa al complesso normativo costituito dai commi 643-644 – per quanto è consentito ricavare dalla formulazione dei testi, in questo caso particolarmente infelice e critica (in assenza, peraltro, di relazioni illustrative e lavori preparatori che possano gettare maggiore luce sulla “logica” sottostante a queste norme) – sembra essere quella di consentire ai soggetti “attivi alla data del 30 ottobre 2014” (di cui al comma 643), che non si trovassero, entro il termine originariamente previsto (31 gennaio 2015), nelle condizioni oggettive e soggettive di poter fruire della regolarizzazione per emersione del medesimo comma 643, di poter comunque proseguire (con gli obblighi e le limitazioni stabiliti dal comma 644) nell’attività di raccolta, fino al termine di celebrazione delle nuove gare per l’assegnazione delle concessioni. Se tale è, dunque, la ragion d’essere del comma 644, è evidente che esso non può estendersi oltre la platea dei soggetti che avrebbero potuto chiedere la regolarizzazione ai sensi del comma 643. Trattandosi, inoltre, di norma derogatoria e temporanea, che si pone come eccezione rispetto al regime ordinario della materia, essa, in base ai noti principi, non può essere interpretata in senso estensivo e, tra le due opzioni ermeneutiche in astratto possibili, deve preferirsi quella più circoscritta e restrittiva. 4.4. Il testo della lettera e) del comma 644, nel quale si annidano le ambiguità che hanno suscitato i dubbi sollevati dall’Amministrazione, deve conseguentemente essere letto e interpretato in coerenza (e non in contraddizione) con la logica del complesso normativo in esame e dunque in coerenza con la lettera della prima parte del comma 643, che ne definisce il perimetro logico e teleologico. In particolare, la previsione, nella lettera e) citata, secondo la quale il titolare dell'esercizio o del punto di raccolta deve effettuare le comunicazioni ivi prescritte “entro sette giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione e, successivamente, entro sette giorni dalla data di avvio dell'attività”, non può certo essere interpretata nel senso di autorizzare nuove aperture di esercizi o punti di raccolta da parte di soggetti che non avessero già esercitato come terminali di «CTD» attivi alla data del 30 ottobre 2014, ma solo nel più circoscritto senso di consentire la comunicazione anche a chi sia decaduto e a chi sia subentrato al soggetto originario, che già esercitava alla data del 30 ottobre 2014, ed abbia successivamente ceduto l’attività. 4.5. Depone nella indicata direzione anche il testo dell’art. 1, comma 926, della legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016), che ha spostato in avanti il termine per la presentazione delle domande di regolarizzazione e che ha accomunato in tale proroga il regime dei commi 643 e 644, stabilendo che “Ai soggetti indicati dall'articolo 1, comma 643, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, che non hanno aderito entro il 31 gennaio 2015 alla procedura di regolarizzazione di cui al medesimo comma, nonché a quelli attivi successivamente alla data del 30 ottobre 2014, che comunque offrono scommesse con vincite in denaro in Italia, per conto proprio ovvero di soggetti terzi, anche esteri, senza essere collegati al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli, fermo in ogni caso il fatto che, in tale caso, il giocatore è l'offerente e che il contratto di gioco è pertanto perfezionato in Italia e conseguentemente regolato secondo la legislazione nazionale, è consentito regolarizzare la propria posizione alle condizioni di cui ai commi 643, 644 e 645 del medesimo articolo 1 della legge n. 190 del 2014, ai quali, a tale fine, sono apportate le seguenti modificazioni . . . ”. 4.6. Occorre piuttosto interrogarsi – ma questo punto non è oggetto del presente quesito – su quale sia il significato da attribuire all’inciso “nonché a quelli attivi successivamente alla data del 30 ottobre 2014” contenuto nell’ora citato comma 926 della legge di stabilità per l’anno 2016, potendo invero esso in astratto significare la riapertura non solo del termine (formale) per la presentazione della domanda di regolarizzazione o della comunicazione di cui ai commi 643 e 644 della legge n. 190 del 2014, ma anche del termine (sostanziale) di esercizio attivo dell’attività di CTD (non più, dunque, solo il 30 ottobre 2014, ma il 1° gennaio 2016, data di entrata in vigore della nuova norma). In realtà, in coerenza con la logica di sanatoria di situazioni pregresse e con la sistematica del complesso normativo in esame, anche l’inciso sopra detto (“nonché a quelli attivi successivamente alla data del 30 ottobre 2014”) dovrà essere inteso come riferito esclusivamente ai casi di successiva decadenza della regolarizzazione ex comma 643 dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014, e ai casi di subingresso e cessione dell’attività, ipotesi già in tal senso contemplata dal comma 644. 4.7. Tornando al tema della natura solo temporanea – in funzione di sanatoria – della deroga all’art. 88 TULPS introdotta dal comma 644 della legge di stabilità del 2015, deve rilevarsi che in tal senso si è già espressa questa Sezione nel parere – ricordato anche nella relazione ministeriale – 15 gennaio 2020, n. 137, nel quale, nel respingere il ricorso straordinario proposto da una società titolare di un CTD affiliato a un bookmaker con sede in Malta avverso il diniego opposto nel gennaio del 2018 dalla Questura (confermato in sede gerarchica dalla Prefettura) alla comunicazione presentata dalla ricorrente ai sensi dell'art. 1, comma 644, lettera e), della legge n. 190 del 2014, finalizzata all'esercizio dell'attività di raccolta scommesse su eventi sportivi, la Sezione ha esaminato e rigettato uno specifico motivo di ricorso con il quale la parte ricorrente aveva sostenuto che, secondo il quadro normativo attualmente vigente (art. 1, comma 644, della legge n. 190 del 2014, come modificato dall'art. 1, comma 926, della legge n. 208 del 2015), per effettuare la raccolta di scommesse per conto di un bookmaker comunitario non occorrerebbe più la licenza ex art. 88 TULPS, in quanto l'attività sarebbe regolamentata e autorizzata dall'art. 1, comma 644, legge di stabilità n. 190 del 2014, bastando la regolarizzazione ivi prevista, non essendo più necessaria l’autorizzazione ex art. 88, ma la mera comunicazione sulla falsariga dell’istituto della s.c.i.a. 4.8. Su tali premesse, appare condivisibile la proposta dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli di “una lettura conforme all'ambito soggettivo di applicazione della norma che interpreti l'obbligo di comunicazione - ove non avvenuto entro i primi sette giorni dall'entrata in vigore della norma - come rivolto unicamente a chi, successivamente a tale data, avvii l'attività di raccolta quale punto vendita di uno dei soggetti che, già attivo al 30 ottobre 2014, non ha aderito alla regolarizzazione o ne sia decaduto”. 5. Più complessa appare la soluzione al secondo quesito proposto (“se il sistema dei controlli che il Questore deve espletare, ai sensi del ripetuto art. 1, comma 644, della legge n. 190/2014, sia destinato a culminare nel rilascio di un'autorizzazione espressa di polizia, corrispondente a quella di cui all'art. 88 TULPS, ovvero si inserisca in un regime amministrativo del tipo di quello contemplato dall'art. 19 della legge n. 241/1990”). 4.1. Il Ministero fa presente, riguardo a questo secondo tema, come una soluzione negativa – nel senso del mero controllo successivo, da parte del Questore, sul modello della s.c.i.a. – si porrebbe in controtendenza e in distonia con il sistema della cd. "doppia autorizzazione" che caratterizza la disciplina dell'attività di raccolta delle scommesse (ex art. 88 del regio decreto n. 773 del 1931, che prevede il duplice regime della concessione - rilasciata dall'Agenzia delle dogane e dei monopoli, attraverso una procedura attivata con bandi di gara pubblica - e della licenza di polizia rilasciata dalla Questura ai concessionari cosi individuati), sistema già positivamente vagliato, come detto, dalla giurisprudenza nazionale e unionale. 4.2. Tale sistema, imperniato sul necessario atto autorizzativo preventivo espresso della Questura, che si aggiunge alla concessione statale del servizio di raccolta, consente all'Autorità di pubblica sicurezza – ha sottolineato il richiedente Ministero - il pieno esercizio dei poteri previsti dall'ordinamento in relazione alle autorizzazioni di polizia, sia riguardo alla verifica dei requisiti "soggettivi" (assenza in capo al richiedente delle cause ostative previste dagli artt. 11 e 92 TULPS) ed "oggettivi" (relativi ai locali in cui si intende svolgere l'attività, ex art. 153 del regolamento di esecuzione del TULPS), sia riguardo al conseguente potere dell’Autorità di pubblica sicurezza di adeguare il titolo abilitativo alle specifiche situazioni contingenti mediante l’imposizione al destinatario dell'autorizzazione, nel pubblico interesse, di particolari prescrizioni che dovranno essere rispettate unitamente alle condizioni stabilite dalla legge (art. 9 TULPS), sia, ancora, riguardo ai controlli successivi al rilascio del titolo autorizzatorio (accesso del personale di pubblica sicurezza in qualunque momento nei locali in cui si svolgono le attività soggette ad autorizzazioni di polizia per controllare il rispetto delle prescrizioni imposte dalla legge, dai regolamenti oppure dall'Autorità, ex art. 16 TULPS; revoca o sospensione in caso di accertato abuso del titolo da parte della persona autorizzata, ai sensi dell'art. 10 TULPS). 4.3. La necessità del previo rilascio dell’autorizzazione ex art. 88 TULPS sarebbe suggerita anche – a giudizio del Ministero – dai principi di semplificazione e di concentrazione dei regimi amministrativi introdotto dalla legge 7 agosto 2015, n. 124 (cd. "riforma Madia"), posto che il Questore, per il rilascio delle autorizzazioni di cui all'art. 88 TULPS, deve verificare la sussistenza non solo dei predetti requisiti soggettivi ed oggettivi, contemplati dalla legislazione di polizia, ma anche di quelli previsti da altre fonti normative, quali, ad esempio, il rispetto delle distanze minime che devono intercorrere - in base alle normative regionali o comunali - tra le sale scommesse o le sale giochi ed i luoghi cd. sensibili (variamente individuati negli istituti scolastici, luoghi di culto, impianti sportivi, etc.). 4.4. Le pur condivisibili e ben argomentate esigenze di coerenza del sistema e di efficienza-efficacia nell’espletamento delle delicate funzioni di polizia di prevenzione e di sicurezza, dirette, attraverso un penetrante controllo delle attività connesse alle scommesse e al gioco d’azzardo, a prevenire e impedire la commissione di illeciti, anche penalmente rilevanti, spesso associati allo svolgimento di tali attività, argomenti che pure in astratto militerebbero per una soluzione favorevole alla tesi della necessità in ogni caso del rilascio di un titolo espresso di polizia, si scontrano tuttavia con il dato testuale della lettera della disposizione normativa di riferimento. 4.5. La medesima lettera e) del comma 644 dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014, infatti, lì dove prevede (periodi primo e secondo) uno specifico obbligo di comunicazione al Questore (in capo al titolare dell'esercizio o del punto di raccolta) dei dati anagrafici e dell'esistenza dell'attività di raccolta di gioco con vincita in denaro (con analogo obbligo in capo al proprietario dell'immobile in cui ha sede l'esercizio o il punto di raccolta nei confronti dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli), è inequivoco nel configurare tale adempimento sul modello della comunicazione dell’esercizio di un’attività sottoposta a controllo amministrativo. L’esclusione del rilascio, nel caso disciplinato dal comma 644, di una formale ed espressa autorizzazione di polizia ex art. 88 TULPS è dimostrata del resto dal semplice raffronto testuale tra i commi 643 e 644, posto che mentre nel comma 643 vi è un espresso richiamo del titolo autorizzatorio ora detto [la lettera a) di tale comma menziona “la domanda di rilascio di titolo abilitativo ai sensi dell'articolo 88 del testo unico di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773” e la lettera h) considera il caso di “mancato rilascio del titolo abilitativo di cui all'articolo 88 del testo unico di cui al regio decreto n. 773 del 1931”], nel comma 644 si parla di una mera comunicazione e non vi è alcun richiamo dell’autorizzazione espressa. 4.6. Giova peraltro evidenziare subito che il parallelo con il modello di cui all’art. 19 della legge n. 241 del 1990 (suggerito nella relazione illustrativa) appare improprio e non del tutto adatto, in primo luogo perché l’attività in questione, lungi dall’essere libera, è e resta, nel sistema, un’attività a tutti gli effetti sottoposta al regime dei controlli previsti dal TULPS, sicché la comunicazione al Questore prevista dalla lettera e) del comma 644 in esame instaura a tutti gli effetti un vero e proprio rapporto di controllo amministrativo sull’esercizio dell’attività, come tale non dissimile, come si chiarirà meglio più avanti, da quello che si stabilisce a seguito del rilascio di un normale titolo autorizzativo ex art. 88 TULPS; in secondo luogo perché il tipo di controllo demandato nel caso in esame al Questore non presenta quella natura interamente vincolata che di solito caratterizza i controlli e le verifiche previsti per le fattispecie assoggettate a s.c.i.a. Il che non implica la conseguenza che debba necessariamente configurarsi, nel caso in esame, una sorta di atto tacito di autorizzazione (sul modello del silenzio-assenso), ben potendosi ritenere che la norma speciale in esame abbia introdotto un modello atipico, se si vuole “ibrido”, a metà strada tra quello della s.c.i.a. e quello dell’atto tacito formatosi per silentium, nel senso di ammettere una fattispecie a formazione progressiva (costituita dalla comunicazione del privato e dal successivo contegno dell’amministrazione che, verificato il possesso dei requisiti, tace) all’esito della quale si instaura, come detto sopra, un normale rapporto di controllo amministrativo tipico delle licenze di polizia. I presupposti fattuali e giuridici indicati dalla norma contenuta nel comma 644, dunque, a prescindere dalla teorica ricostruibilità o meno di una sorta di assenso per silentium, bastano in quanto tali a generare gli effetti equivalenti a un rapporto di controllo nel quadro della pertinente normativa del TULPS e delle altre norme, anche regionali, in tema di lotta alla ludopatia e di limiti orari e distanziali. Né l'assimilazione della "comunicazione" alla s.c.i.a. può trovare un adeguato fondamento nella Tabella A allegata al decreto legislativo n. 222 del 2016, nella quale nella sezione 6, sono contemplate le sale giochi (nn. 83 ss.) e l’esercizio di scommesse (nn. 85 ss.), per le quali sono previsti l’autorizzazione e l’autorizzazione per avvio dell'esercizio “più SCIA per prevenzione incendi”. 4.7. Il ricorso allo strumento della comunicazione, in luogo del rilascio di un titolo autorizzatorio preventivo formale, si spiega, in questo caso, in ragione della natura e della funzione, proprie dell’intervento normativo in esame, di regolarizzazione di pregresse attività, che giustifica un alleggerimento e una qualche semplificazione dei connessi adempimenti procedurali. 4.8. Come già anticipato nel precedente paragrafo 4.6, il consolidarsi in capo al soggetto che ha effettuato la comunicazione di un titolo a proseguire l’attività di raccolta (nei limiti e alle condizioni previsti dalla norma) genera e fonda tutti i poteri di controllo previsti dal TULPS e da ogni altra fonte normativa, anche speciale, che contempli forme di intervento e di controllo continuo sulla permanenza dei requisiti soggettivi e oggettivi e sulla gestione dell’attività controllata, con tutte le conseguenti ipotesi di decadenza e di revoca che possono configurarsi in base alla predetta normativa, e ciò anche in coerenza con quelle esigenze imperative di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblici che la stessa giurisprudenza europea ha dovuto riconoscere quali validi limiti all’esercizio della libera iniziativa economica privata. Deve a tal proposito ribadirsi che, una volta instauratosi il rapporto di controllo autorizzativo con il soggetto che ha effettuato la comunicazione, l’Autorità di pubblica sicurezza disporrà nei confronti di questo soggetto esattamente di tutti gli stessi poteri (di controllo, prescrittivi e sanzionatori) che potrebbe esercitare nei confronti del titolare di una normale autorizzazione rilasciata ex art. 88 TULPS. 4.9. Chiarito che delle due opzioni ermeneutiche prospettate da codesta Amministrazione sub pagg. 5 ss. della relazione (paragrafo intitolato “Possibile ricostruzione della fattispecie”), deve preferirsi quella che esclude il rilascio di un titolo di polizia ex art. 88 TULPS e, in aderenza alla lettera della norma speciale, prevede la mera comunicazione dell’interessato, con controllo ex post del Questore, deve precisarsi, quale ulteriore corollario delle considerazioni svolte nei precedenti paragrafi 4.6 e 4.8, che, contrariamente all’impostazione che, riguardo a questa seconda soluzione, sembra ipotizzare l’Amministrazione, nel senso di una piena applicabilità del regime della s.c.i.a. ex art. 19 della legge n. 241 del 1990, non trova diretta applicazione, nella fattispecie in esame, il termine perentorio di 60 giorni dal ricevimento della segnalazione per l’adozione di motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi, ben potendosi sostenere, nel silenzio sul punto della legge speciale, che anche una verifica operata in un tempo successivo possa consentire l’adozione dei provvedimenti di chiusura immediata dell’attività stessa. Il penultimo periodo della lettera e) del comma 644 della legge n. 190 del 2014, infatti, si limita a stabilire che “Ove ne accerti l'insussistenza, il questore dispone la chiusura immediata dell'esercizio o del punto di raccolta”, senza imporre termini decadenziali per l’esecuzione di tale accertamento. Il che si spiega peraltro agevolmente con la considerazione che, già in base al TULPS, i requisiti per il lecito e legittimo esercizio dell’attività autorizzata non solo devono sussistere nel momento dell’inizio dell’attività, ma devono permanere lungo tutto l’arco del rapporto autorizzatorio, con la conseguenza che il venir meno di essi giustifica in ogni tempo la revoca del titolo o la decadenza dalla posizione soggettiva. Naturalmente principi generali di correttezza e di buona fede oggettiva nei rapporti amministrativi e di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa suggeriscono un esercizio pronto e quanto più spedito possibile del controllo iniziale, ma ciò non implica che una verifica negativa eseguita oltre il sessantesimo giorno dalla comunicazione impedisca l’adozione di misure repressive o debba dare luogo a una sorta di autoannullamento di un atto autorizzativo tacito che, comunque, come chiarito sopra, non deve necessariamente configurarsi nel caso in esame. 4.10. In conclusione, l’adozione del modello (sia pur impropriamente) riferibile (lato sensu) alla s.c.i.a. (sotto il profilo della non necessità del rilascio di provvedimento autorizzativo formale ex art. 88 TULPS), con le precisazioni sopra svolte, può evitare quegli inconvenienti segnalati dall’Amministrazione in termini di pericolo di vanificazione o destrutturazione, ancorché limitatamente a questi casi ormai residuali di situazioni soggettive regolarizzate in base alla norma speciale in esame, di quel sistema autorizzatorio completo, imperniato sul “doppio binario” (concessione governativo e autorizzazione di polizia), “in cui vengono verificati ex ante i requisiti soggettivi ed oggettivi, mentre in itinere vengono svolti costanti controlli volti ad accertare la permanenza di quelle situazioni che hanno legittimato il rilascio del titolo nonché il corretto utilizzo dello stesso, pena la sua revoca o sospensione”. Per tutto quanto sopra chiarito, infatti, può senz’altro affermarsi che i controlli “a tutto tondo” eseguiti dall’Amministrazione, sia nella fase iniziale della verifica sulla base della comunicazione, sia in itinere, in base ai normali poteri di controllo e di intervento previsti dal TULPS, possono ritenersi tutti appieno esercitabili, senza particolari limiti cronologici perentori, anche con riguardo ai soggetti regolarizzati ex comma 644 dell’art. 1 della legge n. 190 del 2014. P.Q.M. Nei suesposti termini è il parere della Sezione. IL SEGRETARIO Carola Cafarelli
Giochi – Scommesse - Raccolta scommesse – Sistema del cd. doppio binario - Soggetti terzi, anche esteri, non collegati al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli - Prosecuzione, a determinate condizioni, dell’attività di raccolta delle scommesse per conto di soggetti terzi - Art. 1, comma 644, l. n. 190 del 2014 – Possibilità - Condizione.   Giochi – Scommesse - Raccolta scommesse – Sistema del cd. doppio binario - Soggetti terzi, anche esteri, non collegati al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli - Prosecuzione, a determinate condizioni, dell’attività di raccolta delle scommesse per conto di soggetti terzi - Art. 1, comma 644, l. n. 190 del 2014 – Interpretazione – Criterio.             Alla luce della giurisprudenza eurounitaria e nazionale che, in materia di esercizio dell’attività di raccolta delle scommesse, ha sancito la legittimità del sistema del così detto “doppio binario”, per cui l’esercizio di tali attività commerciali ben può essere sottoposto, per motivi imperativi di tutela dell’ordine pubblico, alla doppia limitazione della concessione statale e dell’autorizzazione di polizia, il comma 644 dell’art. 1 della legge di stabilità per l’anno 2015 (l. 23 dicembre 2014, n. 190) - che ha consentito anche ai soggetti che non hanno aderito alla regolarizzazione prevista dal precedente comma 643 la prosecuzione, a determinate condizioni, dell’attività di raccolta delle scommesse per conto di soggetti terzi, anche esteri, non collegati al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli - è applicabile solo ai soggetti che già svolgevano l’attività di raccolta delle scommesse (così “centri di trasmissione dati”) alla data del 31 ottobre 2014, con esclusione dei soggetti che abbiano iniziato tale attività successivamente (1).             Il comma 644 dell’art. 1, l. 23 dicembre 2014, n. 190 deve interpretarsi nel senso che la comunicazione al Questore ivi prevista, se non può considerarsi alla stregua di una domanda di rilascio dell’autorizzazione di polizia prevista dall’art. 88 del TULPS, dà comunque origine, ove sussistano i requisiti soggettivi e oggettivi in capo al soggetto che l’ha effettuata, a un rapporto di controllo autorizzatorio nel corso del quale l’Autorità di pubblica sicurezza può in qualunque momento esercitare tutti i poteri di controllo previsti dal TULPS e da ogni altra norma speciale applicabile alla fattispecie, non potendo la suddetta comunicazione essere equiparata a una s.c.i.a. e dovendosi pertanto escludere la sussistenza di termini perentori e decadenziali per l’esercizio dei poteri di controllo e repressivi del Questore (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che i commi 643-644 dell’art. 1, l. 23 dicembre 2014, n. 190 – nasce dall’esigenza di porre rimedio a un ampio contenzioso che si era in precedenza generato riguardo alla possibilità di operare in Italia da parte di primari bookmaker e gestori di case da gioco stabiliti in altri paesi dell’Unione, che agivano nel mercato italiano tramite l'intermediazione di numerose agenzie, comunemente denominate «centri di trasmissione dati» («CTD»), che offrono i loro servizi in locali aperti al pubblico in cui mettono a disposizione degli scommettitori un percorso telematico che consente di accedere al server del bookmaker estero, al di fuori, dunque, del collegamento al totalizzatore nazionale dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli. Come ha ricordato il Ministero, le linee interpretative vincolanti in questa materia sono state dettate dalle note sentenze della Corte di giustizia del Lussemburgo 6 marzo 2007, nelle cause riunite C-338/04, C-359/04 E C-360/04 (Placanica), 16 febbraio 2012, nelle cause riunite C-72/10 e C-77/10 (Costa-Cifone) e 12 settembre 2013, nelle cause C-660/11 e C-8/12 (Biasci), in base alle quali gli artt. 43 CE e 49 CE ostano alla normativa nazionale che escludeva dal settore dei giochi di azzardo gli operatori costituiti sotto forma di società di capitali le cui azioni sono quotate nei mercati regolamentati (per difetto di identificabilità dei soci), ostano altresì alla successiva normativa nazionale che ha imposto l'obbligo per i nuovi concessionari (chiamati in esecuzione della sentenza “Placanica”) di insediarsi ad una distanza minima da quelli già esistenti, ostano inoltre a una normativa nazionale che impedisca di fatto qualsiasi attività transfrontaliera nel settore del gioco indipendentemente dalla forma di svolgimento della suddetta attività e, in particolare, nei casi in cui avviene un contatto diretto fra il consumatore e l’operatore ed è possibile un controllo fisico, per finalità di pubblica sicurezza, degli intermediari dell’impresa presenti sul territorio. La medesima giurisprudenza eurounitaria ha peraltro chiarito (sentenza Biasci, cause riunite C‑660/11 e C‑8/12, cit.) che “l’obiettivo attinente alla lotta contro la criminalità collegata ai giochi d’azzardo è idoneo a giustificare le restrizioni alle libertà fondamentali derivanti da tale normativa, purché tali restrizioni soddisfino il principio di proporzionalità e nella misura in cui i mezzi impiegati siano coerenti e sistematici (v., in tal senso, citate sentenze Placanica e a., punti da 52 a 55, nonché Costa e Cifone, punti da 61 a 63)”. Il Giudice eurounitario ha in tal modo legittimato il sistema della cd. doppia autorizzazione, affermando che gli articoli 43 CE e 49 CE devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale che imponga alle società interessate a esercitare attività collegate ai giochi d’azzardo l’obbligo di ottenere un’autorizzazione di polizia, in aggiunta a una concessione rilasciata dallo Stato al fine di esercitare simili attività, rilevando in sostanza che l'obiettivo della lotta contro la criminalità collegata ai giochi d'azzardo è idoneo a giustificare quelle misure restrittive che soddisfino il principio di proporzionalità. La Corte del Lussemburgo ha altresì escluso l’obbligo dello Stato, nel cui territorio si intende svolgere l’attività di raccolta delle scommesse, di riconoscere i titoli concessori/autorizzatori rilasciati dallo Stato di stabilimento dell’operatore economico (non esistendo allo stato attuale un “obbligo di mutuo riconoscimento delle autorizzazioni rilasciate dai vari Stati membri: v., in tal senso, sentenze dell’8 settembre 2010, Stoß e a., C-316/07, da C-358/07 a C-360/07, C-409/07 e C-410/07, Racc. pag. I-8069, punto 112, nonché del 15 settembre 2011, Dickinger e Ömer, C-347/09, Racc. pag. I-8185, punti 96 e 99)”, con la conseguenza per cui “il fatto che un operatore debba disporre sia di una concessione sia di un’autorizzazione di polizia per poter accedere al mercato di cui trattasi non è, in sé, sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito dal legislatore nazionale, ossia quello della lotta alla criminalità collegata ai giochi d’azzardo”. Questa impostazione – secondo la quale la disciplina dei giochi d’azzardo incide (anche) sulla materia dell’ordine pubblico, giustificando la vigenza del regime autorizzatorio previsto dagli artt. 86 e 88 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 - è stata ribadita recentemente dalla Corte costituzionale con la sentenza 27 febbraio 2019, n. 27 [“Questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi più volte riguardo alla disciplina dei giochi leciti, ricondotta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordine pubblico e sicurezza» per le modalità di installazione e di utilizzo degli apparecchi da gioco leciti e per l’individuazione dei giochi leciti. Si tratta di profili, infatti, che evocano finalità di prevenzione dei reati e di mantenimento dell’ordine pubblico (sentenze n. 72 del 2010 e n. 237 del 2006), giustificando la vigenza del regime autorizzatorio previsto dagli artt. 86 e 88 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza)]”. In questa stessa direzione si muove, infine, la giurisprudenza del Consiglio di Stato e del Giudice amministrativo di primo grado (si vedano, in tema, il parere della sez. I 15 gennaio 2020, n. 137 e la sentenza della sez. III, 10 agosto 2018, n. 4905; per recenti casi applicativi cfr. Tar Brescia 12 maggio 2020, n. 354; TAR Liguria, sez. II, 11 aprile 2019, n. 345; Tar Milano, sez. I, 16 aprile 2019, n. 848), nonché quella penale (Cass. pen., sez. III, n. 20879 del 2018; id. n. 51843 del 2018). La Corte di Giustizia dell'Unione europea, peraltro, ha di recente chiarito – esaminando la disciplina tedesca (sentenza n. 336 del 4 febbraio 2016, in causa C-336/14, Sebat) – che l’art. 56 TFUE osta a che uno Stato membro punisca l’intermediazione senza autorizzazione di scommesse sportive nel suo territorio effettuata per conto di un operatore titolare di una licenza per l’organizzazione di scommesse sportive in un altro Stato membro qualora il rilascio di un’autorizzazione all’organizzazione di scommesse sportive sia subordinato all’ottenimento, da parte di detto operatore, di una concessione sulla base di una procedura di assegnazione di concessioni che non rispetta i principi di parità di trattamento e di non discriminazione in ragione della nazionalità, nonché l’obbligo di trasparenza che ne deriva. Con la conseguenza che un operatore economico, autorizzato nel paese d'origine, può legittimamente esercitare il gioco d'azzardo in un altro Stato membro qualora la legislazione di quest'ultimo ostacoli o impedisca l'ottenimento di una concessione (fermo restando l’obbligo di munirsi, per i centri di raccolta delle scommesse, delle previste autorizzazioni di polizia).
Giochi
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Tutela cautelare atipica nella fase monocratica
N. 00123/2020 REG.PROV.CAU. N. 00380/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale per il Molise (Sezione Prima) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 380 del 2019, integrato da motivi aggiunti, proposto da Costruzioni Falcione Geom. Luigi S.r.l. in concordato preventivo, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Michele Coromano, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Regione Molise, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Campobasso, via Garibaldi, 124; nei confronti Moliseidro S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Simone Coscia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Mariarosaria Simonelli in Campobasso, via G. Mazzini n. 65; comune di Campobasso, non costituito in giudizio; per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, Per quanto riguarda il ricorso introduttivo: della Determinazione dirigenziale n. 5264 del 10.10.2019 a firma del Direttore del Servizio Programmazione Politiche Energetiche della Regione Molise, con cui è stata autorizzata la Società Moliseidro s.r.l. ad eseguire i lavori di connessione alla rete Enel Distribuzione della mini-centrale idraulica denominata “Serbatoio Calvario” nel Comune di Campobasso, ed è stata dichiarata la pubblica utilità delle suddette opere, ritenute urgenti ed indifferibili ai sensi del comma 1 lett. B) dell'art. 12 del D.P.R. 37/2001; - delle note “pratica n. 4” e “pratica n. 2” di “Avviso di avvio del procedimento” inviate dalla Moliseidro s.r.l. alla ricorrente, con le quali la società espropriante comunicava l'avvio del procedimento d'esproprio ai fini della “dichiarazione di pubblica utilità”; - degli allegati alle suddette note ovvero il piano particellare di esproprio e il progetto definitivo “opere di connessione alla rete elettrica della centrale Calvario” recante data “agosto 2018”, redatto da progettisti incaricati dalla Moliseidro s.r.l. ed approvato dalla Regione Molise, nella parte in cui il tracciato di elettrodotto non rispetta l'obbligo di arrecare minor nocumento possibile ai fondi di proprietà della società ricorrente; - della nota del 18.10.2019 a firma del legale rappresentante della Moliseidro s.r.l. – nella qualità di soggetto espropriatore – con la quale la società conferma di non aver riscontrato le osservazioni inviate dall'odierna ricorrente e riconosce la necessità di una modifica del tracciato, tuttavia, alla data della notifica del presente gravame non ancora formalmente avvenuta; - di ogni ulteriore atto presupposto, conseguenziale e comunque connesso, ivi incluso l'emanando decreto di esproprio; NONCHE' PER LA CONDANNA dell'Amministrazione regionale e del soggetto espropriante al risarcimento dei danni subiti e subendi (anche per effetto dell'eventuale emanando decreto di esproprio) dalla società Falcione Costruzioni in Concordato Preventivo per effetto dei provvedimenti impugnati e della condotta gravemente colposa dell'Amministrazione. Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati il 8\6\2020 : PER L'ANNULLAMENTO – PREVIA IDONEA MISURA CAUTELARE ANCHE INAUDITA ALTERA PARTE - del “Decreto definitivo di espropriazione ed occupazione permanente con contestuale determinazione urgente dell'indennità provvisoria di espropriazione ex art. 22 - 23 - 24 DPR 327/01” del 09.03.2020 a firma del legale rappresentante della Moliseidro s.r.l. Alessandro Zillo e relativi allegati; - della Delibera di Giunta n. 7 del 14.01.2020 del Comune di Campobasso avente ad oggetto: "Linea di connessione alla rete Enel Distribuzione della mini-centrale idraulica denominata Serbatoio Calvario nel Comune di Campobasso. Art. 52 sexies, comma 2 e art. 6 comma 8 D.P.R. 327 del 2001, Moliseidro s.r.l., via Favorita 75/A in Campomarino (CB). Procedure espropriative, delega"; - della nota prot. 2191 del 27.02.2020 - richiamata nel decreto di esproprio ma non consultabile - con la quale il Comune di Campobasso con proprio disciplinare ha delegato all'esercizio dei poteri espropriativi la Moliseidro s.r.l.; - di ogni ulteriore atto presupposto, conseguenziale e comunque connesso, nonché si rinnova con i presenti motivi aggiunti l'impugnazione di tutti gli atti già gravati con il ricorso introduttivo; NONCHE' PER LA CONDANNA delle Amministrazioni e del soggetto espropriante al risarcimento dei danni subiti e subendi (anche per effetto dell'eventuale emanando decreto di esproprio) dalla società Falcione Costruzioni in Concordato Preventivo per effetto dei provvedimenti impugnati e della condotta gravemente colposa delle Amministrazioni. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm.; Considerato che la ricorrente deduce la imminenza del danno irreparabile in quanto la Moliseidro, delegata dal comune di Campobasso ad eseguire le operazioni di esproprio, ha comunicato che il giorno 11 giugno 2020 procederà alla compilazione dello stato di consistenza e alla immediata immissione in possesso dei beni di proprietà della ricorrente, perciò, lamenta la ricorrente, potrà immediatamente procedere alla realizzazione dei lavori, consumando così definitivamente l’effetto lesivo dei provvedimenti impugnati; Ritenuto che il danno temuto possa essere scongiurato evitando l’esecuzione di attività che modifichino irreversibilmente la proprietà della ricorrente; Visto l’art 55 comma 1 cpa - applicabile per quanto di ragione, anche al decreto cautelare di cui all’art. 56 cpa – nella parte in cui autorizza il giudice ad adottare le misura cautelari che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso; Considerato dunque che sia possibile, in fase cautelare, e ancor più in questa fase monocratica, caratterizzata dall’estrema urgenza, adottare misure atipiche al fine di garantire la tutela del ricorrente, che siano diverse dalla sospensione dell’esecutività degli atti impugnati; Ritenuto che, nel caso in esame, sia possibile contemperare gli interessi della ricorrente con quelli della amministrazione, non sospendendo gli atti impugnati nella parte in cui prevedono la compilazione dello stato di consistenza e l’immediata immissione in possesso dei terreni, ma inibendo alla società Moliseidro la successiva esecuzione di lavori sino alla prossima camera di consiglio in cui il collegio potrà adottare ogni decisione sull’istanza cautelare; P.Q.M. Accoglie l’istanza cautelare nei termini di cui in motivazione e per l’effetto inibisce alla società Moliseidro di effettuare lavori nei terreni della ricorrente, dopo aver compilato lo stato di consistenza ed essersi immessa in possesso dei beni. Fissa per la trattazione collegiale la camera di consiglio del 24 giugno 2020. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Campobasso il giorno 10 giugno 2020. IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Giudizio cautelare – Decreto monocratico – Poteri cautelari atipici – Possibilità.    Nell’ambito della fase cautelare, e ancor più nella fase monocratica, caratterizzata dall’estrema urgenza, è possibile, in applicazione dell’art 55 comma 1 cpa, adottare misure atipiche al fine di garantire la tutela del ricorrente, che siano diverse dalla sospensione dell’esecutività degli atti impugnati  (1). (1) Il decreto, in applicazione dell’art 55 comma 1 cpa, nella parte in cui autorizza il giudice ad adottare le misure cautelari che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso, ha ritenuto di poter contemperare gli interessi della ricorrente con quelli della amministrazione, non sospendendo gli atti impugnati nella parte in cui prevedono la compilazione dello stato di consistenza e l’immediata immissione in possesso dei terreni, ma inibendo, alla società delegata dal comune ad eseguire le operazioni di esproprio, la successiva esecuzione di lavori sino alla prossima camera di consiglio in cui il collegio potrà adottare ogni decisione sull’istanza cautelare.
Processo amministrativo
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Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di regolamento in materia di protezione dei minori stranieri non accompagnati
Numero 00533/2021 e data 29/03/2021 Spedizione REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato Sezione Consultiva per gli Atti Normativi Adunanza di Sezione del 23 marzo 2021 NUMERO AFFARE 00257/2020 OGGETTO: Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (d.P.C.M.) recante “Regolamento concernente i compiti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, a norma dell’articolo 33, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e dell’articolo 22, comma 1, della legge 7 aprile 2017, n. 47”. LA SEZIONE Vista la nota prot. n. 3348 in data 1° aprile 2020, con la quale il Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Ufficio legislativo ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto; Visto il parere interlocutorio della Sezione n. 822 del 28 aprile 2020; Vista la nota del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Ufficio legislativo prot. n. 8220 in data 3 agosto 2020, con la quale è stato dato riscontro al predetto parere interlocutorio n. 822 del 2020; Visto il parere definitivo della Sezione n. 1535 del 28 settembre 2020; Vista la nota prot. n. 1926 del 10 marzo 2021, con la quale il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha chiesto una rivalutazione del predetto parere n. 1535 del 2020; Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Daniele Ravenna; Premesso: 1. Con nota prot. n. 3348 in data 1° aprile 2020, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Ufficio legislativo ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sullo schema di d.P.C.M. in oggetto indicato, la cui provvista si rinverrebbe negli articoli 22 della legge 7 aprile 2017, n. 47 (“Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati”) e 33, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (“Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, di seguito anche “Testo Unico Immigrazione”). 2. Con il parere interlocutorio n. 822 del 2020, reso in esito all’adunanza del 23 aprile 2020, la Sezione ha sollevato più questioni di natura preliminare, sospendendo l’emissione del parere definitivo e chiedendo al Ministero di fornire documentati chiarimenti su tali questioni. 3. Al predetto parere il Ministero ha dato riscontro con la nota prot. n. 8220 del 3 agosto 2020, con la quale ha trasmesso elementi documentali e osservazioni volti a riscontrare i rilievi formulati nel parere interlocutorio e ha concluso confidando “nel buon esito della successiva trattazione della materia”. In allegato alla medesima nota, il Ministero proponente ha trasmesso un nuovo testo dello schema di regolamento contenente modifiche formali necessarie per adeguarlo al decreto-legge 9 gennaio 2020, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 12, che ha istituito i due nuovi Ministeri dell’istruzione, nonché dell’università e della ricerca in luogo di quello dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Il nuovo testo contiene, inoltre, talune modifiche di mero drafting. 4. La Sezione, nel parere n. 1535 del 28 settembre 2020, reso in esito all’adunanza del 24 settembre 2020, ha espresso l’avviso che i chiarimenti ministeriali non permettano di superare i rilievi sollevati con il parere interlocutorio e ha concluso esprimendo un parere negativo. 5. Il Ministero, dopo aver anticipato con nota dirigenziale (prot. n. 1625 del 1° marzo 2021) le proprie ulteriori prospettazioni, ha chiesto alla Sezione, con nota prot. 1926 del 10 marzo 2021, debitamente sottoscritta dal Capo di Gabinetto d’ordine del Ministro, di rivalutare il parere n. 1535 del 2020, a tal fine deducendo ampiamente nuove argomentazioni e nuovi documenti. Considerato. 6. Per economia degli atti, si richiama integralmente quanto esposto nei due pareri su citati. 7. Il fondamento normativo dello schema di d.P.C.M. in esame va rinvenuto, secondo il Ministero richiedente, negli articoli 33, comma 2, del Testo Unico Immigrazione e 22 della legge n. 47 del 7 aprile 2017 su ricordati. 8. L’articolo 33 richiamato, al comma 1, istituiva “presso la Presidenza del Consiglio dei ministri” il Comitato per i minori stranieri. Al comma 2, specificamente richiamato dal Ministero a fondamento dello schema in esame (e, per la parte che qui interessa, non alterato dalle modifiche successivamente intervenute), stabiliva che: “Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro da lui delegato, sentiti i Ministri degli affari esteri, dell’interno e di grazia e giustizia, sono definiti i compiti del Comitato, concernenti la tutela dei diritti dei minori stranieri in conformità alle previsioni della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della legge 27 maggio 1991, n. 176, […]”. Al comma 3 prevedeva che: “Il Comitato si avvale, per l'espletamento delle attività di competenza, del personale e dei mezzi in dotazione al Dipartimento degli affari sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri ed ha sede presso il Dipartimento medesimo”. 9. In attuazione del suddetto articolo 33, comma 2, è stato emanato il d.P.C.M. 9 dicembre 1999, n. 535, recante: “Regolamento concernente i compiti del Comitato per i minori stranieri, a norma dell'articolo 33, commi 2 e 2-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”. Va sottolineato che, nel preambolo di tale regolamento, fra i “visti”, è espressamente richiamato l’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, disposizione che, come è noto, attiene alla adozione dei regolamenti ministeriali e interministeriali. Lo schema di d.P.C.M. qui in esame è volto a sostituire tale regolamento, del quale dispone l’abrogazione. 10. Nel 2012 il Comitato per i minori stranieri è stato soppresso in virtù dell’articolo 12, comma 20, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, secondo cui: “A decorrere dalla data di scadenza degli organismi collegiali operanti presso le pubbliche amministrazioni, in regime di proroga ai sensi dell’articolo 68, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, le attività svolte dagli organismi stessi sono definitivamente trasferite ai competenti uffici delle amministrazioni nell’ambito delle quali operano”. 11. Nel 2017 la ricordata legge n. 47 ha introdotto una organica disciplina per la protezione dei minori stranieri non accompagnati (intesi come i minori non aventi cittadinanza italiana o dell'Unione europea che si trovano, per qualsiasi causa, nel territorio dello Stato). In tale contesto, l’articolo 22 della legge prevede che: “Entro un mese dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Governo provvede ad apportare le modifiche necessarie ai regolamenti di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 [si tratta del regolamento di attuazione del Testo unico Immigrazione], e di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 9 dicembre 1999, n. 535 [cioè il sopra citato regolamento sui compiti del Comitato per i minori stranieri]”. Inoltre l'articolo 8, comma 2, lettera b), della medesima legge n. 47 del 2017 ha sostituito il già menzionato comma 3 dell'articolo 33 del Testo Unico Immigrazione con un nuovo testo di tutt’altro contenuto, abrogando quindi la previsione, ivi contenuta, secondo la quale il Comitato ha sede presso il Dipartimento degli affari sociali della Presidenza del Consiglio. 12. In sintesi, cioè, l’articolo 22 ora citato autorizza il Governo ad apportare ai due regolamenti suddetti (il d.P.R. di attuazione del Testo Unico Immigrazione e il d.P.C.M. regolante le competenze del Comitato, organo peraltro nel frattempo soppresso) le (sole) modificazioni necessarie al fine di adeguarli alle sopravvenute previsioni normative di cui alla medesima legge. 13. Questa Sezione, nel parere interlocutorio n. 822 del 2020 sopra ricordato, ha invitato il Ministero a fornire chiarimenti sulle seguenti questioni preliminari. A. Viene rilevata la mancata indicazione di una norma primaria che abbia disposto il trasferimento del Comitato per i minori stranieri e delle relative competenze – originariamente collocati dalla norma istitutiva presso la Presidenza del Consiglio – al Ministero, prima della soppressione del Comitato stesso. Il parere esprime pertanto perplessità sull’affermazione contenuta nel preambolo dello schema di regolamento, secondo la quale, a seguito della soppressione, le competenze del Comitato sono state trasferite al Ministero del lavoro e delle politiche sociali e pone conseguentemente in dubbio la legittimazione del Ministero a dettare, con lo schema proposto, la nuova disciplina di tali competenze. B. Lo schema di d.P.C.M appare privo di qualsivoglia atto di condivisione formale da parte della Presidenza del Consiglio. C. Il perimetro dell’autorizzazione regolamentare contenuta nell’articolo 22 della legge n. 47 del 2017 appare delimitato sia dal punto di vista oggettivo, sia da quello teleologico, giacché autorizza il Governo a modificare esclusivamente i regolamenti di cui al d.P.R. n. 394 del 1999 e di cui al d.P.C.M. n. 535 del 1999, apportando ad essi soltanto le modifiche “necessarie” ad adeguare i predetti testi regolamentari alle novità introdotte dalla legge n. 47 del 2017, mentre la relazione ministeriale indica che il testo proposto mira ad adeguare i due regolamenti citati anche ad altre fonti primarie sopravvenute. D. Con riferimento al Sistema informativo nazionale dei minori stranieri non accompagnati-SIM, previsto dall’articolo 19, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (“Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale”) e formalmente istituito presso il Ministero dall’articolo 9, comma 1, della più volte citata legge n. 47 del 2017, essendo questa materia trasferita effettivamente al Ministero, il parere giudica incongruo disciplinarla con d.P.C.M. e prospetta l’opportunità di disciplinarla con regolamento governativo ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400. 14. Il parere definitivo n. 1535 del 2020, pur preso atto degli elementi dedotti dal Ministero con la nota del 3 agosto 2020, conclude che questi non permettono di superare i rilievi sollevati. 15. La prima questione di natura preliminare, che non ha consentito alla Sezione di esprimere un parere sul merito dello schema di d.P.C.M. presentato dal Ministero, riguarda dunque la individuazione della amministrazione presso la quale operava il Comitato per i minori stranieri - istituito a suo tempo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri - all’atto della sua soppressione, intervenuta come detto nel 2012. 16. Al riguardo, il Ministero assume che il Comitato, all’atto della sua soppressione, fosse stato da tempo trasferito, con le relative competenze, presso il Ministero stesso; da ciò deduce la propria legittimazione a proporre lo schema di d.P.C.M. in esame, disciplinante tali competenze, che dichiara essere divenute proprie. 17. Viceversa la Sezione ha argomentato nel parere interlocutorio, e confermato nel parere definitivo, che, stante la non dimostrata sussistenza di una esplicita norma primaria che, prima della soppressione, abbia trasferito il Comitato e le relative competenze al Ministero, deve ritenersi che, all’atto della soppressione stessa, il Comitato fosse tuttora incardinato presso la Presidenza del Consiglio; che, in conseguenza di quanto previsto dalla norma soppressiva, tali competenze siano state definitivamente trasferite ai competenti uffici dell’amministrazione nell’ambito della quale l’organo collegiale al momento operava, e cioè la Presidenza del Consiglio; che pertanto il Ministero non risulti avere titolo a disciplinare con regolamento competenze che non risultano essergli state attribuite da una fonte primaria. 18. Orbene il Ministero, nella nota del 10 marzo 2021, con la quale chiede il riesame del parere n. 1535 del 2020, argomenta diffusamente a sostegno della propria tesi con nuove deduzioni e nuove documentazioni, che così possono essere riassunte. 19. Nel quadro dell’ampia riforma della pubblica amministrazione avviata con la legge 15 marzo 1997, n. 59, il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, ha trasferito al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, fra l’altro, “le funzioni del Dipartimento per gli affari sociali, operante presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ivi comprese quelle in materia immigrazione,…”. Il trasferimento delle funzioni in tema di immigrazione al Ministero del lavoro delle politiche sociali è stato confermato dal decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, che ne ha posticipato la decorrenza alla data di inizio della legislatura successiva a quella allora vigente, intervenuta il 30 maggio 2001. Ciò spiega, ad avviso del Ministero, il motivo per cui il d.P.C.M. n. 535 del 1999 (il più volte ricordato regolamento disciplinante le competenze del Comitato), entrato in vigore durante il regime transitorio, non potesse che fare riferimento ancora al Dipartimento per gli affari sociali della Presidenza del Consiglio. 20. Successivamente il d.P.R. 26 marzo 2001, n. 176, recante il regolamento di organizzazione del Ministero, annoverava fra le funzioni di questo le competenze in materia di minori stranieri non accompagnati, richiamando l’articolo 33 del Testo Unico Immigrazione (articolo 1-nonies). 21. La nota prosegue segnalando che il Ministero, negli anni successivi, è stato interessato da modifiche della propria denominazione e delle conseguenti funzioni, mantenendo peraltro sempre le funzioni in tema di immigrazione. Con il decreto-legge 12 giugno 2001, n. 217, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2001, n. 317, il Ministero ha acquisito la denominazione di Ministero del lavoro e delle politiche sociali (articolo 8, comma 1). Con il regolamento di riorganizzazione del Ministero di cui al d.P.R. 29 luglio 2004, n. 244, è stata prevista l’articolazione in direzioni generali, fra cui la Direzione generale dell’immigrazione, con un espresso riferimento al compito di supporto all’attività del Comitato per i minori stranieri. Successivamente, con il decreto-legge 18 maggio 2006, n. 181, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 giugno 2006, n. 233, è stata prevista l’istituzione del Ministero della solidarietà sociale; il regolamento di riordino, di cui al d.P.R. 14 maggio 2007, n. 96, ha statuito che continuava ad operare presso tale Ministero, fra gli altri, il Comitato per i minori stranieri. E’ poi con il decreto-legge 16 maggio 2008, n. 85, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 2008, n. 121, che le funzioni già attribuite al Ministero della solidarietà sociale vengono trasferite al Ministero del lavoro; il successivo regolamento recante la riorganizzazione di tale Ministero, di cui al d.P.R. 7 aprile 2011, n. 144, ha espressamente attribuito alla Direzione generale dell’immigrazione il compito di supporto all’attività del Comitato per i minori stranieri. Le funzioni in materia di minori stranieri sono state confermate dal successivo d.P.C.M. 14 febbraio 2014, n. 121, recante il regolamento di organizzazione del Ministero, che non fa più riferimento al Comitato, nel frattempo soppresso, ma richiama in modo ampio il coordinamento delle attività relative alle politiche di tutela dei minori stranieri e alla vigilanza sulle modalità di soggiorno dei minori stranieri non accompagnati e dei minori stranieri accolti temporaneamente. Infine, il vigente regolamento di organizzazione del Ministero, di cui al d.P.R. 15 marzo 2017, n. 57, conferma, all’articolo 10, comma 1, lettera g), le competenze in materia di minori stranieri della Direzione generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione. 22. In conclusione, ad avviso del Ministero richiedente, è confermato che l’ufficio amministrativo competente presso il quale il Comitato per i minori stranieri operava al momento della sua soppressione fosse il Ministero del lavoro e delle politiche sociali; conseguentemente, il Ministero è titolare all’esercizio del potere regolamentare in materia. A conferma di tale assunto, alla nota sono allegati vari documenti (fra i quali un verbale di una riunione del Comitato) che dimostrano, ad avviso del Ministero, come le altre Amministrazioni (in particolare la Presidenza del Consiglio e il Ministero dell’interno) abbiano considerato acquisito il trasferimento di competenze predetto. Viene altresì richiamato lo schema di d. P.R. recante modifiche al regolamento di attuazione del testo Unico, volto anch’esso a dare attuazione alla legge n. 47 del 2017 ai sensi dell’articolo 22 più volte citato (schema presentato al Consiglio di Stato per il parere il 5 febbraio 2020 e sul quale la Sezione ha espresso il parere n. 546 del 2020 ma, a quanto risulta, non ancora emanato), il cui articolo 2 intende sostituire le parole “Comitato per i minori stranieri”, ovunque presenti nel regolamento stesso, con le parole: “Ministero del lavoro e delle politiche sociali”. 23. A ulteriore conforto delle proprie prospettazioni, il Ministero cita il d.P.C.M. 27 settembre 2011, n. 191, recante una modifica testuale al regolamento sulle competenze del Comitato di cui al più volte citato d.P.C.M. n. 535 del 1999. Orbene, tale d.P.C.M. è stato adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988, su proposta del Ministro del lavoro delle politiche sociali e sul relativo schema è stato acquisito il parere del Consiglio di Stato n. 4800 del 2010. Il Ministero cita altresì sentenze del Consiglio di Stato (nn. 2184 del 2019 e 3431 del 2020) a supposta conferma della non contestata competenza del Ministero in materia. 24. Infine il Ministero argomenta, circa il SIM, che – diversamente da quanto opinato nei pareri della Sezione - fin dalla istituzione del Comitato per i minori stranieri, è sempre esistita un’unica banca dati per il censimento e il monitoraggio delle presenze dei minori stranieri non accompagnati sul territorio nazionale e che, pertanto, l’articolo 9, comma 1, della legge n. 47del 2017, che ha formalmente istituito il SIM presso il Ministero, fa in realtà riferimento a un unico e costante sistema di raccolta dati e monitoraggio creato nel 1999 e sviluppato nel corso degli anni. 25. Ciò premesso, i suesposti nuovi elementi e testi forniti dal Ministero giustificano un riesame del parere di questa Sezione n. 1535 del 2020. 26. Invero, nonostante la non inequivoca – ai fini che qui interessano - formulazione della ormai risalente fonte primaria su cui il Ministero fonda la propria competenza in materia (l’articolo 45, comma 3, del decreto legislativo n. 300 del 1999) e nonostante la oltremodo tardiva soppressione della norma che collocava espressamente il Comitato presso il Dipartimento della Presidenza del Consiglio (norma sopravvissuta fino alla legge n. 47 del 2017, come detto supra al n. 11), può rilevarsi che le successive fonti primarie richiamate nella nota ministeriale (i ricordati decreti-legge n. 217 del 2001, n. 181 del 2006 e n. 85 del 2008), le quali hanno variamente “spacchettato” e riconfigurato il Ministero, laddove disponevano riassuntivamente in ordine alle competenze da assegnare al Ministero nei nuovi assetti e denominazioni che questo volta a volta assumeva, ancorché non statuissero esplicitamente sul punto che qui interessa, vanno interpretate – e in effetti appaiono essere state pacificamente interpretate – nel senso di fare implicito rinvio alle competenze ministeriali quali individuate dai regolamenti in vigore all’atto della loro emanazione. In altre parole, alla luce dei nuovi elementi forniti dal Ministero, può ritenersi che la norma primaria attributiva al Ministero stesso della competenza sul Comitato – della quale i primi pareri della Sezione lamentavano la mancata indicazione - vada identificata nei decreti-legge su citati, i quali presupponevano, ai fini della determinazione del loro contenuto, la individuazione delle competenze ministeriali quali all’epoca risultavano determinate dai regolamenti organizzativi all’epoca vigenti. Inoltre, può anche considerarsi che il disposto dell’articolo 33, comma 3, del decreto legislativo n. 286 del 1998 (Testo Unico Immigrazione), nel testo antecedente la sostituzione effettuata dall’articolo 8, comma 2, lettera b), della legge n. 47 del 2017, prevedeva che “Il Comitato si avvale, per l'espletamento delle attività di competenza, del personale e dei mezzi in dotazione al Dipartimento degli affari sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri ed ha sede presso il Dipartimento medesimo”. La sede prevista presso il Dipartimento può anche far ritenere che, una volta che si trasferiscono per legge (decreti legislativi nn. 300 e 303 del 1999) al Ministero le risorse e le funzioni del Dipartimento, si sposta anche il Comitato. Che una volta soppresso, per effetto dell’articolo 12, comma 20, del decreto-legge n. 95 del 2012, secondo cui “le attività svolte dagli organismi stessi sono definitivamente trasferite ai competenti uffici delle amministrazioni nell'ambito delle quali operano”, il “competente ufficio” opera nell’ambito del Ministero ed è la direzione generale competente. 27. Tanto premesso, e riconosciuto quindi che le competenze del cessato Comitato sono state trasferite al Ministero e che questo ha titolo a predisporre, in attuazione della legge n. 47 del 2017, una nuova disciplina di tale materia, occorre porsi il quesito se la fonte proposta con lo schema in esame (il d.P.C.M.) sia idonea allo scopo perseguito. 28. Al riguardo, occorre ricordare che il Ministero, nella relazione illustrativa che accompagna lo schema, dichiara espressamente di aver inteso – mercé la presentazione dello schema - adeguare la previgente normativa regolamentare non solo alle novità introdotte dalla legge n. 47 del 2017, ma anche alle “altre disposizioni che hanno nel tempo inciso sulla competenza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali in ordine alla disciplina dei minori stranieri non accompagnati”. 29. Da un lato appare senz’altro condivisibile, in linea di principio, l’intendimento così perseguito dal Ministero, di riunire in una unica organica fonte secondaria le norme relative all’attuazione della complessa disciplina primaria stratificatasi nel tempo. D’altro canto, occorre rilevare che – come già segnalato al n. 5 del “Considerato” del già ricordato parere interlocutorio n. 822/2020 e confermato al n. 10 del parere n. 1535 del 2020 – “l’articolo 22 della legge n. 47 del 2017 non può essere utilizzato per adeguare il testo del d.P.C.M. n. 535 del 1999 a norme di rango primario sopravvenute contenute in provvedimenti legislativi diversi dalla predetta legge”, dal momento che l’autorizzazione regolamentare contenuta nell’articolo 22 predetto consente esclusivamente le modifiche “necessarie” ad adeguare il testo regolamentare in questione alle novità introdotte dalla legge n. 47 del 2017. Sul punto le due note ministeriali non offrono elementi atti a superare il rilievo. 30. Ma prima ancora, occorre porsi il quesito se la norma attributiva del potere di disciplinare con d.P.C.M. le competenze del Comitato, oggi collocate come detto presso il Ministero (il ricordato articolo 33, comma 2, del Testo Unico sull’Immigrazione) sia tuttora vigente o non debba piuttosto essere considerata incompatibile con l’evoluzione normativa successiva (e specificamente con l’avvenuto trasferimento delle suddette competenze al Ministero) e quindi tacitamente abrogata. 31. Al riguardo, un elemento testuale è offerto dal preambolo al d.P.C.M. recante il regolamento di attuazione del Comitato, laddove, come ricordato supra al n. 9, viene richiamato l’articolo 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988, cioè la norma fondante la legittimazione ad adottare regolamenti ministeriali. Questo dato testuale conferma ciò che comunque può essere desunto implicitamente, e cioè che il potere di dare attuazione a quanto previsto dall’articolo 33 del Testo Unico sui compiti del Comitato istituito dal comma 1 è conferito dal comma 2 dello stesso articolo alla fonte “d.P.C.M.” nel presupposto dell’incardinamento di tale Comitato in seno alla Presidenza del Consiglio, come del resto chiaramente statuito dal comma 3 nella sua versione originaria. Venuto meno tale presupposto con il trasferimento del Comitato e delle sue competenze al Ministero, deve trarsene, come necessaria conseguenza, la avvenuta abrogazione tacita dell’articolo 33, comma 2, del Testo Unico sull’Immigrazione, laddove demanda a un d.P.C.M. la disciplina dei compiti del Comitato, giacché tali compiti non spettano più alla Presidenza del Consiglio; ne consegue altresì la non applicabilità dell’articolo 22 della legge n. 47 del 2017, nella parte in cui autorizza il Governo ad apportare, al d.P.C.M. n. 535 del 1999, le modifiche conseguenti all’entrata in vigore della legge stessa. D’altra parte, appare incongruo che venga disciplinata con d.P.C.M. una materia rientrante in toto nella competenza di un Ministero. 32. Venuta meno nei termini su esposti la facoltà di disciplinare la materia con d.P.C.M., e nella mancanza di una specifica disposizione attributiva al Ministero della facoltà di adottare un regolamento ministeriale ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge n. 400 del 1988, non può che concludersi per la riespansione, nella materia de qua, della regola generalissima, di cui all’articolo 17, comma 1, della medesima legge, che autorizza il Governo ad emanare regolamenti per l’attuazione delle leggi. In conclusione, ritiene la Sezione che il Ministero possa farsi proponente della emanazione di un regolamento governativo ai sensi dell’articolo 17, comma 1, avente ad oggetto l’attuazione della normativa primaria in materia di protezione dei minori stranieri non accompagnati, nelle materie attribuite dalla legge alla propria competenza. 33. Va richiamato del resto che al medesimo esito perveniva il parere interlocutorio n. 822 del 2020 al n. 7 del “Considerato”, poi confermato dal parere definitivo n. 1535 del 2020 al n. 11.1, con specifico riferimento al SIM, la competenza sul quale era inequivocabilmente attribuita al Ministero dall’articolo 9, comma 1, della legge n. 47 del 2017. 34. Naturalmente il Governo può sempre valutare l’opportunità – anche sotto il profilo della speditezza dell’iter complessivo - di promuovere l’approvazione di una norma primaria che conferisca al Ministero la specifica autorizzazione ad adottare, ai sensi e nei limiti di cui all’articolo 17, comma 3, della legge n. 400, un regolamento ministeriale per disciplinare le competenze ad esso attribuite da altra normativa primaria. 35. Va sottolineato poi che le soluzioni sopra prospettate – riconducendo l’iniziativa in esame nell’alveo dell’ordinario e ordinato sistema delle fonti - consentono di superare in radice il rilievo, comunque insormontabile, richiamato supra al n. 29, relativo ai limiti di contenuto imposti all’ipotetico d.P.C.M. dall’articolo 22 della legge n. 47 del 2017. E’ chiaro infatti che un regolamento governativo emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 1, ovvero un regolamento ministeriale adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 3 (quest’ultimo sulla base di apposita norma primaria), non trovano altri limiti, teleologico e di oggetto, se non quelli derivanti dalla finalità di dare attuazione alla normativa primaria in materia di minori non accompagnati per la parte di competenza del Ministero, e nei contenuti oggettivi di tale normativa; in tale prospettiva, quindi, la soluzione esposta appare coerente con gli obiettivi, dichiaratamente (e condivisibilmente) perseguiti dal Ministero, di riordinare e accorpare unitariamente la disciplina delle proprie competenze. 36. Quanto prospettato sopra assorbe il rilievo, espresso nei precedenti pareri della Sezione, circa il mancato coinvolgimento della Presidenza del Consiglio nella presentazione dello schema in esame. 37. Non può peraltro omettersi di segnalare che, se nella normativa primaria cui il Ministero intende dare attuazione sono ricomprese disposizioni del Testo Unico sull’Immigrazione (ciò che invero risulta dalla relazione illustrativa), in tal caso si impone altresì l’applicazione dell’articolo 1, commi 6 e 7, di tale Testo Unico, ai sensi dei quali il regolamento di attuazione è emanato ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge n. 400 del 1988, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e sul relativo schema deve essere chiesto il parere delle Commissioni parlamentari competenti per materia. Qualora dunque il regolamento intervenga su materie di competenza del Ministero, la cui disciplina di rango primario si rinviene, anche parzialmente, nel Testo Unico, esso dovrà promanare da una proposta congiunta della Presidenza e del Ministero e su di esso andrà chiesto il parere parlamentare. 38. Al riguardo può ricordarsi che – come già accennato supra, al n. 11 - il più volte ricordato articolo 22 della legge n. 47 del 2017 autorizzava altresì il Governo ad apportare le “necessarie” modifiche anche al regolamento di attuazione del Testo Unico Immigrazione. In attuazione di tale disposizione, il Ministero dell’interno ha sottoposto al Consiglio di Stato uno schema di regolamento (richiamato anche dalla ultima nota ministeriale: v. supra al n. 22), sul quale la Sezione, in esito all’adunanza del 27 febbraio 2020, ha espresso il parere n. 546/2020. In tale parere la Sezione, in applicazione del principio del contrarius actus, ha segnalato la necessità che le modifiche al regolamento di attuazione vengano adottate nel rispetto delle norme che hanno disciplinato l’emanazione del regolamento stesso. Il medesimo principio andrà quindi applicato laddove la normativa proposta dal Ministero si configuri, anche parzialmente, quale attuazione del Testo Unico. 39. Per i motivi suesposti, la Sezione ritiene conclusivamente che lo schema in esame, nei termini in cui è configurato, non possa avere ulteriore corso. P.Q.M. Nei sensi suesposti è il parere della Sezione. IL SEGRETARIO Alessandra Colucci
Straniero - Minori – Comitato per i minori stranieri – Disciplina – Regolamento del Ministero del lavoro – Possibilità.      ​​​​​​​Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali può farsi proponente della emanazione di un regolamento governativo avente ad oggetto l’attuazione della normativa primaria in materia di protezione dei minori stranieri non accompagnati (1).    (1) Ha premesso la Sezione che l’art. 12, comma 20, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 135 ha soppresso il Comitato per i minori stranieri, operante presso la Presidenza del Consiglio Il Ministero ha radicato la propria competenza ad adottare il lo schema di regolamento oggetto del richiesto parere negli artt. 33, comma 2, del Testo Unico Immigrazione e 22, l. n. 47 del 7 aprile 2017 su ricordati. L’art. 33 richiamato, al comma 1, istituiva “presso la Presidenza del Consiglio dei ministri” il Comitato per i minori stranieri. Al comma 2, specificamente richiamato dal Ministero a fondamento dello schema in esame (e, per la parte che qui interessa, non alterato dalle modifiche successivamente intervenute), stabiliva che: “Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro da lui delegato, sentiti i Ministri degli affari esteri, dell’interno e di grazia e giustizia, sono definiti i compiti del Comitato, concernenti la tutela dei diritti dei minori stranieri in conformità alle previsioni della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della legge 27 maggio 1991, n. 176, [...]”. Al comma 3 prevedeva che: “Il Comitato si avvale, per l'espletamento delle attività di competenza, del personale e dei mezzi in dotazione al Dipartimento degli affari sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri ed ha sede presso il Dipartimento medesimo”.  ​​​​​​​​​​​​​​​​​La Sezione ha ricordato che sullo schema di regolamento si era già pronunciata dapprima con parere interlocutorio n. 822 del 2020 e poi con parere (negativo) n. 1535 del 28 settembre 2020 affermando, entrambe le volte, che - stante la non dimostrata sussistenza di una esplicita norma primaria che, prima della soppressione, abbia trasferito il Comitato e le relative competenze al Ministero del lavoro e delle politiche sociali - all’atto della soppressione il Comitato fosse tuttora incardinato presso la Presidenza del Consiglio; che, in conseguenza di quanto previsto dalla norma soppressiva, tali competenze siano state definitivamente trasferite ai competenti uffici dell’amministrazione nell’ambito della quale l’organo collegiale al momento operava, e cioè la Presidenza del Consiglio; che pertanto il Ministero non risulti avere titolo a disciplinare con regolamento competenze che non risultano essergli state attribuite da una fonte primaria Il Ministero del lavoro ha chiesto alla Sezione atti normativi alla luce di nuovi argomenti forniti La Sezione ha ritenuto persuasivi tali ulteriori elementi ed ha quindi concluso che la norma primaria attributiva al Ministero stesso della competenza sul Comitato – della quale i primi pareri della Sezione lamentavano la mancata indicazione - vada identificata nei decreti-legge n. 217 del 2001, n. 181 del 2006 e n. 85 del 2008, i quali presupponevano, ai fini della determinazione del loro contenuto, la individuazione delle competenze ministeriali  La Sezione si è posto quindi il quesito se la norma attributiva del potere di disciplinare con d.P.C.M. le competenze del Comitato, oggi collocate come detto presso il Ministero (l’art. 33, comma 2, del Testo Unico sull’Immigrazione) sia tuttora vigente o non debba piuttosto essere considerata incompatibile con l’evoluzione normativa successiva (e specificamente con l’avvenuto trasferimento delle suddette competenze al Ministero) e quindi tacitamente abrogata. ​​​Al riguardo, un elemento testuale è offerto dal preambolo al d.P.C.M. recante il regolamento di attuazione del Comitato, laddove viene richiamato l’art. 17, comma 3, l. n. 400 del 1988, cioè la norma fondante la legittimazione ad adottare regolamenti ministeriali. Questo dato testuale conferma ciò che comunque può essere desunto implicitamente, e cioè che il potere di dare attuazione a quanto previsto dall’articolo 33 del Testo Unico sui compiti del Comitato istituito dal comma 1 è conferito dal comma 2 dello stesso articolo alla fonte “d.P.C.M.” nel presupposto dell’incardinamento di tale Comitato in seno alla Presidenza del Consiglio, come del resto chiaramente statuito dal comma 3 nella sua versione originaria. Venuto meno tale presupposto con il trasferimento del Comitato e delle sue competenze al Ministero, deve trarsene, come necessaria conseguenza, la avvenuta abrogazione tacita dell’art. 33, comma 2, del Testo Unico sull’Immigrazione, laddove demanda a un d.P.C.M. la disciplina dei compiti del Comitato, giacché tali compiti non spettano più alla Presidenza del Consiglio; ne consegue altresì la non applicabilità dell’art. 22, l. n. 47 del 2017, nella parte in cui autorizza il Governo ad apportare, al d.P.C.M. n. 535 del 1999, le modifiche conseguenti all’entrata in vigore della legge stessa. D’altra parte, appare incongruo che venga disciplinata con d.P.C.M. una materia rientrante in toto nella competenza di un Ministero. Venuta meno nei termini su esposti la facoltà di disciplinare la materia con d.P.C.M., e nella mancanza di una specifica disposizione attributiva al Ministero della facoltà di adottare un regolamento ministeriale ai sensi dell’art. 17, comma 3, l. n. 400 del 1988, non può che concludersi per la riespansione, nella materia de qua, della regola generalissima, di cui all’art. 17, comma 1, della medesima legge, che autorizza il Governo ad emanare regolamenti per l’attuazione delle leggi. In conclusione, ritiene la Sezione che il Ministero possa farsi proponente della emanazione di un regolamento governativo ai sensi dell’art. 17, comma 1, avente ad oggetto l’attuazione della normativa primaria in materia di protezione dei minori stranieri non accompagnati, nelle materie attribuite dalla legge alla propria competenza sua versione originaria.​​​  
Straniero
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/il-consiglio-di-stato-ribadisce-la-necessit-c3-a0-di-depositare-documentazione-scientifica-concernente-l-impatto-psico-fisico-dell-uso-delle-mascherin
Il Consiglio di Stato ribadisce la necessità di depositare documentazione scientifica concernente l’impatto psico-fisico dell’uso delle mascherine sugli studenti
N. 01511/2021 REG.PROV.CAU. N. 02544/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 2544 del 2021, proposto dal -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, e dai sigg.ri -OMISSIS-, in proprio e in qualità di genitori esercenti la patria potestà sui figli minori, rappresentati e difesi dagli avvocati Mauro Sandri e Nino Filippo Moriggia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Presidenza del Consiglio e Ministero della Salute, non costituiti in giudizio; nei confronti Governo della Repubblica Italiana, non costituito in giudizio; per la riforma del decreto cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, reso tra le parti, concernente l’obbligo dell'uso di dispositivi di protezione delle vie respiratorie salvo che per i bambini di età inferiore ai sei anni; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi degli artt. 56, 62, co. 2 e 98, co. 2, cod. proc. amm.; Considerato che l’appello avverso il decreto monocratico cautelare adottato dal Presidente del Tribunale Amministrativo Regionale, a fronte del testuale disposto normativo di cui all’articolo 56 c.p.a, può essere considerato ammissibile nei soli casi del tutto eccezionali di provvedimento che abbia solo veste formale di decreto ma contenuto sostanzialmente decisorio; Ritenuto che tali casi di provvedimenti monocratici impugnabili aventi solo veste formale di decreto o “decreti meramente apparenti” si configurano esclusivamente nel caso in cui la decisione monocratica in primo grado non abbia affatto carattere provvisorio ed interinale ma definisca o rischi di definire in via irreversibile la materia del contendere; Considerato che il decreto presidenziale appellato ordina l’acquisizione, entro termini molto brevi, di molti documenti in cui sarebbe possibile individuare la (esistenza o meno di) motivazione scientifica dell’obbligo di cui al provvedimento contestato “pro parte” (cioè limitatamente all’obbligo di mascherina in classe a partire dai 6 anni di età); Ritenuto che, come questo giudice ha affermato in occasioni non molto dissimili, i provvedimenti volti a contrastare la pandemia Covid sono sindacabili in sede giurisdizionale per manifesta irragionevolezza, o per riscontrata mancanza di supporto scientifico ovvero, a maggior ragione, per la contraddittorietà con la documentazione scientifica in particolare del C.T.S.; Rilevato che nella fattispecie non viene all’esame il caso - affrontato e risolto con la sospensione cautelare - di singoli scolari per i quali era stata fornita prova di affaticamento respiratorio per l’uso prolungato della mascherina, bensì la più generale questione della coerenza scientifica, ragionevolezza e proporzionalità dell’obbligo imposto senza esclusioni a partire dall’età di 6 anni; Considerato che, tra i documenti di cui è stata disposta l’acquisizione, non dovrà mancare documentazione scientifica concernente l’impatto psico-fisico sugli studenti delle varie classi di età, giacché, ad esempio, la stessa O.M.S. raccomanda trattamenti e cautele specifiche per la fascia 6-12 anni e diversi principi per gli studenti meno giovani; Ritenuto che, già dalla considerazione sopra formulata, appare evidente come in questa sede di delibazione sommaria non possa il giudice trarre conclusioni in assenza - e, men che meno, in sostituzione - dei documenti scientifici posti a base delle contestate regole, giacché di esse, anche per gli effetti sugli studenti, purtroppo plausibilmente descritti dagli appellanti, le commissioni scientifiche portano per intero la responsabilità, e le autorità di governo su di esse fondano le decisioni nell’ambito delle misure anti contagio, sicché solo all’esito della valutazione di ragionevolezza, coerenza e proporzionalità, tenuto conto dei dati scientifici, sarà possibile una decisione in sede giurisdizionale; Considerato, quanto al pericolo di denegata tutela adombrato dagli appellanti, visto il susseguirsi a breve distanza di atti di contenuto sostanziale simile ma formalmente distinti, si può osservare che malgrado questo modus operandi, reso spesso inevitabile dal cambiamento quasi quotidiano di dati e tendenze del contagio, ai cittadini è dato censurare con motivi aggiunti eventuali atti sostanzialmente ripetitivi e incidenti sui medesimi interessi (aventi per di più tutela costituzionale), chiedendo così al giudice una pronuncia idonea anche ad orientare il futuro comportamento dell’Amministrazione; Rilevato, per quanto sinora detto, che si può sin d’ora ribadire che la esibizione tempestiva di tutti gli atti richiesti dal decreto presidenziale appellato, non solo costituisce ineludibile esecuzione dell’ordine del giudice, presidiata, in caso di inottemperanza, da diverse efficaci norme di garanzia, ma rappresenta la base istruttoria minima indispensabile affinché la funzione giurisdizionale possa essere svolta con compiutezza a tutela degli interessi meritevoli, sicché, ad esempio nel caso di specie, la circostanza che lo svolgimento della camera di consiglio innanzi al T.A.R. avverrà in data successiva alla cessazione di efficacia del decreto impugnato - ed allorché, presumibilmente, analogo obbligo di indossare le mascherine in classe sarà in vigore in forza di nuovo decreto governativo - non potrà in nessun caso essere addotta quale giustificazione per non esibire tutti gli atti richiesti dal primo giudice, dovendo semmai l’Amministrazione - giacché la lealtà e la trasparenza tra Istituzioni e cittadini è pilastro fondante del nostro ordinamento - esibire anche ulteriori documenti scientifici sopravvenuti rispetto all’ordine del decreto presidenziale appellato; Per tutte le suesposte ragioni, va confermato quanto statuito dal Presidente del T.A.R. Lazio con il decreto appellato; P.Q.M. Respinge l’istanza Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti appellanti. Così deciso in Roma il giorno 22 marzo 2021. IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Covid-19 - Misure di contenimento del contagio – Dispositivi di protezione personale – Obbligo per gli alunni durante le lezioni – D.P.C.M. 2 marzo 2021 – Sospensione cautelare monocratica - Deposito di  documentazione scientifica concernente l’impatto psico-fisico dell’uso delle mascherine sugli studenti       In occasione dell’impugnazione del d.P.C.M. 2 marzo 2021, nella parte in cui si prevede che “è obbligatorio l'uso di dispositivi di protezione delle vie respiratorie salvo che per i bambini di età inferiore ai sei anni”, il giudice di appello ribadisce la necessità che sia prodotta agli atti documentazione scientifica concernente l’impatto psico-fisico sugli studenti delle varie classi di età, giacché, ad esempio, la stessa O.M.S. raccomanda trattamenti e cautele specifiche per la fascia 6-12 anni e diversi principi per gli studenti meno giovani (1).    (1) Ha chiarito il decreto che appare evidente come in questa sede di delibazione sommaria il giudice non può trarre conclusioni in assenza - e, men che meno, in sostituzione - dei documenti scientifici posti a base delle contestate regole, giacché di esse, anche per gli effetti sugli studenti, le commissioni scientifiche portano per intero la responsabilità, e le autorità di governo su di esse fondano le decisioni nell’ambito delle misure anti contagio, sicché solo all’esito della valutazione di ragionevolezza, coerenza e proporzionalità, tenuto conto dei dati scientifici, sarà possibile una decisione in sede giurisdizionale. ​​​​​​​Il decreto ha quindi ribadito che l’esibizione tempestiva di tutti gli atti richiesti dal decreto presidenziale appellato, non solo costituisce ineludibile esecuzione dell’ordine del giudice, presidiata, in caso di inottemperanza, da diverse efficaci norme di garanzia, ma rappresenta la base istruttoria minima indispensabile affinché la funzione giurisdizionale possa essere svolta con compiutezza a tutela degli interessi meritevoli, sicché, ad esempio nel caso di specie, la circostanza che lo svolgimento della camera di consiglio innanzi al T.A.R. avverrà in data successiva alla cessazione di efficacia del decreto impugnato - ed allorché, presumibilmente, analogo obbligo di indossare le mascherine in classe sarà in vigore in forza di nuovo decreto governativo - non potrà in nessun caso essere addotta quale giustificazione per non esibire tutti gli atti richiesti dal primo giudice, dovendo semmai l’Amministrazione - giacché la lealtà e la trasparenza tra Istituzioni e cittadini è pilastro fondante del nostro ordinamento - esibire anche ulteriori documenti scientifici sopravvenuti rispetto all’ordine del decreto presidenziale appellato. 
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/clausola-sociale-che-impone-in-sede-di-gara-nel-settore-trasporti-l-indiscriminata-assunzione-di-tutto-il-personale-dell-impresa-sostituita
Clausola sociale che impone, in sede di gara nel settore trasporti, l’indiscriminata assunzione di tutto il personale dell’impresa sostituita
N. 00973/2020REG.PROV.COLL. N. 04674/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 4674 del 2019, proposto da G.T.M s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Sonia Macchia, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via San Giovanni Decollato, 10; contro Ministero dell’economia e delle finanze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, 12, è elettivamente domiciliato; Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Luigi D'Ottavi, con domicilio eletto presso la sede dell’Avvocatura capitolina in Roma, via del Tempio di Giove, 21; nei confronti Roma TPL s.c.a.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 02732/2019, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’economia e delle finanze e di Roma Capitale; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 dicembre 2019 il Cons. Valerio Perotti ed uditi per le parti gli avvocati Macchia e D'Ottavi, nonché l’avvocato dello Stato Simeoli; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO In data 22 luglio 2017 veniva pubblicato sulla GUUE, da Roma Capitale, un avviso recante le informazioni minime su una futura gara concernente l’affidamento del “Servizio di trasporto pubblico locale su gomma nel territorio periferico di Roma Capitale e servizi accessori. Suddiviso in due lotti”. Esperita la procedura di consultazione prevista dall’Allegato A alla Delibera n. 49 del 17 giugno 2015 dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti (ART), ai fini dell’individuazione dei beni essenziali all’esercizio dei servizi nonché del personale oggetto di trasferimento dal gestore uscente a quello entrate, il 25 novembre 2018 la stazione appaltante pubblicava il bando di gara e gli ulteriori atti costituenti la lex specialis della procedura. Più nel dettaglio, il lotto 1 era composto da 54 linee, per una produzione chilometrica complessiva annua di circa 16,2 milioni di vett*km, mentre il lotto 2 comprendeva 49 linee, per una produzione chilometrica complessiva annua di 13,7 milioni di vett*km, per un totale pari a 29,9 milioni di vett*km. La procedura, da aggiudicarsi secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, prevedeva che il servizio fosse remunerato mediante il riconoscimento di un corrispettivo chilometrico, con conseguente esclusione in capo al gestore del c.d. “rischio commerciale”, secondo lo schema del c.d. “gross-cost”. Il termine per la presentazione delle offerte scadeva il 18 marzo 2019. Con ricorso al Tribunale amministrativo del Lazio, la società G.T.M. s.r.l. impugnava il bando e gli ulteriori atti di gara, in particolare il disciplinare, il capitolato speciale tecnico prestazionale, lo schema di contratto, la relazione di stima del corrispettivo a base d’asta, la relazione sui beni strumentali per i servizi messi a gara, oltre al provvedimento in data 14 novembre 2018, recante la determinazione a contrarre e l’approvazione del PEF simulato. Dopo aver evidenziato l’asserita diretta lesività degli atti della lex specialis, deduceva le seguenti doglianze: 1) Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 4 del Regolamento 1370/2007/CE. Violazione e falsa applicazione dell’art. 17 del d.lgs n. 422/1997, nonché dell’art. 27, comma 8 bis, del d.l. n. 50/2017. Violazione del decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti n. 157/2018. Eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, contraddittorietà con i precedenti e disparità di trattamento, errore sui presupposti, travisamento e sviamento dal fine. 2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 51 del d.lgs n. 50/2016. Violazione e falsa applicazione della misura 6 dell’Allegato alla delibera ART n. 48/2017 del 30 marzo 2017. Eccesso di potere per illogicità manifesta, difetto di istruttoria e di motivazione e sviamento dal fine. 3) Violazione e falsa applicazione dell’art. 48, comma 7, lett. e), del d.l. n. 50/2017 – Violazione e falsa applicazione della delibera dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti n. 49/2015. Eccesso di potere. Illogicità. Violazione dei principi costituzionali e comunitari di libertà d’iniziativa economica e di concorrenza, oltreché di buon andamento dell’azione amministrativa. Costituitasi in giudizio, Roma Capitale concludeva per l’infondatezza del gravame, chiedendo che fosse respinto. Con sentenza 1° marzo 2019, n. 2732, il giudice adito accoglieva parzialmente il ricorso, respingendo le censure relative alla presunta illegittimità della divisione in due lotti del servizio di trasporto pubblico locale oggetto della gara, nonché quelle concernenti la previsione dell’obbligo, per l’aggiudicatario, di acquisire senza soluzione di continuità tutto il personale dipendente del gestore uscente, ad eccezione di quello dirigente, a pena di esclusione dalla procedura. Avverso tale decisione la società G.T.M. s.r.l. interponeva appello, deducendo i seguenti motivi di impugnazione: 1) Sull’erroneo rigetto del secondo motivo di ricorso articolato in primo grado: Violazione e falsa applicazione dell’art. 51 del D.Lgs n. 50/2016. Violazione e falsa applicazione della Misura 6 dell’Allegato alla Delibera ART n. 48/2017 del 30 marzo 2017. Eccesso di potere per illogicità manifesta, difetto di istruttoria e di motivazione e sviamento dal fine. Error in iudicando. 2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 48, comma 7, lett. e) del D.L. n. 50/2017 – Violazione e falsa applicazione della Delibera dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti n. 49/2015. Eccesso di potere. Illogicità. Violazione dei principi costituzionali e comunitari di libertà d’iniziativa economica e di concorrenza oltreché di buon andamento dell’azione amministrativa. Si costituiva in giudizio Roma Capitale, chiedendo il rigetto dell’appello proponendo a sua volta appello incidentale che contestava sia il capo 2 della sentenza n. 2732 del 2019 (in relazione all’ammissibilità del ricorso di prime cure sia in assenza di domanda di partecipazione che avuto riguardo alle caratteristiche della società ricorrente), sia il capo 3 (relativo all’imposizione, nei confronti della stazione appaltante, di costi standard determinati unicamente rispetto al d.m. n. 157 del 2018). Anche il Ministero dell’economia e delle finanze si costituiva, parimenti chiedendo la reiezione del gravame. Successivamente le parti ulteriormente ribadivano, con apposite memorie, le rispettive tesi difensive ed all’udienza del 12 dicembre 2019, dopo la rituale discussione, la causa veniva trattenuta in decisione. DIRITTO Con il primo motivo di appello, la società G.T.N. s.r.l. lamenta l’illegittimità del dimensionamento dei lotti in gara operato da Roma Capitale, sul presupposto dell’irragionevolezza della scelta di dividere in due lotti un servizio in precedenza gestito unitariamente, atteso che tale decisione non consentirebbe – da un lato – di favorire la partecipazione di piccole e media imprese (con evidente violazione dell’art. 51 del d.lgs. n. 50 del 2016), né – dall’altro – di realizzare le economie di scala e di densità cui fa riferimento la Misura 6 dell’allegato alla delibera ART n. 48 del 2017. La decisione di Roma Capitale avrebbe piuttosto determinato una duplicazione dei costi, tanto più ove si consideri l’impossibilità che ciascun concorrente risultasse aggiudicatario di più di un lotto (ex art. II.2.5 bando); né alla base di essa vi sarebbero delle puntuali analisi dell’amministrazione, avendo questa tenuto in considerazione solamente lo studio ASSTRA relativo alle performance del mercato del TPL nazionale nel triennio 2013-2015. Nemmeno Roma Capitale sarebbe riuscita a provare l’esistenza di un’analisi preliminare di tipo economico che dimostri perché la suddivisione in due lotti sia stata ritenuta preferibile ad un lotto unico o, al contrario, ad una divisione in un numero di lotti superiore a due, non potendo certamente essere sufficiente a tal fine la necessità, richiamata dal Comune e condivisa dal primo giudice, di relazionarsi con due soli gestori. Per contro, conclude l’appellante, la normativa di settore (in particolare, la Misura 6 dell’Allegato alla delibera ART n. 48 del 2017) prescrive che il dimensionamento dei lotti nel caso di affidamento di servizi di trasporto pubblico locale debba essere preceduto dall’espletamento di un’idonea istruttoria da parte della stazione appaltante, finalizzata non solo a garantire il massimo grado di partecipazione possibile, ma anche a dimostrare che la configurazione dei lotti prescelta consente di realizzare specifiche economie di gestione e di densità. Il motivo non può essere accolto. Premesso che non è di immediata evidenza un effettivo interesse di G.T.M. s.r.l. a proporre tale motivo di gravame (interesse da cui dipende l’ammissibilità dello stesso), dal momento che le censure dedotte sembrano involgere più che altro profili di opportunità e di buona amministrazione, non immediatamente connessi ad una posizione soggettiva specifica dell’appellante, va detto che la scelta della stazione appaltante non risulta in evidente contrasto con quanto previsto dall’art. 51 del d.lgs. n. 50 del 2016. Tale disposizione prevede (al primo comma), in particolare, che “[…] sia nei settori ordinari che nei settori speciali, al fine di favorire l'accesso delle microimprese, piccole e medie imprese, le stazioni appaltanti suddividono gli appalti in lotti funzionali di cui all'articolo 3, comma 1, lettera qq), ovvero in lotti prestazionali di cui all'articolo 3, comma 1, lettera ggggg), in conformità alle categorie o specializzazioni nel settore dei lavori, servizi e forniture. Le stazioni appaltanti motivano la mancata suddivisione dell'appalto in lotti nel bando di gara o nella lettera di invito e nella relazione unica di cui agli articoli 99 e 139. Nel caso di suddivisione in lotti, il relativo valore deve essere adeguato in modo da garantire l'effettiva possibilità di partecipazione da parte delle microimprese, piccole e medie imprese. E' fatto divieto alle stazioni appaltanti di suddividere in lotti al solo fine di eludere l'applicazione delle disposizioni del presente codice, nonché di aggiudicare tramite l'aggregazione artificiosa degli appalti”. Deve quindi concludersi che (es. Cons. Stato, V, 26 giugno 2017, n. 3110; III, 21 marzo 2019, n. 1857) in materia di appalti pubblici è principio di carattere generale la preferenza per la suddivisione in lotti, in quanto diretta a favorire la partecipazione alle gare delle piccole e medie imprese; tale principio, come recepito all'art. 51 d.lgs. n. 50 del 2016, non costituisce peraltro una regola inderogabile: la norma consente alla stazione appaltante di derogarvi per giustificati motivi, che devono essere puntualmente espressi nel bando o nella lettera di invito, essendo il precetto della ripartizione in lotti è funzionale alla tutela della concorrenza. Della quale vi è violazione in caso di previsione di lotti di importo spropositato (Cons. Stato, V, 6 marzo 2017, n. 1038) e riferiti ad ambiti territorialmente incongrui. Nel caso di specie, dunque, avendo l’amministrazione optato per la divisione in lotti anziché per il mantenimento di un compendio unitario – come invece auspicato dall’appellante – nessuna puntuale motivazione era dovuta in ordine alle ragioni di pubblico interesse di tale prioritaria scelta, a differenza di quanto la stazione appaltante avrebbe invece dovuto fare nel caso si fosse determinata in senso opposto. Al riguardo, va ribadito che il principio generale della suddivisione in lotti può essere derogato solamente attraverso una decisione che va adeguatamente motivata in ordine alla decisone di frazionare o meno un appalto di grosse dimensioni in lotti e che è espressione di scelta discrezionale, sindacabile soltanto nei limiti della ragionevolezza e proporzionalità, oltre che dell'adeguatezza dell'istruttoria, (ex multis, Cons. Stato, VI, 2 gennaio 2020, n. 25). Nella specie, non può dirsi che la scelta (formalmente conforme a legge) dell’amministrazione presenti caratteri di abnormità o manifesta irragionevolezza rispetto agli obiettivi posti dalla stessa a fondamento della disciplina di gara, ossia il contemperamento – riconosciuto anche dal primo giudice – tra l’esigenza concorrenziale di apertura del mercato a più operatori, l’irrinunciabile necessità per l’amministrazione di esercitare i suoi poteri di pianificazione e controllo nell’interesse pubblico, nonché la remuneratività dell’affidamento, che garantisca costi operativi efficienti e la realizzazione, se del caso, di economie di scala. Alla luce di tali presupposti, è evidente che si versa nel margine di valutazione discrezionale attribuito all'amministrazione, la quale è tenuta al rispetto dei canoni generali della ragionevolezza e della proporzionalità, oltre che dell'adeguatezza dell'istruttoria (Cons. Stato, VI, 2 gennaio 2020, n. 25): limiti che nel caso di specie non appaiono violati; e le deduzioni di parte appellante non forniscono, obiettivamente, prove apprezzabili di segno contrario. D’altro canto, come persuasivamente evidenzia l’amministrazione, non è incoerente rispetto ad un tale contesto di molteplici interessi contrapposti, la considerazione da parte della stazione appaltante anche dello studio ASSTRA del 2017, che in effetti analizza proprio le performance economico-finanziarie delle aziende del TPL italiane, anche in relazione alle dimensioni aziendali in termini di fatturato. Con il secondo motivo di appello viene invece contestata la legittimità delle disposizioni della lex specialis di gara contenenti la c.d. clausola sociale: obbligare il concorrente a sostenere un onere così rilevante come l’assunzione di tutti i dipendenti (con la sola eccezione dei dirigenti) della precedente gestione, indifferentemente rispetto alle sue esigenze organizzative e gestionali, cesserebbe di corrispondere ad un’apprezzabile esigenza di ragionevole salvaguardia dei livelli occupazionali e, per la sua sproporzione rispetto ad elementari esigenze di impresa (il cui peso verrebbe ritenuto irrilevante), finirebbe per limitare eccessivamente la libertà imprenditoriale e con essa il confronto concorrenziale (cfr. ad es. Cons. Stato, III, 8 giugno 2018, n. 3471, secondo cui la clausola sociale è illegittima se comporta un indiscriminato e generalizzato dovere di assorbimento in riferimento a tutto il personale utilizzato dall’impresa uscente: vi è infatti violazione dei principi costituzionali e comunitari di libertà d'iniziativa economica e di concorrenza oltreché di buon andamento, mentre occorre invece una ponderazione con il fabbisogno di personale per l'esecuzione del nuovo contratto e con le autonome scelte organizzative ed imprenditoriali del nuovo appaltatore). Ad avviso dell’appellante, la legittimità della clausola sociale in esame non potrebbe riposare sulla previsione dell’art. 22 (Sostituzione del soggetto gestore. Disciplina del personale e dei beni), comma 1 lett. b), l.r. del Lazio 16 luglio 1998, n. 30 (Disposizioni in materia di trasporto pubblico locale), a mente della quale «il trasferimento del personale dall’impresa cessante alla nuova impresa è disciplinato dall’articolo 26, allegato A), del R.D. n. 148/1931, dall'articolo 2112 del codice civile e dall'articolo 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428 concernente ‘Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle comunità europee (Legge comunitaria per il 1990)’, ove applicabili». Le norme richiamate dal detto art. 22 – l’art. 2112 Cod. civ. e l’art. 47 della l. n. 428 del 1990 – non sarebbero a suo dire infatti pertinenti alla questione controversa, perché solo prevedono garanzie procedurali in caso di trasferimento del personale, date dalla preventiva consultazione delle organizzazioni sindacali di riferimento. La sola norma disciplinante il passaggio del personale dipendente in caso di mutamento del soggetto gestore di servizi di TPL sarebbe pertanto l’art. 26 dell’Allegato A) al r.d. 8 gennaio1931, n. 148 (Coordinamento delle norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione), che stabilisce che in «caso di cessione di linea ad altra azienda, o di fusione di aziende, devono essere osservate le disposizioni stabilite dall’autorità governativa all'atto dell'approvazione della cessione o della fusione pel passaggio del personale di ruolo alla nuova azienda, mantenendo, per quanto è possibile, al personale un trattamento non inferiore a quello precedentemente goduto e assicurando i diritti acquisiti». A differenza di quanto ritenuto dal primo giudice, la norma non contemplerebbe un trasferimento automatico ed integrale del personale nel caso di mutamento dell’azienda, perché rimette alla prudente (e necessaria) valutazione del caso concreto quando si limita a precisare che il passaggio debba avvenire «per quanto è possibile», ossia compatibilmente con le esigenze organizzative del nuovo gestore. Compatibilità, appunto, da verificare in concreto ed esternandone le ragioni. Neppure l’art. 48 (Misure urgenti per la promozione della concorrenza e la lotta all'evasione tariffaria nel trasporto pubblico locale), comma 7, lett. e) d.-l. 24 aprile 2017, n. 50 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo) conv. con modd. dalla l. 21 giugno 2017, n. 96, richiamato dalla sentenza appellata, costituirebbe valido fondamento dell’avversata previsione della lex specialis. Tale disposizione, infatti, lungi dall’imporre l’inserimento di clausole sociali del tipo detto, si limita a disporre: «[...] l'Autorità di regolazione dei trasporti detta regole generali in materia di: [...] e) in caso di sostituzione del gestore a seguito di gara, previsione nei bandi di gara del trasferimento senza soluzione di continuità di tutto il personale dipendente dal gestore uscente al subentrante con l’esclusione dei dirigenti, applicando in ogni caso al personale il contratto collettivo nazionale di settore e il contratto di secondo livello o territoriale applicato dal gestore uscente, nel rispetto delle garanzie minime disciplinate all’articolo 3, paragrafo 3, secondo periodo, della direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001. Il trattamento di fine rapporto relativo ai dipendenti del gestore uscente che transitano alle dipendenze del soggetto subentrante è versato all’INPS dal gestore uscente». Per l’effetto, conclude l’appellante, la legge avrebbe demandato all’ART la fissazione di regole puntuali, nonché l’individuazione dei limiti e delle procedure da seguire per determinare quale debba essere il personale destinato a transitare presso il nuovo gestore del servizio, quali debbano essere le specifiche condizioni da applicare e se sussistano in ogni caso margini di scelta per il nuovo gestore, che tengano conto delle sue autonome scelte organizzative ed imprenditoriali. L’ART, però, all’epoca dei fatti non aveva ancora assunto alcuna determinazione al riguardo, il che avrebbe comportato l’inapplicabilità della disposizione. La previsione della lex specialis non potrebbe neppure fondarsi sull’art. 4 (Contenuto obbligatorio dei contratti di servizio pubblico e delle norme generali), para. 5 del Regolamento (CE) n. 1370/2007 (del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2007, relativo ai servizi pubblici di trasporto di passeggeri su strada e per ferrovia e che abroga i regolamenti del Consiglio (CEE) n. 1191/69 e (CEE) n. 1107/70)), anch’esso richiamato in sentenza, che si limiterebbe a stabilire che, qualora si preveda che il personale assunto dall’operatore precedente sia trasferito al nuovo operatore di servizio pubblico prescelto, a detto personale debbano essere garantiti i diritti di cui esso avrebbe beneficiato se avesse avuto luogo un trasferimento ai sensi della direttiva 2001/23/CE del Consiglio e, quindi, a titolo di cessione d’azienda, ipotesi coincidente con quella disciplinata dall’art. 2112 Cod. civ.. Detta previsione non consentirebbe per contro di “applicare la clausola sociale nella sua massima ampiezza, fino a comprendere l’assunzione di tutto il personale impiegato per fornire i servizi oggetto dell’appalto”, tanto meno a pena di esclusione dalla gara. Neppure questo motivo può essere accolto. Va preliminarmente dato atto di come l’art. 48, comma 7, lett. e), d.-l. n. 50 del 2017 (che richiama la direttiva 2001/23/CE, avente ad oggetto il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese) riconosca all’Autorità di regolazione dei trasporti il potere di dettare regole generali in materia di «previsione nei bandi di gara del trasferimento senza soluzione di continuità di tutto il personale dipendente dal gestore uscente al subentrante con l'esclusione dei dirigenti, applicando in ogni caso al personale il contratto collettivo nazionale di settore e il contratto di secondo livello o territoriale applicato dal gestore uscente, nel rispetto delle garanzie minime». Nel particolare settore del trasporto pubblico la normativa è dunque nel senso di ammettere una clausola sociale particolarmente forte, garantendo in caso di subentro il trasferimento di tutto il personale dipendente (tranne i dirigenti) dal gestore uscente al subentrante, con l’applicazione del CCNL di settore e del contratto di secondo livello applicato dal gestore uscente almeno per un anno dalla data di subentro. In questi termini, bene l’appellata sentenza ha rilevato come, “Diversamente da quanto dedotto in ricorso, deve rimarcarsi la portata precettiva – e non programmatica – della norma appena richiamata, desumibile dalla sua puntuale formulazione: essa, pur essendo diretta all’Autorità di Regolazione dei Trasporti, comunque fissa dei principi, che non possono essere disattesi nella stesura dei bandi”. Per l’effetto, se è evidente che all’ART è demandata la fissazione di regole e principi esecutivi e di dettaglio, deve altresì darsi atto che la norma enuncia comunque principi di immediata applicabilità, ad opera delle stazioni appaltanti, in ragione della loro determinatezza. Tra questi – anche a voler ritenere che l’art. 48 non vincoli la stazione appaltante ad inserire una clausola sociale analoga a quella indicata da Roma Capitale – vi è perlomeno la legittimità di una tale previsione. Nemmeno sono pertinenti gli opposti precedenti giurisprudenziali richiamati dall’appellante, perché relativi a procedure di gara cui non si applicava – ratione temporis – il d.-l. n. 50 del 2017 né la disciplina dettata, in materia, dalla Regione Lazio. In virtù delle considerazioni che precedono deve concludersi che la normativa applicabile all’odierna vertenza, come sopra individuata, non osti all’adozione di una clausola sociale quale quella controversa. Quanto all’appello incidentale di Roma Capitale, con il primo motivo ripropone l’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo, nel suo complesso, per carenza di interesse, non avendo la ricorrente G.T.M. s.r.l. partecipato alla gara. In particolare, la sentenza avrebbe omesso di considerare, nella prognosi di ammissibilità della censura, se la ricorrente (costituita in forma di s.r.l.) avesse o meno palesato l’effettiva possibilità di partecipare anche in relazione ai requisiti di fatturato od economici richiesti per un affidamento di ampia portata. Il motivo non può essere accolto: le clausole della lex specialis di gara impugnate da G.T.M. s.r.l. erano riconducibili – salvo alcune eccezioni – alla categoria delle previsioni “immediatamente escludenti”, per censurare le quali (ex multis, Cons. Stato, Ad. plen. 26 aprile 2018, n. 4) non è condizione legittimante né l’aver presentato domanda di partecipazione alla gara, né l’aver perlomeno dimostrato (al giudice amministrativo) di possedere in astratto i requisiti di partecipazione alla stessa. Tale verifica, infatti, da un lato spetta all’amministrazione, dall’altra si colloca in un fase della procedura distinta e successiva rispetto alla presentazione della domanda. Le previsioni impugnate, in particolare, attenevano anzitutto alla correttezza del corrispettivo stabilito per il servizio oggetto di gara, il quale - così come determinato - avrebbe reso il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente, potendo essere ricondotte al novero delle condizioni negoziali – per tali, immediatamente impugnabili – che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente (in termini, Cons. Stato, V, 21 novembre 2011, n. 6135; III, 23 gennaio 2015, n. 293). Analogamente dicasi per le censure sulla suddivisione della gara in due lotti, ovvero la previsione della clausola sociale di cui si è detto in ordine ai due motivi dell’appello principale. Con il secondo motivo di gravame incidentale la sentenza di primo grado viene invece censurata nella parte in cui afferma che Roma Capitale doveva quantificare la base d’asta “unicamente in base ai costi standard” di cui al d.m. 28 marzo 2018, n. 157, per fornire la concreta dimostrazione della costruzione della base d’asta in relazione ai costi del personale, dell’energia, della manutenzione e riparazione del materiale rotabile, dell’infrastruttura nonché del ragionevole margine di utile. In realtà - contesta la stazione appaltante - per definire il corrispettivo a base d’asta per l’affidamento dei servizi di TPL sulla rete periferica di Roma Capitale, era stato predisposto un Piano Economico Finanziario Simulato (PEFS), secondo la metodologia prevista dall’Allegato A) alla delibera n. 49 del 17 giugno 2015 dell’ART. Il corrispettivo emergente dal PEFS era stato posto a confronto con i costi standard di cui al d.m. n. 157 del 2018, come previsto dal decreto stesso e dal comma 8-bis dell’art. 27 del d.-l. n. 50 del 2017, il quale prevede che «i costi standard sono utilizzati dagli enti che affidano i servizi di trasporto pubblico locale e regionale come elemento di riferimento per la quantificazione delle compensazioni economiche e dei corrispettivi da porre a base d'asta». In breve, i costi standard dovrebbero essere considerati sì un elemento di riferimento, ma pur sempre con le ipotetiche integrazioni che tengano conto della specificità del servizio e degli obiettivi degli enti locali in termini di programmazione dei servizi e di promozione dell'efficienza del settore. Per l’appellante incidentale, la sentenza non avrebbe considerato che il contenuto del PEFS non poteva essere comunicato ai ricorrenti, pena l’attribuzione agli stessi di un ingiusto vantaggio competitivo rispetto agli altri (potenziali) offerenti. Il motivo non può trovare accoglimento. In estrema sintesi, Roma Capitale censura che il primo giudice avrebbe – a suo dire – fatto acquiescenza alle difese della ricorrente, mentre avrebbe dovuto disporre d’ufficio l’ostensione del citato PEFS (richiedendolo proprio a Roma Capitale, anche in forma di stralci) ed eventualmente disporre una verificazione ai fini della valutazione di coerenza del PEFS rispetto alle previsioni del d.m. n. 15 del 2018. Va però detto che l’appellante incidentale non può oggettivamente dolersi della mancata conoscenza integrale del PEFS da parte del Collegio giudicante, perché è un documento formato e detenuto proprio dall’appellante incidentale, su cui incombeva l’onere di produrlo in giudizio – se del caso pretermettendo le parti stimate maggiormente sensibili, ai fini di contemperare l’assolvimento dell’onere probatorio di parte, da un lato, con la par condicio dei concorrenti (interesse che Roma Capitale allega a fondamento della mancata produzione, pur dichiarandosi comunque disponibile ad una sua ostensione, ove disposta dal Collegio). Per l’effetto, la decisione del primo giudice appare immune dalle dedotte censure, non potendosi rilevare in modo palese le lamentate carenze (difetto di istruttoria e carenza di motivazione), in ragione della documentazione effettivamente versata in atti dalle parti. Sotto altro profilo, inoltre, non appare neppur convincente la tesi per cui ART avrebbe compiuto una verifica sulla correttezza dell’impostazione seguita da Roma Capitale nella predisposizione del PEFS: risulta convincente il rilievo dell’appellata incidentale secondo cui l’Autorità si sarebbe limitata a verificare il calcolo del WACC (peraltro, relativamente a dati del 2013), che costituisce però solo uno degli elementi di un PEFS. Infine, con ulteriore motivo di appello incidentale viene censurata “l’apodittica interpretazione della normativa posta a corredo della motivazione”, laddove non sarebbe possibile sostenere che la stazione appaltante debba unicamente tener conto dei costi standard nell’elaborazione della base d’asta, proprio in ragione del dato letterale delle previsioni di legge e regolamentari richiamate. In particolare, tanto il regolamento n. 1370 del 2007, quanto il d.lgs. n. 422 del 1997 ed il d.lgs. n. 50 del 2017 stabilirebbero che i costi standard non sono parametri immutabili, bensì costituiscono un mero criterio di riferimento, suscettibile di utilizzo da parte della stazione appaltante, che potrebbe però discostarsene in ragione delle specificità del servizio in gara. Neppure questo motivo può essere accolto. Invero, la sentenza appellata ha rilevato come l’amministrazione, nell’elaborazione del PEFS ai fini della successiva quantificazione delle compensazioni economiche e dei corrispettivi da porre a base d’asta, fosse tenuta ad assumere quale parametri i costi standard, così come definiti nel decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti n. 157 del 2018. L’art. 1, comma 5 del suddetto decreto stabilisce che i costi standard «sono utilizzati dagli enti che affidano i servizi di trasporto pubblico locale e regionale come elemento di riferimento per la quantificazione delle compensazioni economiche e dei corrispettivi da porre a base d’asta, determinati ai sensi dell’art. 17 del decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422, e delle normative europee sugli obblighi di servizio pubblico, con le eventuali integrazioni che tengano conto della specificità del servizio e degli obiettivi degli enti locali in termini di programmazione dei servizi e di promozione dell'efficienza del settore». La stazione appaltante avrebbe quindi dovuto quantificare il corrispettivo a base d’asta partendo dalla quantificazione del costo standard, secondo i parametri e i criteri individuati dal MIT nel citato decreto: solo successivamente avrebbe dovuto adattare lo stesso alle specificità della gara, sia rispetto ai servizi oggetto di affidamento che agli obiettivi di efficientamento perseguiti dall’ente. Per contro, come rileva la sentenza appellata, i costi standard sono stati considerati solo relativamente ad alcune voci di costo, in evidente violazione delle disposizioni che regolano la materia. Del resto, è convincente l’ulteriore appunto per cui il servizio oggetto di gara presenta peculiarità che lo rendono più costoso: lo si evince per tabulas dagli oneri economici particolarmente gravosi imposti dalla lex specialis al futuro aggiudicatario, come pure dai singoli profili di (maggior) costo analiticamente elencati in sentenza. Alla luce dei rilievi che precedono, tanto l’appello principale quanto quello incidentale vanno respinti. La reciproca soccombenza giustifica l’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa interamente tra le parti le spese di lite del grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 dicembre 2019 con l'intervento dei magistrati: Giuseppe Severini, Presidente Raffaele Prosperi, Consigliere Valerio Perotti, Consigliere, Estensore Angela Rotondano, Consigliere Giovanni Grasso, Consigliere Giuseppe Severini, Presidente Raffaele Prosperi, Consigliere Valerio Perotti, Consigliere, Estensore Angela Rotondano, Consigliere Giovanni Grasso, Consigliere IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Clausola sociale – Settore trasporti – Assunzione generalizzata di tutto il personale dell’appaltatore uscente – Legittimità.      E’ legittima la disposizione della lex specialis di gara concernente l’affidamento del servizio di trasporto pubblico locale su gomma contenente la c.d. clausola sociale, che obbliga il concorrente ad assumere tutti i dipendenti, con la sola eccezione dei dirigenti, della precedente gestione, indifferentemente rispetto alle sue esigenze organizzative e gestionali (1). (1) La Sezione ha dato preliminarmente atto di come l’art. 48, comma 7, lett. e), d.l. n. 50 del 2017 (che richiama la direttiva 2001/23/CE, avente ad oggetto il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese) riconosca all’Autorità di regolazione dei trasporti il potere di dettare regole generali in materia di «previsione nei bandi di gara del trasferimento senza soluzione di continuità di tutto il personale dipendente dal gestore uscente al subentrante con l'esclusione dei dirigenti, applicando in ogni caso al personale il contratto collettivo nazionale di settore e il contratto di secondo livello o territoriale applicato dal gestore uscente, nel rispetto delle garanzie minime».   Nel particolare settore del trasporto pubblico la normativa è dunque nel senso di ammettere una clausola sociale particolarmente forte, garantendo in caso di subentro il trasferimento di tutto il personale dipendente (tranne i dirigenti) dal gestore uscente al subentrante, con l’applicazione del CCNL di settore e del contratto di secondo livello applicato dal gestore uscente almeno per un anno dalla data di subentro. Per l’effetto, se è evidente che all’ART è demandata la fissazione di regole e principi esecutivi e di dettaglio, deve altresì darsi atto che la norma enuncia comunque principi di immediata applicabilità, ad opera delle stazioni appaltanti, in ragione della loro determinatezza.
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/impugnazione-del-codacons-dei-bollettini-con-dati-sull-emergenza-covid-19-forniti-dalla-protezione-civile
Impugnazione del Codacons dei Bollettini con dati sull’emergenza Covid-19 forniti dalla Protezione civile
N. 02835/2020 REG.PROV.CAU. N. 02495/2020 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 2495 del 2020, integrato da motivi aggiunti, proposto da Codacons (Coordinamento delle associazioni a tutela dei diritti degli utenti e dei consumatori), in persona del legale rappresentante pro tempore, Marco Donzelli, Nicola Castiglione, Valentina Danza, rappresentati e difesi dagli avvocati Gianluca Di Ascenzo, Marco Maria Donzelli, Gino Giuliano, Carlo Rienzi, Marco Ramadori, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso Codacons Carlo Rienzi in Roma, viale Giuseppe Mazzini n. 73; contro Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per la Protezione Civile, Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, Per quanto riguarda il ricorso introduttivo: - del provvedimento di diniego comunicato , in data 25 marzo 2020, con il Bollettino della protezione Civile delle ore 18:00, del 25 marzo 2020, e confermato nel bollettino del 26 marzo, nel quale respingendosi la richiesta formulata dal ricorrente CODACONS si ometteva di fornire ai cittadini la informazione relativa ai deceduti a casa, come richiesto dal Codacons – dai giornalisti presenti lo stesso 26 marzo – con pec con cui chiedeva alle Amministrazioni resistenti di “Indicare il numero dei deceduti che si trovavano in terapia intensiva in ospedale e distintamente il numero di deceduti in casa (…) come si apprende dagli organi di stampa”, nonché “Indicare, in conseguenza del precedente, quanti posti sono realmente disponibili in terapia intensiva e dove su tutto il territorio nazionale, e la possibilità concreta di trasferimento attraverso la cosiddetta la Cross – Centrale remota per le operazioni di soccorso” E PER LA CONTESTUALE CONDANNA EX ART. 34, COMMA 1, LETT. C) DEL C.P.A. a fornire le informazioni anzidette. Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati il 31\3\2020: PER L’ANNULLAMENTO PREVIA ADOZIONE DI MISURE CAUTELARI PROVVISORIE EX ART. 56 C.P.A. 1) del provvedimento dpc-covid19-ita-scheda regioni-20200327 pubblicato il 27 marzo 2020 sul sito ufficiale del Dipartimento della Protezione Civile “COVID-19 Italia – Monitoraggio della situazione” attraverso il quale il medesimo ha comunicato i dati ufficiali afferenti gli aggiornamenti sul monitoraggio della situazione COVID-19 Regione per Regione, aggiornati al 27 marzo ore 17:00, (inerenti unicamente ricoverati con sintomi, terapia intensiva, isolamento domiciliare, totale attualmente positivi, dimessi guariti, deceduti, casi totali, tamponi) nella parte in cui non riporta i dati relativi a: - quanti sono deceduti in ospedale; - quanti sono deceduti nel proprio domicilio con sintomi gravi; - quanti posti sono realmente disponibili in terapia intensiva e presso quali strutture su tutto il territorio nazionale, e indicazioni sulle connesse possibilità CONCRETE di trasferimento attraverso la cosiddetta la Cross, la Centrale remota per le operazioni di soccorso; - la percentuale calcolata tra tamponi fatti e esiti dell’aumento o diminuzione percentuale; 2) del provvedimento dpc-covid19-ita-scheda regioni-20200328 pubblicato il 28 marzo 2020 sul sito ufficiale del Dipartimento della Protezione Civile “COVID-19 Italia – Monitoraggio della situazione” attraverso il quale il medesimo ha comunicato i dati ufficiali afferenti gli aggiornamenti sul monitoraggio della situazione COVID-19 Regione per Regione, aggiornati al 28 marzo ore 17:00, (inerenti unicamente ricoverati con sintomi, terapia intensiva, isolamento domiciliare, totale attualmente positivi, dimessi guariti, deceduti, casi totali, tamponi) nella parte in cui non riporta i dati relativi a: - quanti sono deceduti in ospedale; - quanti sono deceduti nel proprio domicilio con sintomi gravi; - quanti posti sono realmente disponibili in terapia intensiva e presso quali strutture su tutto il territorio nazionale, e indicazioni sulle connesse possibilità CONCRETE di trasferimento attraverso la cosiddetta la Cross, la Centrale remota per le operazioni di soccorso; - la percentuale calcolata tra tamponi fatti e esiti dell’aumento o diminuzione percentuale. E PER LA CONTESTUALE CONDANNA EX ART. 34, COMMA 1, LETT. C), C.P.A. - a fornire le informazioni anzidette. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per la Protezione Civile e di Ministero della Salute e di Istituto Superiore di Sanità; Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente; Visto l'art. 55 cod. proc. amm.; Visti tutti gli atti della causa; Ritenuta la propria giurisdizione e competenza; Relatore nella camera di consiglio del giorno 16 aprile 2020 il dott. Antonio Andolfi; Visto l’art. 84, comma 1, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18; Premesso che la presente decisione è limitata all’istanza cautelare proposta con il ricorso introduttivo e con i primi motivi aggiunti avverso, rispettivamente: 1. l’asserito provvedimento di diniego comunicato, in data 25 marzo 2020, con il Bollettino della protezione Civile delle ore 18:00 del 25 marzo 2020, e confermato nel bollettino del 26 marzo, nel quale, respingendosi la richiesta formulata dal ricorrente Codacons con p.e.c. con cui chiedeva alle Amministrazioni resistenti di “Indicare il numero dei deceduti che si trovavano in terapia intensiva in ospedale e distintamente il numero di deceduti in casa con sintomi gravi, nonché quanti di questi a casa per scelta e quanti rifiutati dagli ospedali o non sottoposti a tampone nonostante la loro richiesta, come si apprende dagli organi di stampa”, nonché “Indicare, in conseguenza del precedente, quanti posti sono realmente disponibili in terapia intensiva e dove su tutto il territorio nazionale e la possibilità concreta di trasferimento attraverso la cosiddetta la Cross, la Centrale remota per le operazioni di soccorso” sarebbe stata omessa la informazione relativa ai deceduti a casa; 2. l’asserito provvedimento dpc-covid19-ita-scheda regioni-20200327 pubblicato il 27 marzo 2020 sul sito ufficiale del Dipartimento della Protezione Civile “COVID-19 Italia – Monitoraggio della situazione” attraverso il quale il medesimo ha comunicato i dati ufficiali afferenti gli aggiornamenti sul monitoraggio della situazione COVID-19 Regione per Regione, aggiornati al 27 marzo ore 17:00 (inerenti unicamente ricoverati con sintomi, terapia intensiva, isolamento domiciliare, totale attualmente positivi, dimessi guariti, deceduti, casi totali, tamponi) nella parte in cui non riporta i dati relativi a: - quanti sono deceduti in ospedale; - quanti sono deceduti nel proprio domicilio con sintomi gravi; - quanti posti sono realmente disponibili in terapia intensiva e presso quali strutture su tutto il territorio nazionale, e indicazioni sulle connesse possibilità CONCRETE di trasferimento attraverso la cosiddetta la Cross, la Centrale remota per le operazioni di soccorso; - la percentuale calcolata tra tamponi fatti e esiti dell’aumento o diminuzione percentuale; 3. l’asserito provvedimento dpc-covid19-ita-scheda regioni-20200328 pubblicato il 28 marzo 2020 sul sito ufficiale del Dipartimento della Protezione Civile “COVID-19 Italia – Monitoraggio della situazione” attraverso il quale il medesimo ha comunicato i dati ufficiali afferenti gli aggiornamenti sul monitoraggio della situazione COVID-19 Regione per Regione, aggiornati al 28 marzo ore 17:00 (inerenti unicamente ricoverati con sintomi, terapia intensiva, isolamento domiciliare, totale attualmente positivi, dimessi guariti, deceduti, casi totali, tamponi) nella parte in cui non riporta i dati relativi a: - quanti sono deceduti in ospedale; - quanti sono deceduti nel proprio domicilio con sintomi gravi; - quanti posti sono realmente disponibili in terapia intensiva e presso quali strutture su tutto il territorio nazionale, e indicazioni sulle connesse possibilità CONCRETE di trasferimento attraverso la cosiddetta la Cross, la Centrale remota per le operazioni di soccorso; - la percentuale calcolata tra tamponi fatti e esiti dell’aumento o diminuzione percentuale; Considerato, infatti, che l’istanza di accesso incidentale, depositata dalla parte ricorrente il 14 aprile 2020, previa notifica alle controparti in pari data, dovrà essere trattata, nel dovuto rispetto dei termini processuali stabiliti dal codice di rito, nella camera di consiglio sin da ora fissata, laddove potranno essere adeguatamente valutate le esigenze di massima trasparenza rappresentate dalla parte ricorrente al fine di consentire ai cittadini di conseguire ogni informazione utile ad assumere gli atteggiamenti più corretti per affrontare la gravissima emergenza sanitaria in corso; atteso che, come peraltro già osservato, “i dati aggiuntivi richiesti sarebbero sicuramente utili ai fini di un quadro conoscitivo per i cittadini ancora più dettagliato, ma la possibilità o meno che essi siano raccolti e poi pubblicati costituisce l’oggetto di una tipica azione di accertamento basata sul principio di trasparenza, e non può formare oggetto di una pretesa annullatoria, non essendovi alcun atto da annullare” (così, Cds, III Sezione, decreto n. 1841/2020) Ritenuto che dunque il ricorso introduttivo, integrato con i primi motivi aggiunti, presenti profili di inammissibilità, non apparendo impugnabili i bollettini quotidiani pubblicati dalla Protezione Civile, contenenti la raccolta di elementi acquisiti presso le Regioni su una pluralità di dati relativi alla situazione Covid-19, per cui la suddetta impugnazione non sembra configurare lo strumento processuale idoneo a tutelare l’asserito diritto di parte ricorrente a conoscere, per le finalità di cui è portatrice, informazioni e dati mancanti in detti bollettini, atteso che l’informazione ai cittadini non risulta espressione di potere autoritativo pubblico, bensì attività sindacabile dal giudice amministrativo in quanto conforme ai parametri di legittimità recati dalla disciplina sulla trasparenza amministrativa e sul corrispondente diritto all’accesso documentale, civico e generalizzato; nella fattispecie, inoltre, non sembra che i comunicati stampa, i bollettini e la pubblicazione delle schede riepilogative dei dati impugnati abbiano integrato un atto, espresso o implicito, di diniego delle informazioni richieste, per cui appare inesistente, almeno alla data di proposizione del ricorso e dei primi motivi aggiunti, l’oggetto della impugnazione; Ritenuto, pertanto, di dover respingere l’istanza cautelare, per difetto del presupposto processuale di ammissibilità del ricorso cui la cautela è strumentale; di dover fissare la camera di consiglio per la trattazione della domanda di accesso, incidentalmente proposta; di dover compensare le spese della fase cautelare, valutate tutte le circostanze del caso; P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater) rigetta l'istanza cautelare proposta avverso gli atti impugnati. Fissa, per la trattazione della domanda di accesso incidentalmente proposta, la camera di consiglio del 22 giugno 2020. Compensa le spese della fase cautelare. La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 aprile 2020, tenutasi mediante collegamento da remoto in videoconferenza, secondo quanto disposto dall’art. 84, comma 6, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 e dal decreto presidenziale n. 67 del 19 marzo 2020 con l'intervento dei magistrati: Salvatore Mezzacapo, Presidente Mariangela Caminiti, Consigliere Antonio Andolfi, Consigliere, Estensore Salvatore Mezzacapo, Presidente Mariangela Caminiti, Consigliere Antonio Andolfi, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Covid-19 – Accesso ai documenti – Dati forniti dalla Protezione civile – Dati incompleti – Impugnazione dei Bollettini da parte del Codacons - Inammissibilità.            É inammissibile il ricorso proposto da Codacons avverso i bollettini quotidiani pubblicati dalla, contenenti la raccolta di elementi acquisiti presso le Regioni su una pluralità di dati relativi alla situazione Covid-19, non sembrando la suddetta impugnazione configurare lo strumento processuale idoneo a tutelare l’asserito diritto di parte ricorrente a conoscere, per le finalità di cui è portatrice, informazioni e dati mancanti in detti bollettini, atteso che l’informazione ai cittadini non risulta espressione di potere autoritativo pubblico, bensì attività sindacabile dal giudice amministrativo in quanto conforme ai parametri di legittimità recati dalla disciplina sulla trasparenza amministrativa e sul corrispondente diritto all’accesso documentale, civico e generalizzato (1). (1) Ha aggiunto il decreto che nella fattispecie, inoltre, non sembra che i comunicati stampa, i bollettini e la pubblicazione delle schede riepilogative dei dati impugnati abbiano integrato un atto, espresso o implicito, di diniego delle informazioni richieste, per cui appare inesistente, almeno alla data di proposizione del ricorso e dei primi motivi aggiunti, l’oggetto della impugnazione.
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/l-adunanza-plenaria-afferma-che-il-progettista-ex-art-53-comma-3-d-lgs-n-163-del-2006-non-puo-ricorrere-all-istituto-dell-avvalimento
L’Adunanza plenaria afferma che il progettista ex art. 53, comma 3, d.lgs. n. 163 del 2006 non può ricorrere all’istituto dell’avvalimento
N. 00013/2020REG.PROV.COLL. N. 00008/2020 REG.RIC.A.P. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8 di A.P. del 2020, proposto da Ccc - Consorzio Cooperative Costruzioni Soc. Cooperativa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Aldo Fera, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Lungotevere Marzio 3; contro Comune di Tarvisio, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Isabella Angelini, Teresa Billiani, con domicilio eletto presso lo studio Isabella Angelini in Roma, via Bocca di Leone n. 78; nei confronti Incos S.r.l. in proprio e quale Capogruppo Mandataria Rti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Nicola Creuso, Stefania Lago, Andrea Manzi, con domicilio eletto presso lo studio Andrea Manzi in Roma, via Federico Confalonieri 5; Rti - Idrotermica F.Lli Soldera e in Proprio, Gabriele Indovina non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, n. 18/2013, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di Tarvisio e di Incos S.r.l. in proprio e quale Capogruppo Mandataria Rti; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 74 e 120, co. 10, cod. proc. amm.; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 giugno 2020 il Presidente Gianpiero Paolo Cirillo e uditi per le parti gli avvocati Aldo Fera, ai sensi dell'art. 4, comma 1, ultimo periodo, d.l. n. 28/2020; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1- Il Comune di Tarvisio ha indetto una gara avente ad oggetto la realizzazione di una centrale alimentata a biomasse per teleriscaldamento dell’abitato di Cave del Predial. Nel bando del 10 agosto 2012 si stabiliva che l’opera era da realizzarsi entro il termine di 30 giorni per la progettazione, 365 per l’esecuzione e per l’importo complessivo di euro 3.060.200,85. Il sistema di gara prescelto era stato quello della procedura aperta da aggiudicare secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa di cui all’art. 83 del d.lgs. n.163 del 2006. La commissione aggiudicatrice, dopo aver espletato la procedura di gara in due sedute, ha provvisoriamente aggiudicato l’appalto al R.T.I. In.Co.S. Infrastrutture Costruzioni e Servizi. All’aggiudicazione provvisoria è seguita quella definitiva per effetto della determinazione del dirigente dell’area tecnica n. 538 del 12 ottobre 2012. A seguito di accesso agli atti, il Consorzio cooperative costruzioni ha proposto ricorso per l’annullamento del predetto provvedimento innanzi al Tar Friuli Venezia Giulia, dove si sono costituiti in giudizio sia il Comune di Tarvisio sia l’aggiudicatario R.T.I. In.Co.S Infrastrutture Costruzioni e Servizi, che ha proposto ricorso incidentale. 2- A sostegno del gravame, successivamente integrato da motivi aggiunti, il ricorrente principale lamentava: a) che – in asserita violazione dell’art. 49 del d.lgs. n. 163/2006, degli artt. 12, 14 e 15 della lex specialis della procedura e dei principi generali sulla partecipazione alle gare – il raggruppamento temporaneo aggiudicatario capeggiato da In.Co.S S.r.l. si fosse avvalso di progettista e di impresa ausiliaria privi dei requisiti richiesti, a pena di esclusione, per l’accesso alla competizione; b) che - in asserita violazione dell’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 - la ditta risultata vincitrice non avesse fornito la prescritta documentazione relativa al proprio rappresentante cessato nell’anno antecedente la pubblicazione del bando di gara. 3- L’In.Co.S S.r.l., ritualmente evocata in giudizio, nel ricorso incidentale lamentava: a) che, in asserita violazione dell’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, la ricorrente principale - che aveva dichiarato di avvalersi, per la propria partecipazione, non già di una società tra professionisti, ma di una società di ingegneria- avesse omesso di allegare la documentazione relativa alla figura del direttore tecnico, di cui non aveva neppure richiamato l’esistenza; b) che i professionisti indicati come prestatori di servizio fossero carenti delle competenze specificamente richieste dalla documentazione di gara, non avendo la ricorrente principale allegato le relative certificazioni. 4- Con sentenza 11 gennaio 2013, n. 18, resa nel rituale contraddittorio delle parti e nella resistenza della stazione appaltante, il Tribunale adito respingeva entrambi i ricorsi, sul complessivo ed argomentato assunto: a) che – quanto al primo motivo del ricorso incidentale – dagli atti versati in giudizio risultava che, con delibera del consiglio di amministrazione del 12 aprile 2010, la società ausiliaria, di cui la ricorrente principale aveva inteso avvalersi, aveva, in realtà, revocato la nomina del direttore tecnico: dovendosene inferire la attuale inesistenza, in fatto, della relativa figura professionale all’interno della compagine societaria, con conseguente insussistenza della denunziata omissione dichiarativa; b) che – quanto al secondo motivo del ricorso incidentale – il Consorzio aveva indicato quale progettista la società di professionisti Cooprogetti, società cooperativa a responsabilità limitata, dotata di soggettività giuridica distinta da quella dei singoli professionisti; onde la prova dei requisiti riguardava, in realtà, la società e non i singoli professionisti che ne facevano parte; c) che – quanto al primo motivo del ricorso principale – la facoltà di ricorrere all’avvalimento doveva riconoscersi, pur nella consapevolezza di difformi orientamenti pretori, anche relativamente alla figura del progettista, che rientrava tra i soggetti esecutori delle prestazioni poste in gara; d) che – quanto al secondo motivo del ricorso principale – il disciplinare di gara aveva stabilito che nella busta recante la documentazione andasse inserita la dichiarazione, resa e sottoscritta dal legale rappresentante della società, riguardante anche la posizione dei soggetti cessati dalla carica nell'anno antecedente la pubblicazione del bando; con il che doveva ritenersi che la ditta avesse compilato correttamente i relativi modelli. 5- Con atto di appello, il Consorzio contestava, per quanto di interesse, la correttezza della decisione, all’uopo criticamente reiterando le proprie disattese ragioni di doglianza ed auspicando la reiezione del ricorso incidentale di primo grado. Proponeva altresì domanda risarcitoria, sia in forma specifica sia per equivalente. Si costituivano in giudizio il Comune di Tarvisio, per argomentare l’inammissibilità e l’infondatezza dell’appello, e In.Co.s. S.r.l., che proponeva, per parte sua, appello incidentale, relativamente alla contestata reiezione del ricorso incidentale di primo grado. 6- Con sentenza parziale n. 4849 del 22 ottobre 2015, la Sezione respingeva integralmente l’appello incidentale ed il secondo motivo dell’appello principale, contestualmente disponendo – avuto riguardo al primo motivo dell’appello principale – la sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 79 Cod. proc. amm., in attesa che la Corte di Giustizia UE definisse la questione pregiudiziale, già sollevata con distinta ordinanza 4 giugno 2015, n. 2737. 7- Peraltro – a presa d’atto del ritiro della domanda di pronunzia pregiudiziale, in conseguenza della sopravvenuta estinzione per rinunzia del relativo giudizio – la Corte di Giustizia, con ordinanza in data 16 luglio 2016, disponeva la cancellazione della causa dal ruolo (C287-2015), con conseguente venir meno della causa di sospensione. Alla pubblica udienza del 28 settembre 2017, sulle reiterate conclusioni dei difensori delle parti costituite, la causa veniva nuovamente riservata per la decisione. 8- Con ordinanza n. 4982 del 30 ottobre 2017, il Collegio – ritenutane la perdurante rilevanza – sottoponeva nuovamente alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato CE e in relazione all'art. 23 dello Statuto della Corte di Giustizia, la questione della compatibilità “con l’art. 48 direttiva CE 31 marzo 2004, n. 18 di una norma, come quella di cui all’art. 53, comma 3, d.lgs. 16 aprile 2006, n. 163, che ammette alla partecipazione un’impresa con un progettista indicato il quale ultimo, a sua volta, non essendo concorrente, non può ricorrere all’istituto dell’avvalimento”, reiterando l’interinale sospensione del giudizio. 9- Con sentenza in data 14 febbraio 2019 (C-710/17), la Corte di Giustizia dichiarava irricevibile la domanda di pronuncia pregiudiziale, sugli assunti: a) che l’importo dell’appalto fosse inferiore alla soglia prevista; b) che l’art. 53, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006 era una norma specifica ed autonoma, non analoga ad alcuna disposizione della direttiva 2004/18; c) che non fosse neppure stata indicata alcuna altra disposizione della legislazione italiana che avrebbe reso applicabile il diritto dell’Unione sugli appalti pubblici di valore inferiore alle soglie previste dalla direttiva 2004/18 alla materia di cui all’articolo 53, comma 3, cit.; d) che, per tal via, non si potesse ritenere che la disposizione in questione, quando applicabile ad appalti non rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva 2004/18, operasse un rinvio diretto e incondizionato alla stessa. 10- Venuta meno la ragione di sospensione, alla pubblica udienza del 19 dicembre 2019, sulle conclusioni delle parti costituite, la causa veniva nuovamente riservata per la decisione, per la parte residua (primo motivo) dell’appello principale del Consorzio Cooperative Costruzioni. 11- La sezione remittente, dopo aver rilevato che l’appellante principale ha dedotto che il R.T.I. controinteressato andava escluso per carenza di requisiti speciali nel progettista incaricato ed indicato ai sensi dell’articolo 53, comma 3, d.lgs. n. 163 del 2006, e che tali requisiti non potevano essere suppliti mediante avvalimento, ha ritenuto di deferire la questione all'esame dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 99, comma. 1 cod. proc. amm. Tanto ha ritenuto, poiché sull’ammissibilità dell’avvalimento in tale situazione la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato si è pronunciata in modo difforme. A riprova sono state richiamate le sentenze della Sezione V, 2 ottobre 2014, n. 4929, laddove si è affermato che, in ordine agli artt. 49, 53 e 90 del d.lgs. n.163 del 2006 e dell’art. 92 del d.P.R. n. 207 del 2010, l’avvalimento, in conformità alla sentenza CGUE, 10 ottobre 2013, in C-94-2012, si applica “non ai soli concorrenti, ma a tutti gli operatori economici”, tenuti a qualsiasi titolo a dimostrare il possesso dei requisiti in sede di gara. Per contro è stata indicata la sentenza della III sezione, 7 marzo 2014, n. 1072 , laddove ha ritenuto che il raggruppamento di professionisti non possa ricorrere all’avvalimento, poiché tale possibilità è riservata dall’art. 49 d.lgs. n. 163 del 2006 “al solo operatore economico che domanda di partecipare alla gara” e questo, se intende farvi ricorso, deve dichiarare il possesso dei requisiti da parte del soggetto ausiliario; inoltre, secondo Cons. Stato, Sez. V, 1° ottobre 2012, n. 5161, per il ricorso all’avvalimento, l’art. 49, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006, si riferisce, facendo parola di «concorrente», al solo operatore economico che domanda di partecipare alla gara, il quale deve dichiarare e allegare il possesso da parte del soggetto avvalso dei requisiti che, sommati ai suoi, integrano la prescrizione del bando. La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza del 24 giugno 2020 con le modalità di cui all’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020 n. 18. 12- La questione sostanziale, sulla quale il collegio è chiamato a pronunciarsi, consiste nello stabilire quale sia la qualificazione giuridica del progettista indicato, nell’accezione e nella terminologia del citato art. 53, comma 3 del d.lgs. n. 163/2006, e se questi possa ricorrere a un progettista terzo, utilizzando a sua propria volta la qualifica di altro professionista, singolo o associato. Pertanto solamente nell’ipotesi in cui il progettista originariamente indicato dal costituendo raggruppamento sia da qualificare come ausiliario in senso tecnico, ossia come l’effetto del meccanismo proprio dell’avvalimento (art. 49 e 53, comma 3, d.lgs. n. 163/2006), si pone l’ulteriore questione se vi possa legittimamente essere, per un’offerta in gara, un duplice e consequenziale avvalimento di professionisti. 13-In punto di fatto, il costituendo raggruppamento temporaneo che ha partecipato alla gara era composto dalla società In.Co.s S.r.l., quale mandataria, e dalla Idrotermica F.lli Soldera; non rientrando nelle loro attestazioni SOA la qualificazione per le prestazioni di progettazione, hanno congiuntamente indicato un progettista esterno, l'Ing. Gabriele Indovina, non facente parte del R.T.I. Quest’ultimo a sua volta ha presentato un contratto di avvalimento stipulato con la Prisma Engineering S.r.l. (come soggetto ausiliario) all’evidente scopo di utilizzarne i requisiti, avendo dichiarato espressamente di essere privo di taluni di quelli richiesti dal bando, analiticamente indicati. Più in dettaglio, il bando di gara, all’art. 12, stabilisce che: «qualora l’attestazione SOA dell’impresa concorrente non includa anche la qualificazione per prestazioni di progettazione, l’impresa potrà partecipare alla gara soltanto avvalendosi di un soggetto qualificato da indicare nell’offerta ovvero creando un raggruppamento temporaneo con soggetti qualificati per la progettazione di cui all’articolo 90, comma 1, lettere da d) a h) del D. Lgs. n. 163/2006. In tal caso il progettista associato o individuato dovrà […] essere in possesso dei requisiti di ordine generale […] nonché dei requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi previsti dalle norme per la partecipazione alla gara». L’art. 14.1.2. del medesimo bando stabilisce: «relativamente alla progettazione esecutiva qualora l’attestazione SOA dell’impresa concorrente non includa anche la qualificazione per prestazioni di progettazione, l’impresa potrà partecipare alla presente gara soltanto avvalendosi di un soggetto qualificato da indicare nell’offerta… In tal caso il progettista associato o individuato dovrà essere in possesso dei requisiti economico finanziari e tecnico organizzativi previsti dalle norme per la partecipazione alla gara al punto A “OFFERTA” […]». Ai sensi della lettera A) delle norme per la partecipazione alla gara (disciplinare) si stabilisce: «nella busta A…devono essere contenuti a pena di esclusione i seguenti documenti: […] 7.3 dichiarazione in ordine al possesso dei requisiti di capacità tecnico professionale (vedasi modello F) […] resa e sottoscritta: […] dal professionista singolo… in cui deve essere dichiarato pena l’esclusione: […]». Dall’istanza di ammissione alla gara ufficiosa e dalle dichiarazioni sostitutive (in atti) presentate dall’impresa Idrotermica F.lli Soldera, mandante del costituendo raggruppamento risultato poi aggiudicatario, si evince, nella parte del modulo relativa al possesso dei requisiti per le prestazioni di progettazione, che è stata barrata la dicitura “sono posseduti da progettisti esterni di cui all’articolo 90, comma 1 da d) a h) del D. Lgs. n. 16/2006, e a tale scopo allega apposita dichiarazione compilate sugli allegati modelli C e seguenti”. Sempre dagli atti risulta quanto sopra detto, ovvero che le società del costituendo raggruppamento hanno dichiarato di avvalersi del progettista Ing. Gabriele Indovina; più esattamente il documento è intitolato “nomina del progettista” e la dicitura adoperata nel testo è: “dichiarano di avvalersi del progettista…” (doc. 7 degli atti allegati dall’appellato). 14-Il collegio rileva ancora che dai richiamati atti di gara emerge pacificamente come la nomina del progettista sia stata semplicemente indicata dal raggruppamento aggiudicatario, senza che sia stato prodotto un contratto di avvalimento con il professionista originario. Questo è avvenuto del tutto legittimamente, in quanto la normativa generale e la “legge” della procedura consentivano di utilizzare un professionista esterno, senza la necessità di stipulare con lo stesso un formale contratto di avvalimento; ciò, nonostante nel sistema generale la semplice dichiarazione venga ritenuta sufficiente in luogo del contratto solamente quando il soggetto che fornisce i requisiti faccia parte del gruppo o del raggruppamento, a ulteriore riprova che nel caso di specie si tratti di una semplice prestazione professionale autorizzata. Tant’è che solo nel caso in cui i requisiti necessari per la parte progettuale non fossero posseduti dal soggetto legittimato a formulare l’offerta, era necessaria la nomina del progettista esterno in possesso dei requisiti richiesti; cosa che è stata regolarmente effettuata (doc. n. 7 degli atti prodotti dall’odierno appellante). In ogni caso, quand’anche si dovesse ritenere che la nomina era da intendersi come un avvalimento in senso tecnico, la mancanza del contratto tra l’odierna appellata e il professionista indicato renderebbe l’offerta illegittima per questa ragione, trattandosi pacificamente di soggetto estraneo al raggruppamento (Cons. Stato, Sez. V, 13 marzo 2014, n. 1251). Questo serve a chiarire come nel caso di specie viene in rilievo non tanto la questione generale se sia possibile un avvalimento di avvalimento (c.d. “avvalimento a cascata”), bensì se sia legittimo da parte di un professionista indicato, come tale non offerente, avvalersi, con l’esibizione di tale specifica tipologia di contratto, di altro soggetto in possesso dei requisiti di cui egli è sprovvisto. 15- Il collegio ritiene che il meccanismo posto in essere dal raggruppamento aggiudicatario (in questa sede appellato) sia illegittimo per i motivi che seguono. L’istituto dell’avvalimento, di origine comunitaria, è stato disciplinato per la prima volta dall’abrogato codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo n. 163 del 2006, agli artt. 49,50 e 88 del dpr. n. 207 del 2010. L’art. 49 stabiliva, al comma 1: «Il concorrente, singolo o consorziato o raggruppato ai sensi dell’articolo 34, in relazione ad una specifica gara di lavori, servizi, forniture può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o dell’attestazione SOA di altro soggetto». L’articolo 53 del medesimo codice, che è quello di cui la stazione appaltante ha fatto applicazione nel caso di specie, stabiliva, al comma 3: «Quando il contratto ha per oggetto anche la progettazione, ai sensi del comma 2, gli operatori economici devono possedere i requisiti prescritti per i progettisti, ovvero avvalersi di progettisti qualificati, da indicare nell’offerta, o partecipare in raggruppamento con soggetti qualificati per la progettazione. Il bando indica i requisiti richiesti per i progettisti, secondo quanto previsto dal Capo IV del presente Titolo (progettazione e concorsi di progettazione), e l’ammontare delle spese di progettazione comprese nell’importo a base del contratto». Dal confronto delle due norme risulta come, mentre quella generale ha individuato nel “concorrente” il soggetto legittimato ad avvalersi dell’istituto, quella speciale ha adoperato l’espressione “operatori economici”, che può essere considerata come la sintesi dei soggetti così come intesi dalla prima norma riportata oppure come un’espressione polisensa, capace di allargare la legittimazione fino a ricomprendervi anche il progettista esterno alla compagine che ha formulato l’offerta. L’espressione “concorrente” non può che avere il significato proprio di chi effettua l’offerta, che per il sistema della legge dell’evidenza pubblica e per l’art. 3, commi 19 e 22, del codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo n. 163 del 2006, non può che essere «colui che offra sul mercato, rispettivamente, la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti, la prestazione di servizi», ossia l’imprenditore, il fornitore e il prestatore di servizi. Il collegio osserva che la questione non va risolta sulla base delle parole adoperate dal legislatore, che pure hanno il loro peso in sede di interpretazione, bensì sulla base della realtà giuridica. Anche perché quand’anche si dovesse optare per la lettura più larga, essa non necessariamente porta ad includere tra i concorrenti il professionista indicato per la progettazione, data la sua particolare posizione nel meccanismo dell’offerta dell’evidenza pubblica e nell’economia generale della specifica vicenda. 15.1- In ogni caso, come si ricava dalla scienza economica e dal diritto commerciale, l’operatore economico è l’imprenditore, singolo (2082 c.c.) o collettivo (2247 c. c.), che, operando professionalmente nel mercato, offre o acquista beni o servizi al fine di conseguire utili. Ad esso si contrappone il consumatore, cui manca la finalità indicata e l’organizzazione d’impresa. In questo quadro si inserisce il prestatore d’opera professionale (2229 c. c.), il cui contratto può essere concluso anche da una società di capitali, i cui soci esercitino professioni c.d. protette, che prevedono l’iscrizione ad un albo. Esso è caratterizzato dalla autonomia rispetto al committente, dalla retribuzione commisurata alla qualità e alla quantità della prestazione, che è di mezzi e non di risultato. Per quel che qui interessa, il professionista non partecipa agli utili del committente quando questi rivesta la qualità di imprenditore, che è tenuto comunque alla corresponsione della retribuzione, essendo il rischio del lavoro del professionista a carico del committente. Non è casuale, per rimanere alla fattispecie in esame, che all’art. 53 sia stato aggiunto il comma 3 bis, che prevede per la stazione appaltante la corresponsione diretta al progettista della quota del compenso corrispondente agli oneri di progettazione. Il richiamo di tali nozioni si è reso necessario, avendo le difese dedotto non poco sul significato da attribuire all’espressione “operatore economico”. 15.2- Tuttavia il collegio osserva come il significato da attribuire a tale espressione, nel caso di specie, ci viene dallo stesso legislatore, laddove all’art. 3, comma 22, del codice dei contratti pubblici, più volte richiamato e applicabile ratione temporis, stabilisce che: «Il termine “operatore economico” comprende l’imprenditore, il fornitore e il prestatore di servizi o un raggruppamento o consorzio di essi». Non a caso in dottrina comincia a farsi strada l’idea che l’avvalimento rientri nei contratti d’impresa. Pertanto è naturale concludere che il professionista indicato non rientra nei soggetti legittimati ad utilizzare l’istituto dell’avvalimento, non essendo un operatore economico nel senso voluto dalla disciplina dei contratti pubblici. La posizione giuridica del progettista indicato dall’impresa, che ha formulato l’offerta con la conseguente aggiudicazione e che si ricava dalla “legge” di gara, è, come già anticipato, quella di un prestatore d’opera professionale che non entra a far parte della struttura societaria che si avvale della sua opera, e men che meno rientra nella struttura societaria quando questa formula l’offerta. Rimangono due soggetti separati e distinti, che svolgono funzioni differenti con conseguente diversa distribuzione delle responsabilità. 15.3- Tale situazione non muta neppure nel caso di appalto c. d. integrato, caratterizzato dal fatto che l’oggetto negoziale è unico, nel senso che non vi è una doppia gara, una per la progettazione e un’altra per l’esecuzione dei lavori, poiché il contratto viene sottoscritto unicamente da chi si è aggiudicato la gara; e in ogni caso la legge non configura un meccanismo diverso da quello previsto in generale. D’altronde, anche l’impresa ausiliaria, figura propria dell’avvalimento, rimane sempre estranea alla vicenda dell’aggiudicazione e del conseguente contratto di appalto o di servizi, nonostante la legge fissi una forma di responsabilità solidale che viene assunta in adempimento del contratto di avvalimento e al tempo stesso è la riprova di una soggettività separata e distinta. Il contratto ha come contenuto la promessa dell’obbligazione (o fatto) del terzo (art. 1381 c. c.) e la dichiarazione dell’ausiliario di impegno verso la stazione appaltante ne costituisce l’esecuzione; senza tale dichiarazione non vi sarebbe nessuna possibilità per la stazione appaltante di pretendere il coinvolgimento dell’ausiliaria nell’esecuzione del contratto attraverso la messa a disposizione dei mezzi e delle qualifiche e men che meno vi sarebbe la responsabilità solidale. La dichiarazione dell’ausiliaria costituisce il punto di contatto giuridico tra la fase negoziale e il subprocedimento dell’avvalimento che si apre nella fase dell’offerta di gara. 15.4- Occorre precisare che, come si vedrà oltre, per la giurisprudenza dell’Unione europea, l’avvalimento si applica non ai soli concorrenti, ma a tutti gli operatori economici, tenuti a qualsiasi titolo a dimostrare il possesso dei requisiti in gara (si veda da ultimo Corte di giustizia CE, sez.X, 11 giugno 2020, C-219/19 Parsec, che, in linea con la nozione ampia di operatore economico, va incluso in detta categoria qualunque persona o ente collettivo che operi sul mercato << a prescindere dalla forma giuridica nel quadro della quale ha deciso di operare>>). Il che ha talora indotto ad optare per l’orientamento più permissivo (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 2 ottobre 2014, n. 4929, cit.). A tal proposito è sufficiente osservare come, per le ragioni spiegate, anche nel diritto dell’Unione il significato di operatore economico non è stato mai esteso alla figura del professionista, che anche in quell’ordinamento ha la stessa connotazione giuridica dell’ordinamento interno, ossia non è operatore del mercato nell’accezione tecnica indicata. 16- L’aggiudicazione è illegittima anche per un’altra doppia serie di motivi. 16.1- Dalla configurazione che il collegio ha ritenuto di dare alla figura del professionista esterno indicato dal raggruppamento che ha formulato l’offerta, discende che questi assume un rilievo tale per cui deve possedere in proprio i requisiti richiesti per eseguire la prestazione professionale e, per altra via, gli è anche preclusa la possibilità di sopperire ad eventuali lacune utilizzando i requisiti posseduti da altro professionista, singolo o associato, come avvenuto nel caso di specie. Infatti, il raggruppamento risultato aggiudicatario ha indicato solamente l’ingegner Indovina e non anche la società Prisma Engineering S.r.l. Questo esclude anche che il collegio possa eventualmente riqualificare il contratto di avvalimento intervenuto tra i due soggetti come l’espressione, sia pure anomala, di una forma di associazione temporanea tra professionisti, che complessivamente avrebbero posseduto i requisiti richiesti dal bando. Pertanto, stante il meccanismo utilizzato, l’ingegnere indicato avrebbe dovuto possedere in proprio detti requisiti. Peraltro questa è in genere la regola nel caso di incarico professionale, non avendo molto senso indicare un professionista sprovvisto dei requisiti, dato il carattere normalmente fiduciario del rapporto tra il committente e il professionista stesso. Ciò è tanto più necessario per il procedimento dell’evidenza pubblica, nel quale occorre garantire l’amministrazione circa l’affidabilità dell’appaltatore nella sua struttura complessiva anche in vista dell’esecuzione dell’opera progettata. 16.2-La soluzione che il collegio ha ritenuto di dare al caso di specie consentirebbe in astratto di escludere l’esame della questione relativa al cosiddetto avvalimento “a cascata”, su cui egualmente gli scritti difensivi hanno molto indugiato. Infatti, se il rapporto tra il professionista ‘indicato’ e il raggruppamento partecipante alla gara attraverso l’offerta non integra l’ipotesi dell’avvalimento, il contratto di avvalimento presentato dal professionista rimane privo di effetti, non essendoci rapporto, nemmeno indiretto, tra la società -sua- ausiliaria e l’amministrazione aggiudicatrice. Avendo al contrario il giudice territoriale considerato la fattispecie come rientrante nello schema dell’avvalimento e in particolare nella sottospecie cosiddetta “a cascata”, ne è conseguita l’affermata legittimità dell’aggiudicazione, pur nella consapevolezza del contrasto giurisprudenziale registrabile sull’ammissibilità dell’istituto nel vigore dell’abrogato codice dei contratti pubblici. Questo giustifica l’estensione della motivazione ad aspetti non rigorosamente necessari per salvaguardarne la congruità e la sufficienza, pur rimanendo la questione dell’avvalimento “a cascata” il punto di diritto su cui il collegio è stato chiamato a pronunciarsi. 16.3- Sin dalla prima apparizione dell’istituto dell’avvalimento nel panorama ordinamentale europeo e nazionale, la giurisprudenza si è dovuta occupare – oltre a tante altre, larga parte delle quali sono state risolte dalla sentenza Ad. Plenaria n. 23 del 4 aprile 2016 – delle due questioni che vengono ora in rilievo, ossia l’applicazione generalizzata (e non come eccezione ammessa nella singola gara) e l’ammissibilità della fattispecie in cui il soggetto che ‘presta’ i requisiti all’impresa ausiliata possa a sua volta avvalersi dei requisiti di altra impresa ausiliaria. In particolare, va registrato un primo contrasto tra la giurisprudenza interna e quella comunitaria addensatosi intorno al significato da attribuire all’art. 49, comma 6, del d. lgs. n. 163 del 2006, in base al quale solo in ipotesi eccezionali e solo qualora il bando di gara lo prevedesse, era possibile l’avvalimento cosiddetto multiplo o plurimo, ossia da parte di più di un soggetto all’interno di un’unica categoria di lavorazione. Era invece vietato l’avvalimento frazionato, ossia la possibilità di cumulare tra concorrente e impresa ausiliaria i singoli requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi. Proprio in questo contesto si è affermata la differenza concettuale tra avvalimento plurimo e frazionato; dove nel primo caso ci si avvale di più di un soggetto, mentre nella seconda ipotesi il concorrente si avvale di un solo soggetto, con la particolarità che ognuno di essi da solo non possiede il requisito o i requisiti di partecipazione ed è solo cumulando i propri con quello dell’altro che viene raggiunta la soglia richiesta. Successivamente a questa iniziale distinzione si sono aggiunte altre sottospecie come gli avvalimenti interni plurimi e incrociati e l’avvalimento ad abundantiam, oltre alle classiche distinzioni fondate sul contenuto del contratto, ossia l’avvalimento operativo e quello di garanzia. In quel contesto la giurisprudenza interna, diffidando del nuovo istituto, aveva dato piena applicazione alle limitazioni e ai divieti della norma indicata (Cons. Stato, Sez. VI, 13 giugno 2011 n. 3565, Sez. IV, 17 ottobre 2012, n. 5340; id., 24 maggio 2013, n. 2832; Sez. III, 1° ottobre 2012, n. 5161; Sez. V, 24 gennaio 2013, n. 439). Una timida apertura era contenuta nella sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, 8 febbraio 2011, n. 857, che mostrava un certo favore per l’affermazione del principio della più ampia partecipazione delle imprese alle gare. In realtà, già in precedenza la medesima Sezione, con sentenza del 28 settembre 2005, n. 5194, aveva affermato la portata generale del principio dell’avvalimento, ritenendolo valevole per tutti i tipi di contratti pubblici, avuto riguardo anche alle attestazioni SOA; pur precisando poi, con riferimento alla concessione di servizi, che ciò deve risultare chiaramente da parte dell’amministrazione aggiudicatrice attraverso l’espresso richiamo nel bando di gara dell’art. 49 del Codice dei contratti pubblici (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 2 maggio 2013, n. 2385). In ogni caso, dunque, già nel vigore del più volte richiamato art. 49 del codice del 2006 la giurisprudenza riteneva che tale norma non poneva alcuna limitazione al ricorso all’istituto dell’avvalimento se non per i requisiti strettamente personali di carattere generale, estendendolo anche per la certificazione di qualità (Cons. Stato, Sez. V, 14 febbraio 2013, n. 911; id., 6 marzo 2013, n. 1368; Sez. IV, 1° agosto 2012, n. 4406; id., 17 ottobre 2012, n. 5340). 16.4- In quel contesto la Corte di giustizia europea, con la sentenza 10 ottobre 2013, numero C-94/12, cambia il quadro normativo interno e quindi anche il quadro giurisprudenziale, laddove afferma che gli articoli 47, par. 2 e 48, par.3 della direttiva 2004/ 18/CE devono essere interpretati nel senso che ostano a una disposizione nazionale che vieti, in via generale, agli operatori economici che partecipano ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di avvalersi, per una stessa categoria di qualificazione, della capacità di più imprese; la pronuncia si era formata a proposito di una controversia dove il raggruppamento temporaneo di imprese era stato escluso dalla gara d’appalto in considerazione del divieto generale di avvalimento all’interno della medesima categoria di qualificazione, ai sensi dell’articolo 49, comma 6, del Codice dei contratti pubblici del 2006. Una prima applicazione dei principi contenuti nella pronuncia si è avuta con Cons. Stato, Sez. V, 9 dicembre 2013, n. 5874. In tale sentenza la Corte di Lussemburgo ha evocato il principio della piena apertura concorrenziale con quello dell’effettiva messa a disposizione dei requisiti necessari, richiamando il generale obiettivo dell’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nella considerazione che 1’ampio ricorso all’istituto dell’avvalimento è anche idonea a facilitare l’accesso delle piccole medie imprese agli appalti pubblici. La Corte di giustizia ha poi confermato la valenza generale dell’istituto dell’avvalimento e i limitati margini riconosciuti ai legislatori nazionali nel limitarne il campo di estensione (sentenza del 7 aprile 2016 in causa C-324/14; 14 settembre 2017 in causa C-223/16). Tuttavia, la Corte di giustizia nelle sentenze indicate ammonisce che i principi di parità di trattamento e di non discriminazione vanno sempre conciliati con l’obbligo di trasparenza, che non consente trattative fra le amministrazioni aggiudicatrici e gli operatori economici. 16.5- Successivamente, come è noto, la legge delega 28 gennaio 2016, n. 11, ha dettato uno specifico criterio di delega per l’avvalimento (criterio di cui all’art. 1, comma 1, lett. zz), in attuazione dell’art. 63 della Direttiva 2014/24/UE), stabilendo sia l’esclusione della possibilità di fare ricorso al cosiddetto “avvalimento a cascata”, sia il divieto che oggetto dell’avvalimento possa essere “il possesso della qualificazione dell’esperienza tecnica e professionale necessarie per eseguire le prestazioni da affidare”. Le disposizioni sono poi penetrate nell’art. 89 del nuovo codice dei contratti pubblici, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, che, al comma 6, vieta espressamente il cosiddetto avvalimento “a cascata”, consentendo invece quello plurimo e frazionato; con possibilità, in via eccezionale, di non consentire l’avvalimento, purché venga indicato nel bando con il rispetto del principio di proporzionalità. Questo rende nuovamente di attualità la giurisprudenza richiamata, formatasi nel vigore del precedente codice, secondo cui nelle gare pubbliche non è consentito avvalersi di un soggetto che, a sua volta, utilizza i requisiti di un altro soggetto, sia pure ad esso collegato. Ciò, in quanto una deroga al principio di personalità dei requisiti di partecipazione è collegata alla possibilità per la stazione appaltante di avere un rapporto diretto e immediato con l’ausiliaria, che non viene assicurato dalla semplice dichiarazione dell’ausiliaria in esecuzione del contratto di avvalimento con l’impresa ausiliata, anche se dal meccanismo ne consegue la responsabilità solidale delle due imprese in relazione all’intera prestazione dedotta nel contratto da aggiudicare. In proposito il collegio osserva come il divieto contenuto nel Codice dei contratti pubblici attualmente in vigore, pur non essendo direttamente applicabile alla fattispecie in esame, ha comunque un ruolo di orientamento per l’interprete, che è tenuto a tenere nel debito conto le tendenze evolutive dell’ordinamento. 16.6- In sintesi, quanto all’articolo 53, comma 3, applicato nella vicenda in esame, nonostante non esistesse nel vecchio codice dei contratti pubblici un divieto espresso del cosiddetto “avvalimento a cascata”, la giurisprudenza maggioritaria già propendeva per la non ammissibilità. Era ritenuta decisiva la considerazione che, pur essendo pacifico il carattere generalizzato dell’avvalimento strumentale ai principi comunitari della massima partecipazione nelle gare di appalto e dell’effettività della concorrenza, l’applicazione dell’istituto deve essere comunque contemperato con l’esigenza di assicurare garanzie idonee alla stazione appaltante al fine della corretta esecuzione del contratto ( cfr. ex multis le già citate Cons. Stato, Sez.III, 7 marzo 2014, n. 1072 e Sez. V, 13 marzo 2014, n. 1251). 17- Alla luce delle considerazioni svolte l’Adunanza Plenaria formula il seguente principio di diritto: il progettista indicato, nell’accezione e nella terminologia dell’articolo 53, comma, del decreto legislativo n. 163 del 2006, va qualificato come professionista esterno incaricato di redigere il progetto esecutivo. Pertanto non rientra nella figura del concorrente né tanto meno in quella di operatore economico, nel significato attribuito dalla normativa interna e da quella dell’Unione europea. Sicché non può utilizzare l’istituto dell’avvalimento per la doppia ragione che esso è riservato all’operatore economico in senso tecnico e che l’avvalimento cosiddetto “a cascata” era escluso anche nel regime del codice dei contratti pubblici, ora abrogato e sostituito dal decreto legislativo n. 50 del 2016, che espressamente lo vieta. 18- In conclusione il motivo d’appello va accolto; per l’effetto va annullata la sentenza di primo grado e accolto il ricorso originario. La causa va rimessa alla sezione perché si pronunci sulla domanda risarcitoria ritualmente proposta nell’atto di appello. Le spese al definitivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, accoglie il motivo dell’appello principale e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso originario. Dispone la restituzione degli atti alla sezione perché si pronunci sulla domanda risarcitoria. Spese al definitivo. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 giugno 2020, tenutasi con modalità da remoto e con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati: Filippo Patroni Griffi, Presidente Sergio Santoro, Presidente Franco Frattini, Presidente Giuseppe Severini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente, Estensore Diego Sabatino, Consigliere Bernhard Lageder, Consigliere Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere Giulio Veltri, Consigliere Fabio Franconiero, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere Filippo Patroni Griffi, Presidente Sergio Santoro, Presidente Franco Frattini, Presidente Giuseppe Severini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente, Estensore Diego Sabatino, Consigliere Bernhard Lageder, Consigliere Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere Giulio Veltri, Consigliere Fabio Franconiero, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere
Contratti della Pubblica amministrazione – Progettazione – Progettista ex art. 53, comma 3, d.lgs. n. 163 del 2006 – É professionista esterno incaricato di redigere il progetto esecutivo – Conseguenza – Avvalimento – Esclusione. Il progettista indicato, nell’accezione e nella terminologia dell’art. 53, comma 3, d.lgs. n. 163 del 2006, va qualificato come professionista esterno incaricato di redigere il progetto esecutivo; pertanto non rientra nella figura del concorrente né tanto meno in quella di operatore economico, nel significato attribuito dalla normativa interna e da quella dell’Unione europea, con la conseguenza che non può utilizzare l’istituto dell’avvalimento per la doppia ragione che esso è riservato all’operatore economico in senso tecnico e che l’avvalimento cosiddetto “a cascata” era escluso anche nel regime del codice dei contratti pubblici, ora abrogato e sostituito dal d.lgs. n. 50 del 2016, che espressamente lo vieta (1).   (1) Ha ricordato l’Alto Consesso che la legge delega 28 gennaio 2016, n. 11, ha dettato uno specifico criterio di delega per l’avvalimento (criterio di cui all’art. 1, comma 1, lett. zz), in attuazione dell’art. 63 della Direttiva 2014/24/UE), stabilendo sia l’esclusione della possibilità di fare ricorso al cosiddetto “avvalimento a cascata”, sia il divieto che oggetto dell’avvalimento possa essere “il possesso della qualificazione dell’esperienza tecnica e professionale necessarie per eseguire le prestazioni da affidare”. Le disposizioni sono poi penetrate nell’art. 89 del nuovo codice dei contratti pubblici, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, che, al comma 6, vieta espressamente il cosiddetto avvalimento “a cascata”, consentendo invece quello plurimo e frazionato; con possibilità, in via eccezionale, di non consentire l’avvalimento, purché venga indicato nel bando con il rispetto del principio di proporzionalità. Questo rende nuovamente di attualità la giurisprudenza formatasi nel vigore del precedente codice, secondo cui nelle gare pubbliche non è consentito avvalersi di un soggetto che, a sua volta, utilizza i requisiti di un altro soggetto, sia pure ad esso collegato. Ciò, in quanto una deroga al principio di personalità dei requisiti di partecipazione è collegata alla possibilità per la stazione appaltante di avere un rapporto diretto e immediato con l’ausiliaria, che non viene assicurato dalla semplice dichiarazione dell’ausiliaria in esecuzione del contratto di avvalimento con l’impresa ausiliata, anche se dal meccanismo ne consegue la responsabilità solidale delle due imprese in relazione all’intera prestazione dedotta nel contratto da aggiudicare. In proposito il collegio osserva come il divieto contenuto nel Codice dei contratti pubblici attualmente in vigore, pur non essendo direttamente applicabile alla fattispecie in esame, ha comunque un ruolo di orientamento per l’interprete, che è tenuto a tenere nel debito conto le tendenze evolutive dell’ordinamento. In sintesi, quanto all’art. 53, comma 3, d.lgs. n 163 del 2006, nonostante non esistesse nel vecchio codice dei contratti pubblici un divieto espresso del cosiddetto “avvalimento a cascata”, la giurisprudenza maggioritaria già propendeva per la non ammissibilità. Era ritenuta decisiva la considerazione che, pur essendo pacifico il carattere generalizzato dell’avvalimento strumentale ai principi comunitari della massima partecipazione nelle gare di appalto e dell’effettività della concorrenza, l’applicazione dell’istituto deve essere comunque contemperato con l’esigenza di assicurare garanzie idonee alla stazione appaltante al fine della corretta esecuzione del contratto (Cons. Stato, sez. III, 7 marzo 2014, n. 1072; id., sez. V, 13 marzo 2014, n. 1251).
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/criteri-valutazionali-c.d.-tabellari-on-/off-dell-offerta-di-gara-pubblica-giudizio-di-anomalia-dell-offerta
Criteri valutazionali c.d. tabellari on /off dell’offerta di gara pubblica – Giudizio di anomalia dell’offerta
N. 01591/2022 REG.PROV.COLL. N. 06208/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6208 del 2021, integrato da motivi aggiunti, proposto da Centro Processi Assicurativi S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Eugenio Bruti Liberati, Nicola Bertacchi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Eugenio Bruti Liberati in Roma, via Maria Adelaide, 8; contro Ferservizi S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giorgio Fraccastoro, Francesco D'Amelio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Interconsult S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ariel Dello Strologo, Filippo Lattanzi, Andrea Mozzati, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Filippo Lattanzi in Roma, via G. P. Da Palestrina n. 47; Ferservizi S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giorgio Fraccastoro e Francesco D’AmelioAstrea Claim Solutions S.r.l., Ferrovie dello Stato Italiane S.p.A., non costituite in giudizio; per l'annullamento Per quanto riguarda il ricorso introduttivo: della Comunicazione ex art. 76, comma 5, lett. a) del D. Lgs. n. 50/2016 dell'11 maggio 2021 (doc. 1), trasmessa in pari data a Centro Processi Assicurativi S.r.l. tramite il Portale Acquisti di Ferservizi S.p.A., recante l'aggiudicazione della gara “eGPA AGA 20/2020 – Affidamento della gestione dei sinistri sotto la franchigia contrattuale (S.I.R.) prevista dalla polizza RCT-O e Professionale Primary per le Società del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane (CIG 8446575E2E)”, unitamente a ogni altro atto presupposto, conseguente e comunque connesso, ivi espressamente inclusi, in qualità di atti presupposti: - il Bando di gara pubblicato su GU/S S198 in data 12 ottobre 2020 (doc. 2), l'Avviso relativo a informazioni complementari o modifiche pubblicato su GU/S S224 in data 17 novembre 2020 (doc. 3), la Comunicazione di Rettifica e Pubblicazione Nuovi termini dell'11 febbraio 2021 (doc. 4); - il Disciplinare di gara (doc. 5); - i verbali di ricognizione delle offerte tecniche (doc. 6) ed economiche (doc. 7), relativi alle sedute della Commissione di gara del 26 marzo 2021 e del 30 marzo 2021; - il verbale di verifica di anomalia delle offerte (doc. 8), relativo alla seduta della Commissione di gara del 29 aprile 2021; e la declaratoria di nullità, invalidità o inefficacia dell'Accordo Quadro eventualmente stipulato nelle more dall'Amministrazione resistente con l'aggiudicatario RTI Interconsult S.p.A. / Astrea Claim Solutions S.r.l. nonché per la condanna della Stazione Appaltante a esperire una nuova procedura di gara. Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da Centro Processi Assicurativi S.r.l. il 16/9/2021: al fine di ottenere l'annullamento, della Comunicazione ex art. 76, comma 5, lett. a) del D. Lgs. n. 50/2016 dell'11 maggio 2021 (doc. 1), trasmessa in pari data a Centro Processi Assicurativi S.r.l. tramite il Portale Acquisti di Ferservizi S.p.A., recante l'aggiudicazione della gara “eGPA AGA 20/2020 – Affidamento della gestione dei sinistri sotto la franchigia contrattuale (S.I.R.) prevista dalla polizza RCT-O e Professionale Primary per le Società del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane (CIG 8446575E2E)”, unitamente a ogni altro atto presupposto, conseguente e comunque connesso, ivi espressamente inclusi, in qualità di atti presupposti: - il Bando di gara pubblicato su GU/S S198 in data 12 ottobre 2020 (doc. 2), l'Avviso relativo a informazioni complementari o modifiche pubblicato su GU/S S224 in data 17 novembre 2020 (doc. 3), la Comunicazione di Rettifica e Pubblicazione Nuovi termini dell'11 febbraio 2021 (doc. 4); - il Disciplinare di gara (doc. 5); - i verbali di ricognizione delle offerte tecniche (doc. 6) ed economiche (doc. 7), relativi alle sedute della Commissione di gara del 26 marzo 2021 e del 30 marzo 2021; - il verbale di verifica di anomalia delle offerte (doc. 8), relativo alla seduta della Commissione di gara del 29 aprile 2021; e la declaratoria di nullità, invalidità o inefficacia dell'Accordo Quadro stipulato nelle more dall'Amministrazione resistente con l'aggiudicatario RTI Interconsult S.p.A. / Astrea Claim Solutions S.r.l. nonché l'accertamento del diritto della ricorrente a conseguire l'aggiudicazione dell'appalto di cui si tratta e/o a subentrare nel contratto stipulato dall'Amministrazione resistente con l'aggiudicatario RTI Interconsult S.p.A. / Astrea Claim Solutions S.r.l. o, in subordine, la condanna della Stazione Appaltante a esperire una nuova procedura di gara. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ferservizi S.p.A. e di Interconsult S.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'Udienza pubblica del giorno 17 novembre 2021 il Consigliere Alfonso Graziano e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con il ricorso principale la ricorrente, avendo partecipato in R.T.I. con la mandante Sircus S.r.l., alla gara a procedura aperta indetta da Ferservizi S.p.a. per l’affidamento della gestione dei sinistri sotto la franchigia contrattuale (S.I.R.) prevista dalla polizza di R.C.T. – O e professionale primary per le società del Grupppo Ferrovie dello Stato, impugna il Bando di gara pubblicato su GU/S S198 in data 12 ottobre 2020 (doc. 2 produz. ricorr.), l'Avviso relativo a informazioni complementari o modifiche pubblicato su GU/S S224 in data 17 novembre 2020 (doc. 3), la Comunicazione di Rettifica e Pubblicazione Nuovi termini dell'11 febbraio 2021 (doc. 4). Sono stati altresì oggetto di gravame: - il Disciplinare di gara (doc. 5); - i verbali di ricognizione delle offerte tecniche (doc. 6) ed economiche (doc. 7), relativi alle sedute della Commissione di gara del 26 marzo 2021 e del 30 marzo 2021; - il verbale di verifica di anomalia delle offerte (doc. 8), relativo alla seduta della Commissione di gara del 29 aprile 2021; è chiesta anche la declaratoria di nullità, invalidità o inefficacia dell'Accordo Quadro eventualmente stipulato nelle more dall'Amministrazione resistente con l'aggiudicatario RTI Interconsult S.p.A. / Astrea Claim Solutions S.r.l. La ricorrente agisce inoltre per la per la condanna della Stazione Appaltante a esperire una nuova procedura di gara. 1.1. Il 15 giugno 2021 la ricorrente produceva numerosi documenti, tra cui il fatturato globale minimo annuo, quello specifico medio della controinteressata Interconsult, le verifiche antimafia. Il 18 giugno 2021 si costituivano in resistenza al ricorso la Interconsult s.r.l. e il 20 giugno la stazione appaltante Ferservizi S.p.a. che il 21 giugno 2021 depositava memoria difensiva e documenti. Anche la Interconsult produceva memoria difensiva e documenti in data 21 giugno 2021. 2. Alla Camera di consiglio del 23 giugno 2021 tenutasi in videoconferenza da remoto la Sezione respingeva la domanda cautelare con Ordinanza 3 luglio 2021, n.3643 motivando diffusamente l’insussistenza di fumus boni iuris nel ricorso. 2.1. La ricorrente proponeva motivi aggiunti il 16 settembre 2021, notificati il 4 settembre 2021, contestando la valutazione di congruità, ovvero di non anomalia, espressa dalla Ferservizi in esito al subprocedimento di verifica, sull’offerta del RTI aggiudicatario. La ricorrente e la Interconsult s.r.l. producevano documenti e memoria difensiva il 29 ottobre 2021; la Ferservizi S.p.a. depositava memoria il 30 ottobre 2021. Tutte le parti di poi producevano le loro repliche. 2.2. Alla pubblica Udienza del 17 novembre 2021 sulle conclusioni delle parti la causa è passata in decisione. 3. La gara impugnata, dall’importo complessivo di 2.400.000 € è finalizzata alla stipula di un Accordo Quadro della durata di 12 mesi, da aggiudicare mediante il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo ai sensi dell’art. 95, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, con assegnazione di 70 punti per l’offerta tecnica e 30 punti per l’offerta economica (doc. 3 produz. Ferservizi del 21.6.2021, disciplinare di gara). La lex specialis di gara ha previsto che il punteggio da attribuire all’offerta tecnica dei concorrenti fosse così distribuito: - 50 punti da assegnare sulla base dei criteri di natura oggettiva, e in particolare del modello c.d. on/off, oggetto di valutazione tabellare; 20 punti da assegnare sulla base dei criteri di natura descrittiva, oggetto di valutazione discrezionale. Presentavano offerta 7 imprese, tra cui l’odierna ricorrente Centro Processi Assicurativi S.r.l., in RTI con la mandante Sircus S.r.l. e il costituendo RTI Interconsult S.p.A. e Astrea Claims Solutions S.r.l. A conclusione delle operazioni di gara, la Commissione formava la graduatoria provvisoria nella quale al primo posto si posizionava il RTI Interconsult con un punteggio complessivo di 96,754 (66,754 per la componente tecnica e 30 per quella economica) e al secondo il RTI Centro processi assicurativi con un punteggio complessivo di 94,359 (di cui 70 per la componente tecnica e 24,359 per quelle economica dell’offerta). Al ché Ferservizi, con comunicazione ex art. 76, comma 5, lett. a) del d.lgs. n. 50/2016 dell’11.5.2021, aggiudicava la gara al RTI Interconsult (doc. 4 produz. Ferservizi cit.). 4. Insorgeva contro l’aggiudicazione il RTI con a capo la Centro processi assicurativi srl proponendo il ricorso in trattazione con il quale, con un unico motivo, rubricando Violazione e falsa applicazione dell’art. 95, commi 3, 4, 10-bis, del D.Lgs. aprile 2016, n. 50, Violazione e falsa applicazione dell’art. 67 della Direttiva Europea e del Consiglio 26 febbraio 2014, n. 24, Eccesso di potere per violazione e falsa applicazione delle Linee Guida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione n. 2 in materia di “Offerta economicamente più vantaggiosa”, Eccesso di potere per violazione del principio di buon andamento dell’azione amministrativa, lamentava, in sintesi, l’illegittimità dell’intera procedura di gara poiché il Disciplinare di gara, nel regolamentare l’assegnazione dei punteggi tecnici, ha ripartito i 70 punti complessivi contemplando l’attribuzione di 50 punti secondo il metodo on/off ed i restanti 20 punti in funzione di quattro criteri di natura discrezionale. Il che per la ricorrente avrebbe inevitabilmente determinato un livellamento della competizione tecnica sui soli 20 punti discrezionali, conseguendone inoltre che i punteggi assegnati per la componente economica (30 punti) avrebbero assunto nell’insieme della competizione, un rilievo preponderante, in asserita violazione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa codificato all’art. 95 del d.lgs. n. 50/2016. Inoltre, secondo la ricorrente, la concreta modalità di ripartizione dei punteggi tecnici contenuta nella documentazione di gara si porrebbe altresì in contrasto con le Linee Guida ANAC n. 2, oltreché con il pregresso operato della Stazione appaltante nonché, da ultimo, con la prassi invalsa nel settore di riferimento. 5. A parere del Collegio, come già diffusamente argomentato in sede cautelare, le riassunte censure non colgono nel segno e vanno disattese. Giova evidenziare che il ricorso è inteso a demolire l’intera procedura di selezione non articolando specifiche censure avverso il provvedimento di aggiudicazione né nei confronti del RTI aggiudicatario, con la conseguenza che l’unico risultato auspicato dalla ricorrente consiste nell’annullamento della procedura di gara e della conseguente aggiudicazione onde indirizzare l’operato della Stazione appaltante verso la pubblicazione di una nuova gara emendata dei vizi che inficerebbero la lex specialis. Come avvertito nell’illustrazione dell’unico motivo di ricorso, la ricorrente contesta la prevalenza accordata dal disciplinare di gara al metodo di attribuzione del punteggio per il merito tecnico dell’offerta ancorato ai fattori c.d. on / off, in dettaglio, 50 punti da assegnare sulla base dei criteri di natura oggettiva, rispondenti al predetto modello on/off oggetto di valutazione tabellare e 20 punti da assegnare sulla base dei criteri di natura descrittiva, oggetto di valutazione discrezionale; prevalenza ritenuta illegittima dalla ricorrente. 5.1. Osserva anzitutto il Collegio che il dato normativo non milita nel senso inteso dalla ricorrente, secondo cui, in estrema sintesi, nell’attribuire il punteggio per la componente tecnica dell’offerta, c.d. merito tecnico, occorre annettere preminente rilievo a fattori valutativi discrezionali a detrimento di quelli ancorati a rilevazioni obiettive. Invero, l’art. 95, comma 10-bis del d.lgs. 50/2016 stabilisce che “La stazione appaltante, al fine di assicurare l'effettiva individuazione del miglior rapporto qualità/prezzo, valorizza gli elementi qualitativi dell'offerta e individua criteri tali da garantire un confronto concorrenziale effettivo sui profili tecnici. A tal fine la stazione appaltante stabilisce un tetto massimo per il punteggio economico entro il limite del 30 per cento”. 5.2. L’unico tassativo vincolo che tale norma di fonte primaria impone alle stazioni appaltanti è quello di non superare nell’assegnazione del “monte punti” il tetto del 30 per cento del punteggio complessivo. Il che è proprio quanto ha effettuato Ferservizi nella gara de qua agiutr, avendo limitato il punteggio massimo attribuibile di 100 punti, a 30 per la componente economica delle offerte. 5.2.1. Ma relativamente al punteggio da attribuire per la componente tecnica delle offerte alle imprese partecipanti ad una gara da aggiudicarsi mediante il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, il Legislatore non impone alle stazioni committenti di privilegiare i fattori valutazionali di tipo discrezionale rispetto a quelli dal taglio oggettivo. 5.3. Sotto altro profilo, giova rimarcare e ribadire quanto già affermato sul tema con l’Ordinanza cautelare n. 3643/2021, vale a dire che la preminenza valutativa accordata a fattori oggettivamente riscontrabili sulla scorta di analisi tabellare, scevri quindi da giudizi discrezionali, risponde ad una avvertita istanza di arginamento e compressione della discrezionalità dell’amministrazione appaltante in armonia con i principi di trasparenza e non discriminazione enunciati all’art. 30, co. 1, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, che li eleva a canoni basilari dell’affidamento di appalti e concessioni, stabilendo che “Nell’affidamento degli appalti e delle concessioni, le stazioni appaltanti rispettano, altresì, i principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza” (sul punto, T.A.R. Lazio – Roma, Sez. III, 18 settembre 2020, n. 9610 sull’illegittima attrazione di fattori tabellari, misurabili quantitativamente, nell’alveo dei criteri discrezionali). La delineata ultima opzione, unitamente a quella enunciata ai precedenti paragrafi 5.2. e 5.2.1., costituisce un approdo interpretativo ulteriore rispetto al precedente di cui alla sentenza della Sezione n. 330/2021 infra riportato in sintesi. Più in generale, va posto in luce che l’aver conferito peso preponderante ai fattori on/off rispetto a quelli descrittivo discrezionali rimonta ad una scelta discrezionale dell’amministrazione, insindacabile dal Giudice amministrativo fatte salve le ipotesi di emersione di macroscopici vizi logici, irragionevolezza o travisamento che nella specie non traspaiono (cfr. sul punto, da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. V, 7 giugno 2021, n. 4031 che ha ribadito il principio, attinto più volte dalla giurisprudenza, secondo cui “la scelta operata dall’amministrazione appaltante, in una procedura di aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, relativamente ai criteri di valutazione delle offerte … è espressione dell’ampia discrezionalità attribuitale dalla legge per meglio perseguire l’interesse pubblico”). Merita di essere evidenziato che anche il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla legittimità del criterio di valutazione “on/off”, sia pur in termini più generali, sancendo che “Il sistema di valutazione “on-off” non è di per sé incompatibile con il criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Ai sensi dell'art. 95, D.lgs. n. 50/2016, infatti, è necessario assicurare, attraverso i criteri valutativi, la valorizzazione delle offerte tecniche e un confronto concorrenziale tra i partecipanti, rientrando nell'ampia discrezionalità della stazione appaltante la loro concreta individuazione e ponderazione.” (Consiglio di Stato sez. VI, 13/08/2020, n.5026) 5.4. In argomento segnala il Collegio (è il precedente di cui si è appena fatto cenno) che di recente la Sezione si è pronunciata nei medesimi sensi sancendo la legittimità dell’impiego nella valutazione del merito tecnico del criterio di valutazione fondato sul metodo “on /off”, che risponde ad una commendevole istanza di contenimento e regimentazione della discrezionalità tecnica delle commissioni di gara. Conviene richiamare anche la censura dedotta nella fattispecie cui ci si riferisce: “4. Con il secondo motivo di ricorso la (omissis) ha chiesto disporsi l’annullamento dell’intera procedura di gara in quanto le modalità di valutazione dell’offerta tecnica previste dalla lettera di invito, siccome fondate su criteri tabellari di tipo on/off, spoglierebbero la Commissione dei poteri discrezionali previsti dal Codice, con ciò determinando l’illegittimità dell’intera procedura. 4.1. La censura appare al Collegio infondata atteso che di recente il Consiglio di Stato ha ritenuto legittima l’utilizzazione di tecniche di valutazione dell’offerta ancorate a criteri tabellari di tipo on/off. Di recente infatti, Consiglio di Stato, Sez. V, 26.3.2020 n. 2094, ha ritenuto tale strumento di valutazione del tutto legittimo. Il Collegio non rinviene ragioni per discostarsi da tale indirizzo dovendo ritenere conseguentemente la gara legittima sotto il profilo dell’utilizzazione di criteri valutazionali tabellari, tipo on/off.” (T.A.R. Lazio – Roma, Sez. III, 11 gennaio 2021, n. 330). In definitiva, al lume di quanto argomentato, il ricorso principale si prospetta infondato; il che consente al Collegio di prescindere dalla disamina delle eccezioni di irricevibilità per tardività ed inammissibilità per acquiescenza sollevata da Farservizi già nella memoria del 21 giugno 2021. 6.Con motivi aggiunti prodotti 16 settembre 2021, notificati il 4 settembre 2021, il R.T.I. ricorrente contesta la valutazione di congruità, ovvero di non anomalia, espressa dalla Ferservizi in esito al subprocedimento di verifica, sull’offerta del RTI aggiudicatario. 6.1. Lamenta, in sintesi la deducente, con un unico motivo aggiunto, che l’offerta della controinteressata sarebbe anomala pera avere essa effettuato una sottostima dei costi relativi ai compensi per l’assistenza legale resa nella fase della gestione de i sinistri sotto franchigia di legali all’uopo incaricati, a causa di uno scostamento dai valori tabellari concernenti i compensi professionali spettanti agli avvocati in base al D.M. n. 55/2015. Nella tesi della ricorrente, pur non essendo siffatti valori vincolanti ed inderogabili, l’avere la legge di gara previsto l’importo di € 250, prefissato quale compenso per ogni sinistro per il quale venga prestata assistenza legale, integrerebbe una palese incongruità, per cui “la sottostima dei costi connessi all’assistenza legale prestata alle Società del Gruppo Ferrovie dello Stato nei giudizi relativi ai sinistri sottofranchigia è di entità tale da inficiare completamente la valutazione di congruità dell’offerta del RTI aggiudicatario” (Ricorso per motivi aggiunti, pag. 7), assunto che costituisce il fulcro ed al contempo la sintesi delle doglianze articolate con l’unico motivo del gravame per motivi aggiunti che ci si avvia a scrutinare. Sostiene ancora la ricorrente che ai sensi del già citato art. 13-bis della legge n. 247/2012, il compenso è considerato equo “quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, e conforme ai parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell'articolo 13, comma 6” ; ma affinché il compenso sia equo non è sufficiente che sia in ipotesi proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto e alle caratteristiche della prestazione legale, ma deve anche inderogabilmente rispettare i parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense fissati dal decreto ministeriale 10 marzo 2014, n. 55, ai sensi dell'articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247. Soggiunge inoltre che il RTI aggiudicatario ha stimato di corrispondere, per la gestione giudiziale del contenzioso, un compenso medio pari a circa Euro 250 a causa: tale valore non solo è ampiamente inferiore al minimo tabellare previsto dal d.m. 55/2014 per le cause relative ai sinistri più frequenti, ma è addirittura inferiore al compenso che, ai sensi dell’art. 9 dello stesso decreto, sarebbe dovuto se la prestazione fosse svolta da un praticante avvocato. 6.2. Ad avviso del Collegio il motivo è infondato alla luce della costante giurisprudenza che predica la natura discrezionale del giudizio di congruità di un’offerta formulata in una gara d’appalto pubblico ove non vengano ad emergere macroscopiche illogicità o irragionevolezze, solo in costanza delle quali è consentito al giudice amministrativo operare un sindacato di pura legittimità la quale costituisce la soglia invalicabile che non è consentito al giudice superare, procedendo ad una diretta ed autonoma valutazione della congruità dell’offerta in sostituzione dell’organismo tecnico (commissione di gara ovvero commissione di valutazione della congruità dell’offerta appositamente nominata dalla stazione appaltante) deputato a formulare siffatto giudizio, avente natura spiccatamente connotata da discrezionalità tecnica. Secondo indirizzo costante anche del Giudice d’appello, “Il giudizio sull’anomalia delle offerte presentate in una gara è un giudizio ampiamente discrezionale, espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza; il giudice amministrativo … non procedere ad una autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, che costituirebbe un’inammissibile invasione della sfera propria della P.A. e tale sindacato rimane limitato ai casi di macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti, oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto (Cons. Stato, III, 22 gennaio 2016, n. 211; nello stesso senso, già Cons. di Stato, VI, 14 agosto 2015, n. 3935 e, di recente, Cons. Stato, V, 24 agosto 2018, n. 5047)” (Cons. di Stato, Sez. V, 22.10.2018, n. 6023). Al riguardo la Sezione ha di recente riaffermato il delineato principio precisando (con richiamo, ex multis, a TAR Lazio, Roma, Sez. I-bis, 17 dicembre 2020, n. 13609; TAR Lombardia, Sez. IV, 30 ottobre 2020, n. 2044; Cons. Stato, Sez. V, 26 agosto 2020, n. 5215) che “Deve inoltre al riguardo rammentarsi in punto di diritto: - (…) la sindacabilità da parte del giudice delle valutazioni dell’amministrazione sull’anomalia dell’offerta, in quanto tipica espressione di valutazione tecnica, solo sotto il profilo della logicità, ragionevolezza, adeguatezza dell’istruttoria o erroneità fattuale ma senza alcuna autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci) e più di recente ribadita riproponendo l’avviso per cui “il procedimento di verifica dell'anomalia ha per oggetto non già la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, ma il riscontro se in concreto l'offerta nel suo complesso sia attendibile e affidabile per la corretta esecuzione del contratto, onde la valutazione sulla congruità dev’esser globale e sintetica, senza concentrarsi, cioè, in modo esclusivo o parcellizzato sulle singole voci di prezzo, sicché eventuali inesattezze su queste ultime devono ritenersi irrilevanti, se alla fine si accerta l'attendibilità dell'offerta stessa” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 7 maggio 2020, n. 2885); - la necessità di un giudizio particolarmente motivato, predicata dalla giurisprudenza condivisa ed espressa dalla Sezione, solo nell’ ipotesi in cui la valutazione di anomalia o meno di un’offerta risulti di segno negativo, ossia esiti, a seguito dell’esame delle giustificazioni prodotte dall’impresa aggiudicataria in sede procedimentale ovvero acquisite in seno al subprocedimento delineato dall’art. 97 del d.ls. 18 aprile 2016, n. 50, in un giudizio finale di non congruità; là dove qualora il giudizio risulti di segno positivo – come nel caso di specie- dichiarando la congruità e bontà dell’offerta e la conseguente aggiudicazione, non si richiede l’assolvimento di un onere di rigorosa motivazione, potendo la positiva valutazione dell’amministrazione (ovvero della commissione appositamente nominata) essere operata anche per relationem alle giustificazioni prodotte (cfr. sul punto già Consiglio di Stato, Sez. V, 13 settembre 2016, n.3855; ID, Sez. III, 14 dicembre 2015, n. 5665; T.A.R. Lazio - Roma, Sez. II, 3 marzo 2020, n. 2815)” (T.A.R. Lazio – Roma, Sez. III, 11 gennaio 2021, n. 330). 6.3. Orbene, nel caso all’esame è dato al Collegio rilevare come la controinteressata abbia adeguatamente motivato il censurato compenso esposto per l’assistenza legale prestata per sinistro. Dalla disamina dei giustificativi prodotti in gara dalla Interconsult aggiudicataria (Doc. 33, produzione della stessa ricorrente), emerge che “si rileva che il RTI aggiudicatario, nel contesto dei giustificativi correttamente trasmessi alla Stazione appaltante, ha dato espressamente atto che “Interconsult è una società per azioni … con n. 40 dipendenti, tra cui 4 periti, e numerosi collaboratori esterni, tra cui 4 legali e un perito iscritti ai rispettivi albi professionali, mentre Astrea Claim Solution è una società a responsabilità limitata … con n. 39 dipendenti e 4 collaboratori esterni, tra cui 3 legali e un perito iscritti ai rispettivi albi professionali” (cfr. doc. 33 di CPA). 6.4. Più in particolare, il RTI Interconsult ha ulteriormente precisato che “Entrambe le società hanno al loro interno un Ufficio sinistri con oltre 10 collaboratori ciascuno, che, come possibile evincere dai DGUE presentati, gestisce, da anni, molteplici commesse relative al Ramo danni … per quanto concerne i costi del personale l’offerta economica ha tenuto conto di un migliore utilizzo di risorse tutte intere … Per quanto concerne l’attività legale, oltre al numero di avvocati territorialmente competenti richiesti dal Bando, l’R.T.I. ha contratti di collaborazione con n. 4 avvocati, in grado di gestire in via stragiudiziale le vertenze, sino alla negoziazione assistita (strumento obbligatorio per le richieste di risarcimento entro i 50.000). Si precisa inoltre che a causa dell’emergenza Covid-19 è stata implementata l’attività telematica legata al processo che consente una sensibile riduzione anche dei costi legali.” Sulla scorta di siffatte delucidazioni la controinteressata ha concluso che “Per tale motivo l’R.T.I. è in grado di fornire internamente una serie di migliorie segnalate nell’elaborato tecnico b.4, ovvero: a) la gestione sinistri attivi e azioni di rivalsa su terze parti eventualmente responsabili; b) la gestione rivalsa datore di lavoro; c) Consulenza giuridica centrale; d) Consulenza penale”. Non emergono, pertanto vizi logici, macroscopiche inesattezze, erroneità o travisamenti che soli consentirebbero a questo giudice di svolgere un sindacato di legittimità sulla formulata valutazione di congruità dell’offerta formulata dall’impresa aggiudicataria. In definitiva, al lume delle svolte considerazioni, anche i motivi aggiunti notificati il 4 settembre 2021 si prospettano infondati e vanno conseguentemente respinti. Le spese di lite seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, e sui relativi motivi aggiunti, li respinge entrambi. Condanna la ricorrente a corrispondere a Ferservizi S.p.A. e a Interconsult s.r.l le spese di lite, che liquida in € 3.000,00 (tremila) oltre accessori di legge. Ordina che la presente Sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 17 novembre 2021 con l'intervento dei Magistrati: Giuseppe Daniele, Presidente Alfonso Graziano, Consigliere, Estensore Roberto Montixi, Referendario Giuseppe Daniele, Presidente Alfonso Graziano, Consigliere, Estensore Roberto Montixi, Referendario IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta - Criteri valutazionali c.d. tabellari on /off  - Individuazione.    Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Valutazione -Natura.          L’art. 95, comma 10-bis, d.lgs. n. 50 del 2016 impone alle stazioni appaltanti di non superare nell’assegnazione del “monte punti” il tetto del 30 per cento del punteggio complessivo per la componente economica dell’offerta, mentre relativamente al punteggio da attribuire per la componente tecnica delle offerte alle imprese partecipanti ad una gara da aggiudicarsi mediante il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, il Legislatore non impone alle stazioni committenti di privilegiare i fattori valutazionali di tipo discrezionale rispetto a quelli dal taglio oggettivo (1).              Non è anomala un’offerta per avere l’aggiudicataria effettuato una sottostima dei costi relativi ai compensi per l’assistenza legale resa nella fase della gestione dei sinistri sotto franchigia di legali all’uopo incaricati, a causa di uno scostamento dai valori tabellari concernenti i compensi professionali spettanti agli avvocati in base al d.m. n. 55 del 2015 e non integra una palese incongruità la clausola della legge di gara che abbia previsto l’importo di € 250, prefissato quale compenso per ogni sinistro per il quale venga prestata assistenza legale (2).    (1) La Sezione ha ricordato che anche il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla legittimità del criterio di valutazione “on/off”, sia pur in termini più generali, sancendo che “Il sistema di valutazione “on-off” non è di per sé incompatibile con il criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Ai sensi dell'art. 95, d.lgs. n. 50 del 2016, infatti, è necessario assicurare, attraverso i criteri valutativi, la valorizzazione delle offerte tecniche e un confronto concorrenziale tra i partecipanti, rientrando nell'ampia discrezionalità della stazione appaltante la loro concreta individuazione e ponderazione” (Cons. St., sez. VI, 13 agosto 2020, n. 5026). La stessa Sezione ha di recente ritenuto legittima una la gara sotto il profilo dell’utilizzazione di criteri valutazionali tabellari, tipo on/off.” (Tar Lazio, sez. III, 11 gennaio 2021, n. 330). Ha poi chiarito la Sezione che la preminenza valutativa accordata a fattori oggettivamente riscontrabili sulla scorta di analisi tabellare, scevri quindi da giudizi discrezionali, risponde ad una avvertita istanza di arginamento e compressione della discrezionalità dell’amministrazione appaltante in armonia con i principi di trasparenza e non discriminazione enunciati all’art. 30, comma 1, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, che li eleva a canoni basilari dell’affidamento di appalti e concessioni (Tar Lazio, sez. III, 18 settembre 2020, n. 9610 sull’illegittima attrazione di fattori tabellari, misurabili quantitativamente, nell’alveo dei criteri discrezionali). L’aver conferito peso preponderante ai fattori on/off rispetto a quelli descrittivo discrezionali rimonta ad una scelta discrezionale dell’amministrazione, insindacabile dal Giudice amministrativo fatte salve le ipotesi di emersione di macroscopici vizi logici, irragionevolezza o travisamento che nella specie non traspaiono (Cons. St., sez. V, 7 giugno 2021, n. 4031, che ha ribadito il principio, attinto più volte dalla giurisprudenza, secondo cui “la scelta operata dall’amministrazione appaltante, in una procedura di aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, relativamente ai criteri di valutazione delle offerte … è espressione dell’ampia discrezionalità attribuitale dalla legge per meglio perseguire l’interesse pubblico”).     (2) La Sezione ha chiarito che ha natura discrezionale il giudizio di congruità di un’offerta formulata in una gara d’appalto pubblico ove non vengano ad emergere macroscopiche illogicità o irragionevolezze, solo in costanza delle quali è consentito al giudice amministrativo operare un sindacato di pura legittimità la quale costituisce la soglia invalicabile che non è consentito al giudice superare, procedendo ad una diretta ed autonoma valutazione della congruità dell’offerta in sostituzione dell’organismo tecnico (commissione di gara ovvero commissione di valutazione della congruità dell’offerta appositamente nominata dalla stazione appaltante) deputato a formulare siffatto giudizio, avente natura spiccatamente connotata da discrezionalità tecnica. La valutazione di anomalia (e non anomalia) dell’offerta deve essere particolarmente motivato, solo nell’ ipotesi in cui la valutazione di anomalia o meno di un’offerta risulti di segno negativo, ossia esiti, a seguito dell’esame delle giustificazioni prodotte dall’impresa aggiudicataria in sede procedimentale ovvero acquisite in seno al subprocedimento delineato dall’art. 97, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, in un giudizio finale di non congruità; là dove qualora il giudizio risulti di segno positivo – come nel caso di specie- dichiarando la congruità e bontà dell’offerta e la conseguente aggiudicazione, non si richiede l’assolvimento di un onere di rigorosa motivazione, potendo la positiva valutazione dell’amministrazione (ovvero della commissione appositamente nominata) essere operata anche per relationem alle giustificazioni prodotte.  ​​​​​​​Infine, la Sezione ricorda la natura discrezionale del giudizio di congruità di un’offerta formulata in una gara d’appalto pubblico ove non vengano ad emergere macroscopiche illogicità o irragionevolezze, solo in costanza delle quali è consentito al giudice amministrativo operare un sindacato di pura legittimità la quale costituisce la soglia invalicabile che non è consentito al giudice superare, procedendo ad una diretta ed autonoma valutazione della congruità dell’offerta in sostituzione dell’organismo tecnico (commissione di gara ovvero commissione di valutazione della congruità dell’offerta appositamente nominata dalla stazione appaltante) deputato a formulare siffatto giudizio, avente natura spiccatamente connotata da discrezionalità tecnica. Secondo indirizzo costante anche del Giudice d’appello, “Il giudizio sull’anomalia delle offerte presentate in una gara è un giudizio ampiamente discrezionale, espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza; il giudice amministrativo … non procedere ad una autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, che costituirebbe un’inammissibile invasione della sfera propria della P.A. e tale sindacato rimane limitato ai casi di macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti, oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto (Cons. Stato, sez. III, 22 gennaio 2016, n. 211; nello stesso senso, già Cons. di Stato, sez. VI, 14 agosto 2015, n. 3935 e, di recente, Cons. Stato, V, 24 agosto 2018, n. 5047)” 
Contratti della Pubblica amministrazione
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Risarcimento del danno ed indennizzo per ritardo nella conclusione del procedimento
N. 04597/2021 REG.PROV.COLL. N. 02865/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Bis) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2865 del 2020, proposto da -OMISSIS--OMISSIS-, -OMISSIS--OMISSIS-, rappresentati e difesi dall'avvocato Riccardo Fiorentini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di -OMISSIS-, in persona del Sindaco, legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Simone Di Leginio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l’accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere sulla procedura avviata con la nota n. 2019-0031667 del 23/5/2019 presentata al Comune di -OMISSIS-presso Uffici deputati, dai signori -OMISSIS--OMISSIS- e -OMISSIS--OMISSIS-, avente ad oggetto “ai sensi dell’art 80 e segg. del regolamento di Polizia Mortuaria, approvato con D.P.R. 10 settembre 1990 n.285, l’autorizzazione per la cremazione dei resti mortali del defunto padre -OMISSIS--OMISSIS- alias ‘-OMISSIS--OMISSIS-presso il crematorio del cimitero comunale di -OMISSIS- e l’autorizzazione al trasporto del feretro nel detto Comune ai sensi dell’art 26 citato D.P.R., nonché alla successiva traslazione delle ceneri nel Comune di -OMISSIS-”. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di -OMISSIS-; Visti tutti gli atti della causa; Vista la sentenza del 30 luglio 2020, nr. 8895, pronunciata tra le parti, con la quale è stato accolto il ricorso e nominato il Commissario ad acta, disponendo altresì la conversione del giudizio in rito ordinario ai fini della trattazione della domanda di risarcimento del danno; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 3 marzo 2021, celebratasi in collegamento da remoto, il dott. Salvatore Gatto Costantino e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO Nell’odierno giudizio, le parti controvertono in ordine alla domanda di risarcimento del danno che i ricorrenti lamentano di aver subito dal silenzio del Comune di -OMISSIS-in ordine alla loro richiesta di traslazione della salma del loro genitore -OMISSIS--OMISSIS-. Con sentenza nr. 8895/2020 è stato definito il ricorso relativamente alla domanda di accertamento dell’illegittimità dell’inerzia; è stato fissato un termine al Comune per provvedere sulla istanza dei ricorrenti in applicazione dei presupposti di legge, meglio definiti in sentenza; è stato nominato, per il caso dell’inosservanza del termine, il Commissario ad acta nella persona del Capo del Dipartimento per le Politiche del personale dell'amministrazione civile e per le Risorse strumentali e finanziarie del Ministero dell’Interno, con facoltà di delega; è stato infine disposto il rinvio all’udienza del 3 marzo 2021 per l’esame della domanda di risarcimento del danno da ritardo e di indennizzo ex art. 2 bis della l. 241/90. Il Capo Dipartimento per le Politiche del personale dell’amministrazione civile e per le Risorse strumentali e finanziarie del Ministero dell’Interno esercitava la delega designando il Vice Prefetto dr. -OMISSIS--OMISSIS-, il quale, avvalendosi della proroga del termine concessa dal Collegio con ordinanza del 11562/2020, con provvedimento del 26 novembre 2020 – ritenuto inutiliter datum un provvedimento sindacale di rigetto riferito a condizioni e presupposti diversi da quelli definiti in sentenza - disponeva l’accoglimento dell’istanza dei ricorrenti finalizzata alla estumulazione ed al trasporto dei resti mortali del loro genitore posti all’interno del sacrario ubicato nel parco di pertinenza del Museo -OMISSIS--OMISSIS- sito in -OMISSIS-, “presso il cimitero di -OMISSIS- (-OMISSIS-) o presso altro luogo o altro Comune che avranno cura di far conoscere al Comune di -OMISSIS-, fatte salve le relative autorizzazioni da richiedere agli Enti, diversi dal Comune di -OMISSIS-, che verranno interessati da tale spostamento, al fine ultimo di custodire i resti mortali o le ceneri di -OMISSIS--OMISSIS- presso Colle -OMISSIS-, sito in via -OMISSIS--OMISSIS-, -OMISSIS- (-OMISSIS-)” (vedasi amplius, la relazione di svolgimento dell’incarico depositata il 29.1.2021). Così adempiuto all’obbligo di provvedere, il Comune di -OMISSIS-, nel prosieguo del giudizio, ha depositato una propria memoria (29 gennaio 2021), con la quale resiste alla domanda di risarcimento del danno e di indennizzo. Precisa l’Ente che, atteso lo svolgimento delle attività commissariali, la domanda di risarcimento o di indennizzo debba essere circoscritta solo ed esclusivamente alla fase residuale del procedimento amministrativo afferente la richiesta di autorizzazione alla estumulazione e traslazione; eccepisce che le parti ricorrenti non hanno offerto alcun elemento di prova con riferimento alla configurazione dell’elemento dannoso, né una quantificazione dello stesso; che l’azione complessiva della Pubblica Amministrazione è scaturita da una complessità di parametri normativi di riferimento e da una sostanziale rivendicazione morale dell’Ente Locale che aspirava alla tutela delle volontà testamentarie del defunto -OMISSIS--OMISSIS-; che non sarebbe risarcibile, di per sé, il danno da mero ritardo nella conclusione di un procedimento amministrativo, dovendo tale danno essere ricondotto nello schema generale dell’art. 2697 c.c. in base al quale spetta dal danneggiato l’onere di provare la sussistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi dell’illecito; che non potrebbe presumersi iuris tantum il danno da ritardo. La difesa dell’Ente conclude chiedendo che, attesa la complessità della materia per cui è causa ed i risvolti anche di interesse storico-culturale che hanno interessato la vicenda, vengano compensate le spese legali con riferimento alla odierna fase di merito. Con propria memoria, i ricorrenti insistono nella domanda di risarcimento ed indennizzo, allegando fatti successivi al rilascio dell’autorizzazione da parte del Commissario (e che, secondo i ricorrenti, integrerebbero un comportamento asseritamente omissivo ed ostruzionistico del Comune di -OMISSIS-), in esito ai quali il Commissario ad acta dott. -OMISSIS-, rimasti inevasi ulteriori solleciti che lo stesso funzionario aveva impartito agli uffici, si vedeva costretto ad adottare la (ulteriore) deliberazione commissariale nr. 3 bis del 4 gennaio 2021, con la quale reiterava l’autorizzazione all’estumulazione; quest’ultima, di fatto (dopo ulteriori ritardi che inducevano i ricorrenti alla presentazione di un esposto all’Arma dei Carabinieri) veniva effettivamente consentita solo il 20.01.2021. La difesa dei ricorrenti conclude chiedendo che sia: 1) accertato e dichiarato il comportamento inadempiente del Comune di -OMISSIS-, protratto per ben diciannove mesi, in relazione alla richiesta presentata in data 23.05.2019 dagli odierni ricorrenti, prot. N.2019-0031667 e dichiarato il diritto dei signori -OMISSIS-e -OMISSIS--OMISSIS- all’indennizzo ex art 2-bis, co. 1-bis L241/1990 alle condizioni e modalità previste dalla normativa applicabile in materia, nonché il diritto dei predetti, per il mero ritardo dell’Amministrazione, al risarcimento del danno ai sensi del citato articolo comma 1, che indicano in €.50.000/00, ovvero nella diversa somma ritenuta congrua e di giustizia; 2) per le medesime causali e fatti, accertata la sussistenza e permanenza del comportamento contra legem e contra iudicatum, del Comune di -OMISSIS-(in relazione alla richiesta presentata in data 23.05.2019 dagli odierni ricorrenti, prot. N.2019-0031667; alla sentenza n.08895/2020 di questa Sezione; alla successiva Deliberazione Commissariale n.3 del 26 novembre 2020 del Commissario ad acta; all’ultima Deliberazione Commissariale n.3bis del 4.01.2021), dichiarato il diritto dei signori -OMISSIS-e -OMISSIS--OMISSIS- all’indennizzo ex art 2-bis, co. 1-bis l.241/1990 alle condizioni e modalità previste dalla normativa applicabile in materia, nonché il diritto dei predetti, al risarcimento dell’ulteriore danno, che si indica in €.30.000,00, ovvero nella diversa somma ritenuta congrua e di giustizia. Nella pubblica udienza del 3 marzo 2021, la causa è stata trattenuta in decisione. I) Prima di esaminare i presupposti della domanda di risarcimento o di indennizzo per il ritardo nel provvedere sulla istanza dei ricorrenti e richiamato integralmente il contenuto della sentenza nr. 08895/2020, pronunciata tra le parti, il Collegio ritiene di dover succintamente esporre, per la migliore comprensione della fattispecie, alcune delle accurate indicazioni che sono contenute nel provvedimento finale del Commissario ad acta (attinenti ad elementi di fatto ulteriori rispetto a quelli dedotti nella fase di giudizio conclusasi con la sentenza nr. 08895/2020 già richiamata). Il Commissario, applicando l’art. 24 del Regolamento di Polizia Mortuaria secondo quanto affermato nella sentenza nr. 8895/2020, rileva che il Sindaco del Comune, nel cui territorio si trovano i resti mortali dei quali si chiede l’estumulazione (o l’esumazione) e la successiva traslazione, è tenuto ad autorizzare tale richiesta, una volta accertato il rispetto delle disposizioni previste dal cennato Regolamento a tutela della salute pubblica e della cura da riservare al trattamento del corpo defunto o di quel che ne resta; accertamenti che, nel caso di specie, atteso il “notevole lasso di tempo trascorso dalla sepoltura del -OMISSIS--OMISSIS- nel parco dell’omonimo Museo di -OMISSIS-” (quasi trent’anni) rendono assolti sia gli obblighi di tutela sanitaria che quello dell’igiene pubblica, specie considerando che la “specifica normativa prevede periodi minimi per l’estumulazione o per l’esumazione ordinaria che, in ogni caso, non superano venti anni” e che “la certificazione medica…esclude il sospetto di more dovuta a reato”. Chiariti i presupposti che rendono atto dovuto l’assenso del Sindaco, il Commissario si sofferma poi su un secondo profilo, ovvero il tema relativo alla tutela della pietas verso il defunto ed alle modalità di esercizio dello jus eligendi sepolchrum che risulta assai rilevante ai fini della domanda di risarcimento in esame. Invero, dopo aver riepilogato i principi di giurisprudenza (da ultimo Cass.Civ. Sez. VI-2 Ord. 14/11/2019 n. 29548) che riconducono lo jus eligendi alla categoria dei diritti della personalità, non suscettibili di trasferimento mortis causa (non senza precisare che, ove tale diritto non sia esercitato in vita, la scelta della sepoltura può essere fatta dai prossimi congiunti, senza alcun rigore di forme, con prevalenza dello jus coniugii sullo jus sanguinis e di quest’ultimo sullo jus successionis), espone che “-OMISSIS--OMISSIS- in arte -OMISSIS-, in data 24 febbraio 1988, ha presentato un testamento pubblico al Notaio in Roma Dott. -OMISSIS-, con l’assistenza di due testimoni, con il quale, tra l’altro, ha chiesto “alla mia morte di essere esposto nel terreno circostante la casa ove attualmente abito in -OMISSIS-, Colle -OMISSIS- 1”. Specifica il Commissario che “il riferimento ad -OMISSIS-è chiaramente frutto di una errata convinzione del -OMISSIS-in merito alla collocazione geografica e alla pertinenza comunale della sua abitazione. In effetti, detta abitazione, sita in Via -OMISSIS--OMISSIS-, rientra amministrativamente nel territorio comunale di -OMISSIS- anche se, attesa la sua collocazione geografica molto prossima ad -OMISSIS-, può ingenerare il dubbio di far parte del territorio ardeatino”; che l’abitazione in questione, pur distando poche centinaia di metri (circa 500 mt) dal confine con il Comune di -OMISSIS-(e poco più di un chilometro dal Museo -OMISSIS- dove attualmente riposano le spoglie del -OMISSIS-), è collocata nel territorio comunale di -OMISSIS-, cittadina lontana circa 12 chilometri da detta abitazione; ed, infine, che il 17 maggio 2018, veniva depositato e pubblicato il “testamento olografo redatto il 14 luglio 2014 dalla -OMISSIS-, vedova del -OMISSIS--OMISSIS-, deceduta il 6 maggio 2018”, nel quale essa dichiarava testualmente che “la salma di mio marito -OMISSIS-deve essere trasferito alla Fondazione -OMISSIS--OMISSIS- sul Colle -OMISSIS-” e che “per me sarebbe un grande onore …di essere sepolto insieme al mio adorato -OMISSIS-per tutta l’eternità” Rileva ancora il Collegio che, nella sua relazione, il Commissario ad acta attesta un atteggiamento “molto collaborativo” delle parti che lo hanno assistito durante l’esecuzione del mandato, esprimendo il convincimento che “anche l’interesse della comunità di -OMISSIS-possa” essere tutelato, trattandosi di un interesse pubblico “di enorme significatività …espressione di una appartenenza ad un territorio che costituisce, anche sotto un profilo storico-culturale, un polo attrattivo di particolare importanza nel Lazio e non solo” (e riferendo circa intenti delle parti, ovvero del Sindaco di -OMISSIS-, degli Eredi -OMISSIS- e della Direzione del Polo Museale Lazio di avviare iniziative di collaborazione tra il Museo -OMISSIS- e l’omonima Fondazione, per onorare la memoria dell’artista, valorizzando anche la collocazione dei resti o delle sue ceneri in un “luogo così prossimo a quello di sepoltura”). Ciò posto, può adesso procedersi all’esame delle domande di risarcimento e di indennizzo che i ricorrenti hanno proposto e sull’accoglimento delle quali hanno da ultimo insistito, riservando al prosieguo la disamina dei comportamenti dell’Ente successivi al provvedimento autorizzativo emanato dal Commissario ad acta. II) Entrambe le domande (di risarcimento del danno da ritardo e di indennizzo per mancata conclusione del procedimento nei termini di legge) sono da respingersi, in quanto il provvedimento adottato dal Commissario ad acta (e quindi dall’Amministrazione, della quale il Commissario è organo, ad essa imputandosi gli effetti giuridici e sostanziali del provvedimento) è pienamente satisfattivo degli interessi azionati dai ricorrenti – così come dedotti in giudizio - e non risultano residuare pregiudizi di natura patrimoniale o non patrimoniale suscettibili di risarcimento o da indennizzare a seguito e per l’effetto causale del ritardo. Sebbene questa conclusione appaia di più immediata evidenza quanto alla domanda di risarcimento (per come anche sarà meglio indicato nel prosieguo), una diversa e più accurata analisi richiede la domanda di indennizzo, che i ricorrenti prospettano quale conseguenza immediata e diretta, in via automatica, della violazione del termine. A tal proposito, si consideri quanto segue. III) Il risarcimento e l’indennizzo del danno conseguente al ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo sono oggetto di due diverse fattispecie normative e, più precisamente, l’art. 28 del d.l. 21 giugno 2013 n. 69, convertito in legge, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013 n. 98 e l’art. 2 bis della legge nr. 241/90 che è stato introdotto dalla stessa disposizione di cui all’art. 28 cit.. Nell’odierna fattispecie viene in rilievo la seconda disposizione. L’art. 2 bis della l. 241/90 riconosce al danneggiato dal ritardo della PA due azioni concorrenti tra loro, una avente ad oggetto il risarcimento del danno vero e proprio e l’altra relativa all’indennizzo per il “mero” ritardo. E’ bene subito precisare che quest’ultimo istituto è immediatamente applicabile alle fattispecie regolate dalla norma, anche se non risulta emanato il regolamento al quale lo stesso art. 2 bis della l. 241/90 consente di disciplinare modi e condizioni (atteso che la stessa norma rinvia prima di tutto “alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge”, rispetto alla quale l’emanazione del regolamento ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400 è dunque solo facoltativa). Le due azioni dell’art. 2 bis della l. 241/90 dipendono da un medesimo presupposto in fatto (ossia la violazione del termine di conclusione del procedimento) e condividono la medesima finalità compensativa (dato che l’importo dell’indennizzo, ove riconosciuto dal giudice, va detratto da quello del risarcimento, escludendosene dunque la cumulatività, cfr. anche Adunanza Plenaria, sentenza 1/2018, punto 6.3.2), differenziandosi solo quanto a presupposti ed ambito oggettivo dell’illecito risarcibile. III.1) A tal proposito, si osserva che il termine “indennizzo” o “indennità” è utilizzato dal legislatore in significati diversi e non univoci, essendo talvolta sinonimi di risarcimento (come nel caso dell’art. 2045 cod.civ.), anche in rapporto a pregiudizi conseguenti ad un legittimo provvedimento di revoca (art. 21 quinquies l. 241/90, cfr. T.A.R. , Napoli , sez. III , 10/02/2020 , n. 620), o comunque di attività legittime della PA (come nel caso delle della dipendenza da cause di servizio, T.A.R. , Trieste , sez. I , 30/11/2020 , n. 414), altre volte di corrispettivo (come nei casi dell’espropriazione), o ancora di ristoro per un mancato esercizio di attività dovuta (come nel caso dell’art. 1381 cod.civ.) o necessitata per ragioni di protezione dell’agente (come nel caso dell’art. 2045) e così via. L’indennizzo è, dunque, un meccanismo che la legge predispone a fronte di attività legittime l’esercizio delle quali comporta il sacrificio di altri valori o interessi (ritenuti cedevoli) e che è rivolto ad assicurare un ristoro ed un parziale riequilibrio di questi ultimi per motivi di equità sostanziale. III.2) Ma, nel caso di cui all’art. 2 bis della l.241/90, non è possibile rinvenire i tratti caratteristici dell’istituto appena descritti, perché l’indennizzo per il ritardo è previsto a fronte di una attività illegittima della PA, ossia in conseguenza alla violazione di un termine cogente. Non si è, dunque, in presenza dell’esercizio di una facoltà della parte pubblica (perché quest’ultima è titolare dell’obbligo a provvedere, che va esercitato nei termini previsti, a meno di non voler sostenere che l’Amministrazione abbia l’obbligo di concludere il procedimento entro il termine ed al contempo la facoltà di non rispettare quest’ultimo) e per tale ragione non si pone un problema di riequilibrio di interessi meritevoli di tutela in conflitto tra loro. III.3) La natura compensativa dell’indennizzo di cui all’art. 2 bis della l. 241/90 e la circostanza che esso sia configurato quale rimedio ad una attività illecita della PA, ostano, dunque, a ritenere che il relativo diritto sorga solamente in consegua automatica della violazione del termine per provvedere, e cioè a prescindere dalla sussistenza di una lesione ad un interesse meritevole di tutela ulteriore e distinto da quello alla tempestiva conclusione del procedimento. A ciò conducono due ordini di considerazioni. III.4) Secondo un primo rilievo, laddove si affermasse, come prospettano i ricorrenti, il diritto all’indennizzo anche all’esito del provvedimento (tardivo ma) pienamente satisfattivo (ovvero il diritto ad un indennizzo in assenza di un interesse leso ulteriore e distinto rispetto a quello strumentale alla tempestiva conclusione del procedimento), la fattispecie di cui all’art. 2 bis della l. 241/90 avrebbe natura sostanzialmente sanzionatoria, ma come tale sarebbe di dubbia compatibilità costituzionale perché la sanzione risulterebbe affidata al mero arbitrio del giudice (non essendo configurabile la sua commisurazione “secondo equità”, dato che la liquidazione ex art. 1226 del cod.civ. ha ad oggetto solo l’entità del pregiudizio risarcibile in funzione risarcitoria o compensativa). III.5) Secondo un diverso ordine esegetico, sono decisive le differenze con la parallela disposizione di cui all’art. 28 del DL n. 69/2013, conv. in legge, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013 n. 98. La giurisprudenza che se n’è occupata mostra, invero, di considerare fungibili le discipline delle due diverse disposizioni di legge, tanto da ritenere che l’azione di cui all’art. 2 bis della l. 241/90 è esperibile anche in assenza del regolamento del comma 12 dell’art. 28 (salvo ritenerla soggetta all’onere della previa proposizione della procedura sostitutiva costituita dal comma 2 dell’art. 28, senza chiarire le ragioni di una siffatta estensione, specie se si considera che una procedura sostitutiva è prevista dall’art. 2, comma 9bis e 9 ter cfr.della l,. 241/90 ed il comma 2 bis non la richiama; cfr. ex multis, T.A.R. , Roma , sez. II , 03/10/2019 , n. 11517 e TAR Napoli, V, 12 aprile 2021, nr. 2346). Tale impostazione, quindi, induce ad ingenerare il dubbio che anche l’indennizzo di cui all’art. 2 bis cit. – in parallelo all’indennizzo di cui all’art. 28 cit. - debba operare quale mero automatismo conseguente alla violazione del termine. Tuttavia, è la stessa disposizione dell’art. 28 del DL nr. 69/2013 a fondare la necessità di una esegesi adeguatamente differenziata dell’istituto indennitario di cui all’art. 2 bis della l. 241/90, posto che quest’ultima norma è stata introdotta dalla prima in un testo ben differente (che non subordinata l’indennizzo ai medesimi presupposti di rito che sono disciplinati per l’azione ex art. 28 cit.) e tanto che se ne riconosce l’applicabilità anche in assenza del regolamento di cui al comma 12 (laddove si ritenesse diversamente, l’art. 2 bis della l. 241/90 in nulla si differenzierebbe dalla previsione dell’art. 28, comma 1, del DL n. 69/2013; dovrebbero quindi applicarsi anche alla domanda di indennizzo di cui all’art. 2 bis della l. 241/90 i limiti quantitativi di 30 euro/giorno per un massimo di 2.000,00 euro; non avrebbe alcun senso ripetere una norma identica nella disciplina generale del procedimento amministrativo; neppure sussisterebbero ragioni per escludere le limitazioni della sfera di applicazione dell’art. 2 bis della l. 241/90 previste dal comma 10 dell’art. 28 cit. per “le disposizioni del presente articolo”). III.6) Chiarito che le due disposizioni operano su piani diversi, le differenze implicano che l’istituto di cui all’art. 28 del DL n. 69/2013 è “speciale” rispetto alla norma di ordine generale di cui all’art. 2 bis della l. 241/90 ed appresta una tutela semplificata in favore delle attività di impresa (mediante una forfetizzazione dell’indennizzo da ritardo, bilanciata da un onere procedimentale specifico), per le quali è non irragionevole ritenere il “tempo” e la certezza della conclusione del procedimento quale interesse meritevole di tutela; mentre, nell’ambito della disciplina ordinaria di cui all’art. 2 bis della l. 241/90, l’indennizzo (stante la mancata predeterminazione del suo importo) rimane ancorato alla ordinaria funzione compensativa-ripristinatoria e dunque presuppone la dimostrazione della sussistenza di un pregiudizio nel ritardo della conclusione del procedimento ulteriore e distinto rispetto al “bene tempo” (che per i soggetti diversi dagli operatori economici è un valore fortemente soggettivo e come tale esposto ad incerta quantificabilità sotto il profilo monetario). In altri termini, nel caso dell’art. 28 del DL 69/2013, l’indennizzo da ritardo sorge in quanto la lesione è presunta dalla legge, che infatti predetermina il valore dell’importo da liquidare; nel caso dell’art. 2 bis della l. 241/90, la lesione va invece allegata dal richiedente e (specie nell’assenza del regolamento meglio indicato nello stesso art. 2 bis) costituirà il referente oggettivo al quale il giudice dovrà agganciare la commisurazione dell’indennizzo così da poterlo ad essa parametrare per il tramite della liquidazione equitativa. III.7) Attesa l’evidente unitarietà dell’area dell’illecito e dunque del presupposto oggettivo sia del risarcimento che dell’indennizzo da ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo, deve perciò affermarsi che l’art. 2 bis della l. 241/90 ritaglia, entro il perimetro del danno risarcibile, una fattispecie di liquidazione semplificata per i pregiudizi riconducibili alla lesione di interessi non patrimoniali. La norma ripartisce i mezzi di tutela riservando all’azione di risarcimento del danno l’ordinario ristoro del pregiudizio patrimoniale (o patrimonialmente valutabile) che l’interessato subisce dal ritardato beneficio dipendente dall’azione della PA (con conseguente onere della prova a carico del danneggiato sia del pregiudizio che del suo ammontare, della sua riferibilità al ritardo, e della sussistenza della colpa o del dolo dell’Amministrazione nel non aver provveduto nei termini dovuti) e demandando all’indennizzo, strumento più agevole e di pronta liquidazione, la tutela della sfera non patrimoniale dell’interesse del richiedente (così che il danneggiato dovrà solo allegare il ritardo e la sussistenza dell’interesse leso). IV) La natura compensativa (e non automatica) dell’indennizzo di cui all’art. 2 bis della l. 241/90 comporta altresì che la PA può invocare – a titolo di eccezione – la sussistenza di cause di esclusione o di riduzione della responsabilità per violazione del termine di conclusione del procedimento (aventi natura oggettiva ex art. 1218 cod.civ., o comunque legate alla diligenza concretamente esigibile ex art. 1176 comma 2 cod.civ., a seconda dei casi, essendo tali norme applicabili anche alle obbligazioni pubbliche di “facere” come quella di concludere il procedimento amministrativo nei termini previsti) e giustifica altresì l’esclusione o la riduzione dell’indennizzo stesso quando non risulti attivata da chi vi ha interesse una procedura sostitutiva (laddove quest’ultima sia esperibile), o comunque un diverso rimedio sollecitatorio (ma non in applicazione diretta del comma 2 dell’art. 28 del DL 69/2013, che, come indicato, riguarda altra fattispecie, bensì del più generale principio di cui all’art. 1227 cod.civ.). Mentre quest’ultimo aspetto non viene in rilievo nella odierna fattispecie contenziosa (perché il ritardo nel provvedere è già imputabile all’organo di vertice della PA), il primo è oggetto di una accurata difesa dell’Ente, gli argomenti del quale trovano la condivisione del Collegio e sono riferibili quali eccezioni sia alla domanda di risarcimento che, come accennato, a quella avente ad oggetto l’indennizzo, che ne impongono il rigetto anche laddove si ritenga che nel ritardo sia insita una lesione intrinseca dell’interesse dei ricorrenti e dunque il provvedimento tardivo non sia stato completamente satisfattivo. V) Secondo tale prospettiva, nel caso di specie l’Ente prospetta una ragionevole “giustificabilità” del ritardo nella conclusione del procedimento, legata alle difficoltà sia della ricostruzione della fattispecie che del rapporto tra gli interessi coinvolti che il provvedimento del Commissario ad acta ha compiutamente illustrato. Nella mancata (dapprima) e ritardata (poi) esecuzione dell’obbligo di provvedere sull’istanza dei ricorrenti, l’Amministrazione si è di fatto orientata a tutelare (sia pure con modalità discutibili e non appropriate alla qualità di una Pubblica Amministrazione) quella che riteneva una volontà del -OMISSIS--OMISSIS-, ossia il desiderio di riposare nel territorio della Comunità di -OMISSIS-alla quale era stato particolarmente legato in vita e che aveva generato una particolare forma di “pietas” collettiva, come tale non prevalente sul diritto dei congiunti, ma di certo neppure priva di un proprio rilievo, sufficiente a rendere scusabile il comportamento dell’Ente che quella Comunità rappresenta. In altri termini, il ritardo dell’Ente, alla luce dell’andamento dei fatti e del comportamento delle parti, non può ricondursi ad una ordinaria forma di cattiva amministrazione o inerzia (come tale da rimproverare sempre), ma ad una erronea modalità di gestione di un interesse collettivo di per sé non illegittimo, bensì solo sviato nei presupposti di fatto da circostanze obbiettivamente non di semplice o agevole ricostruzione, sufficienti ad escludere una responsabilità risarcitoria o indennitaria. VI) Conclusivamente sul punto, nell’esame della odierna vicenda contenziosa, si rileva che l’interesse azionato dagli odierni ricorrenti era collegato ad operazioni strumentali a consentire l’esercizio della pietas verso i defunti nelle modalità corrispondenti alla volontà di questi ultimi; una volta assentite dette operazioni, l’interesse è stato interamente soddisfatto. Non viene quindi dimostrata – e prima ancora allegata – la residua sussistenza di interessi non soddisfatti in ragione ed a causa del ritardo; né di tipo patrimoniale, né di tipo non patrimoniale. In ogni caso, anche a ritenere in re ipsa la sussistenza di tali interessi e dunque la loro lesione, vanno comunque esclusi sia il risarcimento che l’indennizzo da ritardo, essendo quest’ultimo riconducibile ad un comportamento dell’Ente giustificabile per le ragioni sopra più ampiamente esposte. VII) Rimane da esaminare il profilo della domanda che è stato introdotto con la memoria conclusiva dai ricorrenti, i quali lamentano una ingiustificata inerzia nella esecuzione del provvedimento autorizzativo del Commissario ad acta da parte degli uffici preposti dell’Ente, che ha indotto lo stesso Commissario ad un nuovo intervento sollecitatorio ed ha comportato, da ultimo, un ritardo di circa due mesi nell’esecuzione delle operazioni di traslazione. Anche sotto i descritti profili la domanda non può trovare accoglimento, per un diverso ordine di ragioni rispetto a quanto sin qui esposto. Viene innanzitutto in rilievo un ritardo non più collegato ad una fattispecie provvedimentale o procedimentale, bensì ad un (mero) comportamento materiale di personale o amministratori dell’Ente, che l’esposizione dei ricorrenti prospetta nei termini di un atteggiamento negligente o ostruzionistico. Come tale, la prospettazione dei ricorrenti integra una domanda di risarcimento nuova, diversa ed ulteriore da quella formulata in ricorso, sebbene a questa avvinta da un medesimo contesto ambientale e da una medesima lesività quanto all’oggetto ed all’interesse protetto, che avrebbe dovuto essere introdotta con motivi aggiunti (da corredarsi delle necessarie allegazioni probatorie, primo tra tutti il deposito del provvedimento supplementare del Commissario ad acta, che non risulta agli atti di giudizio, né ha formato oggetto di una relazione di servizio da parte del predetto funzionario incaricato dell’esecuzione della sentenza). In mancanza di una rituale proposizione della domanda, non è possibile neppure indagare, allo stato, circa la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, in ordine alla quale deve prospettarsi un rilevante dubbio, posto che – come accennato – la fattispecie descritta sembrerebbe attinente ad un mero comportamento, neppure qualificabile come “ritardo” nel provvedere ai sensi dell’art. 2 della l. 241/90, bensì da ricondursi ad un rifiuto di adempiere l’ordine dell’autorità da parte di chi vi era obbligato (rifiuto che genera diritti soggettivi pieni in capo ai destinatari del provvedimento inevaso, che come tali potranno essere azionati di fronte al giudice ordinario, nelle opportune sedi). Per queste ragioni, va respinta la domanda di risarcimento del danno e di liquidazione di un indennizzo a favore degli odierni ricorrenti, con giuste ragioni per disporre la piena compensazione delle spese di lite della presente fase di giudizio. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Bis), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, rigetta la domanda di risarcimento del danno e la domanda di indennizzo da ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare i ricorrenti ed i loro genitori. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 marzo 2021, tenutasi in modalità di collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25 del DL 28 ottobre 2020, n. 137 ed art. 4, comma 1, del Dl 30 aprile 2020, n. 28, conv. in l. 25 giugno 2020, n. 70, con l'intervento dei magistrati: Elena Stanizzi, Presidente Salvatore Gatto Costantino, Consigliere, Estensore Silvio Lomazzi, Consigliere Elena Stanizzi, Presidente Salvatore Gatto Costantino, Consigliere, Estensore Silvio Lomazzi, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Risarcimento danni – Danno da ritardo – Indennizzo – Art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 - Natura    Risarcimento danni – Danno da ritardo – Indennizzo – Art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 - Conseguenza del mero decorso del termine -  Esclusione.                L’indennizzo per il ritardo della pubblica amministrazione è previsto a fronte di una attività illegittima della stessa Amministrazione, ossia in conseguenza alla violazione di un termine cogente (1).               La natura compensativa dell’indennizzo di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 e la circostanza che esso sia configurato quale rimedio ad una attività illecita della Pubblica amministrazione ostano a ritenere che il relativo diritto sorga solamente come conseguenza automatica della violazione del termine per provvedere, e cioè a prescindere dalla sussistenza di una lesione ad un interesse meritevole di tutela ulteriore e distinto da quello alla tempestiva conclusione del procedimento (2).      (1) Ha preliminarmente ricordato il Tar che l’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 riconosce al danneggiato dal ritardo della P.A. due azioni concorrenti tra loro, una avente ad oggetto il risarcimento del danno vero e proprio e l’altra relativa all’indennizzo per il “mero” ritardo. Quest’ultimo istituto è immediatamente applicabile alle fattispecie regolate dalla norma, anche se non risulta emanato il regolamento al quale lo stesso art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 consente di disciplinare modi e condizioni (atteso che la stessa norma rinvia prima di tutto “alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge”, rispetto alla quale l’emanazione del regolamento ai sensi dell'art. 17, comma 2, l. 23 agosto 1988, n. 400 è dunque solo facoltativa).    Le due azioni dell’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 dipendono da un medesimo presupposto in fatto (ossia la violazione del termine di conclusione del procedimento) e condividono la medesima finalità compensativa (dato che l’importo dell’indennizzo, ove riconosciuto dal giudice, va detratto da quello del risarcimento, escludendosene dunque la cumulatività, cfr. anche Adunanza Plenaria, sentenza n. 1 del 2018, punto 6.3.2), differenziandosi solo quanto a presupposti ed ambito oggettivo dell’illecito risarcibile.    A tal proposito, si osserva che il termine “indennizzo” o “indennità” è utilizzato dal legislatore in significati diversi e non univoci, essendo talvolta sinonimi di risarcimento (come nel caso dell’art. 2045 cod.civ.), anche in rapporto a pregiudizi conseguenti ad un legittimo provvedimento di revoca (art. 21 quinquies, l. n. 241 del 1990), o comunque di attività legittime della PA (come nel caso delle della dipendenza da cause di servizio), altre volte di corrispettivo (come nei casi dell’espropriazione), o ancora di ristoro per un mancato esercizio di attività dovuta (come nel caso dell’art. 1381 cod.civ.) o necessitata per ragioni di protezione dell’agente (come nel caso dell’art. 2045 cod.civ.) e così via.  L’indennizzo è, dunque, un meccanismo che la legge predispone a fronte di attività legittime l’esercizio delle quali comporta il sacrificio di altri valori o interessi (ritenuti cedevoli) e che è rivolto ad assicurare un ristoro ed un parziale riequilibrio di questi ultimi per motivi di equità sostanziale.  Ma, nel caso di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990, non è possibile rinvenire i tratti caratteristici dell’istituto appena descritti, perché l’indennizzo per il ritardo è previsto a fronte di una attività illegittima della PA, ossia in conseguenza alla violazione di un termine cogente.   Non si è, dunque, in presenza dell’esercizio di una facoltà della parte pubblica (perché quest’ultima è titolare dell’obbligo a provvedere, che va esercitato nei termini previsti, a meno di non voler sostenere che l’Amministrazione abbia l’obbligo di concludere il procedimento entro il termine ed al contempo la facoltà di non rispettare quest’ultimo) e per tale ragione non si pone un problema di riequilibrio di interessi meritevoli di tutela in conflitto tra loro.    (2) Ha chiarito la Sezione che la natura compensativa dell’indennizzo di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 e la circostanza che esso sia configurato quale rimedio ad una attività illecita della P.A., ostano, dunque, a ritenere che il relativo diritto sorga solamente in consegua automatica della violazione del termine per provvedere, e cioè a prescindere dalla sussistenza di una lesione ad un interesse meritevole di tutela ulteriore e distinto da quello alla tempestiva conclusione del procedimento.  A ciò conducono due ordini di considerazioni.    Secondo un primo rilievo, laddove si affermasse, come prospettano i ricorrenti, il diritto all’indennizzo anche all’esito del provvedimento (tardivo ma) pienamente satisfattivo (ovvero il diritto ad un indennizzo in assenza di un interesse leso ulteriore e distinto rispetto a quello strumentale alla tempestiva conclusione del procedimento), la fattispecie di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 avrebbe natura sostanzialmente sanzionatoria, ma come tale sarebbe di dubbia compatibilità costituzionale perché la sanzione risulterebbe affidata al mero arbitrio del giudice (non essendo configurabile la sua commisurazione “secondo equità”, dato che la liquidazione ex art. 1226 del cod.civ. ha ad oggetto solo l’entità del pregiudizio risarcibile in funzione risarcitoria o compensativa).  Secondo un diverso ordine esegetico, sono decisive le differenze con la parallela disposizione di cui all’art. 28, d.l. n. 69 del 2013, conv. in legge, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98.  La giurisprudenza che se n’è occupata mostra, invero, di considerare fungibili le discipline delle due diverse disposizioni di legge, tanto da ritenere che l’azione di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 è esperibile anche in assenza del regolamento del comma 12 dell’art. 28 (salvo ritenerla soggetta all’onere della previa proposizione della procedura sostitutiva costituita dal comma 2 dell’art. 28, senza chiarire le ragioni di una siffatta estensione, specie se si considera che una procedura sostitutiva è prevista dall’art. 2, comma 9bis e 9 ter, l. n. 241 del 1990 ed il comma 2 bis non la richiama).   Tale impostazione, quindi, induce ad ingenerare il dubbio che anche l’indennizzo di cui all’art. 2 bis cit. – in parallelo all’indennizzo di cui all’art. 28 cit. - debba operare quale mero automatismo conseguente alla violazione del termine.  Tuttavia, è la stessa disposizione dell’art. 28, d.l. n. 69 del 2013 a fondare la necessità di una esegesi adeguatamente differenziata dell’istituto indennitario di cui all’art. 2 bis della l. 241/90, posto che quest’ultima norma è stata introdotta dalla prima in un testo ben differente (che non subordinata l’indennizzo ai medesimi presupposti di rito che sono disciplinati per l’azione ex art. 28 cit.) e tanto che se ne riconosce l’applicabilità anche in assenza del regolamento di cui al comma 12 (laddove si ritenesse diversamente, l’art. 2 bis, l. 241 del 1990 in nulla si differenzierebbe dalla previsione dell’art. 28, comma 1, d.l. n. 69 del 2013; dovrebbero quindi applicarsi anche alla domanda di indennizzo di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 i limiti quantitativi di 30 euro/giorno per un massimo di 2.000,00 euro; non avrebbe alcun senso ripetere una norma identica nella disciplina generale del procedimento amministrativo; neppure sussisterebbero ragioni per escludere le limitazioni della sfera di applicazione dell’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 previste dal comma 10 dell’art. 28 cit. per “le disposizioni del presente articolo”).  Chiarito che le due disposizioni operano su piani diversi, le differenze implicano che l’istituto di cui all’art. 28, d.l. n. 69 del  2013 è “speciale” rispetto alla norma di ordine generale di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 ed appresta una tutela semplificata in favore delle attività di impresa (mediante una forfetizzazione dell’indennizzo da ritardo, bilanciata da un onere procedimentale specifico), per le quali è non irragionevole ritenere il “tempo” e la certezza della conclusione del procedimento quale interesse meritevole di tutela; mentre, nell’ambito della disciplina ordinaria di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990, l’indennizzo (stante la mancata predeterminazione del suo importo) rimane ancorato alla ordinaria funzione compensativa-ripristinatoria e dunque presuppone la dimostrazione della sussistenza di un pregiudizio nel ritardo della conclusione del procedimento ulteriore e distinto rispetto al “bene tempo” (che per i soggetti diversi dagli operatori economici è un valore fortemente soggettivo e come tale esposto ad incerta quantificabilità sotto il profilo monetario).  In altri termini, nel caso dell’art. 28, d.l. 69 del 2013, l’indennizzo da ritardo sorge in quanto la lesione è presunta dalla legge, che infatti predetermina il valore dell’importo da liquidare; nel caso dell’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990, la lesione va invece allegata dal richiedente e (specie nell’assenza del regolamento meglio indicato nello stesso art. 2 bis) costituirà il referente oggettivo al quale il giudice dovrà agganciare la commisurazione dell’indennizzo così da poterlo ad essa parametrare per il tramite della liquidazione equitativa.   Attesa l’evidente unitarietà dell’area dell’illecito e dunque del presupposto oggettivo sia del risarcimento che dell’indennizzo da ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo, deve perciò affermarsi che l’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 ritaglia, entro il perimetro del danno risarcibile, una fattispecie di liquidazione semplificata per i pregiudizi riconducibili alla lesione di interessi non patrimoniali. La norma ripartisce i mezzi di tutela riservando all’azione di risarcimento del danno l’ordinario ristoro del pregiudizio patrimoniale (o patrimonialmente valutabile) che l’interessato subisce dal ritardato beneficio dipendente dall’azione della PA (con conseguente onere della prova a carico del danneggiato sia del pregiudizio che del suo ammontare, della sua riferibilità al ritardo, e della sussistenza della colpa o del dolo dell’Amministrazione nel non aver provveduto nei termini dovuti) e demandando all’indennizzo, strumento più agevole e di pronta liquidazione, la tutela della sfera non patrimoniale dell’interesse del richiedente (così che il danneggiato dovrà solo allegare il ritardo e la sussistenza dell’interesse leso).  
Risarcimento danni
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/disciplina-dell-emergenza-epidemiologica-tra-ordinanze-sindacali-contingibili-e-urgenti-e-normativa-statale
Disciplina dell’emergenza epidemiologica tra ordinanze sindacali contingibili e urgenti e normativa statale
N. 00733/2020 REG.PROV.COLL. N. 00414/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 414 del 2020, integrato da motivi aggiunti, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Nicolò De Marco e Nunzia Sacco, con domicilio digitale come da p.e.c. e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Nicolò De Marco in Bari, via Abate Gimma n. 189; contro Comune di Peschici, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Raffaele Sciscio, con domicilio digitale come da p.e.c. da Registri di Giustizia; Ministero dell'Interno, in persona del Ministro p. t., non costituitosi in giudizio; per l'annullamento previe misure cautelari anche monocratiche per quanto riguarda il ricorso introduttivo, dei seguenti atti: 1) l’ordinanza sindacale -OMISSIS-, con la quale è stato ordinato con decorrenza immediata e fino a nuove disposizioni il divieto di introduzione di pane o derivati nel territorio comunale di Peschici; 2) l’ordinanza sindacale -OMISSIS-, con la quale a integrazione della precedente, viene ribadito il divieto di introduzione di pane e derivati nel territorio comunale di Peschici, con riferimento a diversa decorrenza temporale; 3) ogni altro atto connesso o conseguenziale ancorché non noto; nonché per la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante al ricorrente da tali provvedimenti illegittimi; per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati il 27.4.2020, per l’annullamento, previe misure cautelari anche monocratiche, dell’ordinanza contingibile e urgente -OMISSIS-del 24 aprile 2020, con la quale si dispone la revoca in autotutela delle ordinanze sindacali -OMISSIS-dell’8 aprile 2020 e -OMISSIS-dell’11 aprile 2020, la sospensione dell’ordinanza sindacale -OMISSIS-del 13 febbraio 1990, e si ordina con decorrenza dal 24 aprile 2020 e fino alla data del 3 maggio 2020, il divieto di introduzione di pane o derivati in questo territorio comunale, prodotti da attività artigianali di panificazione di altri Comuni; Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Peschici; Visti tutti gli atti della causa; Relatore il dott. Carlo Dibello nella camera di consiglio del giorno 20 maggio 2020, tenutasi telematicamente mediante collegamento da remoto in videoconferenza, secondo quanto disposto dall’art. 84, comma 6, D.L. 17 marzo 2020, n. 18; I - Per contenere il diffondersi del virus COVID-19 sull’intero territorio nazionale e, in particolare, nel territorio comunale, il Sindaco del Comune di Peschici (Fg), dopo aver richiamato una serie di provvedimenti normativi e regolamentari di carattere governativo, susseguitisi nel periodo di massima emergenza epidemiologica, adottava due ordinanze, la n. -OMISSIS-e la n.-OMISSIS-, con le quali disponeva il divieto di introduzione di pane e derivati del pane nel territorio comunale, con decorrenza immediata e fino a nuove diverse disposizioni, sospendendo l’efficacia di una remota ordinanza, la -OMISSIS-del 13 febbraio 1990, che autorizzava lo svolgimento dell’attività commerciale in questione. Le particolari fonti di legittimazione poste a base delle due ordinanze sindacali erano individuate nel D.P.C.M. del 22 marzo 2020, in particolare nell’art. 1, lettera b, della disciplina regolamentare che vieta a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi, con mezzi di trasporto pubblici o privati, in un Comune diverso rispetto a quello in cui attualmente si trovano; e nel decreto legge 25 marzo 2020 n. 19, in particolare negli artt. 3, comma 2, e 5, comma 1, che consentono al Sindaco di adottare ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare la predetta emergenza, laddove non in contrasto con le misure statali. Il Sindaco di Peschici ravvisava il presupposto fattuale per l’adozione dei provvedimenti limitativi in esame nella perdurante esistenza di una situazione di emergenza epidemiologica “ancora presente nell’intero territorio della Capitanata”, e nell’indispensabilità di disporre provvedimenti atti a scongiurare possibili contagi interpersonali, vietando nel territorio comunale l’ingresso anche di automezzi per il trasporto di generi agricoli, alimentari e di prima necessità, garantendone, tuttavia, la loro reperibilità presso gli esercizi commerciali di vendita al dettaglio locali. Le due ordinanze sindacali ricevevano ulteriore copertura normativa, in forza dell’art. 32 della legge n. 833 del 1978 che demanda al Sindaco, in qualità di Autorità sanitaria locale, competenze per l’emanazione dei provvedimenti a tutela della salute pubblica; e nell’art. 50, comma 5 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, che definisce le attribuzioni del Sindaco per l’emanazione di provvedimenti contingibili e urgenti, in qualità di Autorità sanitaria locale. Sennonché, il sig. -OMISSIS-, nella qualità di titolare del panificio “-OMISSIS-”, corrente in Vico del Gargano (Fg), che serve giornalmente cinque supermercati nel Comune di Peschici trasportando con proprio mezzo pane e prodotti derivati, insorge con il ricorso introduttivo, notificato il 22.4.2020 e depositato il 23.4.2020, per contestare la legittimità delle due ordinanze, rivolgendosi a questo T.a.r. per ottenere l’annullamento degli atti impugnati, previa tutela cautelare di somma urgenza, oltre al risarcimento del danno patito in conseguenza della battuta d’arresto della propria attività. Il ricorrente lamenta, più in dettaglio, la violazione della normativa statale emergenziale varata, per un verso, per la parte che qui viene in rilievo, con il D.P.C.M. 22 marzo 2020, poi arricchitasi del decreto legge 25 marzo 2020, n. 19; contestato è pure il difetto di competenza del Sindaco. Dopo la somministrazione, al ricorrente, della tutela cautelare di somma urgenza, con decreti del Presidente del T.a.r. nn. -OMISSIS-e-OMISSIS-del 2020, emanati sul presupposto del ravvisato deficit motivazionale e della omessa indicazione del termine di durata dei provvedimenti, il Sindaco di Peschici revoca le due ordinanze impugnate con l’atto introduttivo del presente giudizio, e ne adotta una terza, la -OMISSIS-del 2020 che reca, stavolta, la fissazione di un limite temporale di efficacia, disponendo “con decorrenza dal 24 aprile e fino alla data del 3 maggio 2020 il divieto di introduzione di pane e/o derivati in questo territorio comunale, prodotti da attività artigianali di panificazione di altri comuni”. Il ricorrente propone, quindi, motivi aggiunti di ricorso avverso il provvedimento sindacale sopravvenuto, con i quali ribadisce le medesime censure articolate nel ricorso originario. Il Comune di Peschici si costituisce in giudizio, sostenendo la tesi della perfetta legittimità delle ordinanze sindacali, le quali sarebbero state rese in coerenza con la normativa statale richiamata, senza porsi in contrasto con la stessa, né esorbitando dai poteri riconosciuti al primo cittadino nella fase emergenziale in esame. In prossimità della data di fissazione della camera di consiglio per la trattazione collegiale dell’incidente cautelare, il Comune di Peschici deposita ulteriore ordinanza, la -OMISSIS-del 29 aprile 2020, con la quale revoca in autotutela l’ordinanza -OMISSIS-del 24 aprile 2020, “facendo salvi ed impregiudicati gli esiti del giudizio pendente innanzi al T.a.r. Puglia”. Sulla base di questa circostanza sopravvenuta, la difesa del Comune di Peschici ritiene che il Collegio possa dichiarare l’improcedibilità del ricorso e dei motivi aggiunti per sopravvenuto difetto di interesse. La controversia passa in decisione alla camera di consiglio del 20 maggio 2020, tenutasi telematicamente secondo quanto disposto dall’art. 84 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 e viene decisa con sentenza breve, ex art. 60 c.p.a.. II - Il ricorso è ammissibile e fondato. III - Il Comune di Peschici ha depositato l’ordinanza -OMISSIS-del 29 aprile 2020, con la quale revoca in autotutela l’ordinanza -OMISSIS-del 24 aprile 2020, “facendo salvi ed impregiudicati gli esiti del giudizio pendente innanzi al T.a.r. Puglia”. Ciò significa che l’autotutela non è definitiva e il Comune stesso attende l’esito del giudizio di merito della controversia. Ciò destituisce di fondamento l’eccezione di improcedibilità di parte resistente. Il Collegio, valutando la rilevanza dell’ulteriore ordinanza con la quale la stessa autorità amministrativa resistente ha disposto la revoca in autotutela della precedente -OMISSIS-del 24 aprile 2020, “facendo salvi ed impregiudicati gli esiti del giudizio pendente innanzi al Tar Puglia di Bari”, ritiene che il provvedimento di revoca in autotutela di precedente ordinanza limitativa della sfera giuridica del ricorrente contenente la clausola di salvaguardia degli esiti del giudizio pendente innanzi al G.A. non fa venir meno l’interesse del ricorrente alla decisione nel merito della presente controversia. La volontà dell’Amministrazione va, infatti, intesa nel senso di una possibile convalida del proprio operato, in caso di esito favorevole del ricorso; il che significa possibile riproposizione del divieto oggetto della presente controversia. IV – Quanto al merito della causa, si è già rilevato che le due ordinanze sindacali impugnate con l’atto introduttivo del presente giudizio sono state adottate in base al D.P.C.M. del 22 marzo 2020 e, in particolare, in base all’art. 1, lettera b, che vieta a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi, con mezzi di trasposto pubblici o privati, in un Comune diverso rispetto a quello in cui attualmente si trovano; e sulla scorta del decreto legge 25 marzo 2020 n. 19, i cui artt. 3, comma 2, e 5, comma 1, consentono al Sindaco di adottare ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare la predetta emergenza, laddove non in contrasto con le misure statali. IV.1 - Le norme in questione sono state, tuttavia, erroneamente applicate dal Sindaco di Peschici; invero, all’interno delle misure di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale, di cui al D.P.C.M. 22 marzo 2020, è stata rintracciata una area di esenzione che riguarda, tra l’altro, proprio l’attività di produzione, trasporto, commercializzazione e consegna di farmaci, tecnologia sanitaria e dispositivi medico chirurgici, nonché di prodotti agricoli e alimentari, sempre consentita. La disposizione in esame è dettata dall’esigenza di non compromettere la fruizione di beni di primaria necessità nonostante il periodo emergenziale, sulla scorta di una scelta drammatica demandata all’Autorità di Governo e al Legislatore primario, in una fase notoriamente caratterizzata dalla sussistenza di una conclamata emergenza epidemiologica di rilevanza internazionale. Sotto tale profilo, una volta individuata l’area di inapplicabilità del divieto in sede di normativa statale, il Sindaco non può assumere provvedimenti attraverso i quali il divieto stesso si riespande e riprende vigore, perché ciò significherebbe porsi in irrimediabile contrasto con la normativa statale, effetto di certo non voluto dal legislatore statale. Né la tesi dell’Amministrazione comunale della non riconducibilità dell’attività svolta dal ricorrente alle categorie esentate dal divieto attribuisce una patente di legittimità all’operato del Sindaco, poiché l’attività di rifornimento di cinque supermercati svolta dal ricorrente, oltre a poter essere considerata di primaria importanza, essendo finalizzata all’approvvigionamento di pane e derivati nei riguardi di medie strutture di vendita, trova più facile collocazione, dal punto di vista merceologico, nell’ambito di una vendita all’ingrosso, non essendo intesa alla diretta commercializzazione del pane e dei suoi derivati al consumatore, con ovvia attenuazione del pericolo di contagio. IV.2 - Anche il richiamo alla norma di cui articolo 1 del D.L. n. 19 del 25 marzo 2020, in base alla quale possono essere adottate misure limitative per contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del virus COVID 19 su specifiche parti del territorio nazionale o, occorrendo, sulla totalità di esso e per periodi predeterminati, non costituisce valido riferimento per l’esercizio di un incondizionato potere di ordinanza, nel senso divisato dal Sindaco di Peschici. Va detto, in primo luogo, che le misure limitative contemplate dall’art. 1 del decreto legge 25 marzo 2020, n. 19, possono consistere, tra le altre opzioni, in limitazioni o nel divieto di allontanamento e di ingresso in territori comunali, provinciali o regionali, nonché rispetto al territorio nazionale, opzione prescelta dall’Amministrazione resistente. L’attuazione delle misure di contenimento è però affidata, in primis, al Presidente del Consiglio dei Ministri attraverso propri decreti; la Regione, nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui all’articolo 2, comma 1, del decreto legge sopra citato - e con efficacia limitata fino a tale momento - può varare misure ulteriormente restrittive in presenza di situazioni specifiche sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel territorio regionale o in una parte di esso, esclusivamente nell’ambito di sua competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica nazionale. IV.3 - Il Sindaco, dal canto suo, non può adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza, in contrasto con le misure statali, né eccedere i limiti di oggetto di cui al comma 1. Il Sindaco, in altri termini, in una cornice di riferimento normativo di questo tipo, non è privato del potere di ordinanza extra ordinem ma - diversamente da quanto avviene in periodi non qualificabili come emergenze nazionali, in cui l’ordinanza contingibile e urgente vale a fronteggiare un’emergenza locale e può avere finanche attitudine derogatoria dell’ordinamento giuridico - neppure può esercitare il potere di ordinanza travalicando i limiti dettati dalla normativa statale, non solo per quel che concerne i presupposti ma anche quanto all’oggetto della misura limitativa. Questo vuol dire che il Sindaco può, in linea con la prescrizione statale, introdurre un divieto di ingresso nel proprio Comune per un periodo di tempo limitato e solo in presenza di un sopravvenuto aggravamento del rischio sanitario che sia stato oggetto di valutazione adeguata e proporzionata ai dati epidemiologici del territorio in un dato momento. Nella specie, è invece accaduto che le prime due ordinanze sono state emanate senza alcuna indicazione di efficacia nel tempo e in presenza di una generica affermazione di perdurante rischio sanitario in tutta la Capitanata, non accompagnata da rilevazione di dati epidemiologici a supporto. IV.4 - Anche la terza ordinanza, fatta oggetto di motivi aggiunti di ricorso, risulta priva di sufficiente motivazione, pur essendo emendata la criticità relativa alla fissazione del periodo di efficacia del provvedimento: il Sindaco, mal interpretando la pronuncia cautelare interinale, ha ritenuto di poter riproporre un divieto rispetto al quale restano invariati gli aspetti di illegittimità già indicati, sotto il profilo del deficit motivazionale. A nulla vale il richiamo, operato nell’intestazione del provvedimento, alla norma di cui all’art. 50 del T.U.E.L n. 267/2000, perché anche le attribuzioni del Sindaco per l’emanazione di provvedimenti contingibili e urgenti, in qualità di Autorità sanitaria locale sono astrette al rigoroso rispetto dei limiti già delineati, tanto più che l’art. 3, comma 3, del decreto legge 25 marzo 2020, n. 19 stabilisce che “le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, altresì, agli atti posti in essere per ragioni di sanità in forza di poteri attribuiti da ogni disposizione di legge previgente”. V - Deve, infine, prendersi posizione sulla domanda risarcitoria avanzata dal ricorrente. Il Collegio reputa la domanda accessoria in parola infondata, in quanto non sorretta da adeguati elementi di ricostruzione della responsabilità dell’Autorità locale, in base all’art. 2043 c.c. ed alla vasta giurisprudenza civile e amministrativa che ne ha orientato l’applicazione all’ipotesi di lesione di interesse legittimo, a partire dalla nota pronuncia di Cassazione civile, sezioni unite, n. 500/1999. VI - Il ricorso e i motivi aggiunti vanno conclusivamente accolti; ne discende l’annullamento delle tre ordinanze sindacali che ne hanno formato oggetto. Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso e sui motivi aggiunti, come in epigrafe proposti, li accoglie e, per l’effetto, annulla le ordinanze sindacali impugnate. Condanna il Comune di Peschici alla rifusione delle spese processuali che liquida in favore della parte ricorrente nella misura complessiva di € 3.000,00, oltre alla rifusione del contributo unificato ed agli accessori come per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 20 maggio 2020, tenutasi telematicamente in base a quanto disposto dall’art. 84 del D.L. 17 marzo 2020, n.18, con l'intervento dei magistrati: Orazio Ciliberti, Presidente Carlo Dibello, Consigliere, Estensore Giacinta Serlenga, Consigliere Orazio Ciliberti, Presidente Carlo Dibello, Consigliere, Estensore Giacinta Serlenga, Consigliere IL SEGRETARIO
Covid-19 – Disciplina di contenimento - Ordinanza extra ordinem – Possibilità – Contrasto con la normativa statale – Esclusione.   Covid-19 – Disciplina di contenimento - Ordinanza extra ordinem – Criteri – Individuazione.           In caso di emergenza epidemiologica di rilievo internazionale, le misure di contenimento del contagio previste dalla normativa statale e, nel dettaglio, da quella regolamentare di carattere governativo, di cui al d.P.C.M. 22 marzo 2020 e al d.l. 25 marzo 2020, n. 19 impongono il rispetto del principio di non contraddizione dell'ordinamento giuridico; per questa ragione il Sindaco può esercitare il potere di ordinanza extra ordinem, di regola affidatogli in periodo non emergenziale, ma non può assumere decisioni in contrasto con la normativa statale (1).           Il Sindaco, chiamato ad adottare ordinanze contingibili e urgenti in periodo di Covid-19 deve esercitare il suo potere in base ai seguenti criteri: a) scelta della misura nell'ambito di un catalogo definito dalla normativa statale e governativa di tipo regolamentare; b) predeterminazione della durata degli effetti del provvedimento; c) adeguata motivazione della indispensabilità della decisione straordinaria, sulla base di dati epidemiologici attendibili circa il sopravvenuto aggravamento del rischio sanitario nel territorio di riferimento.       (1) Ha ricordato il Tar che all’interno delle misure di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale, di cui al d.P.C.M. 22 marzo 2020, è stata rintracciata una area di esenzione che riguarda, tra l’altro, l’attività di produzione, trasporto, commercializzazione e consegna di farmaci, tecnologia sanitaria e dispositivi medico chirurgici, nonché di prodotti agricoli e alimentari, sempre consentita. La disposizione in esame è dettata dall’esigenza di non compromettere la fruizione di beni di primaria necessità nonostante il periodo emergenziale, sulla scorta di una scelta drammatica demandata all’Autorità di Governo e al Legislatore primario, in una fase notoriamente caratterizzata dalla sussistenza di una conclamata emergenza epidemiologica di rilevanza internazionale. Sotto tale profilo, una volta individuata l’area di inapplicabilità del divieto in sede di normativa statale, il Sindaco non può assumere provvedimenti attraverso i quali il divieto stesso si riespande e riprende vigore, perché ciò significherebbe porsi in irrimediabile contrasto con la normativa statale, effetto di certo non voluto dal legislatore statale. Ha aggiunto che anche il richiamo alla norma di cui art. 1, d.l. n. 19 del 25 marzo 2020, in base alla quale possono essere adottate misure limitative per contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del virus Covid-19 su specifiche parti del territorio nazionale o, occorrendo, sulla totalità di esso e per periodi predeterminati, non costituisce valido riferimento per l’esercizio di un incondizionato potere di ordinanza. Va detto, in primo luogo, che le misure limitative contemplate dall’art. 1, d.l. 2020, n. 19, possono consistere, tra le altre opzioni, in limitazioni o nel divieto di allontanamento e di ingresso in territori comunali, provinciali o regionali, nonché rispetto al territorio nazionale, opzione prescelta dall’Amministrazione resistente. L’attuazione delle misure di contenimento è però affidata, in primis, al Presidente del Consiglio dei Ministri attraverso propri decreti; la Regione, nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui all’art. 2, comma 1, del decreto legge sopra citato - e con efficacia limitata fino a tale momento - può varare misure ulteriormente restrittive in presenza di situazioni specifiche sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel territorio regionale o in una parte di esso, esclusivamente nell’ambito di sua competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica nazionale. Il Sindaco, dal canto suo, non può adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza, in contrasto con le misure statali, né eccedere i limiti di oggetto di cui al comma 1. Il Sindaco, in altri termini, in una cornice di riferimento normativo di questo tipo, non è privato del potere di ordinanza extra ordinem ma - diversamente da quanto avviene in periodi non qualificabili come emergenze nazionali, in cui l’ordinanza contingibile e urgente vale a fronteggiare un’emergenza locale e può avere finanche attitudine derogatoria dell’ordinamento giuridico - neppure può esercitare il potere di ordinanza travalicando i limiti dettati dalla normativa statale, non solo per quel che concerne i presupposti ma anche quanto all’oggetto della misura limitativa. Questo vuol dire che il Sindaco può, in linea con la prescrizione statale, introdurre un divieto di ingresso nel proprio Comune per un periodo di tempo limitato e solo in presenza di un sopravvenuto aggravamento del rischio sanitario che sia stato oggetto di valutazione adeguata e proporzionata ai dati epidemiologici del territorio in un dato momento.  
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/competenza-del-comune-ad-adottare-misure-di-contenimento-dell-inquinamento-acustico-non-direttamente-collegate-con-il-superamento-dei-limiti-fissati-p
Competenza del Comune ad adottare misure di contenimento dell’inquinamento acustico non direttamente collegate con il superamento dei limiti fissati per le immissioni sonore
N. 02684/2020REG.PROV.COLL. N. 07281/2012 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7281 del 2012, proposto dalla società Dicomi S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Beatrice Tomasoni e Gabriele Pafundi ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale Giulio Cesare n. 14- 4/A; contro - Comune di Rovereto, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gianpaolo Manica e Pasquale Di Rienzo ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale Giuseppe Mazzini n.11;- Dirigente del Servizio Verde e Tutela Ambientale del Comune di Rovereto, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento del 4 aprile 2012, n. 104, resa tra le parti sul ricorso n.r.g. 257/2011, proposto per l’annullamento della diffida del 27 settembre 2011, emessa dal Dirigente del Servizio verde e tutela ambientale del Comune di Rovereto, ai sensi dell’art. 60, comma 5, della l.p. n. 10 del 1998, avente ad oggetto l’impianto di autolavaggio self-service "Il Pinguino" sito in Rovereto, via Abetone - procedimento del 4 aprile 2011, prot. n. 0014042, e 5 maggio 2011, prot. n. 0019271, e di ogni altro atto presupposto, connesso e conseguente, ed in particolare dell’indagine fonometrica effettuata per conto del Comune di Rovereto nel giorno 30 ottobre 2010, comunicata con nota del 5 maggio 2011, n. 0019271, e del successivo atto del 9 novembre 2011, prot. n. 0047560, limitatamente alla parte in cui il Comune di Rovereto ha chiesto una nuova misura fonometrica a carico della Società ricorrente. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Rovereto; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza pubblica del giorno 28 gennaio 2020 il Cons. Francesco Guarracino e uditi l’avv. Beatrice Tomasoni per la società appellante e l’avv. Pasquale Di Rienzo per l’amministrazione appellata; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con ricorso al Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, la Dicomi S.r.l., titolare dell’impianto di autolavaggio automatico "il Pinguino" sito nel Comune di Rovereto alla via Abatone 51/13, impugnava il provvedimento dirigenziale del 27 settembre 2011 col quale l’amministrazione comunale l’aveva diffidata «alla pedissequa applicazione dell’art. 10 del regolamento comunale in materia di inquinamento acustico, là ove contempla l’inibizione nella fascia oraria notturna, che va dalle ore 20.00 alle ore 7.30 nei giorni feriali e dalle ore 19.00 alle ore 9.00 nei giorni festivi, di ogni qualsivoglia attività di lavaggio» ed alla presentazione, entro trenta giorni, di un piano di risanamento acustico a causa dell’accertato superamento, «nel periodo diurno», degli standard legali di accettabilità acustica definiti dall’art. 4 del D.P.C.M. 14 novembre 1997. Con sentenza del 4 aprile 2012, n. 104, l’adito Tribunale, disattese preliminarmente le eccezioni sollevate in rito dalla difesa del Comune di Rovereto, respingeva il ricorso per la parte concernente il primo punto della diffida impugnata (il rispetto dell’art. 10 del regolamento comunale) e lo accoglieva per la parte riguardante il secondo punto (la presentazione di un piano di risanamento acustico). Con ricorso in appello la società Dicomi ha impugnato il capo della sentenza che l’ha vista soccombente e ha riproposto la domanda risarcitoria già articolata ma non esaminata dal Giudice di primo grado. Il Comune di Rovereto ha resistito all’appello con memoria difensiva, reiterando l’eccezione di inammissibilità per omessa impugnazione del regolamento comunale in materia di inquinamento acustico, già formulata nel giudizio di primo grado, e contestando, nel merito, la fondatezza dei motivi di gravame. Alla camera di consiglio del 13 novembre 2012, fissata per l’esame dell’istanza cautelare di sospensione della esecutività della sentenza appellata, la causa è stata rinviata al merito su istanza dell’appellante. In vista dell’udienza pubblica del 9 luglio 2019 le parti hanno presentato un’istanza congiunta di cancellazione della causa dal ruolo motivata dalla pendenza di trattative anche in relazione ad un possibile spostamento in altro luogo dell’impianto di autolavaggio. La causa è stata nuovamente fissata per l’udienza pubblica del 28 gennaio 2020, per la quale l’appellante ha prodotto memorie, ed all’esito della stessa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO Preliminarmente, persiste l’interesse alla decisione, poiché nella memoria di discussione la società appellante ha rappresentato che non si è pervenuti alla stipula dell’accordo di programma propedeutico al trasferimento dell’autolavaggio e ha insistito per l’accoglimento dell’appello. Sempre in rito, occorre rilevare che l’eccezione d’inammissibilità del ricorso di primo grado per la mancata impugnazione del presupposto regolamento comunale sull’inquinamento acustico è stata già esaminata e respinta dal Giudice territoriale (cfr. punto 1.c della motivazione), cosicché la relativa questione, per essere ritualmente riproposta in questa sede, avrebbe dovuto formare oggetto di appello incidentale, il che non è avvenuto. Costituisce, infatti, principio consolidato quello secondo cui l’eccezione d’inammissibilità del ricorso, dedotta dalla parte intimata nel processo di primo grado ed espressamente respinta nella sentenza di primo grado, è inammissibile se devoluta al giudice di secondo grado mediante semplice memoria, in difetto del necessario appello incidentale avverso il capo di sentenza che l’ha espressamente esaminata e disattesa (ex multis, C.d.S. sez. III, 6 settembre 2018, n. 5229). Nel merito, l’appello è infondato. In primo grado la società appellante aveva contestato l’interpretazione data dall’amministrazione all’art. 10 del regolamento in materia di inquinamento acustico, approvato dal Consiglio comunale con deliberazione n. 9 del 30 gennaio 2007, sostenendo che non imponesse la chiusura dell’impianto nel periodo notturno e ciò in base all’interpretazione a suo tempo offerta dallo stesso T.R.G.A. delle identiche prescrizioni contenute nell’art. 9 del previgente regolamento del 2003 (sent. n. 419 del 2004 tra le medesime parti); con successiva memoria aveva invocato, in ogni caso, il potere del giudice amministrativo di disapplicazione dei regolamenti, anche non impugnati. Il T.R.G.A. ha respinto le censure giudicando, alla luce della disposizione regolamentare, «di palmare evidenza che, nelle zone residenziali, l’esercizio notturno dell’attività di autolavaggio è inibito non dal provvedimento impugnato ma direttamente dall’art. 10 del regolamento comunale sull’inquinamento acustico il quale è chiaro nel consentire sia “l’impiego delle apparecchiature” ma anche, “più in generale”, “lo svolgimento dell’attività di autolavaggio” solo negli orari diurni indicati nel rispetto dei limiti di legge e della zonizzazione acustica comunale». Con l’ordine impartito al punto 1 dell’atto impugnato il Comune di Rovereto, dunque, avrebbe fatto mera applicazione dell’art. 10 del citato regolamento, adottato ai sensi dell’art. 6 della legge 26 ottobre 1995, n. 447, e dell’art. 60, comma 1, della legge provinciale 11 settembre 1998, n. 10, sulla competenza dei comuni ad adottare regolamenti per l’attuazione della disciplina statale e regionale per la tutela dall’inquinamento acustico, che avrebbe consentito agli stessi di «disciplinare l’emissione e l’immissione dei rumori tramite l’adozione di misure di contenimento dell’inquinamento acustico, fra le quali anche l’introduzione di fasce orarie per l’esercizio di determinate attività non direttamente collegate con il superamento dei limiti fissati per le immissioni sonore», come già riconosciuto in giurisprudenza. Secondo il T.R.G.A., non sarebbe stato invocabile, in senso contrario, la precedente sentenza pronunciata nel giudizio di impugnazione del regolamento del 2003, contenente disposizioni identiche a quelle dell’art. 10 del regolamento del 2007, attesa l’univocità delle disposizioni regolamentari da applicare al caso di specie, né di queste ultime sarebbe stata concepibile alcuna disapplicazione, «stante la legittimità delle disposizioni dell’art. 10 del menzionato regolamento comunale perché esse non contrastano, come più sopra già è stato rilevato, con il disposto legislativo primario di cui all’art. 6 della legge n. 447 del 1995, del quale sono dunque volte a dare esecuzione in ambito locale (cfr., C.d.S., sez. VI, 12.4.2000, n. 2183)». L’appello è affidato a tre complessi motivi. Col primo motivo (pagg. 9 -19) la società appellante reitera anzitutto l’argomento del contrasto con la diversa interpretazione della disposizione regolamentare contenuta nella sentenza n. 419/04 dello stesso T.R.G.A., per la quale l’attività sarebbe stata limitata in orario notturno solo se rumorosa alla stregua dei limiti specifici normativamente stabiliti, in linea coi vincoli derivanti dalla legge quadro sull’inquinamento acustico n. 447/95 che non prevedrebbe la possibilità per i comuni di regolare l’esercizio di attività che impieghino sorgenti sonore, ma solo quella di regolare l’emissione del rumore (sicché gli stessi non potrebbero inibire l’esercizio dell’attività, a meno che la stessa non superi i limiti di rumorosità imposti dalla legge stessa), ed in senso non diverso dalla giurisprudenza civile, richiamata nella sentenza appellata, che avrebbe riguardato l’inopportuno impiego di apparecchiature rumorose; inoltre, la decisione appellata non avrebbe tenuto conto che il presupposto della diffida, ai sensi dell’art. 60, co. 5, della legge della Provincia autonoma di Trento n. 11 del 1998, richiamato nel provvedimento impugnato, era che dai controlli risulti che i livelli delle emissioni e delle immissioni sonore non fossero conformi alle prescrizioni normative od a quelle amministrative in vigore, mentre, nel caso di specie, il Comune avrebbe accertato il rispetto dei livelli delle emissioni e delle immissioni sonore da parte dell’impianto di autolavaggio gestito dall’appellante; tutto ciò deporrebbe nel senso che il regolamento del 2007 vietasse non l’attività di autolavaggio nelle ore notturne, ma unicamente l’utilizzo di apparecchiature rumorose e, ove così non fosse stato, esso avrebbe dovuto essere disapplicato per contrasto con la legge, con conseguente ulteriore erroneità, su questo specifico punto, della decisione gravata. Col secondo motivo (pagg. 19 - 24) torna sul vincolo che sarebbe derivato all’attività decisoria del Giudice di primo grado dalla sua precedente sentenza del 2004, richiamando principi generali in tema di cosa giudicata sostanziale per sostenere che i provvedimenti amministrativi adottati in contrasto con la statuizione di quella sentenza, secondo cui sarebbe stato da escludere che nell’orario indicato l’attività fosse proibita in sé e non in quanto rumorosa, sarebbero stati nulli o comunque annullabili, poiché anche nel caso di sentenze di rigetto si formerebbe il giudicato, ancorché nei limiti dei motivi posti a fondamento della domanda; soggiunge che, anche a voler seguire l’orientamento che esclude l’idoneità delle sentenze di rigetto al giudicato sostanziale, limitandosi queste ad accertare l’infondatezza delle censure proposte dal ricorrente, non sarebbe possibile per lo stesso Giudice disattendere il proprio precedente unicamente sulla base di una diversa interpretazione della legge, come non sarebbe possibile annullare di ufficio un precedente provvedimento amministrativo al solo fine di ristabilire la legittimità violata; sostiene infine che, in ogni caso, le diverse conclusioni raggiunte dal T.R.G.A. avrebbero frustrato le funzioni tipiche della sentenza d’individuare la regola del caso concreto e di garantire la certezza dei rapporti giuridici. Col terzo motivo (pagg. 24 -28) ripropone la domanda risarcitoria e le censure non esaminate in primo grado, segnatamente quella riguardante l’insussistenza di modifiche delle previsioni urbanistiche e di classificazione acustica dell’area de qua rispetto alla situazione esistente all’atto della precedente sentenza e, comunque, l’irrilevanza delle stesse ai fini dell’interpretazione ed applicazione della disposizione regolamentare; quella dell’irragionevolezza ed illogicità dell’azione dell’amministrazione comunale, che dapprima avrebbe ingiunto all’interessata di effettuare lavori per riportare l’attività notturna nei limiti della normativa ed in seguito l’avrebbe vietata, sebbene conformata; quella della carenza del presupposto di cui all’art. 60, co. 5, l.p. cit. per l’adozione della diffida; quella della contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione comunale, che in un primo tempo (con nota prot. 1984/05 del 17 maggio 2005) si sarebbe conformata alle indicazioni della sentenza del 2004; quella, infine, della violazione del principio di buona fede (avendo il Comune di Rovereto prima ingiunto l’adozione di misure ed interventi di contenimento delle emissioni sonore relative all’attività notturna e poi senz’altro ingiuntone il divieto) e del legittimo affidamento in merito alla possibilità di esercizio dell’attività di autolavaggio anche di notte, consolidatosi in forza della sentenza del 2004, dell’interpretazione fatta propria dal Comune di Rovereto e comunicata alla società, del rilascio della concessione edilizia per effettuare i lavori in esecuzione della precedente ingiunzione del 2006 e, infine, dei controlli sul rumore dell’impianto eseguiti in orario notturno. I motivi di appello si prestano ad un esame congiunto, in ragione della loro evidente stretta connessione. La prima questione che occorre esaminare è quella del preteso vincolo all’attività interpretativa del giudice che sarebbe derivato dalla sentenza del 2004, allora appellata ma non sospesa. Vera è la sostanziale corrispondenza del testo del precedente regolamento comunale del 2003 con quello dell’art. 10 del regolamento comunale in materia di inquinamento acustico vigente all’epoca dell’adozione del provvedimento impugnato in primo grado. Tuttavia, la tesi che il Giudice di primo grado non potesse discostarsi dall’interpretazione che avrebbe dato a quel testo nella precedente pronuncia resa inter partes, con la quale aveva respinto il ricorso proposto dalla medesima società contro quella specifica disposizione affermando che essa non avrebbe limitato l’attività di per sé stessa, ma soltanto in quanto rumorosa, per quanto suggestiva non può essere condivisa. Nel nostro sistema processuale amministrativo non sussiste la regola dello stare decisis, se non con esclusivo riferimento al principio di diritto enunciato da questo Consiglio in Adunanza plenaria, ai sensi e nei termini di cui all’art. 99 c.p.a. (C.d.S., sez. III, 13 maggio 2015, n. 2398, e, prima del codice, C.d.S., sez. IV, 13 marzo 2009, n. 1517). Sotto altro e diverso aspetto, anche a voler ritenere che pure le pronunce di rigetto, sebbene lascino invariato l’assetto giuridico dei rapporti posto dall’atto impugnato (ex ceteris, C.d.S., sez. VI, 3 ottobre 2017, n. 4600), siano suscettibili del giudicato sostanziale, il quale, in particolare, renderebbe irreversibili gli accertamenti compiuti e i giudizi resi in connessione ai motivi di ricorso (C.d.S., sez. V, 8 aprile 2014, n. 1669: «come accade per ogni sentenza, anche in questa tipologia di vicende, strutturalmente orientate al futuro in quanto esprimenti regole da osservare nel caso concreto, la sentenza del giudice amministrativo accerta fatti, situazioni, rapporti ed esprime un giudizio di legittimità o illegittimità sui provvedimenti che li hanno generati e disciplinati»), resta il fatto che, all’atto dell’adozione della decisione qui impugnata, la sentenza pronunciata dal T.R.G.A. nel 2004 non era ancora passata in giudicato, pendendo su di essa appello. Il fatto che quella sentenza, seppur appellata, non fosse stata sospesa, non bastava a condizionare l’esito del nuovo giudizio innanzi al T.R.G.A. mediante un effetto che sarebbe potuto discendere solo da un precedente giudicato con identità di soggetto ed oggetto. La res iudicata formale sulla decisione del 2004 si è formata solo nelle more del presente grado di giudizio, a seguito della sentenza d’improcedibilità dell’appello per sopravvenuto difetto di interesse (C.d.S., sez. V, 20 gennaio 2015, n. 165, che, peraltro, dà atto in motivazione dell’avvenuto deposito di una rinuncia all’appello successivamente alla data di spedizione in decisione). Resta, nondimeno, che era ben possibile dedurre per la prima volta nel corso del presente grado del giudizio l’eccezione di giudicato esterno, per essersi questo formato nelle more dell’appello, e, dato che la sussistenza della cosa giudicata esterna è rilevabile d’ufficio dal giudice (C.d.S., Ad. plen., 6 aprile 2017, n. 1), ciò non richiedeva il rispetto di particolari formalità. Tuttavia, l’eccezione di giudicato presuppone identità perfetta, oltre che di soggetti, anche di oggetto, di modo che possa ritenersi sussistente una ontologica e strutturale concordanza fra gli estremi su cui debba esprimersi il secondo giudice e gli elementi distintivi della decisione emessa per prima, avendo questa accertato lo stesso fatto od un fatto ad esso antitetico, non anche un fatto costituente soltanto un possibile antecedente logico, restando poi la contrarietà con la sentenza avente autorità di cosa giudicata ipotizzabile solo in relazione all’oggetto degli accertamenti in essa racchiusi (ex ceteris, C.d.S., sez. III, 19 aprile 2017, n.1844; Cass., sez. II, 21 dicembre 2012, n. 23815). Ebbene, nel caso in esame le due sentenze in preteso contrasto hanno un oggetto diverso, avendo deciso la prima su una domanda di annullamento dell’art. 9 del regolamento comunale del 2003 e la seconda su una domanda di annullamento del provvedimento di diffida del 27 settembre 2011 adottato in applicazione dell’art. 10 del regolamento comunale del 2007, il quale, viceversa, non è stato impugnato. Inoltre, la soluzione della questione ermeneutica dell’esatta delimitazione del divieto posto dalla disposizione regolamentare raggiunta nella prima decisione del T.R.G.A. non si sostanzia nell’accertamento dell’esistenza od inesistenza di un fatto storico o di un rapporto giuridico che, ove costituisca antecedente logico necessario della decisione, può essere suscettibile di res iudicata, ma rappresenta il frutto dell’ordinario compito di interpretazione della disciplina applicabile, sicché neppure per questo profilo è ipotizzabile un problema di rispetto di un giudicato sostanziale, a prescindere da ogni ulteriore approfondimento e finanche dall’ulteriore complicazione legata al fatto che si discorre di distinte fonti di produzione normativa (il regolamento del 2003 e quello del 2007). Esclusa la sussistenza di un vincolo cogente derivante dall’autorità del precedente o dalla res iudicata sul caso concreto, può passarsi alla questione dell’interpretazione della norma contenuta nell’art. 10 del regolamento in materia di inquinamento acustico approvato dal Consiglio comunale con deliberazione n. 9 del 30 gennaio 2007. Il testo dell’articolo in questione, rubricato “Autolavaggi”, recita: «L’impiego di apparecchiature rumorose (aspiratori automatici, lavajet, ecc.) nell’ambito dei sistemi di autolavaggio con mezzi automatici e non, installati nei pressi o in aree confinanti con zone residenziali, e, più in generale, lo svolgimento di dette attività, anche self-service, in aree aperte al pubblico è consentito, al fine di tutelare dal disturbo le occupazioni o il riposo delle persone, secondo gli orari indicati in Tabella A, e, comunque, nel rispetto dei limiti di legge e della zonizzazione acustica comunale». A sua volta, la richiamata tabella A stabilisce i seguenti orari: «nei giorni feriali dalle ore 7.30 alle ore 20.00 e nei giorni festivi dalle ore 09.00 alle ore 19.00». La disposizione, dichiaratamente preordinata a tutelare dal disturbo le occupazioni ed il riposo delle persone, individua ed accomuna nella stessa disciplina due fattispecie distinte legate da un rapporto di continenza: la prima concernente «l’impiego di apparecchiature rumorose …. nell’ambito dei sistemi di autolavaggio con mezzi automatici e non, installati nei pressi o in aree confinanti con zone residenziali», la seconda riguardante «più in generale, lo svolgimento di dette attività, anche self-service, in aree aperte al pubblico», dove il richiamo alle attività già menzionate nello stesso testo («dette attività») si riferisce all’uso di apparecchiature rumorose (aspiratori automatici, lavajet, ecc.). Queste attività sono consentite dalla norma soltanto negli orari indicati nella richiamata tabella («nei giorni feriali dalle ore 7.30 alle ore 20.00 e nei giorni festivi dalle ore 09.00 alle ore 19.00») e, dunque, sono proibite, in generale, in orario notturno; tuttavia, esse sono proibite anche negli orari normalmente consentiti se non si svolgano «nel rispetto dei limiti di legge e della zonizzazione acustica comunale» (la natura aggiuntiva del limite è indicata dall’uso del connettivo «comunque»). Ne segue che, per il testo del regolamento, il divieto di utilizzo di macchinari per autolavaggio è assoluto in orario notturno e prescinde da qualsiasi indagine sul rispetto in concreto dei limiti di emissione acustica, che, invece, riacquistano rilevanza per le attività espletate in orario diurno, a massima tutela della quiete pubblica. Corretta risulta allora l’interpretazione della disposizione data dal T.R.G.A. nella sentenza appellata, in cui ha asserito che le disposizioni «sono univoche nell’inibire, negli indicati orari notturni, lo svolgimento dell’attività di autolavaggio, anche self-service nelle zone residenziali». Così interpretato, l’art. 10 del regolamento comunale non è in contrasto con le norme di rango primario che definiscono il quadro legislativo di riferimento. La giurisprudenza ha chiarito che la tutela del bene giuridico protetto dalla legge quadro n. 447 del 26 ottobre 1995, la quale mira alla salvaguardia di un complesso di valori (cfr. art. 2, co. 1, lett. a) rispetto al fenomeno dell’inquinamento acustico, coesiste con la tutela del diverso bene giuridico che è costituito dalla pubblica tranquillità, trattandosi di beni presidiati da norme con obiettivi e struttura diversi, e ha riconosciuto perciò, al di là di quanto specificamente previsto dall’art. 6, co. 3, l. n. 447/95 per i comuni il cui territorio presenti un rilevante interesse paesaggistico-ambientale e turistico, che la legislazione sull’inquinamento acustico «non impedisce … ai comuni di adottare una più specifica regolamentazione dell’emissione e dell’immissione dei rumori nel loro territorio, la quale, nel rispetto dei vincoli derivanti dalla L. n. 447 del 1995, prenda in considerazione, non già il dato oggettivo del superamento di una certa soglia di rumorosità - considerato, per presunzione iuris et de iure, come generativo di un fenomeno di inquinamento acustico, a prescindere dall’accertamento dell’effettiva lesione del complesso di valori indicati nell’art. 1, comma 1, lett. a), della Legge - ma i concreti effetti negativi provocati dall’impiego di determinate sorgenti sonore sulle occupazioni o sul riposo delle persone, e quindi sulla tranquillità pubblica o privata (Cass., 9 ottobre 2003, n. 15081)» (Cass. civ., sez. I, 1° settembre 2006, n. 18953, chiarendo, pertanto, che nello specifico caso ivi affrontato «non si trattava di stabilire se fossero stati osservati i limiti massimi al riguardo introdotti da detto D.P.C.M., né di compiere le rilevazioni nelle località e con i criteri individuati dalle norme dianzi indicate, tali da richiedere l’utilizzazione di appositi apparecchi di precisione; bensì di accertare se il rumore generato dalla condotta ascrivibile al ricorrente fosse idoneo a determinare l’evento di disturbo della tranquillità pubblica avuto di mira dalla norma regolamentare»). Si tratta di un indirizzo che in passato è già stato fatto proprio da questo Consiglio, il quale ha affermato un principio valevole, in coerenza con la giurisprudenza richiamata, per tutti i comuni e non soltanto per quelli di rilevante interesse paesaggistico-ambientale e turistico (come invece opinato a pag. 17 dell’appello). Si è detto infatti (C.d.S., sez. V, 28 febbraio 2011, n. 1265) che «[p]ur non potendo … gli enti locali introdurre, nell’esercizio della propria potestà regolamentare, limiti alle immissioni sonore diversi e comunque inferiori a quelli previsti dalla l. n. 447 del 1995, i Comuni possono dettare disposizioni particolari, anche presidiate da sanzione amministrativa, che vietino non già le immissioni sonore che superino una soglia acustica prestabilita, ma tutte quelle che comunque nuocciano alla quiete e alla tranquillità pubblica o privata, quale che sia il loro livello acustico (Cassazione civile, sez. I, 1 settembre 2006, n. 18953). Deve, quindi, riconoscersi ai Comuni la competenza ad adottare misure di contenimento dell’inquinamento acustico, anche introducendo fasce orarie, non direttamente collegate con il superamento dei limiti fissati per le immissioni sonore». Questo è quanto accaduto anche nel caso esaminato dal T.R.G.A., alla stregua di tutto quanto si è detto e tenuto conto, altresì, dell’ambivalenza del regolamento comunale del 2007 che, pur intitolato alla materia dell’inquinamento acustico e pur richiamando in apertura la legge n. 447/95 e il decreto del Presidente della Giunta provinciale 26 novembre 1998, n. 38-110/Leg, di attuazione del capo XV della legge provinciale 11 settembre 1998, n. 10, si occupa espressamente anche della tutela della tranquillità pubblica e privata (cfr. art. 8). Il richiamo al precedente della Quinta Sezione vale a superare anche gli ulteriori profili di critica alla decisione di primo grado, essendosi in quell’occasione parimenti già chiariti sia l’erroneità dell’equivalenza tra rispetto dei limiti e assenza di rumore, posto che il potere esercitato nella specie è diretto proprio a mitigare emissioni sonore che, pur rientrando nei limiti, possano arrecare disturbo alla quiete (anche nel caso in esame, come in quello esaminato all’epoca, le contestazioni mosse nel passato all’attività dell’appellante dimostrano la concretezza di tale rischio), sia l’assenza di contraddittorietà con precedenti atti adottati dal Comune per far rientrare la ditta nei limiti, costringendola ad effettuare opere di insonorizzazione comunque necessarie per lo svolgimento dell’attività in orario diurno. Gli ulteriori profili di censura sollevati col primo motivo del ricorso innanzi al T.R.G.A., del cui mancato esame l’appellante si duole, debbono ritenersi complessivamente respinti dal Giudice di primo grado col rigetto di quel motivo nella sua interezza, siccome riferiti dallo stesso Giudice alla questione unica dell’interpretazione dell’art. 10 (cfr. pag. 3 sentenza). Ad ogni buon conto, le doglianze riproposte col terzo motivo di appello sulla irragionevolezza dell’azione dell’amministrazione comunale e sulla violazione dei principi di buona fede e di legittimo affidamento si scontrano con la natura vincolata delle misure adottate dal Comune per assicurare il rispetto della norma regolamentare. Di conseguenza non può esservi spazio anche per la domanda risarcitoria, mancando anzitutto il presupposto dell’ingiustizia del danno. Per queste ragioni, in conclusione, l’appello dev’essere respinto. Nell’oggettiva disputabilità delle questioni esaminate si ravvisano i presupposti di legge per la compensazione delle spese del presente grado del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa le spese del presente grado del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 gennaio 2020 con l’intervento dei magistrati: Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Giancarlo Luttazi, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere Cecilia Altavista, Consigliere Francesco Guarracino, Consigliere, Estensore Da Assegnare Magistrato, Consigliere Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Giancarlo Luttazi, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere Cecilia Altavista, Consigliere Francesco Guarracino, Consigliere, Estensore Da Assegnare Magistrato, Consigliere IL SEGRETARIO
Inquinamento – Inquinamento acustico - Misure di contenimento - Non direttamente collegate con il superamento dei limiti fissati per le immissioni sonore – Competenza - Individuazione.     Deve riconoscersi ai Comuni la competenza ad adottare misure di contenimento dell’inquinamento acustico, anche introducendo fasce orarie, non direttamente collegate con il superamento dei limiti fissati per le immissioni sonore (1).  (1) Ha ricordato la sezione che la giurisprudenza ha chiarito che la tutela del bene giuridico protetto dalla legge quadro n. 447 del 26 ottobre 1995, la quale mira alla salvaguardia di un complesso di valori (cfr. art. 2, comma 1, lett. a) rispetto al fenomeno dell’inquinamento acustico, coesiste con la tutela del diverso bene giuridico che è costituito dalla pubblica tranquillità, trattandosi di beni presidiati da norme con obiettivi e struttura diversi, e ha riconosciuto perciò, al di là di quanto specificamente previsto dall’art. 6, comma 3, l. n. 447 del 1995 per i comuni il cui territorio presenti un rilevante interesse paesaggistico-ambientale e turistico, che la legislazione sull’inquinamento acustico «non impedisce … ai comuni di adottare una più specifica regolamentazione dell’emissione e dell’immissione dei rumori nel loro territorio, la quale, nel rispetto dei vincoli derivanti dalla l. n. 447 del 1995, prenda in considerazione, non già il dato oggettivo del superamento di una certa soglia di rumorosità - considerato, per presunzione iuris et de iure, come generativo di un fenomeno di inquinamento acustico, a prescindere dall’accertamento dell’effettiva lesione del complesso di valori indicati nell’art. 1, comma 1, lett. a), della Legge - ma i concreti effetti negativi provocati dall’impiego di determinate sorgenti sonore sulle occupazioni o sul riposo delle persone, e quindi sulla tranquillità pubblica o privata (Cass., 9 ottobre 2003, n. 15081)» (Cass. civ., sez. I, 1° settembre 2006, n. 18953, chiarendo, pertanto, che nello specifico caso ivi affrontato «non si trattava di stabilire se fossero stati osservati i limiti massimi al riguardo introdotti da detto D.P.C.M., né di compiere le rilevazioni nelle località e con i criteri individuati dalle norme dianzi indicate, tali da richiedere l’utilizzazione di appositi apparecchi di precisione; bensì di accertare se il rumore generato dalla condotta ascrivibile al ricorrente fosse idoneo a determinare l’evento di disturbo della tranquillità pubblica avuto di mira dalla norma regolamentare»). Si tratta di un indirizzo che in passato è già stato fatto proprio dal Consiglio di Stato, il quale ha affermato un principio valevole, in coerenza con la giurisprudenza richiamata, per tutti i comuni e non soltanto per quelli di rilevante interesse paesaggistico-ambientale e turistico. Si è detto infatti (Cons. St., sez. V, 28 febbraio 2011, n. 1265) che «[p]ur non potendo … gli enti locali introdurre, nell’esercizio della propria potestà regolamentare, limiti alle immissioni sonore diversi e comunque inferiori a quelli previsti dalla l. n. 447 del 1995, i Comuni possono dettare disposizioni particolari, anche presidiate da sanzione amministrativa, che vietino non già le immissioni sonore che superino una soglia acustica prestabilita, ma tutte quelle che comunque nuocciano alla quiete e alla tranquillità pubblica o privata, quale che sia il loro livello acustico (Cass. civ., sez. I, 1 settembre 2006, n. 18953). Deve, quindi, riconoscersi ai Comuni la competenza ad adottare misure di contenimento dell’inquinamento acustico, anche introducendo fasce orarie, non direttamente collegate con il superamento dei limiti fissati per le immissioni sonore».
Inquinamento
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/competenza-territoriale-per-le-controversie-relative-a-incentivi-alle-imprese-da-parte-di-invitalia-s.p.a.
Competenza territoriale per le controversie relative a incentivi alle imprese da parte di Invitalia s.p.a.
N. 06067/2021 REG.PROV.COLL. N. 01747/2021 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 1747 del 2021, relativo al giudizio instaurato da Soundsofthings S.r.l., non costituita nella presente fase del giudizio, contro - Invitalia S.p.a. - Agenzia Nazionale per l’Attrazione degli Investimenti e lo Sviluppo, non costituita nella presente fase del giudizio; - il Ministero dello Sviluppo Economico, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; per regolamento di competenza richiesto di ufficio con ordinanza collegiale del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) n. 2397/2021, resa tra le parti. Visti l’ordinanza suindicata e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio di Ministero dello Sviluppo Economico; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 13 maggio 2021 il Cons. Oberdan Forlenza; nessuno presente per le parti; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue. 1. Con ordinanza 26 febbraio 2021, n. 2397, il TAR per il Lazio, sez. III ter, ha richiesto d’ufficio il regolamento di competenza, ai sensi dell’art. 15, co. 5, c.p.a. Il ricorso pendente innanzi al TAR Lazio era stato in origine proposto innanzi al TAR Sicilia – Sezione staccata di Catania, per ottenere l’annullamento del provvedimento di non ammissione alle agevolazioni, adottato da Invitalia S.p.a. nell’ambito del “regime di aiuto finalizzato a sostenere la nascita e lo sviluppo, su tutto il territorio nazionale, di start up innovative”; agevolazioni destinate ad attività da localizzarsi in Sicilia. Con ordinanza n. 149 del 2021, il TAR Sicilia, sezione staccata di Catania ha dichiarato la propria incompetenza territoriale in favore del TAR Lazio – Roma, sulla base di un orientamento giurisprudenziale (in particolare, del Consiglio di Stato, sez. IV, 16 luglio 2012, n. 4131) secondo il quale, con riferimento all’impugnativa degli atti emanati dall’Agenzia Invitalia – che ha sede a Roma -, in applicazione del criterio principale determinativo della competenza (sede del soggetto pubblico emanante) ex art. 13, comma 1, c.p.a., va riconosciuta la competenza territoriale inderogabile del TAR centrale, in considerazione del fatto che l’effetto diretto del provvedimento sarebbe identificabile esclusivamente nella stipula del contratto di finanziamento e non nella realizzazione dell’attività, oggetto del finanziamento stesso. Il TAR Lazio ritiene: - “non applicabile in questo giudizio il detto orientamento, in ragione della prevalenza da accordarsi al diverso criterio dell’efficacia dell’atto, come riconosciuto anche dalla Plenaria con le successive pronunce nn. 3 e 4 del 2013 e reiteratamente e costantemente affermato da una giurisprudenza decennale di questo tribunale (ex multis, questa Sezione, ordinanze n. 12943 e n. 9520 del 2020; n. 12076, n. 4059, n. 2633 e n. 1298 del 2019; n. 9666 del 2018; n. 10248 del 2017; n. 791 del 2011)”; - “che per “effetti diretti” dell’atto debba qui intendersi l’incentivazione di una certa attività mediante il suo finanziamento, conformemente alla ratio della normativa di riferimento attributiva dello stesso potere dell’Agenzia, e che la stipula della convenzione rappresenta solo la fonte di regolazione del rapporto, ovvero lo strumento mediante il quale il finanziamento è destinato a produrre i propri effetti”; - che “il provvedimento di non ammissione agli incentivi adottato da Invitalia - oggetto del presente giudizio - abbia effetti territorialmente limitati, atteso che il finanziamento di cui si tratta, la cui erogazione non è collegata ad alcuna graduatoria nazionale, viene richiesto per essere utilizzato in un ambito locale circoscritto, coincidente nella specie con una porzione del territorio della Regione Siciliana”. Sulla base di tali rilievi e di ulteriori considerazioni esposte in ordinanza, il TAR Lazio ritiene che il ricorso non sembra rientrare nell’ambito della propria competenza ed ha pertanto richiesto di ufficio il regolamento di competenza. Si è costituito nella presente fase del giudizio il Ministero dello sviluppo economico. All’udienza in camera di consiglio del 13 maggio 2021, la questione di competenza è stata riservata in decisione. 2. Il Consiglio di Stato deve dichiarare la competenza del TAR Sicilia, sezione staccata di Catania, a decidere la presente controversia. Come è noto, l’art. 13 c.p.a. prevede (comma 1), quale criterio principale determinativo della competenza, che “sulle controversie riguardanti provvedimenti, atti, accordi, comportamenti di pubbliche amministrazioni è inderogabilmente competente il tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione territoriale esse hanno sede”, salvo che i predetti atti abbiano “effetti diretti . . . limitati all’ambito territoriale della regione in cui il tribunale ha sede”. Il Collegio non ignora che - con una precedente decisione (la n. 4131/2012, a sua volta richiamante la precedenza ordinanza sez. IV, 29 aprile 2011, n. 2560), ordinanza citata da ambedue i Tribunali amministrativi e non condivisa dal TAR Lazio, che ha proposto il presente regolamento – questa Sezione in una controversia avente oggetto analogo alla presente, ha dichiarato la competenza del TAR Lazio. A tali conclusioni le precedenti ordinanze sono pervenute, sul rilievo che: - “l’effetto diretto dell’ammissione all’agevolazione o al suo diniego altro non è se non l’acquisizione di una posizione giuridica pretensiva o oppositiva, la prima intesa ad ottenere la stipulazione del contratto, la seconda a conseguire l’eventuale riesame della determinazione negativa previo annullamento della medesima, e quindi a seconda dei casi attività negoziali o provvedimentali che si svolgono sempre presso l’Agenzia nella sua sede”; - “rispetto a tale ineludibile effetto diretto, nessun rilievo può assumere la circostanza che, una volta conseguita la necessaria provvista finanziaria, quale che ne sia la forma, essa sia impiegata nell’ambito territoriale nel quale si localizza l’iniziativa imprenditoriale agevolata; quest’ultima, a ben guardare, non è nemmeno in senso proprio un effetto del provvedimento di ammissione o di diniego, sebbene la causa, in senso economico-politico-sociale, giustificatrice dell’intero sistema di agevolazioni recato dal d. lgs. n. 185/2000”. 3. Anche alla luce delle argomentazioni esposte nell’ordinanza di richiesta del presente regolamento di competenza, il Collegio ritiene di dover giungere a conclusioni diverse da quelle esposte nelle proprie surrichiamate ordinanze. Occorre, innanzi tutto, precisare che non possono assumere rilevo, ai fini della decisione sulla competenza: - né le considerazioni a suo tempo svolte nell’ordinanza di questa Sezione n. 4131/2012, secondo cui “la concentrazione della competenza nel TAR centrale risiede . . . nell’esigenza di evitare una disseminazione di competenza e una proliferazione di possibili diversificati indirizzi giurisprudenziali, a fronte di una Agenzia “centrale” e dunque nella finalità di “garantire una tendenziale uniformità di indicazioni e indirizzi giurisprudenziali”; - né le considerazioni svolte nella presente ordinanza del TAR Lazio, laddove si afferma che l’interpretazione da esso proposta, in favore della competenza dei TAR regionali “è in linea con l’esigenza . . . di non accrescere oltremodo il carico del TAR centrale”. Si tratta, in ambedue i casi, di argomentazioni di tenore non strettamente giuridico, afferendo entrambe a considerazioni di “politica giudiziaria”, che possono essere spese solo “ad colorandum” del sostegno all’una o all’altra tesi, essendo riservata al legislatore la decisione sul criterio dell’attribuzione della competenza. Ed è, in questo caso, facile rilevare come gli artt. 14 e 135 c.p.a. non comprendono le controversie del tipo ora in esame tra quelle rientranti nella competenza funzionale inderogabile del TAR Lazio. Ciò che occorre considerare, ai fini del riconoscimento della competenza del TAR Lazio ovvero del TAR regionale, è se, pur in presenza di una amministrazione pubblica o soggetto ad essa equiparata (tale essendo da considerare Invitalia S.p.a.) con sede in Roma, gli atti da questa adottati producano (o meno) “effetti diretti . . . limitati all’ambito territoriale della regione in cui il Tribunale ha sede”. Nel caso di specie – in ciò condividendo la prospettazione dell’ordinanza – per “effetti diretti” non si possono intendere la stipula del contratto di finanziamento ovvero l’insorgenza di una posizione di interesse legittimo pretensivo alla stipula del contratto; ma, diversamente opinando, per effetto diretto deve intendersi il conseguimento dell’agevolazione finanziaria pubblica teleologicamente collegata alla realizzazione agevolata di una certa iniziativa economica territorialmente localizzata. Ciò che costituisce il bene che rappresenta il cd. “lato interno” dell’interesse legittimo pretensivo è il conseguimento dell’agevolazione, cui si perviene per il tramite del provvedimento di concessione, che la conforma in relazione alle modalità di spesa ed al territorio specifico nell’ambito del quale essa è spendibile, dove cioè è da localizzarsi o è già localizzato l’intervento. In tale contesto, il contratto assume la ordinaria natura di contratto ausiliario di provvedimento concessorio, essendo la sua funzione tipica quella di regolare aspetti patrimoniali connessi all’esercizio del potere amministrativo (già esercitato e “consumato” con l’emanazione del provvedimento). Esso, dunque, può essere condivisibilmente definito “fonte di regolazione del rapporto” ovvero “strumento mediante il quale il finanziamento è destinato a produrre i propri effetti” (così come sostenuto nell’ordinanza del TAR Lazio), nella misura in cui ci si riferisca (limitatamente) agli effetti patrimoniali “ulteriori”, derivanti da un rapporto giuridico con l’amministrazione pubblica geneticamente regolato dal provvedimento amministrativo. In nessun caso, dunque, l’ “effetto” del provvedimento di concessione può essere considerato un (nuovo) interesse legittimo pretensivo alla stipula del contratto, così duplicando i rapporti giuridici intercorrenti con l’amministrazione pubblica, ma esso è sempre rappresentato dal conseguimento del bene della vita (nel caso di specie, l’agevolazione), che – in ampia applicazione dell’art. 810 c.c. – costituisce il “bene” (non presente, ma da conseguirsi) sul quale “insiste” l’interesse legittimo pretensivo. D’altra parte, è appena il caso di osservare che se l’effetto diretto dell’atto consistesse nell’insorgenza di un ulteriore interesse legittimo pretensivo, occorrerebbe paradossalmente affermare che, essendosi l’effetto realizzato nel patrimonio giuridico dell’istante, ciò non radicherebbe necessariamente la competenza del TAR Lazio, ma occorrerebbe verificare di volta in volta, secondo il criterio civilistico della residenza, quale possa essere il TAR competente (essendo, a tutta evidenza, la sede di Roma solo il luogo di sottoscrizione del contratto e, dunque, di realizzazione del nuovo interesse legittimo pretensivo non oggetto del primo giudizio). E’ appena il caso di aggiungere che è il bene della vita connesso all’interesse legittimo pretensivo in virtù del quale si è sollecitato l’esercizio del potere amministrativo a dover essere considerato, anche nel caso in cui l’agevolazione richiesta venga negata. Il provvedimento negativo, infatti, non fonda una nuova ed autonoma posizione di interesse legittimo oppositivo (in ciò non potendosi concordare con la precedente ordinanza n. 4131/2012), ma sollecita esclusivamente la tutela giurisdizionale contro il provvedimento negatorio della soddisfazione dell’interesse legittimo pretensivo, che resta la posizione per la cui tutela si agisce in giudizio. 4. Per le ragioni sin qui esposte, nel caso di impugnazione di provvedimenti di non ammissione ad agevolazioni finanziarie relative ad attività localizzabili in territorio rientrante nella competenza territoriale di un TAR regionale, deve essere dichiarata la competenza di quest’ultimo e non già del TAR Lazio. Pertanto, nel caso di specie, deve essere dichiarata la competenza del TAR per la Sicilia, sezione staccata di Catania. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), pronunciando in sede di regolamento di competenza (r.g. n. 1747/2021) richiesto di ufficio dal TAR per il Lazio nel giudizio r.g. n. 860/2021 innanzi ad esso pendente, dichiara la competenza del TAR Sicilia, sezione staccata di Catania. Nulla per le spese. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 maggio 2021 con l’intervento dei magistrati: Raffaele Greco, Presidente Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore Luca Lamberti, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Giuseppe Rotondo, Consigliere Raffaele Greco, Presidente Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore Luca Lamberti, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Giuseppe Rotondo, Consigliere IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Competenza – Esclusione dalle agevolazioni Invitalia s.p.a. - Agevolazioni destinate ad attività da localizzarsi nelòla singola Regione – Competenza del Tar territoriale.            Rientra nella competenza del Tar territoriale la controversia avente ad oggetto il provvedimento di non ammissione alle agevolazioni, adottato da Invitalia s.p.a. nell’ambito del “regime di aiuto finalizzato a sostenere la nascita e lo sviluppo, su tutto il territorio nazionale, di start up innovative”, agevolazioni destinate ad attività da localizzarsi in Sicilia (1).  (1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 13 c.p.a. prevede (comma 1), quale criterio principale determinativo della competenza, che “sulle controversie riguardanti provvedimenti, atti, accordi, comportamenti di pubbliche amministrazioni è inderogabilmente competente il tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione territoriale esse hanno sede”, salvo che i predetti atti abbiano “effetti diretti . . . limitati all’ambito territoriale della regione in cui il tribunale ha sede”.  Ciò che occorre considerare, ai fini del riconoscimento della competenza del Tar Lazio ovvero del TAR regionale, è se, pur in presenza di una amministrazione pubblica o soggetto ad essa equiparata (tale essendo da considerare Invitalia s.p.a.) con sede in Roma, gli atti da questa adottati producano (o meno) “effetti diretti . . . limitati all’ambito territoriale della regione in cui il Tribunale ha sede”.  Nel caso di specie – in ciò condividendo la prospettazione dell’ordinanza – per “effetti diretti” non si possono intendere la stipula del contratto di finanziamento ovvero l’insorgenza di una posizione di interesse legittimo pretensivo alla stipula del contratto; ma, diversamente opinando, per effetto diretto deve intendersi il conseguimento dell’agevolazione finanziaria pubblica teleologicamente collegata alla realizzazione agevolata di una certa iniziativa economica territorialmente localizzata.  Ciò che costituisce il bene che rappresenta il cd. “lato interno” dell’interesse legittimo pretensivo è il conseguimento dell’agevolazione, cui si perviene per il tramite del provvedimento di concessione, che la conforma in relazione alle modalità di spesa ed al territorio specifico nell’ambito del quale essa è spendibile, dove cioè è da localizzarsi o è già localizzato l’intervento.  In tale contesto, il contratto assume la ordinaria natura di contratto ausiliario di provvedimento concessorio, essendo la sua funzione tipica quella di regolare aspetti patrimoniali connessi all’esercizio del potere amministrativo (già esercitato e “consumato” con l’emanazione del provvedimento).   Esso, dunque, può essere condivisibilmente definito “fonte di regolazione del rapporto” ovvero “strumento mediante il quale il finanziamento è destinato a produrre i propri effetti” (così come sostenuto nell’ordinanza del Tar Lazio), nella misura in cui ci si riferisca (limitatamente) agli effetti patrimoniali “ulteriori”, derivanti da un rapporto giuridico con l’amministrazione pubblica geneticamente regolato dal provvedimento amministrativo.  In nessun caso, dunque, l’ “effetto” del provvedimento di concessione può essere considerato un (nuovo) interesse legittimo pretensivo alla stipula del contratto, così duplicando i rapporti giuridici intercorrenti con l’amministrazione pubblica, ma esso è sempre rappresentato dal conseguimento del bene della vita (nel caso di specie, l’agevolazione), che – in ampia applicazione dell’art. 810 c.c. – costituisce il “bene” (non presente, ma da conseguirsi) sul quale “insiste” l’interesse legittimo pretensivo.  D’altra parte, è appena il caso di osservare che se l’effetto diretto dell’atto consistesse nell’insorgenza di un ulteriore interesse legittimo pretensivo, occorrerebbe paradossalmente affermare che, essendosi l’effetto realizzato nel patrimonio giuridico dell’istante, ciò non radicherebbe necessariamente la competenza del Tar Lazio, ma occorrerebbe verificare di volta in volta, secondo il criterio civilistico della residenza, quale possa essere il Tar competente (essendo, a tutta evidenza, la sede di Roma solo il luogo di sottoscrizione del contratto e, dunque, di realizzazione del nuovo interesse legittimo pretensivo non oggetto del primo giudizio).  E’ appena il caso di aggiungere che è il bene della vita connesso all’interesse legittimo pretensivo in virtù del quale si è sollecitato l’esercizio del potere amministrativo a dover essere considerato, anche nel caso in cui l’agevolazione richiesta venga negata. Il provvedimento negativo, infatti, non fonda una nuova ed autonoma posizione di interesse legittimo oppositivo, ma sollecita esclusivamente la tutela giurisdizionale contro il provvedimento negatorio della soddisfazione dell’interesse legittimo pretensivo, che resta la posizione per la cui tutela si agisce in giudizio.
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/annullamento-regionale-del-permesso-di-costruire-ex-art-39-t-u-edilizia-n-327-del-2001
Annullamento regionale del permesso di costruire ex art. 39, t.u. edilizia n. 327 del 2001
N. 00325/2020REG.PROV.COLL. N. 00808/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 808 del 2019, proposto dai signori Maria Licitra, Marco Garaffa, Giorgio Salinitro, Piero Salinitro, Salvatore Salinitro, Cristina Baracco, Mohsen Hamzehian, Maria Stella Fantuzzi, Cecilia Pantaleone, Paolo Infantino, Il Portico Costruzioni di Infantino Paolo & C, rappresentati e difesi dall’avvocato Carlo Comande', dall’avvocato Sebastiano Sallemi, dall’avvocato Alessandra Leonardi e dall’avvocato Andrea Ciulla, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Carlo Comande in Palermo, via Caltanissetta 2/D; contro Regione siciliana - Assessorato territorio e ambiente, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata per legge presso la sede distrettuale in Palermo via Villareale n. 6; Comune di Ragusa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Sergio Boncoraglio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Terza) n. 268/2019, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione siciliana - Assessorato territorio e ambiente e del Comune di Ragusa; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 febbraio 2020 il Cons. Antonino Caleca e uditi per le parti l’avvocato Sebastiano Sallemi, l’avvocato Andrea Ciulla, l’avvocato Sergio Boncoraglio e l'avvocato dello Stato Maria Gabriella Quiligotti; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Gli odierni appellanti si rivolgevano al Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, con due distinti ricorsi per chiedere l’annullamento, quanto al ricorso n. 1014 del 2015, dei seguenti atti: - decreto del Dirigente generale dell’Assessorato intimato n. 5 del 23 gennaio 2015, con il quale sono state annullate la concessione edilizia n. 132/2007 rilasciata dal Comune di Ragusa il 15.11.2007, la prima variante alla stessa, n. 285/2008, e la DIA n. 77/2010, tutte rilasciate alla ditta Licitra Maria e alla società Il Portico costruzioni s.a.s. di Infantino Paolo; - voto n. 211 del 3 dicembre 2014 del CRU e parere n. 12/2014 del Dipartimento urbanistica Servizio 4, Unità operativa 4.3 dell’Assessorato territorio ed ambiente; quanto al ricorso n. 734 del 2017 e successivi motivi aggiunti, dei seguenti atti: - provvedimento ex art. 30, comma 7, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 emesso dal Dirigente del settore XI del Comune di Ragusa, notificato il 20 febbraio 2017; - ordinanza n. 27 del 13 settembre 2017, successivamente notificata, con la quale è stata disposta l'acquisizione gratuita al patrimonio disponibile del Comune di Ragusa del compendio immobiliare degli odierni ricorrenti, sito in Ragusa contrada Buttarella, nonché ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale. 1.1. I fatti che avevano indotto i ricorrenti ad adire il competente giudice amministrativo possono essere riassunti brevemente nei seguenti termini. Il Comune di Ragusa aveva rilasciato a due degli odierni ricorrenti, signora Licitra Maria e società “Il Portico” di Infantino Paolo & C. s.a.s., la concessione edilizia n. 132/2007 del 15.11.2007 per la realizzazione, in zona omogenea “E” (verde agricolo) del P.R.G. vigente, approvato con D.D. dell’A.R.T.A. n. 120/2006, di due corpi di fabbrica, con quattro unità edilizie, di cui gli altri ricorrenti sono comproprietari o usufruttuari. In data 21.11.2008 la società Portico, divenuto proprietario degli immobili suddetti, chiedeva ed otteneva dal Comune di Ragusa il rilascio della concessione edilizia in sanatoria ex art. 13 l. n. 47/1985 n. 285/2008, contenente la prima variante al progetto assentito con concessione edilizia n. 132/2007. In forza dei predetti titoli edilizi, quindi, la società il Portico realizzava quattro unità immobiliari comprese nei due corpi di fabbrica oggetto della concessione edilizia rilasciata. Gli immobili venivano interamente ultimati ed adibiti ad abitazioni che la società il Portico trasferiva agli odierni appellanti, oggi legittimi proprietari di ognuno degli stessi. Alle medesime opere era riconducibile la DIA n. 77 del 2010. Le opere, quindi, risultavano assentite da tre titoli edilizi: la concessione del 2007, la concessione edilizia in sanatoria del 2008 e la DIA del 2010. A seguito di sollecitazioni da parte anche di associazioni ambientaliste e dopo la prescritta fase istruttoria la Regione siciliana, con decreto del Dirigente generale dell’A.R.T.A. n. 5 del 23 gennaio 2015, ai sensi dell’art. 53 l.r. n. 71/1978, statuiva l’annullamento “della concessione edilizia n. 132/07 del 15/11/2007, e della prima variante alla stessa n. 285/08 del 20/11/2008 e la DIA n. 77/10 dei 24/3/2010, rilasciata dal Comune di Ragusa alla Ditta Licitra Maria e società II Portico costruzioni Sas di Infantino Paolo e C...”. L’annullamento veniva disposto: 1) perché la realizzazione di quattro unità abitative (poi diventate sei a seguito di una variante) si poneva in contrasto con la previsione contenuta nelle N.T.A. del P.R.G. del Comune di Ragusa, secondo cui la destinazione residenziale nelle zone agricole era limitata a quella connessa “al servizio del fondo”; 2) perché il sottotetto, essendo abitabile, implicava il superamento dell’indice di densità fondiaria dello 0,03 mc/mq., stabilito dal P.R.G. comunale; 3) perché la realizzazione plurima di unità edilizie abitative in zona agricola si configurava come lottizzazione abusiva. 2. Il decreto del Dirigente generale dell’A.R.T.A. n. 5 del 23 gennaio 2015 veniva avanti il TAR Catania con ricorso iscritto al n. di R.G. 1014/2015. 3. In pendenza del citato ricorso il Comune di Ragusa avviava il procedimento di “emissione dei provvedimenti sanzionatori previsti dall'art. 30 del d.P.R. 380/2001, recepito dinamicamente dall’art. 1 della l.r. n. 16/2016, per il compendio immobiliare sito a Ragusa in C/da Buttarella censito in catasto al foglio 229 particella 180 {particella originaria) frazionata in 4 particelle 261, 262, 263, c 264 (quest’ultima individuabile quale strada di accesso), nonché il mutamento della particella 263 in 267 e della 262 in 265, quest’ultima ulteriormente frazionata in 5 lotti subalterni”. Il Comune di Ragusa, quindi, definiva il frazionamento di unità operato dagli appellanti come “lottizzazione abusiva” ex art. 18 l. n. 47/1985 “…in quanto il progetto autorizzato ha comportato la trasformazione urbanistica dell'area, stante il frazionamento e la vendita del terreno in lotti che, per caratteristiche dimensionali e destinazioni d'uso, denunciano in maniera inequivocabile lo scopo edificatorio di tipo negoziale…”. 4. Avverso tale provvedimento, gli odierni appellanti, proponevano innanzi al Tribunale Amministrativo per la Sicilia, sezione di Catania, un secondo ricorso, iscritto al n. 734/2017, con il quale eccepivano la falsa applicazione delle disposizioni di cui all’art. 30 d.P.R. n. 380/2001, nonché la illegittimità derivata dei provvedimenti adottati in relazione a quanto eccepito con il ricorso iscritto al n. 1014/2015. 5. Con ulteriore provvedimento n. 27 del 13 settembre 2017 il Comune di Ragusa disponeva la acquisizione gratuita al patrimonio disponibile dell’Ente delle unità immobiliari di proprietà degli appellanti nonché lo sgombero degli stessi e la immissione dell’Ente nel possesso. 6. Anche tale provvedimento veniva impugnato innanzi il Tribunale Amministrativo per la Sicilia, sezione di Catania, con ricorso per motivi aggiunti al ricorso n. 734/2017 notificato il 17 ottobre 2017. 7. Con ordinanza n. 803 del 22/23 novembre 2017 il Tribunale Amministrativo per la Sicilia, sezione di Catania disponeva la sospensione del provvedimento impugnato relativamente all’atto di acquisizione al patrimonio comunale. 8. All’esito dell’udienza pubblica, tuttavia, con sentenza n. 268/2019, il Tar adito, previa riunione dei due giudizi suddetti, li rigettava. 9. Avverso la detta sentenza si proporne ora appello ritenendo che la stessa meriti di essere annullata o riformata per i seguenti motivi, di cui i primi tre attengono al ricorso r.g. 1014/2015 (proposto contro gli atti della Regione Sicilia) e gli altri quattro al ricorso r.g. 734/2017 (proposto contro gli atti del Comune di Ragusa): - con riferimento al ricorso r.g. 1014/2015: 1) mancato accoglimento del motivo legato all’insussistenza dei presupposti per l’autotutela stante il lungo lasso di tempo trascorso e la mancata comparazione tra l’interesse pubblico e quello privato; 2) mancato accoglimento del motivo relativo alla inesistenza, nel merito, dei presupposti per l’annullamento avuto riguardo alla corretta interpretazione dell’art. 48 delle n.t.a. del p.r.g. del Comune di Ragusa; 3) mancato accoglimento del motivo relativo alla inesistenza, nel merito, dei presupposti per l’annullamento avuto riguardo alla non configurabilità del contestato fenomeno lottizzatorio; - con riferimento al ricorso r.g. 734/2017: 4) mancato accoglimento del motivo relativo alla mancata autonoma valutazione del Comune in merito alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 30 d.P.R. n. 380/2001; 5) mancato accoglimento del motivo relativo all’errata attivazione dei rimedi sanzionatori da parte del Comune; 13 6) mancato accoglimento del motivo relativo all’illegittimità derivata dei provvedimenti del Comune di Ragusa adottati in ragione di quanto disposto dall’Assessorato regionale territorio e ambiente con il decreto n. 5/2015; 7) mancato accoglimento della domanda risarcitoria. 10. Le parti hanno ritualmente depositato memorie e memorie di replica ed il ricorso in data 7 febbraio 2020 veniva assunto in decisione. Nella camera di consiglio del 7 febbraio 2020 successiva alla pubblica udienza, il Collegio, ai sensi dell’art. 75 comma 2 c.p.a., ha differito la decisione alla successiva camera di consiglio del 20 maggio 2020 per approfondimenti su questioni di diritto su cui si registrano oscillazioni della giurisprudenza; infine la causa è stata decisa nella camera di consiglio del 20 maggio 2020 con i magistrati riuniti in videoconferenza ai sensi dell’art. 84 d.l. n. 18/2020. 11. Ritiene il Collegio che debbano essere scrutinati tutti i motivi dedotti a sostegno del gravame in mancanza di una specifica graduazione degli stessi ed ai fini anche degli effetti conformativi propri della decisione del giudice amministrativo. 12. Infondati devono ritenersi il secondo ed il terzo dei motivi, riferiti al ricorso r.g. 1014/2015, ed il quarto, quinto e settimo, riferiti al ricorso r.g. 734/2017. Fondati devono ritenersi il primo motivo, in parte, (r.g. 1014/2015) ed il sesto motivo (r.g. 734/2017). 13. Ragioni di sistematicità e completezza impongono di scrutinare preliminarmente i motivi che non si ritengono fondati. 14. Con il secondo motivo si contesta il merito del provvedimento impugnato, il decreto dirigenziale dell’A.R.T.A n. 5 del 232 gennaio 2015, sostenendo come lo stesso non appaia rispettoso di quanto previsto dall’art. n. 48 delle n.t.a. del piano regolatore generale del Comune di Ragusa. Si tratta del rilievo principale mosso dagli odierni appellanti. A detta di parte appellante proprio l’art. 48 delle n.t.a. del piano consentirebbe la possibilità di edificare nelle zone oggetto del presente procedimento anche a prescindere dalla finalità agricola. Sotto il titolo “art. 48-Agricolo-produttivo con muri a secco In particolare, si legge che: “Sono così definite le aree agricole destinate alla conservazione e/o all’incremento delle coltivazioni agricole. In tali aree acquistano rilevanza storica e paesaggistica i muri a secco che vanno mantenuti e preservati dal degrado. Sono ammessi le attività e gli usi connessi con l’esecuzione dell’agricoltura compresa la residenza a servizio del fondo, nonché l’agriturismo e quelle previste dall’art. 22 della l.r. 71/78 e successive modifiche… Per gli insediamenti produttivi ex art. 22 della l.r. n. 71/78, vanno osservate le condizioni di cui all’art. 6, comma 2 della legge regionale 17/1994. È consentita la destinazione abitativa nelle zone agricole con l’indice di fabbricabilità fondiaria pari a mc/mq 0,03 in conformità al d.m. 2.4.1968 n. 1444 (art. 7).” Si tratta di stabilire se l’ultimo comma debba essere letto come autonoma previsione che consenta un’edificabilità diversa da quella prevista dal secondo comma o si tratti solo di una specificazione di quanto previsto proprio dal quel comma. Nell’interpretazione delle norme prevalenza deve darsi ai criteri che tengano conto dei principi generali che regolano complessivamente la specifica materia dell’odierna fattispecie a partire dall’art. 22 l.r. n. 71/1978. Ebbene la scelta operata dal piano regolatore generale è quella di individuare la zona oggetto del presente procedimento come zona a vocazione agricola. La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato il principio secondo cui l'attività agricola assolve alla funzione di difesa del territorio sotto il profilo idrogeologico, paesaggistico, ambientale e produttivo e che, pertanto, le norme contenute negli strumenti urbanistici comunali che ammettono la limitata possibilità di realizzare interventi edilizi in aree rurali devono essere interpretate nel senso che deve essere salvaguardata la tutela del territorio agricolo e la sua utilizzazione. (Cons. St., sez. IV, 4 ottobre 2011 n. 5442; sez. IV 18 marzo 2010 n. 1624; sez. IV, 27 luglio 2012 n. 4294). Ne discende che in un'area agricola non sono ammesse strutture che pregiudichino definitivamente la destinazione naturale del territorio o che alterino irreversibilmente lo stato dei luoghi. Sulla base di tale criterio esegetico, l’ultimo comma dell’art. 48 delle n.t.a. del p.r.g. costituisce una specificazione ed una ulteriore limitazione di quanto previsto dal secondo comma: non solo le edificazioni devono essere servili rispetto al fine agricolo, ma le dimensioni delle stesse devono rispettare quanto previsto dal terzo comma. L’interpretazione alternativa finirebbe di privare di senso l’intero articolo perché si perverrebbe alla conclusione di vincolare una zona del territorio alla finalità agricola e contemporaneamente si consentirebbe una edificazione che nulla ha a che fare con l’agricoltura. L’assunto non appare logico. Rileva, poi, condivisibilmente la difesa del Comune appellato: “Un’ulteriore conferma della interpretazione secondo cui il terzo comma è una specificazione dei primi due commi si trova anche nel 5° comma dell’art. 48 delle N.T.A., che è così rubricato: “Modalità di intervento, indici e parametri delle costruzioni “. Tale comma, dopo aver affermato che, nelle zone agricole, il P.R.G. si applica per intervento edilizio diretto nel rispetto di determinati indici, distingue due tipi di intervento edilizio: 1) quello per le abitazioni a servizio del fondo (per i quali vale l’indice dell’0,03 mc/mq.) e 2) quello per i fabbricati a servizio dell’agricoltura (per i quali valgono indici diversi). Ciò significa che non vi è spazio per interventi edilizi di tipo diverso e che l’interpretazione secondo cui nella zona agricola si potrebbero realizzare abitazioni con il solo limite del rispetto dell’indice di fabbricabilità fondiaria pari a mc/mq. 0.03 sarebbe in contrasto con le NTA e con la legge regionale n. 71/1978.” Tenuto conto di quanto affermato è l’intera costruzione a doversi ritenere illegittimamente edificata non potendosi accedere alla richiesta subordinata di considerare viziata solo la DIA n. 77/2010 relativa al recupero a fini abitativi dei sottotetti. 15. Con il terzo motivo si contesta la ricorrenza del “fenomeno lottizzatorio” abusivo in quanto ”l’intervento assentito ed eseguito dagli odierni appellanti è stato realizzato come un complesso abitativo formato da un unico lotto composto da più corpi di fabbrica, ove le opere realizzate sono tutte all'interno del lotto stesso in attuazione del titolo edilizio rilasciato senza che sia intervenuta alcuna lottizzazione.” Va rilevato, invece, che contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, nella fattispecie di causa si è avuto frazionamento e vendita del terreno in lotti, atteso che l’originaria particella 180 è stata frazionata nelle particelle 261, 262, 263 e 264 e le particelle 262 e 264 con i relativi fabbricati sono stati venduti ad altra ditta, come risulta, senza contestazioni della parte ricorrente, dal rapporto ispettivo n. 27442 del 23.12.2013 del Servizio 5 - Vigilanza urbanistica del Dipartimento urbanistica dell’A.R.T.A. Anche in tale caso è necessario tenere conto dei principi che guidano l’attività esegetica nel ritenere sussistente sia la lottizzazione materiale che quella cartolare con precisione individuati dal giudice di primo grado. Nella fattispecie, ci si trova di fronte a un frazionamento e vendita di terreni in lotti (cd. “lottizzazione negoziale”). Indici sufficienti per ritenere provata la volontà e la condotta lottizzatoria sono: - frazionamento e vendita della particella originaria; - frazionamento delle unità abitative; - edificazione residenziale e stradella interna). 16. Riguardo al quarto motivo di appello (mancato accoglimento del motivo relativo alla mancata autonoma valutazione del Comune in merito alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 30 d.P.R. n. 380/2001) si osserva che ai sensi dell’art. 54 l.r. n. 71/1978, intervenuto il decreto assessoriale di annullamento, residua in capo all’ente locale un’attività vincolata che non necessita di ulteriore istruzione o di nuova ponderazione di interessi. Il Comune di Ragusa non doveva compiere alcuna istruttoria per stabilire se l’intervento fosse soggetto alla preventiva autorizzazione di un piano di lottizzazione, ma aveva l’obbligo di adottare tutti i provvedimenti consequenziali all’annullamento dei predetti titoli edilizi. 17. Anche il quinto motivo non merita accoglimento. L’ipotesi di annullamento del titolo edilizio da parte della Regione non è disciplinata dall’art. 38 d.P.R. n. 380/2001, ma dai successivi artt. 39 e 40 ed il citato art. 39, comma 4, nel contemplare la demolizione delle opere eseguite in base al titolo annullato, rinvia implicitamente alle previsioni di cui al precedente art. 31, con conseguente legittimità dell’ordine di sgombero degli immobili e della immissione in possesso degli stessi. 18. Tenuto conto di quanto delibato in merito ai precedenti motivi non merita accoglimento la richiesta risarcitoria di cui al settimo motivo. 19. E’ parzialmente fondato il primo motivo. 19.1. Con il primo motivo si lamenta la mancata applicazione delle regole che governano il potere di autotutela dell’Amministrazione, contenute nell’art. 21-novies l. n. 241/1990, con riferimento sia alla ragionevolezza del lasso temporale entro cui deve essere esercitato, sia con riferimento alla necessità che lo stesso sia assistito da una congrua motivazione che dia conto del persistere di un rilevante interesse pubblico al ritiro dell’atto viziato. 19.2. Torna all’attenzione del Collegio una tematica già in precedenza delibata che merita di essere ulteriormente approfondita. Il tema può così essere sintetizzato: se il potere ex art. 39 t.u. edilizia n. 327/2001 (annullamento regionale dei permessi di costruire entro 10 anni dal rilascio del titolo ed entro 18 mesi dalla notizia della violazione) sia o meno riconducibile al paradigma dell’autotutela dell’art. 21-novies l. n. 241/1990 sia con riferimento ai tempi di decadenza per il suo esercizio sia con riferimento alla congruità della motivazione. 19.3. Il potere di controllo da parte della Regione gode di un’autonoma disciplina che ne prevede i tempi ed i necessari passaggi procedimentali. La l.r. siciliana n. 71 del 27 dicembre 1978, in conformità alla norma nazionale, all’art. 53 disciplina l’annullamento dei provvedimenti comunali. Si tratta di un procedimento di “secondo grado” sul governo del territorio siciliano per evitare che gli enti locali adottino provvedimenti in materia urbanistica-edilizia che violino sia le scelte amministrative di ordine generale assunte dalla Regione sia gli atti generali degli stessi enti locali. Il provvedimento dell’Assessore regionale per il territorio e l’ambiente è emesso “su parere del consiglio regionale dell’urbanistica”. Il parere si pone come atto propedeutico e costituente parte integrante del provvedimento assessoriale. 19.4. Al Collegio è nota la disputa sulla natura giuridica del potere regionale di cui all’art. 39 t.u. n. 327/2001: se si tratti di un potere di autotutela ovvero di un potere di vigilanza-controllo, con le implicazioni che ne seguono in ordine al coordinamento di tale potere con il paradigma generale dell’autotutela amministrativa ex art. 21-novies l. n. 241/1990. 19.5. Il Collegio ritiene che il potere di annullamento regionale sia una autotutela speciale, riconducibile al paradigma dell’art. 21-novies l. n. 241/1990, salva la specialità dei termini di esercizio, che sono di perdurante vigenza. Che si tratti di un potere di autotutela è desumibile dai seguenti rilievi: - l’annullamento dell’atto non è “dovuto” in presenza della riscontrata illegittimità. L’art. 39 t.u. edilizia configura il potere di annullamento regionale come un potere discrezionale, utilizzando l’espressione “possono essere annullati”; - l’annullamento non è un atto “coercibile” da parte del privato o da altro organo dell’Amministrazione. Si tratta dunque di un potere di amministrazione attiva, di secondo grado, coerente con l’art. 21-novies l. n. 241/1990 secondo cui il potere di annullamento dell’atto amministrativo illegittimo può essere esercitato, oltre che dall’Amministrazione che ha autorato il provvedimento, da altro organo previsto dalla legge. 19.6. Ma anche a voler accedere alla tesi secondo cui il potere regionale è un potere di vigilanza e controllo, questo non giustifica senz’altro la sua sottrazione all’ambito di applicazione dell’art. 21-novies l. n. 241/1990; infatti tale norma non reca una delimitazione dell’annullamento di ufficio all’ambito della c.d. autotutela, e fa riferimento a tutti i casi in cui l’annullamento possa essere disposto dalla stessa Amministrazione autrice dell’atto o da “altro organo previsto dalla legge”. E’ da ritenere quindi che l’art. 21-novies l. n. 241/1990 si debba applicare a tutti i casi in cui la legge attribuisca ad un organo di amministrazione attiva il potere di annullamento di atti amministrativi, a prescindere dalla qualificazione della natura del potere esercitato (amministrazione attiva, vigilanza-controllo); la previsione non si applica invece nei casi di controllo affidato alla Corte dei conti o all’annullamento giurisdizionale. 19.7. Quanto, tuttavia, ai termini per l’esercizio del potere, l’art. 39 t.u. n. 327/2001 si pone in rapporto di specialità rispetto all’art. 21-novies l. n. 241/1990, ad esso sopravvenuto, e pertanto di prevalenza: non risulta espressamente abrogato; né sussistono i presupposti esegetici per ravvisare una abrogazione tacita, posto che la legge generale successiva non può abrogare tacitamente la legge speciale anteriore. 19.8. Sicché sono da disattendere le censure di parte appellante in ordine alla violazione del termine ragionevole per l’esercizio dell’autotutela: in quanto l’annullamento regionale risulta disposto nel rispetto dei diversi termini fissati dall’art. 39 t.u. n. 327/2001, la cui vigenza è sopravvissuta allo us superveniens costituito dall’art. 21-novies l. n. 241/1990. 19.9. Sono invece fondate, come si va ad esporre, le censure relative al difetto di motivazione, per mancata valutazione comparativa dell’interesse pubblico e privato e mancata enunciazione dell’interesse pubblico concreto e attuale all’annullamento. Invero, il carattere discrezionale dell’annullamento regionale, in una con la sua riconduzione al paradigma dell’art. 21-novies l. n. 241/1990, inducono a ritenere che al fine dell’annullamento non sia sufficiente la sussistenza di una illegittimità dell’atto e il mero interesse pubblico al ripristino della legalità violata. Occorre invece che sia stata commessa una grave violazione urbanistico edilizia e che vi sia un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata, da compararsi con l’affidamento dl 19.10. Questo CGARS ha avuto modo di precisare con il parere numero 67/2017 che “Il tenore dell’art. 53 l.r. n. 71/1978, secondo cui gli atti comunali illegittimi “possono essere annullati” dalla Regione esclude qualsiasi obbligatorietà ed automaticità del provvedimento regionale di annullamento, che deve, invece, recare una congrua motivazione sull’interesse pubblico a procedere.” E sempre nel medesimo parere si è precisato che “Per giurisprudenza concorde, espressasi prevalentemente con riferimento all’art. 21-novies l. n. 241/1990, la motivazione di un atto di annullamento d’ufficio di un titolo edilizio non può limitarsi al mero richiamo alla legalità. Sotto questo profilo l’annullamento regionale non si differenzia sensibilmente dall’annullamento operato in autotutela dal Comune (cfr. C.G.A., sez. riun., parere 383/03 del 12/3/2004, secondo cui “l'opera di comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti (la cui necessità non è, peraltro, esplicitamente esclusa nemmeno dall'orientamento giurisprudenziale più rigoroso, che pure intravvede un interesse pubblico in re ipsa) debba essere espletata con perspicuo rigore, dandone conto con adeguata motivazione, ed escludendo meccanismi presuntivi sia con riferimento alla sussistenza dell'interesse pubblico all'annullamento, che, non da ultimo, con riguardo all'eventuale affidamento del privati").” 19.11. Anche il Consiglio di Stato, sez. VI, con la sentenza n. n. 4822 del 2018, ha statuito che “Seppure la norma del t.u. edilizia che attribuisce alla Regioni il potere di annullamento straordinario dei titoli edilizi illegittimi non presenta il grado di puntualità, con riferimento ai presupposti che debbono sussistere per l’esercizio corretto del relativo potere, che si riscontra nella lettura della disposizione dell’art. 21-novies l. 241/1990, che contiene i principi generali in materia di atti amministrativi di ritiro di precedenti provvedimenti, appare inevitabile affermare che, comunque, tali prescrizioni debbono essere osservate anche in caso di esercizio del potere di annullamento straordinario dei titoli edilizi, ex art. 39 d.P.R. n. 380/2001, per effetto di una doverosa lettura costituzionalmente orientata della relativa disposizione e quindi rispettosa del principio generale di cui all’art. 97 Cost..” Ed ancora nella stessa motivazione: “l'eccezionalità del potere in questione non può che essere inteso, in conformità ai canoni costituzionali di cui all'art. 97 Cost. e di ragionevolezza, sulla scorta dei medesimi presupposti che disciplinano l'autotutela della pubblica amministrazione titolare del potere ordinario: sia in termini di interesse pubblico specifico, sia di doverosa valutazione degli interessi e degli eventuali affidamenti, con conseguente necessaria valutazione della situazione di fatto che si viene ad incidere in via straordinaria”. 19.12. E’ solo mediante un’articolata e completa motivazione che il provvedimento rispetta i requisiti della legittimità. La motivazione deve essere tanto più congrua quanto più giustificato è il legittimo affidamento dei privati nella stabilità di provvedimenti amministrativi anche in materia di titolo edilizi. La stabilità dei provvedimenti amministrativi costituisce un valore che acquista una rilevanza sempre maggiore in un sistema che vuole l’agere della Pubblica Amministrazione ispirato al principio di correttezza e buon andamento di matrice costituzionale. Il principio costituzionale dell’art. 97 Cost. fissa un limite al potere discrezionale autoritativo di ritiro. Tale limite trova fondamento anche nell’art. 3 Cost., su cui si fonda il principio di ragionevolezza e proporzionalità dell’agire pubblico. Non si tratta di una preclusione del potere ma di un limite all’esercizio del medesimo, di tipo motivazionale e procedurale che si collega al principio di correttezza, ragionevolezza, proporzionalità, in quanto vieta l’uso scorretto, irragionevole, sproporzionato, del potere pubblico. Tanto maggiore è l’affidamento dei privati tanto più esaustiva deve essere la motivazione da cui possa desumersi la sussistenza del pubblico interesse che non sia il mero richiamo alla violazione delle regole urbanistiche e l’avvenuta ponderazione e comparazione con i contrastanti interessi di cui sono portatori gli stessi. L’obbligo di motivazione è ancora più stringente quando le primigenie scelte che hanno ampliato la sfera giuridica dei privati non sono frutto di comportamenti fraudolenti da parte degli stessi ma maturano in un rapporto con la pubblica amministrazione caratterizzato, apparentemente, dalla reciproca buona fede. 19.13. L’assenza di comportamenti fraudolenti, nel caso di specie, deve essere desunta da quanto ricostruito nella nota redatta dal Comune di Ragusa prot. n. 27761 dell’8 aprile 2013 inviata all’Assessorato regionale territorio ed ambiente ed alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Ragusa. 19.14. La motivazione del principale provvedimento impugnato con il primo ricorso introduttivo del procedimento di primo grado non raggiunge l’indispensabile livello di sufficienza per poterlo considerare legittimo non consentendo di ricostruire l’iter argomentativo che dia conto della ponderazione dei contrapposti interessi in gioco. 20. Conseguentemente deve ritenersi fondato anche il sesto motivo, illegittimità derivata dei provvedimenti adottati dal Comune, in quanto adottati, essenzialmente, in ragione di quanto disposto dall’Assessorato Regionale Territorio e Ambiente con il decreto n. 5/2015. 21. In accoglimento dei motivi primo e sesto, pertanto, l’appello deve essere parzialmente accolto ed in riforma della sentenza di primo grado i provvedimenti impugnati devono essere annullati. 22. Vista la complessità delle questioni affrontate le spese del doppio di giudizio possono essere compensate tra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, annulla i provvedimenti impugnati nei sensi e limiti di cui in motivazione. Spese del doppio grado di giudizio compensate tra le parti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Palermo nelle camere di consiglio dei giorni 7 febbraio 2020 e del 20 maggio 2020, quest’ultima tenuta da remoto in videoconferenza, con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis, Presidente Silvia La Guardia, Consigliere Sara Raffaella Molinaro, Consigliere Elisa Maria Antonia Nuara, Consigliere Antonino Caleca, Consigliere, Estensore Rosanna De Nictolis, Presidente Silvia La Guardia, Consigliere Sara Raffaella Molinaro, Consigliere Elisa Maria Antonia Nuara, Consigliere Antonino Caleca, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Edilizia – Permesso di costruire – Annullamento regionale - Art. 39, t.u. edilizia n. 327 del 2001 – Natura.   Edilizia – Permesso di costruire – Annullamento regionale - Art. 39, t.u. edilizia n. 327 del 2001 – Motivazione – Necessità.            Il potere di annullamento regionale del permesso di costruire, disposto ai sensi ex art. 39, t.u. edilizia n. 327 del 2001, è una autotutela speciale, riconducibile al paradigma dell’art. 21-novies l. n. 241 del 1990, salva la specialità dei termini di esercizio, che sono di perdurante vigenza (1).            Al fine dell’annullamento, da parte della regione, del permesso di costruire, disposto ai sensi ex art. 39, t.u. edilizia n. 327 del 2001, non è sufficiente la sussistenza di una illegittimità dell’atto e il mero interesse pubblico al ripristino della legalità violata, ma occorre invece che sia stata commessa una grave violazione urbanistico edilizia e che vi sia un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata, da compararsi con l’affidamento dl   (1) Il Collegio ritiene che il potere di annullamento regionale sia una autotutela speciale, riconducibile al paradigma dell’art. 21-novies l. n. 241 del 1990, salva la specialità dei termini di esercizio, che sono di perdurante vigenza. Ad avviso del C.g.a. che si tratti di un potere di autotutela è desumibile dai seguenti rilievi: - l’annullamento dell’atto non è “dovuto” in presenza della riscontrata illegittimità. L’art. 39 t.u. edilizia configura il potere di annullamento regionale come un potere discrezionale, utilizzando l’espressione “possono essere annullati”; - l’annullamento non è un atto “coercibile” da parte del privato o da altro organo dell’Amministrazione. Si tratta dunque di un potere di amministrazione attiva, di secondo grado, coerente con l’art. 21-novies, l. n. 241 del 1990 secondo cui il potere di annullamento dell’atto amministrativo illegittimo può essere esercitato, oltre che dall’Amministrazione che ha autorato il provvedimento, da altro organo previsto dalla legge. Ma anche a voler accedere alla tesi secondo cui il potere regionale è un potere di vigilanza e controllo, questo non giustifica senz’altro la sua sottrazione all’ambito di applicazione dell’art. 21-novies, l. n. 241 del 1990; infatti tale norma non reca una delimitazione dell’annullamento di ufficio all’ambito della c.d. autotutela, e fa riferimento a tutti i casi in cui l’annullamento possa essere disposto dalla stessa Amministrazione autrice dell’atto o da “altro organo previsto dalla legge”. E’ da ritenere quindi che l’art. 21-novies, l. n. 241 del 1990 si debba applicare a tutti i casi in cui la legge attribuisca ad un organo di amministrazione attiva il potere di annullamento di atti amministrativi, a prescindere dalla qualificazione della natura del potere esercitato (amministrazione attiva, vigilanza-controllo); la previsione non si applica invece nei casi di controllo affidato alla Corte dei conti o all’annullamento giurisdizionale. Quanto, tuttavia, ai termini per l’esercizio del potere, l’art. 39 t.u. n. 327 del 2001 si pone in rapporto di specialità rispetto all’art. 21-novies, l. n. 241 del 1990, ad esso sopravvenuto, e pertanto di prevalenza: non risulta espressamente abrogato; né sussistono i presupposti esegetici per ravvisare una abrogazione tacita, posto che la legge generale successiva non può abrogare tacitamente la legge speciale anteriore.   (2) Il C.g.a. ha avuto modo di precisare, con il parere numero 67 del 2017, che “Il tenore dell’art. 53 l.r. n. 71/1978, secondo cui gli atti comunali illegittimi “possono essere annullati” dalla Regione esclude qualsiasi obbligatorietà ed automaticità del provvedimento regionale di annullamento, che deve, invece, recare una congrua motivazione sull’interesse pubblico a procedere.” E sempre nel medesimo parere si è precisato che “Per giurisprudenza concorde, espressasi prevalentemente con riferimento all’art. 21-novies l. n. 241/1990, la motivazione di un atto di annullamento d’ufficio di un titolo edilizio non può limitarsi al mero richiamo alla legalità. Sotto questo profilo l’annullamento regionale non si differenzia sensibilmente dall’annullamento operato in autotutela dal Comune (cfr. C.G.A., sez. riun., parere 383/03 del 12 marzo 2004, secondo cui “l'opera di comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti (la cui necessità non è, peraltro, esplicitamente esclusa nemmeno dall'orientamento giurisprudenziale più rigoroso, che pure intravvede un interesse pubblico in re ipsa) debba essere espletata con perspicuo rigore, dandone conto con adeguata motivazione, ed escludendo meccanismi presuntivi sia con riferimento alla sussistenza dell'interesse pubblico all'annullamento, che, non da ultimo, con riguardo all'eventuale affidamento del privati").” Anche il Consiglio di Stato, sez. VI, con la sentenza n. 4822 del 2018, ha statuito che “Seppure la norma del t.u. edilizia che attribuisce alla Regioni il potere di annullamento straordinario dei titoli edilizi illegittimi non presenta il grado di puntualità, con riferimento ai presupposti che debbono sussistere per l’esercizio corretto del relativo potere, che si riscontra nella lettura della disposizione dell’art. 21-novies l. 241/1990, che contiene i principi generali in materia di atti amministrativi di ritiro di precedenti provvedimenti, appare inevitabile affermare che, comunque, tali prescrizioni debbono essere osservate anche in caso di esercizio del potere di annullamento straordinario dei titoli edilizi, ex art. 39 d.P.R. n. 380/2001, per effetto di una doverosa lettura costituzionalmente orientata della relativa disposizione e quindi rispettosa del principio generale di cui all’art. 97 Cost..” Ed ancora nella stessa motivazione: “l'eccezionalità del potere in questione non può che essere inteso, in conformità ai canoni costituzionali di cui all'art. 97 Cost. e di ragionevolezza, sulla scorta dei medesimi presupposti che disciplinano l'autotutela della pubblica amministrazione titolare del potere ordinario: sia in termini di interesse pubblico specifico, sia di doverosa valutazione degli interessi e degli eventuali affidamenti, con conseguente necessaria valutazione della situazione di fatto che si viene ad incidere in via straordinaria”. E’ solo mediante un’articolata e completa motivazione che il provvedimento rispetta i requisiti della legittimità. La motivazione deve essere tanto più congrua quanto più giustificato è il legittimo affidamento dei privati nella stabilità di provvedimenti amministrativi anche in materia di titolo edilizi. La stabilità dei provvedimenti amministrativi costituisce un valore che acquista una rilevanza sempre maggiore in un sistema che vuole l’agere della Pubblica Amministrazione ispirato al principio di correttezza e buon andamento di matrice costituzionale. Il principio costituzionale dell’art. 97 Cost. fissa un limite al potere discrezionale autoritativo di ritiro. Tale limite trova fondamento anche nell’art. 3 Cost., su cui si fonda il principio di ragionevolezza e proporzionalità dell’agire pubblico. Non si tratta di una preclusione del potere ma di un limite all’esercizio del medesimo, di tipo motivazionale e procedurale che si collega al principio di correttezza, ragionevolezza, proporzionalità, in quanto vieta l’uso scorretto, irragionevole, sproporzionato, del potere pubblico. Tanto maggiore è l’affidamento dei privati tanto più esaustiva deve essere la motivazione da cui possa desumersi la sussistenza del pubblico interesse che non sia il mero richiamo alla violazione delle regole urbanistiche e l’avvenuta ponderazione e comparazione con i contrastanti interessi di cui sono portatori gli stessi. L’obbligo di motivazione è ancora più stringente quando le primigenie scelte che hanno ampliato la sfera giuridica dei privati non sono frutto di comportamenti fraudolenti da parte degli stessi ma maturano in un rapporto con la pubblica amministrazione caratterizzato, apparentemente, dalla reciproca buona fede.
Edilizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/ordinanza-del-responsabile-dell-unita-di-crisi-assessore-alla-sanita-della-regione-che-ha-introdotto-ulteriori-misure-per-la-prevenzione-e-gestione-de
Ordinanza del Responsabile dell’Unità di Crisi Assessore alla Sanità della Regione che ha introdotto ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell'emergenza epidemiologica
N. 04131/2020 REG.PROV.CAU. N. 03723/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 3723 del 2020, proposto da Cipe Lazio, Snami Lazio, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'avvocato Margherita De Luca, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Regione Lazio non costituito in giudizio; per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, dell’ordinanza Regione Lazio n. Z00009 del 17/03/2020 a firma del Responsabile Unità di Crisi Assessore alla Sanità dott. Alessio D’Amato e del Vice Presidente dott. Daniele Leodori, pubblicata in data 17/03/2020 nel Bollettino Ufficiale Regione Lazio e sul sito istituzionale della Giunta Regionale, con valore di notifica individuale a tutti gli effetti di legge, come dalla stessa ordinanza espressamente previsto, recante disposizioni volte al contenimento della diffusione del virus COVID 19 attraverso l’istituzione della App Laziodoctor, e della figura del Referente COVID. ogni atto antecedente, preparatorio,preordinato, presupposto e/o conseguente, anche infraprocedimentale, e comunque connesso: In particolare: - La Direttiva Delibera Giunta Regione Lazio prot. 0294221 del 08/04/2020 avente ad oggetto la istituzione delle Unità di Crisi per la gestione per l’emergenza epidemiologica da COVID-19, con il compito di intervenire in situazioni di emergenza, ed in particolare presso le strutture sociosanitarie e socioassistenziali in presenza di focolaio di contagio (doc.4); - La Determinazione n. G04569 del 20/04/2020 avente ad oggetto Approvazione del regolamento di funzionamento delle USCAR Lazio. - La coeva Determinazione n.G04586 del 20/04/2020 avente ad oggetto la Procedura speciale legata all’emergenza COVID-19 - Programma di potenziamento cure primarie – USCAR Lazio – approvazione elenchi – manifestazione di interesse medici e infermieri (doc.6) Riconoscendosi il diritto di parte ricorrente alla piena, completa e puntale attuazione del disposto normativo nazionale stabilito dall’ art. 8 del D.L. 14 del 9/03/2020, oggi trasfuso nell’art. 4 bis della L. 27 del 29/04/2020 mediante istituzione delle USCA - con le stesse modalità, funzioni attribuzioni e linee guida di intervento, previste nelle altre regioni di Italia. Con espressa riserva di parte ricorrente di agire entro i termini di prescrizione per il risarcimento del danno di cui all’art 30 c. p. a. Visti il ricorso e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm.; ritenuti insussistenti i profili di pregiudizio nelle more della delibazione collegiale; P.Q.M. Respinge. Fissa per la trattazione collegiale la camera di consiglio del 9 giugno 2020. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma il giorno 29 maggio 2020. IL SEGRETARIO
Covid-19 – Lazio – Ordinanza del Responsabile dell’Unità di Crisi Assessore alla Sanità della Regione Lazio - Ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell'emergenza epidemiologica – Non va sospesa.      Non deve essere sospesa in via monocratica l’ordinanza del Responsabile dell’Unità di Crisi Assessore alla Sanità della Regione Lazio che ha introdotto ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell'emergenza epidemiologica Covid-19.
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/giurisdizione-del-giudice-ordinario-sul-depennamento-dalle-graduatorie-di-istituto
Giurisdizione del giudice ordinario sul depennamento dalle graduatorie di istituto
N. 06230/2021REG.PROV.COLL. N. 05012/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm.sul ricorso numero di registro generale 5012 del 2021, proposto da Ministero dell'Istruzione, Ufficio Scolastico Regionale Friuli Venezia Giulia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; contro Cecilia Correcig, rappresentata e difesa dagli avvocati Domenico Dodaro, Serena Cianciullo, Pietro Mussato, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia (Sezione Prima) n. 00096/2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Cecilia Correcig; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 29 luglio 2021 il Cons. Giovanni Orsini. L’udienza si svolge ai sensi dell’art. 4, comma 1, del decreto legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, e dell’art. 25 del decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto dalla circolare del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa 13 marzo 2020, n. 6305. 1. Con la sentenza appellata indicata in epigrafe il Tar Friuli Venezia Giulia ha accolto il ricorso proposto dalla dottoressa Correcig per l’annullamento del provvedimento n. 000064 adottato dal Ministero dell’istruzione il 13 gennaio 2021 di esclusione dalle graduatorie provinciali e di istituto della provincia di Gorizia per il conferimento delle supplenze nel biennio 2020/2021 e 2021/2022 di cui all’ordinanza ministeriale n. 60 del 2020 per le classi di concorso A015 e A050 nelle scuole secondarie di secondo grado. La ricorrente in primo grado ha presentato domanda in modalità telematica in data 6 agosto 2020 per l’inserimento in seconda fascia delle graduatorie provinciali per le supplenze per le suddette classi di concorso dichiarando di possedere una laurea magistrale in biotecnologie mediche, veterinarie e farmaceutiche conseguita in data 14 aprile 2016 presso l’Università di Udine. Sulla base di tale dichiarazione la ricorrente è stata inserita nelle graduatorie con riserva di accertamento del possesso dei requisiti di ammissione come previsto dall’articolo 8 dell’ordinanza ministeriale n. 60. All’esito di tale accertamento è stato adottato il provvedimento impugnato che è motivato sulla non corrispondenza del piano di studi della dottoressa Correcig ai requisiti richiesti dai d.p.r. n. 19 del 2016 e n. 259 del 2017 per le classi di concorso di interesse, in particolare per il mancato possesso di un numero sufficiente di crediti nel settore scientifico disciplinare MED. Il Tar ha respinto preliminarmente l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal Ministero ritenendo precluso tale esame in un giudizio che, come quello di specie, è stato riassunto dopo declinatoria di competenza da considerarsi come implicito riconoscimento della giurisdizione. 2. L’appello ripropone l’eccezione di giurisdizione precisando che la statuizione del primo giudice sul punto sarebbe errata in quanto diversamente dai precedenti richiamati dal Tar la questione era stata proposta tempestivamente. Nel merito il Ministero rileva l’erroneità della sentenza di primo grado in relazione alla ritenuta violazione dell’articolo 10 bis della legge n. 241 del 1990, al reinserimento della candidata in entrambe le classi di concorso e all’interpretazione della normativa di settore. 3. L’appellata si è costituita in giudizio in data 9 giugno 2021 e ha depositato memoria il 20 luglio 2021 per chiedere la conferma della sentenza impugnata evidenziando, con riferimento alla eccezione sulla giurisdizione, il recente precedente di questa sezione (sentenza n. 2007 del 2021) nel quale è stata confermata la giurisdizione del giudice amministrativo nel contenzioso riguardante le graduatorie di circolo e d’istituto per le supplenze. 4. Nella camera di consiglio del 29 luglio 2021 la causa è stata trattenuta in decisione. 5. Deve essere preliminarmente esaminata l’eccezione di giurisdizione riproposta in appello con il primo motivo di gravame. La sentenza di primo grado non ha affrontato la questione, ritenendo che l’eccezione fosse inammissibile in quanto implicitamente già risolta in senso negativo dal Tar del Lazio. In questa sede, ai sensi dell’articolo 9 cpa, l’eccezione, essendo stata riproposta con specifico motivo di appello, è senz’altro ammissibile, non essendo dall’ordinanza che decide sulla competenza ricavabile alcun giudicato implicito sulla giurisdizione ( che non può ritenersi decisa all’esito della riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente ). 6. Il Ministero, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Cassazione (ordinanze nn. 8098/2020 e 17123/2019) afferma che le controversie inerenti il collocamento nelle graduatorie del comparto scolastico sono attribuite al giudice ordinario se, come nel caso di specie, il ricorso è diretto all’accertamento del diritto del singolo docente all’inserimento nella graduatoria e non all’annullamento dell’atto amministrativo generale o normativo che disciplina la materia; la formazione e la gestione delle graduatorie non darebbe luogo infatti ad una procedura concorsuale, ma al mero accertamento della sussistenza dei requisiti richiesti e gli atti adottati sarebbero privi di contenuto discrezionale. 7. L’appellata, nella memoria del 20 luglio 2021, afferma viceversa (citando in particolare la sentenza di questa sezione n. 2007 del 2021) che per le graduatorie di istituto la giurisdizione spetterebbe in ogni caso al giudice amministrativo dato che le relative procedure si configurerebbero come concorsuali per la presenza del bando iniziale, dei criteri di valutazione dei titoli, di una commissione incaricata di tale valutazione e della graduatoria finale. 8. L’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo è fondata. 8.1. La Corte di Cassazione ha chiarito (cfr. sentenza delle Sezioni Unite n. 21198/2017) che ai fini della individuazione di quale sia il giudice munito di giurisdizione in relazione alle controversie concernenti il diritto dei docenti della scuola all’inserimento in una graduatoria ad esaurimento occorre avere riguardo al petitum sostanziale dedotto in giudizio. Di conseguenza, se oggetto della domanda è la richiesta di annullamento dell’atto amministrativo e solo quale effetto della rimozione di tale atto l’accertamento del diritto del ricorrente all’inserimento nella graduatoria, la giurisdizione non potrà che essere devoluta al giudice amministrativo; se viceversa la domanda è volta specificamente all’accertamento del diritto del singolo docente all’inserimento nella graduatoria, ritenendo che tale diritto scaturisca direttamente dalla normazione primaria, la giurisprudenza va attribuita al giudice ordinario. La Corte di Cassazione ha ulteriormente precisato che nelle ipotesi delle graduatorie di istituto laddove “il ricorrente abbia chiesto l’annullamento del decreto di pubblicazione delle graduatorie medesime di seconda e di terza fascia… la giurisdizione non può che essere del giudice amministrativo, in quanto la domanda giudiziale riguarda direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo e quindi presuppone una posizione di interesse legittimo”. Diversamente dalla situazione riscontrata per le graduatorie ad esaurimento - per le quali si esclude sia lo svolgimento di attività autoritativa della pubblica amministrazione sia di procedure concorsuali che, ai sensi dell’articolo 63, comma 4 del decreto legislativo numero 165 del 2001, “restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo”- in questo caso ricorrerebbero tutti gli elementi caratteristici della procedura concorsuale pubblica vale a dire il bando iniziale, la fissazione dei criteri valutativi dei titoli, la presenza di una commissione incaricata della valutazione dei titoli dei candidati e la formazione di una graduatoria finale. In definitiva, la giurisdizione dipende quindi dal petitum sostanziale e dalle caratteristiche della procedura adottata (concorsuale o non). 8.2. Il collegio ritiene che nel caso in esame i due criteri individuati dalla giurisprudenza per la definizione della giurisdizione convergano nel senso di riconoscere la sussistenza della giurisdizione ordinaria. 8.3. Quanto alla domanda contenuta nel ricorso presentato dalla dottoressa Correcig, si deve precisare che essa non riguarda la pubblicazione delle graduatorie di seconda fascia, ma esclusivamente il provvedimento di esclusione della docente adottato dall’amministrazione a seguito delle verifiche svolte sulla sussistenza in capo alla ricorrente dei requisiti richiesti dalla normativa per l’accesso alle classi di concorso ( accertamento nella specie successivo all’attribuzione di un contratto di supplenza e non derivante dall’applicazione di specifiche disposizioni del bando ). Diversamente dal caso trattato dalla sentenza n. 2007/2021, inoltre, la domanda proposta dalla ricorrente – con la quale si impugnava la graduatoria e l’elenco degli esclusi - non attiene all’interpretazione ad opera dell’atto amministrativo impugnato di una disposizione dell’ordinanza n.60/2020 ( nel caso predetto relativo alla pregressa iscrizione nelle suddette graduatorie come requisito aggiuntivo prescritto dal bando e predicato in riferimento agli anni immediatamente precedenti la selezione ossia un requisito avente effetti generali sulla procedura ), ma esclusivamente all’accertamento della conformità dei titoli in possesso della dottoressa Correcig con le previsioni del d.p.r. n. 19 del 2016 e del d.p.r. n. 259 del 2017 ai fini dell’esercizio della professione di insegnante sulle classi di interesse. Non si ravvisano in tale attività svolta dall’amministrazione ai sensi dell’articolo 8, commi 7 e 8 dell’ordinanza n. 60 elementi valutativi tali da configurarla come attività discrezionale cui corrisponderebbe una situazione di interesse legittimo della ricorrente, risolvendosi la stessa in una mera verifica dei titoli analoga a quella compiuta dall’amministrazione per l’inserimento nelle graduatorie ad esaurimento. 8.4. Per ciò che si riferisce alla qualificazione della procedura, si deve precisare, circostanza non decisiva nel caso esaminato nella sentenza n. 2007 del 2021 che atteneva all’interpretazione del bando, data dall’amministrazione che l’ordinanza n. 60 /2020 – con sensibile differenza rispetto al passato - non prevede la costituzione di commissioni di concorso per la valutazione dei titoli, ma affida tale valutazione in prima battuta al sistema informatico che assegna i punteggi sulla base di quanto stabilito per ogni titolo dalle tabelle allegate alla stessa ordinanza n. 60 e successivamente agli uffici scolastici provinciali i quali in caso di difformità tra i titoli dichiarati e quelli effettivamente posseduti procedono alla rettifica del punteggio o all’esclusione dalla graduatoria; i punteggi attribuiti ai titoli non vengono pertanto assegnati sulla base di criteri di valutazione, ma in applicazione di quanto previsto dalle tabelle allegate all’ordinanza. Non sembra al collegio che la formazione con tali modalità delle graduatorie sia idonea ad escludere la tradizione qualificazione della procedura come concorsuale – per cui non si ravvisa alcuna discontinuità rispetto al precedente CdS VI n. 2007 del 2021 - ma è indubbio che tale selezione di personale per le graduatorie di istituto, per come va configurandosi, per l’automatismo che la caratterizza, attenui nella valutazione dell’amministrazione i significativi margini di discrezionalità in passato riconosciuti. In effetti, l’amministrazione procede all’iscrizione dei candidati nelle graduatorie nell’ordine progressivo derivante dei punteggi attribuiti alla luce dei titoli dichiarati e non svolge valutazioni discrezionali di tipo comparativo. Sicché anche volendo ritenere che la indizione della procedura a mezzo di un bando discrezionalmente confezionato dalla pubblica amministrazione per la selezione di personale in numero definito di posti sia sempre qualificabile come un concorso ( in ordine al quale sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo, qualificazione che potrà essere fatta oggetto di un approfondito futuro ulteriore scrutinio dalla Corte regolatrice della giurisdizione ) deve ritenersi alla stregua del petitum sostanziale, nel caso di specie, sussistente la giurisdizione del giudice ordinario ( non vertendosi sull’interpretazione di clausole del bando aventi effetti generali o su criteri di attribuzione di punteggi ). Può farsi applicazione dell’insegnamento ritraibile dalla giurisprudenza della Suprema Corte regolatrice sulla generale azionabilità del “diritto al lavoro”. Per Cass. civ., sez. un., 28-05-2007, n. 12348 la disposizione del 4º comma dell'art. 63 d.leg. 30 marzo 2001 n. 165, che attribuisce alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione di pubblici dipendenti si riferisce solo al reclutamento basato su prove di concorso, caratterizzato da una fase di individuazione degli aspiranti forniti dei titoli generici di ammissione e da una successiva fase di svolgimento delle prove e di confronto delle capacità, diretta ad operare la selezione in modo obiettivo e dominata da una discrezionalità (non solo tecnica, ma anche) amministrativa nella valutazione dei candidati; detta disposizione non riguarda, pertanto, le controversie nelle quali si intenda far valere il diritto al lavoro, in relazione al quale la p.a. è dotata unicamente di un potere di accertamento e di valutazione tecnica; ne consegue che la controversia con la quale si chieda il risarcimento dei danni, per non avere la p.a. - ai fini della formazione della graduatoria definitiva relativa ad una procedura concorsuale - valutato il titolo di riserva spettante agli invalidi civili ai sensi della l. 2 aprile 1968 n. 482 (ora l. 12 marzo 1999 n. 68), è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che la relativa disciplina non lascia alla p.a. alcun criterio di discrezionalità in relazione alla posizione soggettiva dell'invalido, che si configura come diritto al posto riservato quale appartenente a categoria protetta. Tornando al caso di specie, si tratta di un’esclusione, derivante dall’interpretazione della normativa primaria, senza discrezionalità amministrativa, adottata dopo l’inserimento in graduatoria e la sottoscrizione di un contratto di lavoro, ossia di vicenda in fondo successiva ed estranea alla gestione della procedura concorsuale ( pur peculiare per il suo automatismo ) sopra menzionata ( la esclusione attiene al disconoscimento di una qualifica e posizione professionale legata all’interpretazione della valenza dello specifico titolo di studio conseguito da un determinato e specifico soggetto ) non avendo riflessi di carattere generale. Spetta quindi alla giurisdizione del giudice ordinario la cognizione del provvedimento con il quale il dirigente scolastico depenna un insegnante dalle graduatorie di istituto, quando tale atto inerisce a vicende del rapporto di impiego privatizzato, legate ad un potere operante su un piano paritetico, basato sull'accertamento di fatti specifici, che riguarda solamente la conformità o meno alla legge degli atti vincolati di gestione nella graduatoria, vertendosi in tema di accertamento di diritti soggettivi di docenti già iscritti in graduatorie. La discrezionalità amministrativa e tecnica invece si ravvisa e permane nella formazione e nell’applicazione delle regole del bando - per l’approvazione delle graduatorie di istituto - aventi effetti generali e riflessi su fasci di situazioni giuridiche soggettive interrelate, in ordine alle quali va ribadita la giurisdizione del giudice amministrativo. 9. Alla luce delle esposte considerazioni l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore di quello ordinario davanti al quale il processo può essere riassunto ai sensi dell’articolo 11 cpa con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda presentata. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, in riforma della sentenza impugnata, dichiara il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore di quello ordinario, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 11 cpa. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 luglio 2021 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Silvestro Maria Russo, Consigliere Stefano Toschei, Consigliere Davide Ponte, Consigliere Giovanni Orsini, Consigliere, Estensore Giancarlo Montedoro, Presidente Silvestro Maria Russo, Consigliere Stefano Toschei, Consigliere Davide Ponte, Consigliere Giovanni Orsini, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Giurisdizione – Pubblica istruzione - Graduatorie di istituto – Diritto all’inserimento - Giurisdizione del giudice ordinario         Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il collocamento nelle graduatorie del comparto scolastico sono attribuite al giudice ordinario se il ricorso è diretto all’accertamento del diritto del singolo docente all’inserimento nella graduatoria e non all’annullamento dell’atto amministrativo generale o normativo che disciplina la materia; la formazione e la gestione delle graduatorie non darebbe luogo infatti ad una procedura concorsuale, ma al mero accertamento della sussistenza dei requisiti richiesti e gli atti adottati sarebbero privi di contenuto discrezionale (1).      (1) Ricorda la Sezione che la Corte di Cassazione ha chiarito (cfr. sentenza delle Sezioni Unite n. 21198 del 2017) che ai fini della individuazione di quale sia il giudice munito di giurisdizione in relazione alle controversie concernenti il diritto dei docenti della scuola all’inserimento in una graduatoria ad esaurimento occorre avere riguardo al petitum sostanziale dedotto in giudizio. Di conseguenza, se oggetto della domanda è la richiesta di annullamento dell’atto amministrativo e solo quale effetto della rimozione di tale atto l’accertamento del diritto del ricorrente all’inserimento nella graduatoria, la giurisdizione non potrà che essere devoluta al giudice amministrativo; se viceversa la domanda è volta specificamente all’accertamento del diritto del singolo docente all’inserimento nella graduatoria, ritenendo che tale diritto scaturisca direttamente dalla normazione primaria, la giurisprudenza va attribuita al giudice ordinario. La Corte di Cassazione ha ulteriormente precisato che nelle ipotesi delle graduatorie di istituto laddove “il ricorrente abbia chiesto l’annullamento del decreto di pubblicazione delle graduatorie medesime di seconda e di terza fascia… la giurisdizione non può che essere del giudice amministrativo, in quanto la domanda giudiziale riguarda direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo e quindi presuppone una posizione di interesse legittimo”. Diversamente dalla situazione riscontrata per le graduatorie ad esaurimento - per le quali si esclude sia lo svolgimento di attività autoritativa della pubblica amministrazione sia di procedure concorsuali che, ai sensi dell’art. 63, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001, “restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo”- in questo caso ricorrerebbero tutti gli elementi caratteristici della procedura concorsuale pubblica vale a dire il bando iniziale, la fissazione dei criteri valutativi dei titoli, la presenza di una commissione incaricata della valutazione dei titoli dei candidati e la formazione di una graduatoria finale. ​​​​​​​In definitiva, la giurisdizione dipende quindi dal petitum sostanziale e dalle caratteristiche della procedura adottata (concorsuale o non). 
Giurisdizione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/concessione-della-certosa-di-trisulti-alla-dignitatis-humanae-e-limiti-temporali-per-l-esercizio-del-potere-di-autotutela
Concessione della Certosa di Trisulti alla Dignitatis Humanae e limiti temporali per l’esercizio del potere di autotutela
N. 02207/2021REG.PROV.COLL. N. 06503/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6503 del 2020, proposto dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la cui sede domicilia per legge in Roma, via dei Portoghesi, n.12; contro l’Associazione DHI - Dignitatis Humanae Institute, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ernesto Stajano e Daniele Villa ed elettivamente domiciliata presso lo studio del primo dei suindicati difensori in Roma, Via Sardegna, n. 14; e con l'intervento di delle seguenti associazioni: Comunità Solidali Lab, Associazione Gottifredo, Alle origini del cammino di San Benedetto, Amici del cammino di San Benedetto, Club Alpino Italiano, Sezione di Alatri, De Rerum Natura, Gruppo di azione locale versante laziale del Parco Nazionale D’Abruzzo, Circolo Legambiente il Cigno di Frosinone, Fondazione l’Abbadia, Res Ciociaria e Sylvatica, in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, rappresentate e difese dagli avvocati Chiarina Ianni e Sara Spirito ed elettivamente domiciliate presso lo studio dell’avvocato Giovanni Valeri in Roma, viale Mazzini, n. 11; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sede staccata di Latina, Sez. I, 26 maggio 2020 n. 173, resa tra le parti. Visto il ricorso in appello e i relativi allegati; Vista la costituzione in giudizio dell’associazione DHI - Dignitatis Humanae Institute e l’appello incidentale spiegato nonché la costituzione in giudizio delle seguenti associazioni, Comunità Solidali Lab, Associazione Gottifredo, Alle origini del cammino di San Benedetto, Amici del cammino di San Benedetto, Club Alpino Italiano, Sezione di Alatri, De Rerum Natura, Gruppo di azione locale versante laziale del Parco Nazionale D’Abruzzo, Circolo Legambiente il Cigno di Frosinone, Fondazione l’Abbadia, Res Ciociaria e Sylvatica e l’appello incidentale spiegato anche da esse nonché i documenti prodotti da tutte le associazioni costituite; Esaminate le memorie prodotte e gli ulteriori documenti depositati nonché le note d’udienza; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza del 18 febbraio 2021 il cons. Stefano Toschei e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Chiara Aiello e gli avvocati Chiarina Ianni, Sara Spirito e Daniele Villa, in collegamento da remoto, svolto nel rispetto del Protocollo d’intesa sottoscritto in data 15 settembre 2020 tra il Presidente del Consiglio di Stato e le rappresentanze delle Avvocature, ai sensi dell’art. 4, comma 1, d.l. 30 aprile 2020, n. 28 e dell’art. 25, comma 2, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto della circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario generale della Giustizia amministrativa; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. – Con ricorso in appello il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ha chiesto a questo Consiglio la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sede staccata di Latina, Sez. I, 26 maggio 2020 n. 173, con la quale è stato accolto il ricorso (R.g. n. 697/2019), seguito da motivi aggiunti, proposto dall’associazione DHI - Dignitatis Humanae Institute ai fini dell’annullamento del decreto DG-MU|16/10/2019|1279, a firma congiunta del Segretariato generale del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, della Direzione generale Musei e del Polo Museale del Lazio, con il quale è stato disposto l’annullamento d’ufficio del decreto del 16 giugno 2017 con il quale il Segretariato generale del predetto Ministero aveva approvato la graduatoria della selezione per l’affidamento in concessione del bene immobile culturale denominato Certosa di Trisulti in favore dell’associazione DHI - Dignitatis Humanae Institute. 2. – La vicenda che fa da sfondo al presente contenzioso in grado di appello può essere sinteticamente ricostruita, sulla scorta dei documenti e degli atti prodotti dalle parti controvertenti nei due gradi di giudizio nonché da quanto sintetizzato nella parte in fatto della sentenza qui oggetto di appello, come segue: - il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (d’ora in poi, per brevità, MIBACT), con avviso pubblico del 26 ottobre 2016, emesso ai sensi del D.M. 6 ottobre 2015, aveva avviato una procedura selettiva per la concessione in uso di alcuni beni immobili appartenenti al demanio culturale dello Stato, tra i quali la Certosa di Trisulti; - ai sensi dell’art. 4 della legge speciale della selezione, la partecipazione alla stessa era riservata alle associazioni e alle fondazioni di cui al Libro I del codice civile, dotate di personalità giuridica e prive di fini di lucro, che dimostrassero di essere in possesso dei seguenti requisiti: a) previsione, tra le finalità principali definite per legge o per statuto, dello svolgimento di attività di tutela, di promozione, di valorizzazione o di conoscenza dei beni culturali e paesaggistici; b) documentata esperienza almeno quinquennale nel settore della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale; c) documentata esperienza nella gestione, nell'ultimo quinquennio antecedente la pubblicazione dell'avviso pubblico, di almeno un immobile culturale, pubblico o privato, con attestazione della Soprintendenza territorialmente competente di adeguata manutenzione e apertura alla pubblica fruizione; - all’esito della selezione l’associazione DHI - Dignitatis Humanae Institute (d’ora in poi, per brevità, associazione DHI) risultava assegnataria della concessione con 72,6 punti e unica in graduatoria; - quindi in seguito all’approvazione della graduatoria, avvenuta con decreto del 16 giugno 2017, in data 14 febbraio 2018 veniva sottoscritto l’atto di concessione tra il MIBACT e l’associazione DHI; - successivamente a tali fatti emergeva, in seguito alla verifica della documentazione allegata alla domanda di partecipazione alla selezione, presentata dalla suddetta associazione in data 16 gennaio 2017, che in tale data la DHI non aveva fornito la prova del possesso di tutti i requisiti richiesti dall’avviso pubblico e prescritti dal DM 6 ottobre 2015 e, in particolare: a) la personalità giuridica dell’associazione (visto che nella domanda di partecipazione la DHI aveva dichiarato che la personalità giuridica sarebbe stata acquisita il 30 dicembre 2016, mentre dalla documentazione trasmessa all’amministrazione procedente si veniva a scoprire che in data successiva rispetto a quella di pubblicazione dell’avviso di selezione era stata solo presentata la domanda di riconoscimento della personalità giuridica e che la Prefettura di Roma aveva provveduto al riconoscimento della personalità della DHI solo in data 20 giugno 2017); b) alla data del 16 gennaio 2017 lo statuto della DHI non indicava tra le finalità perseguite dall’associazione in via principale quella relativa allo svolgimento di attività di tutela, di promozione, di valorizzazione o di conoscenza dei beni culturali e paesaggistici (atteso che l’art. 6 dello statuto indicava solo le seguenti finalità istituzionali: “i) la promozione del Santo Vangelo nel mondo pubblico e politico; ii) sostenere la Chiesa Cattolica con la formazione dei giovani, che hanno spiccate vocazioni alla missione politica; iii) l’organizzazione delle attività di formazione”) e solo in data 30 marzo 2017 la DHI aveva introdotto una integrazione dello statuto con l'inserimento della finalità statutaria della tutela promozione e valorizzazione del patrimonio culturale; c) quanto al requisito della documentata esperienza quinquennale nel settore della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale, dalla domanda di partecipazione emergeva che la DHI era stata costituita solo in data 8 novembre 2016, - dalla verifica successiva, oltre alla carenza dei tre requisiti suindicati, emergeva che alcune attività attribuibili alla DHI erano state svolte (almeno apparentemente) in epoca anteriore rispetto alla costituzione dell’associazione e comunque il loro svolgimento non era stato adeguatamente dimostrato, oltre alla circostanza che dette attività non si presentavano congruenti con quanto richiesto dal bando (in particolare: a) la collaborazione con il Centro guide Cicerone e con l’Università Lateranense nel 2011 e nel 2014, rispetto alle quali non era indicato il periodo temporale di svolgimento almeno quinquennale e non veniva chiarita l’attinenza con la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale; b) la partecipazione con Ciociaria Turismo.it alla settimana della cultura 2012, all’Educational Tour 2014 e al Press Trip organizzato dalla Regione Lazio nel 2015, rispetto alle quali, oltre ad essersi svolte per brevi periodi temporali non era adeguatamente indicata l’attinenza con i settori della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, per come richiesto dal bando; c) la gestione del Museo monastico di San Nicola nella Ciociaria, rispetto alla quale non era allegata la necessaria attestazione della soprintendenza territorialmente competente di adeguata manutenzione e apertura alla pubblica fruizione oltre a non essere stato dimostrato con chiarezza se detta attività potesse effettivamente imputarsi all’associazione DHI; - a quanto sopra si aggiungevano, in seguito a due interventi ispettivi ministeriali del 16 aprile e del 2 maggio 2019, talune inadempienze riscontrate in capo alla concessionaria DHI rispetto agli obblighi stabiliti dal contratto di concessione sottoscritto il 14 febbraio 2018; - ne derivava, quindi, l’adozione da parte del MIBACT, in data 16 ottobre 2019, dell’annullamento d’ufficio, ai sensi dell’art. 21-nonies l. 7 agosto 1990, n. 241 del decreto del 16 giugno 2017 con il quale era stata approvata la graduatoria della selezione in favore dell’associazione DHI e di tutti gli atti conseguenti ivi compreso il travolgimento del contratto di concessione del 14 febbraio 2018; - l’associazione concessionaria, quindi, impugnava il suddetto provvedimento dinanzi al TAR per il Lazio, sede staccata di Latina, chiedendone l’annullamento in quanto affetto da numerosi profili di illegittimità; - con ricorso recante motivi aggiunti DHI impugnava anche la nota prot. n. 10331 del 5 dicembre 2019 con cui il MIBACT le aveva ordinato di provvedere al rilascio dell’immobile culturale Certosa di Trisulti nonché il provvedimento n. 16790 del 4 dicembre 2019 di diniego, espresso dal Ministero, nei confronti della domanda di accesso presentata dalla DHI per ottenere il rilascio del parere del 29 maggio 2019 reso dall’Avvocatura generale dello Stato e della nota dell’Ufficio legislativo del ridetto Ministero; - il TAR adito, dopo avere ritenuto fondata l’eccezione di inammissibilità dell’intervento ad opponendum presentata dalle associazioni anche oggi presenti nel grado di appello del giudizio (in quanto non era rilevabile la presenza dell’interesse ad agire o ad intervenire nel giudizio “(…) giacché nessuna delle undici interventrici ha preso parte alla selezione a conclusione della quale è stato rilasciato alla Dignitatis il provvedimento concessorio. Vero è che l’interesse all’intervento processuale può assumere anche solo natura di mero fatto, come riconosciuto dalla giurisprudenza, ma è pur vero che deve essere comunque differenziato e non indistinto, e in ogni caso deve essere attuale e certo (…)”, così, testualmente, a pag. 7 della sentenza qui oggetto di appello), accoglieva il ricorso proposto dall’associazione DHI in quanto “Coglie nel segno l’assorbente censura con cui la ricorrente lamenta la violazione del termine di diciotto mesi previsto dall’art. 21 novies per l’adozione del provvedimento di annullamento d’ufficio”, oltre alle ulteriori circostanze in ragione delle quali, posto che la struttura sinallagmatica del rapporto non esclude, anzi conferma che il rapporto instaurato tra amministrazione e DHI abbia valenza economica per il concessionario, illegittimamente l’amministrazione non aveva indicato puntualmente quali fossero le dichiarazioni “false o mendaci” rese dalla DHI e comunque, quand’anche fosse emersa la non veridicità delle dichiarazioni rese, esse avrebbero potuto avere rilievo ai fini dell’annullamento del provvedimento concessorio in epoca successiva allo spirare del termine di diciotto mesi dall’adozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario solo nel caso in cui il comportamento penalmente rilevante fosse stato accertato in una sentenza (del giudice penale) passata in cosa giudicata. Da qui l’appello nei confronti della sentenza di primo grado che il MIBACT ritiene errata, prospettando quattro percorsi contestativi che suffragherebbero la richiesta di riforma della sentenza con conseguente reiezione del ricorso di primo grado. 3. – L’odierna parte appellante, nell’atto introduttivo del presente giudizio di appello, sostiene che: 1) in primo luogo (come già ampiamente sostenuto nel corso del giudizio di primo grado) l’atto di annullamento assunto dal MIBACT nell’esercizio del potere di autotutela, rivolgendosi ad una concessione di valorizzazione a titolo oneroso di un bene immobile di rilievo culturale (nella specie la Certosa di Trisulti), integrava – per ciò stesso – la rimozione di una fattispecie contrattuale a carattere sinallagmatico, giammai poteva dunque riferirsi ad un provvedimento di autorizzazione né ad un provvedimento di attribuzione di vantaggi economici, con la duplice conseguenza che l’autotutela era rivolta ad una atto di natura privatistica piuttosto che ad un provvedimento amministrativo e che, quindi, non trovava nella specie applicazione la previsione “garantista” introdotta nell’art. 21-nonies l, 241/1990 dalla l. 7 agosto 2015, n. 124, che confina l’esercizio del potere di autotutela (nei confronti degli atti di autorizzazione e di quelli attributivi di vantaggi economici) nel limite temporale di diciotto mesi dall’adozione del provvedimento da rimuovere. In altri termini “La struttura sinallagmatica del rapporto e il rischio di impresa posto a carico della concessionaria escludevano pertanto che il rapporto instaurato con il concessionario avesse valenza attributiva di vantaggi economici” (così, testualmente, a pag. 18 dell’atto di appello), con la conseguente inapplicabilità della previsione contenuta nell’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990 in seguito alla novella del 2015; 2) in ogni caso, la dimostrata rappresentazione dei fatti e, quindi, la comprovata non veridicità di quanto dichiarato ed attestato da parte della DHI avrebbe dovuto indurre il giudice di primo grado a ritenere puntualmente applicabile la disposizione di cui all’art. 21-nonies, comma 2-bis, l. 241/1990. Nel caso di specie, infatti, “trattandosi (…) di mero riscontro di una falsa rappresentazione dei fatti da parte della ricorrente – l’Amministrazione ben poteva esercitare il potere di autotutela alla stessa conferito dall'art. 21-nonies, pur in carenza di una sentenza passata in giudicato”, sicché “Nella fattispecie in esame il Tar Latina avrebbe dovuto unicamente verificare la “ragionevolezza” del tempo decorso nell’adozione del provvedimento di autotutela impugnato, sul presupposto della inoperatività del termine di diciotto mesi, perché il provvedimento di concessione conseguito dalla Associazione era basato su un presupposto non esistente, cioè il possesso della personalità giuridica” (così ancora, testualmente, alle pagg. 23 e 24 dell’atto di appello); 3) la sentenza è poi errata nella parte in cui scrutina, seppur parzialmente, il merito delle carenze documentali contestate dal Ministero rispetto a quanto dichiarato da DHI, spingendosi ad affermare che non vi sarebbero stati ostacoli normativi alla valutazione da parte del MIBACT delle esperienze curriculari maturate da DHI anche in epoca antecedente rispetto alla data di conferimento della personalità giuridica, ovvero nel periodo durante il quale operava nel regime di diritto britannico, o ancora dal 2011 in seguito al trasferimento della sede in Italia, ivi operando come associazione di fatto. In disparte la parzialità e la limitatezza dello scrutinio operato dal primo giudice, non tenendo conto delle altre e numerose contestazioni rivolte alle dichiarazioni espresse da DHI, va rammentato che l’avviso pubblico del 6 ottobre 2015 conteneva una serie organica e coordinata di disposizioni relative ai requisiti di partecipazione alla selezione e tutti detti elementi presentavano lo stesso valore ed erano reciprocamente interrelati, con la conseguenza che si presenta errata l’affermazione, espressa dal Tribunale amministrativo regionale, secondo cui nulla impediva all’amministrazione di valutare le vicende dell’associazione non riconosciuta; 4) da ultimo la sentenza qui oggetto di appello è errata in quanto il giudice di primo grado ha omesso del tutto di esaminare i presupposti per l’adozione del provvedimento di rilascio dell’immobile (impugnato con ricorso recante motivi aggiunti) e la motivazione che l’accompagnava, procedendo all’annullamento dello stesso solo per effetto derivato dall’accoglimento del ricorso introduttivo. 4. – Si è costituita in giudizio l’associazione DHI contestando analiticamente la fondatezza dei motivi di appello e confermando la correttezza della decisione alla quale è giunto il giudice di primo grado. Nello specifico la DHI ha riproposto, anche quali motivi di appello incidentale, le censure dedotte in primo grado e non scrutinate dal Tribunale amministrativo regionale, in quanto ritenute assorbite in seguito all’accoglimento della censura relativa alla illegittimità del provvedimento impugnato per avere annullato un provvedimento attributivo di vantaggi economici oltre il termine di diciotto mesi previsto dall’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990. I motivi riproposti attengono: - in primo luogo, alla incidenza di una pressione mediatica costantemente ostile all’assegnazione della concessione in favore dell’associazione DHI, per motivi del tutto estranei alla procedura, venendosi a creare una situazione di evidente disfavore nei confronti dell’associazione concessionaria che ha finito per condizionare l’istruttoria svolta al fine di verificare il possesso dei requisiti dichiarati dalla candidata all’atto della presentazione della domanda per la partecipazione alla selezione, tanto che “Dalla complessiva condotta dell’Amministrazione si percepisce obiettivamente il chiaro intento di impedire tout court lo svolgimento delle attività, di carattere sociale e culturale, che l’odierna Ricorrente ha legittimamente rappresentato di voler svolgere, senza alcun rilievo dell’Ente concedente, all’epoca della selezione pubblica che ha preceduto l’aggiudicazione” (così, testualmente, a pag. 12 dell’atto di costituzione dell’appellata); - in secondo luogo erroneamente il Ministero, privilegiando una lettura inappropriatamente formalistica della disciplina della legge speciale della selezione, ha ritenuto che l’originaria carenza della personalità giuridica in capo alla DHI costituisse elemento di sicura e insuperabile preclusione alla partecipazione alla selezione per il rilascio della concessione, tenuto conto del c.d. principio di libertà delle forme in relazione ai soggetti partecipanti alle procedure di evidenza pubblica, considerato anche che, nel settore (giuridicamente finitimo) dell’affidamento degli appalti pubblici è ampiamente ammesso di valutare la possibilità di partecipazione di associazioni non riconosciute, soprattutto nel caso di soggetti stranieri, rispetto ai quali può legittimamente farsi riferimento alla configurazione giuridica assunta dal partecipante nello Stato di provenienza. Ne deriva che l’originaria carenza della personalità giuridica in capo alla DHI non può costituire motivo di automatica condizione ostativa alla partecipazione alla procedura di affidamento della concessione in questione, considerato anche che l’art. 4 dell’avviso pubblico della selezione non declinava tra i motivi di esclusione alla stessa la dimostrazione del riconoscimento della personalità giuridica in capo alle associazione o alle fondazioni che avessero presentato la domanda. Tutt’al più un siffatto presupposto va considerato non come legittimante alla partecipazione alla selezione, bensì come requisito “di esecuzione”, il cui possesso deve sussistere prima dell’avvio della prestazione; - tanto vale anche per la ulteriore considerazione oppositiva alla legittimazione all’ottenimento del provvedimento concessorio espressa dal MIBACT con riferimento all’aggiornamento da parte di DHI, soltanto nel 2017 (e quindi in epoca successiva rispetto alla scadenza del termine per la presentazione della domanda) del proprio statuto per renderlo coerente con le prescrizioni della lex specialis. Infatti la DHI, seppure in veste di associazione non riconosciuta, operava da anni nell’attività di diffusione di principi e valori che costituiscono certamente patrimonio culturale latamente inteso, sicché la nuova configurazione statutaria operata nel 2016 è stata adottata per la sola ragione di avviare, anche in Italia, le medesime iniziative chiaramente rivolte alla valorizzazione e alla tutela del patrimonio culturale svolte dall’associazione in altri stati europei; - non appaiono poi adeguatamente motivate le contestazioni relative alla asserita carenza di esperienza nel settore, atteso che questa avrebbe potuto essere dimostrata, qualora ve ne fosse stato bisogno, attraverso una idonea partecipazione procedimentale sollecitata dal Ministero all’associazione, durante la quale sarebbe stato possibile comprovare tutte le dichiarazioni rese in sede di partecipazione alla selezione; - non è stata dimostrata dal Ministero la sussistenza dei presupposti che giustificano l’adozione del provvedimento di annullamento in autotutela della concessione rilasciata in favore di DHI, per come richiesti dall’art. 21-nonies l. 241/1990, né l’atto è assistito da una adeguata motivazione, non essendo obiettivamente riscontrabili né dimostrati l’originaria illegittimità del provvedimento di aggiudicazione, la sussistenza di un interesse concreto attuale alla rimozione dell’atto di concessione e, comunque, appare evidente la violazione del termine di 18 mesi per l’adozione di un provvedimento di autoannullamento, oltre alla circostanza che le contestazioni circa la non veridicità di quanto dichiarato dall’associazione al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla selezione avrebbero dovuto essere oggetto di una approfondita e circostanziata istruttoria nell’ambito della quale avrebbero dovuto essere analiticamente individuate e comprovate le affermazioni non veritiere imputate alle dichiarazioni rese da DHI; - da ultimo, il provvedimento di rilascio dell’immobile (decreto DG-MU/16/10/2019/1279) deve ritenersi illegittimo per illegittimità derivata secondo quanto sopra riferito. 5. – Si sono costituite in giudizio le seguenti associazioni: Comunità Solidali Lab, Associazione Gottifredo, Alle origini del cammino di San Benedetto, Amici del cammino di San Benedetto, Club Alpino Italiano, Sezione di Alatri, De Rerum Natura, Gruppo di azione locale versante laziale del Parco Nazionale D’Abruzzo, Circolo Legambiente il Cigno di Frosinone, Fondazione l’Abbadia, Res Ciociaria e Sylvatica, spiegando appello incidentale nei confronti della sentenza del TAR per il Lazio, sezione staccata di Latina, n. 173/2020 e contestando, in via principale, la decisione del primo giudice di accogliere l’eccezione di carenza di legittimazione delle predette associazioni a spiegare intervento (ad opponendum) nel presente giudizio. Ciò in quanto: - sotto un primo versante appare evidente come il Tribunale amministrativo regionale abbia preteso escludere la sussistenza in capo alle associazione dell’interesse ad intervenire sulla base di una valutazione di merito relativa all’oggetto della concessione affermando, in modo errato, che l’assegnazione alla DHI non “possa ex se compromettere lo scopo di valorizzare il patrimonio culturale”, trattandosi di vicenda non attinente alla legittimazione delle associazioni ma al contenuto del provvedimento concessorio e alla assegnabilità della concessione alla DHI; - sotto un secondo versante, le conclusioni alle quali è giunto il Tribunale amministrativo sono errate perché la legittimazione all’intervento è costantemente riconosciuta dalla giurisprudenza anche alle associazioni portatrici di interessi “di fatto”. Le suddette associazioni hanno poi ribadito la erroneità nel merito delle valutazioni contenute nella sentenza di primo grado facendo propri, sostanzialmente, i motivi d’appello già illustrati dal MIBACT. Concludevano chiedendo, previa ammissione dell’intervento ad opponendum, la riforma della sentenza di primo grado e la conseguente reiezione del ricorso in quella sede proposto. 6. – Nel corso del processo le parti hanno presentato memorie nonché note di udienza confermando le conclusioni già rassegnate negli atti processuali precedentemente depositati. 7. – In primo luogo il Collegio deve farsi carico della questione relativa alla legittimazione delle associazioni più sopra indicate ad intervenire nel presente processo. Come si è sopra illustrato, il giudice di primo grado ha escluso la legittimazione all’intervento in quanto: - in primo luogo va considerato che, all’esito dell’esame degli statuti associativi, l’emergere di uno scopo generale delle associazioni volto alla valorizzazione del patrimonio culturale possa costituire una valida ragione per opporsi all’affidamento della gestione della Certosa di Trisulti a DHI, visto che tale scelta, di per sé, non può compromettere lo scopo di valorizzare il patrimonio culturale del quale le comunità assumono di essere portatrici; - in secondo luogo l’interesse all’intervento oppositivo coltivato dalle associazioni non può essere loro riconosciuto non “rivestendo qualificazione specifica, giacché nessuna delle undici interventrici ha preso parte alla selezione a conclusione della quale è stato rilasciato alla Dignitatis il provvedimento concessorio”. Infatti, sebbene possa condividersi il principio per cui “l’interesse all’intervento processuale può assumere anche solo natura di mero fatto, (…) è pur vero che deve essere comunque differenziato e non indistinto, e in ogni caso deve essere attuale e certo”. L’assunto giuridico fatto proprio dal Tribunale amministrativo regionale al fine di escludere la legittimazione all’intervento oppositivo nel presente giudizio in capo alle ridette associazioni non può essere condiviso. Infatti l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (con la sentenza 3 giugno 2011 n. 10) ha chiarito che la legittimazione dell'ente esponenziale va riguardata con esclusivo riferimento all'interesse istituzionalizzato e alla portata lesiva di esso (rintracciabile nel provvedimento impugnato) L’adunanza plenaria, d’altronde, aveva già da tempo chiarito (con la sentenza 2 novembre 2015 n. 9) che la legittimazione attiva (e, dunque, la legittimazione all'intervento in giudizio) di associazioni rappresentative di interessi collettivi obbedisce alle stringenti regole di seguito precisate: - è necessario, anzitutto, che la questione dibattuta attenga in via immediata al perimetro delle finalità statutarie dell'associazione e, cioè, che la produzione degli effetti del provvedimento controverso si risolva in una lesione diretta del suo scopo istituzionale e non della mera sommatoria degli interessi imputabili ai singoli associati; - è, inoltre, indispensabile che l'interesse tutelato con l'intervento sia comune a tutti gli associati, che non vengano tutelate le posizioni soggettive solo di una parte degli stessi e che non siano, in definitiva, configurabili conflitti interni all'associazione (anche con gli interessi di uno solo dei consociati), che implicherebbero automaticamente il difetto del carattere generale e rappresentativo della posizione azionata in giudizio. In ragione di quanto sopra va quindi ribadito il costante orientamento della giurisprudenza del giudice amministrativo incline ad affermare, nello specifico, che l'intervento ad opponendum a supporto della legittimità del provvedimento impugnato può essere giustificato anche dalla titolarità di un interesse di fatto che consenta alla parte di ritrarre un vantaggio indiretto e riflesso dalla reiezione del ricorso (cfr., tra le ultime, Cons. Stato, Sez. III, 9 febbraio 2021 n. 1230, Sez. IV, 10 febbraio 2020 n. 573). Infatti, come ha ricordato anche la Sezione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 13 luglio 2020 nn. 4525 e 4527) i requisiti concernenti la legittimazione a impugnare devono essere tenuti distinti da quelli relativi alla legittimazione a intervenire, essendo questi ultimi assai meno stringenti dei primi. Appare evidente, quindi, che il giudice di primo grado, nel caso di specie, abbia ritenuto insussistenti i requisiti, in capo alle associazioni, per proporre ricorso avverso il provvedimento di rilascio della concessione (non essendo state candidate nell’ambito della selezione), ma tale condizione non poteva condurre anche alla dichiarazione di insussistenza della legittimazione ad intervenire ad opponendum, da parte delle medesime associazioni, nell’ambito del giudizio avverso l’atto di annullamento in autotutela della concessione, posto che le interventrici avevano tutte dimostrato la presenza di un comune scopo statutario di valorizzazione del patrimonio culturale e, nello specifico, una giuridica contrarietà rispetto all’assegnazione della gestione della Certosa di Trisulti in favore dell’associazione DHI, per le stesse ragioni che avevano condotto il Ministero ad annullare in autotutela il provvedimento con il quale detta concessione di gestione era stata a suo tempo rilasciata. Le associazioni, quindi, avevano dimostrato la sussistenza di un interesse di mero fatto sotteso al mantenimento dell'assetto determinato dal provvedimento (di annullamento in autotutela) impugnato, che consentisse loro, come nella specie, di trarre un vantaggio indiretto e riflesso dalla reiezione del ricorso; il loro intervento ad opponendum nel giudizio di primo grado (trasformatosi in intervento ad adiuvandum in sede di appello) doveva, dunque, essere ammesso. 8. – Nel merito, in punto di fatto, va rilevato che il provvedimento di annullamento in autotutela impugnato in primo grado è motivato sulla base delle seguenti considerazioni inerenti ai vizi (di cui all’art. 21-octies, comma 1, l. 241/1990) rilevati dal MIBACT in ordine al provvedimento prot. 6935 del 26 giugno 2017 con il quale la Direzione generale Musei ha individuato nell’associazione DHI, all’esito di selezione, il soggetto cui rilasciare la concessione per la gestione del bene immobile culturale Certosa di Trisulti: - l’aggiudicazione della concessione in capo alla DHI è avvenuta in violazione della lex specialis della procedura (avviso pubblico 28 ottobre 2016 e D.M. 6 ottobre 2015) in quanto la suddetta associazione, al momento della scadenza del termine ivi previsto per la presentazione delle candidature (16 gennaio 2017), non risultava in possesso dei requisiti ivi richiesti; - alla luce di approfondimenti interni e del rinnovato accurato esame degli atti conservati presso la Direzione generale Musei effettuato da ultimo nel mese di luglio 2019, è emerso che al momento della scadenza del termine per la presentazione delle offerte la DHI non risultava in possesso: A) della personalità giuridica, invece, prevista dalla lex specialis, acquisita solo successivamente e, segnatamente, in data 20 giugno 2017 (come risultante dal certificato dalla Prefettura di Roma di cui alla nota prot. 220500 del 21 giugno 2017); B) del requisito concernente la previsione, tra le finalità principali definite per legge o per statuto, dello svolgimento di attività di tutela, di promozione, di valorizzazione o di conoscenza dei beni culturali e paesaggistici, atteso che lo statuto della DHI non prevedeva la predetta finalità, acquisita solo successivamente, in data 30 marzo 2017, mediante integrazione dello statuto medesimo; C) del requisito concernente la documentata esperienza quinquennale nel settore della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale, atteso che l’associazione DHI risulta essere stata costituita in data 8 novembre 2016; - oltre ai suelencati deficit di requisiti richiesti per il rilascio della concessione, dal curriculum vitae allegato alla domanda di partecipazione da DHI, emergeva lo svolgimento di attività anteriori alla costituzione dell’associazione non comprovate o congruenti con quanto richiesto dal bando. Sempre in punto di fatto va, inoltre, rammentato che, all’esito della selezione alla quale DHI aveva partecipato e successivamente all’adozione del decreto del 16 giugno 2017 con il quale il MIBACT aveva approvato la graduatoria relativa all’affidamento della concessione per l’Abbazia di Trisulti, dal momento che tale esito favorevole per DHI era rigidamente condizionato, per come espressamente precisato nel suindicato decreto, dalla verifica del possesso dei requisiti dichiarati in sede di presentazione della domanda di partecipazione, in data 6 luglio 2017, facendo seguito alla conseguente richiesta dell’amministrazione, DHI trasmetteva all’amministrazione procedente, oltre alla documentazione già trasmessa nel corso della procedura su richiesta della commissione [vale a dire: a) il contratto di concessione del Piccolo Museo Monastico di Civita del 30 maggio 2015; b) la dichiarazione rilasciata dall’Abate Preside della Congregazione di Casamari del 23 maggio 2017; c) la dichiarazione rilasciata da Francesca Casinelli del Centro Guide Turistiche Cicerone del 23 maggio 2017; d) la dichiarazione rilasciata da Luciano Rea del Gruppo Arancione del 22 maggio 2017; e) 3 locandine relative all’attività museale per il periodo 2015-2017], la seguente ulteriore documentazione: a) la copia conforme notarile del 5 aprile 2017 dello Statuto della associazione; b) la lettera di mons. Marcelo Sanchez Sorondo, Cancelliere della Pontificia Academia Scientiarum, del 5 luglio 2017; c) la dichiarazione del signor Kishore Jayabalan, direttore dell’Acton Institute di Roma, del 28 giugno 2017; d) la dichiarazione del signor Luciano Rea, Presidente del Gruppo Arancione, del 4 luglio 2017; e) la dichiarazione della signora Francesca Casinelli, Presidente dell’Associazione Cicerone del 4 luglio 2017; f) la dichiarazione della signora Clarissa Civillini, Presidente dell’Associazione Culturale Ethea, del 30 luglio 2017. Da ultimo, per completare l’esame della vicenda sotto il profilo fattuale, il MIBACT (per esso il Polo Museale regionale per il Lazio), dopo avere sottoscritto con DHI, in data 14 febbraio 2018, la convenzione relativa alla concessione di valorizzazione dell’Abbazia di Trisulti, che poi verrà trasferita nella disponibilità dell’associazione concessionaria a gennaio 2019, in seguito ad interventi ispettivi (svolti nelle date del 16 aprile 2019 e del 2 maggio 2019), con nota del 10 maggio 2019, contestava a DHI il mancato avvio degli interventi previsti in offerta nonché inadempienze rispetto alla convenzione (fra le quali il mancato pagamento del canone 2018), alle quali l’associazione dava risposta con nota del 21 giugno 2019. Successivamente il predetto Ministero, nell’agosto 2019, comunicava l’avvio di due procedimenti riguardanti, rispettivamente, l’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione della selezione in favore di DHI per acclarata carenza dei requisiti prescritti dall’avviso e, quindi, la decadenza dalla concessione in ragione di persistenti inadempimenti agli obblighi assunti. All’esito dei due procedimenti venivano adottati i due provvedimenti, il decreto di annullamento 16 ottobre 2019 n. 1279 in autotutela dell’esito della selezione e il decreto n. 10331 del 5 dicembre 2019 di rilascio del bene, impugnati (rispettivamente con ricorso introduttivo e con ricorso recante motivi aggiunti) in primo grado. 9. – Continuando con la descrizione della vicenda fattuale, ma in punto di diritto, ad avviso del Collegio merita di essere rilevato che: - l’avviso pubblico del 28 ottobre 2016 stabiliva che fossero legittimati a partecipare alla selezione “esclusivamente” (art. 4.1, primo periodo) le “associazioni e fondazioni di cui al Libro I del Codice civile, dotate di personalità giuridica e non perseguenti fini di lucro, che siano in possesso dei requisiti di cui all'art. 2 del Decreto Ministeriale 6 ottobre 2015”; - i requisiti che dovevano essere posseduti “a pena di inammissibilità” dalle associazioni e dalle fondazioni suindicate erano i seguenti: a) previsione, tra le finalità principali definite per legge o per statuto, dello svolgimento di attività di tutela, di promozione, di valorizzazione o di conoscenza del patrimonio culturale; b) documentata esperienza almeno quinquennale nel settore della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale; c) documentata esperienza nella gestione, nell'ultimo quinquennio antecedente alla pubblicazione dell’avviso, di almeno un immobile culturale, pubblico o privato; d) possesso dei requisiti di ordine generale di cui all’art. 80 d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (…) per contrarre con la pubblica amministrazione, limitatamente al rappresentante legale dell’ente; - veniva poi chiarito (sempre nell’art. 4 dell’avviso) che “Gli enti, nella propria offerta, dovranno rendere apposita autocertificazione in ordine al possesso dei requisiti di cui sopra, resa ai sensi e nelle forme ai sensi del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”. Orbene pare evidente al collegio che i suddetti requisiti dovevano essere posseduti alla scadenza del termine fissato per presentazione delle domande e quindi entro il 16 gennaio 2017 (data in cui effettivamente DHI ha presentato la domanda di partecipazione). Ciò discende sia dalla formulazione dell’avviso che sulla scorta di un principio immanente nel nostro ordinamento in virtù del quale i requisiti richiesti per la partecipazione ad una selezione pubblica debbono essere posseduti al momento della scadenza del termine perentorio stabilito dal bando per la presentazione della domanda di partecipazione, al fine di non pregiudicare la par condicio tra i candidati ad una selezione pubblica, che sempre deve assistere lo svolgimento di una siffatta procedura amministrativa, anche solo quale precipitato del principio di cui all’art. 97 Cost., oltre ai principi, criteri e disposizioni recati dall’art. 1 l. 241/1990, che disciplina ogni tipologia di attività amministrativa, anche di tipo selettivo (cfr., in argomento, Cons. Stato, Sez. VI, 8 settembre 2020 n. 5412) e che, ovviamente (operando, in via principale, quale principio generale relativo alla legittimazione a partecipare alla selezione e non quale condizione per l’ottenimento del beneficio derivante dall’avere superato favorevolmente la selezione stessa), trova applicazione anche nell’ipotesi in cui si verifichi il caso della partecipazione di un solo candidato alla selezione. Detto principio è stato, nella specie, espressamente positivizzato dall’avviso pubblico di cui sopra nel quale è stato ulteriormente puntualizzato che: - “La presentazione di una offerta da parte di un soggetto privo dei requisiti di cui al precedente punto 4.1 ne determinerà l'inammissibilità” (punto 4.2, ultimo periodo); - “(…) qualora l'aggiudicatario o il concorrente cui sia stata fatta richiesta, non riesca a comprovare il possesso dei propri requisiti, l'Amministrazione aggiudicatrice lo dichiarerà decaduto dall'aggiudicazione” (punto 4.3). L’associazione appellata, in sintesi e con riferimento alle contestazioni espresse dal Ministero, alle quali DHI ha reagito trasmettendo a quest’ultimo osservazioni critiche, corroborate da produzioni documentali, trasmesse durante i procedimenti che hanno condotto all’adozione dei due provvedimenti più volte qui richiamati e oggetto di impugnazione in primo grado, sostiene la insussistenza delle denunciate carenze dei requisiti a suo tempo dichiarati in quanto: - i requisiti di partecipazione, previsti a pena di esclusione, sono stati declinati dall’art. 4 dell’avviso pubblico e fra questi non viene indicato il possesso della personalità giuridica; - non risponde al vero che tra i compiti della DHI non rientrasse l’attività di “promozione del patrimonio culturale”, così come richiesto dall’avviso pubblico, atteso che dall’art. 7 dello Statuto, anche nella versione antecedente alla modifiche introdotte nel 2017, si può leggere che rientrano tra le attività dell’associazione “La promozione e la valorizzazione dei beni culturali e delle tradizioni culturali italiane mediante manifestazioni di ogni tipo (…) La gestione d’immobili, strutture e attività sia proprie e sia eventualmente affidate all’associazione da Enti sia pubblici che privati (…) L’uso e la locazione di strutture idonee a svolgere e ad organizzare le attività dell’Associazione, dove promuovere ed esercitare anche il volontariato”; - anche il possesso dell’esperienza quinquennale era stato debitamente comprovato dalla circostanza che DHI operava come associazione non riconosciuta sin dal 2008, sulla base di un atto costitutivo stipulato in Italia, attraverso la creazione di “Gruppi di Lavoro Parlamentare sulla Dignità Umana” attivi nell’ambito di diversi Parlamenti Europei, mentre la nuova configurazione statutaria realizzata nel 2016 è stata adottata al solo scopo di avviare, anche in Italia, le iniziative più spiccatamente rivolte alla valorizzazione e alla tutela del patrimonio culturale; - la contestazione riguardante le esperienze maturate nel corso degli anni ed esposte nel curriculum allegato alla domanda di partecipazione si presenta, poi, del tutto generica, dal momento che le attività sono state definite in modo puntuale, mentre il Ministero si è limitato a sostenere che taluni aspetti risultano non pertinenti ovvero non strettamente collegati con l’attività di valorizzazione e alla tutela del patrimonio culturale. 10. – Tenuto conto di quanto emerge dalla lettura della documentazione prodotta in atti il Collegio ritiene che le contestazioni mosse dall’amministrazione all’associazione DHI abbiano fondamento, atteso che sono documentalmente provate. In via principale è evidente che l’avviso pubblico e, prima ancora, il D.M. 6 ottobre 2015, recante la disciplina del rilascio delle concessioni in uso a privati di beni immobili del demanio culturale dello Stato, si esprimano in termini estremamente chiari nel prevedere che alla selezione possano partecipare solo associazioni e fondazioni riconosciute, perché solo a queste tipologie di enti è consentito di essere destinatari della concessione di beni immobili del demanio culturale dello Stato. Il tenore dell’art. 2 del citato decreto ministeriale non lascia spazio a diverse interpretazioni laddove stabilisce testualmente che “Le concessioni disciplinate dal presente decreto sono riservate alle associazioni e fondazioni di cui al Libro I del codice civile, dotate di personalità giuridica e prive di fini di lucro, che siano in possesso dei seguenti requisiti: a) previsione, tra le finalità principali definite per legge o per statuto, dello svolgimento di attività di tutela, di promozione, di valorizzazione o di conoscenza dei beni culturali e paesaggistici; b) documentata esperienza almeno quinquennale nel settore della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale; c) documentata esperienza nella gestione, nell'ultimo quinquennio antecedente la pubblicazione dell'avviso pubblico di cui all'art. 3, di almeno un immobile culturale, pubblico o privato, con attestazione della soprintendenza territorialmente competente di adeguata manutenzione e apertura alla pubblica fruizione”. L’associazione DHI nella domanda di partecipazione alla selezione ha dichiarato di essere in possesso dei suindicati requisiti. Tuttavia l’indagine svolta dall’amministrazione ha dimostrato una diversa realtà. Infatti: - per stessa ammissione di DHI il riconoscimento dell’associazione è intervenuto ben dopo il 16 gennaio 2017 (data di scadenza del termine per la presentazione delle domande), infatti solo cinque mesi dopo tale data, il 20 giugno 2017, l’Ufficio territoriale del governo registrava il riconoscimento dell’associazione (per come emerge dal certificato dalla Prefettura di Roma di cui alla nota prot. 220500 del 21 giugno 2017 versato agli atti del procedimento istruttorio svolto dal Ministero e nel presente giudizio); - alla data del 16 gennaio 2017 l’art. 6 dello statuto dell’associazione riportava tra i compiti della stessa “la promozione del Santo Vangelo nel mondo pubblico e politico (…) sostenere la Chiesa Cattolica con la formazione dei giovani, che hanno spiccate vocazioni alla missione politica (…) l’organizzazione delle attività di formazione”, per indicare quelli più vicini all’attività che il bando stabiliva che i partecipanti dovevano dimostrare di ricomprendere nello statuto quali fini istituzionali. Solo in data 30 marzo 2017 veniva integrato lo statuto dell’associazione con l'inserimento della finalità statutaria della tutela promozione e valorizzazione del patrimonio culturale. Appare evidente che le tre attività indicate nell’art. 6 dello statuto dell’associazione prima dell’intervento integrativo e sopra riprodotte non possono considerarsi, se non parzialmente (e quindi insufficientemente), ricomprese nell’ambito dell’ampia e comunque specifica attività di promozione e di valorizzazione del patrimonio culturale, che evidentemente impone all’ente di impegnarsi non sporadicamente (per come è dimostrato dalla documentazione depositata dall’associazione) ma costantemente nella duplice opera di promuovere in maniera diffusa il senso della cultura e la conoscenza del patrimonio esistente nonché di valorizzarlo attraverso iniziative che non possono avere respiro territorialmente circoscritto (come ancora è evincibile dalla documentazione depositata) ma riferirsi all’intero territorio nazionale e internazionale; - di conseguenza si presenta fortemente carente il possesso anche del successivo requisito (nell’elencazione indicata dall’art. 2 del decreto ministeriale 6 ottobre 2015) relativo alla documentata esperienza almeno quinquennale nel settore della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale. D’altronde risulta dalla stessa domanda presentata dall’associazione che la sua costituzione è avvenuta soltanto in data 8 novembre 2016, non assumendo alcun rilievo che essa abbia operato in altri paesi d’Europa anche in epoca precedente ed in Italia attraverso una specifica convenzione, circostanze ancora una volta dimostrative della impossibilità di poter vantare quella specifica esperienza quinquennale richiesta dall’avviso pubblico; - del resto le varie attività documentate (quali la collaborazione con il Centro guide Cicerone e con l’Università Lateranense nel 2011 e nel 2014, la partecipazione con Ciociaria Turismo.it alla settimana della cultura 2012, all’Educational Tour 2014 e al Press Trip organizzato dalla Regione Lazio, la gestione del Museo monastico di San Nicola nella Ciociaria) recavano evidenti ed incolmabili carenze circa l’esatta indicazione dell’arco temporale di svolgimento, l’esatta tipologia di attività svolta (sempre con riferimento ai settori della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale, ai quali era rigorosamente collegata la previsione dell’avviso pubblico onde poter considerare idonee a comprovare la sussistenza del requisito di partecipazione alla selezione le pregresse esperienze che sarebbero state indicate dai candidati) e, nei casi in cui era richiesto dall’avviso pubblico, non era allegata l’attestazione da parte della soprintendenza territorialmente competente di adeguata manutenzione e apertura alla pubblica fruizione del bene gestito (requisito, ancora una volta, richiesto espressamente dall’art. 2 del decreto ministeriale del 2015 e riprodotto al punto 4 dell’avviso pubblico); - infine, dalla documentazione allegata non era possibile verificare quale fosse la reale attività assegnata all’associazione DHI nello svolgimento delle suindicate collaborazioni. Deriva da quanto sopra come sia stata ampliamente dimostrata la carenza dei suddetti requisiti richiesti a pena di esclusione per la partecipazione alla selezione da parte dell’amministrazione procedente, peraltro in contraddittorio con l’associazione interessata e con richiesta di documentazione integrativa, il che conduce a ritenere congruamente svolta l’istruttoria e motivata la decisione assunta in autotutela dall’amministrazione (anche in adempimento del dettato di cui agli artt. 3 e 21-nonies l. 241/1990). 11. – I suindicati profili di merito non sono stati scrutinati dal giudice di prime cure in quanto il Tribunale amministrativo regionale ha ritenuto assorbite le corrispondenti questioni prospettate in quel grado di giudizio, attesa la fondatezza del motivo di censura con il quale l’associazione DHI ha sostenuto la illegittimità del provvedimento di annullamento in autotutela del decreto con il quale era approvata la graduatoria conclusiva della selezione per violazione dell’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990, in quanto era oramai trascorso il termine massimo di 18 mesi indicato dalla richiamata disposizione quale limite temporale ultimo oltre il quale l’amministrazione non può annullare in autotutela i provvedimenti di rilascio di autorizzazione ovvero di attribuzione di vantaggi economici. In proposito va detto che, in via principale, la difesa erariale ha sostenuto che la inapplicabilità della suindicata disposizione normativa (limitativa dell’esercizio del potere di autotutela all’arco temporale di diciotto mesi dalla data di adozione del provvedimento oggetto di annullamento) in quanto non riferibile al caso di specie, posto che il rilascio di una concessione non costituirebbe un provvedimento di attribuzione di un vantaggio economico, essendo il momento autoritativo sostanzialmente confuso nella stipula della convenzione che è atto di diritto privato e quindi non riconducibile alla sfera di applicazione della legge fondamentale sul procedimento amministrativo. Partendo da tale ultimo aspetto va rilevato (al contrario di quanto sostenuto dalla difesa erariale e in linea con quanto ha affermato il giudice di primo grado nella sentenza qui oggetto di appello) che la selezione avviata dal MIBACT e conclusa con l’adozione di un decreto di approvazione della graduatoria e di individuazione dell’assegnatario della concessione di un bene immobile di rilievo culturale ha ad oggetto, senza alcun dubbio, l’assegnazione di un vantaggio economico [e proprio per questa ragione la scelta del concessionario di un bene pubblico suscettibile di sfruttamento economico va effettuata mediante procedura competitiva di evidenza pubblica, in applicazione diretta dei principi di matrice eurounitaria del Trattato dell'Unione europea (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 31 maggio 2011 n. 3250 e 7 aprile 2011 n. 2151, alle cui motivazioni è qui sufficiente fare rinvio)]. La concessione per la cura e lo sfruttamento (e quindi, in sintesi, della gestione) di un bene culturale demaniale costituisce un atto autoritativo con il quale, all’esito di un procedimento amministrativo di tipo selettivo, l’amministrazione concedente individua il soggetto al quale rilasciare la concessione. L’operazione, ad evidente carattere dicotomico, si completa con la stipula della convenzione, che caratterizza il momento civilistico della seconda fase dell’operazione, per mezzo della quale le parti, concedente e concessionario, disciplinano gli aspetti concreti e “la vita” della gestione del bene demaniale, individuando le peculiarità che contraddistinguono il rapporto tra le parti, anche sotto il profilo economico. Dunque il momento civilistico non avrebbe vita autonoma senza la definizione della fase pubblicistica e, anzi, è strettamente condizionato dalla validità ed efficacia delle scelte effettuate dall’amministrazione concedente nella fase autoritativa di individuazione del concessionario. Infatti la concessione demaniale integra una fattispecie complessa (a portata dicotomica), alla cui formazione concorrono il potere discrezionale dell’amministrazione e la volontà del privato di accettare le condizioni negoziali di disciplina del rapporto (regime di utilizzo, durata, assetto economico dei rapporti, cause di decadenza per inadempimento, condizioni economiche per lo sfruttamento e la gestione del bene, ecc.). Nell’operazione di rilascio della concessione di beni coesistono, pertanto, un atto amministrativo unilaterale, con il quale l’amministrazione dispone di un proprio bene in via autoritativa e una convenzione attuativa, avente ad oggetto la regolamentazione degli aspetti patrimoniali, nonché dei diritti e obblighi delle parti connessi all'utilizzo di detto bene, elementi, questi, entrambi necessari ai fini della costituzione del rapporto concessorio. Nello stesso tempo, però, i due momenti, quello pubblicistico e quello consensuale, integrano l’atto complesso costituito dalla concessione-contratto. L’atto accessivo ad una concessione (il “contratto”) che, giuridicamente, va qualificata quale tipico provvedimento amministrativo costitutivo, parteciperebbe della natura provvedimentale della concessione medesima, ben potendo, dunque, al pari di essa, essere oggetto dell'esercizio di poteri di autotutela da parte dell'amministrazione, stante l’intimo rapporto di causa-effetto che intercorre tra le due fasi e tra gli atti che le concludono. D’altronde, anche per quello che si dirà nel prosieguo, una volta accertata l’illegittimità del provvedimento concessorio e una volta che si è proceduto al suo annullamento (in sede giudiziale o in sede amministrativa tramite lo strumento dell’autotutela), l’effetto patologico di tale illegittimità pervade il contratto e quindi provoca la decadenza dal beneficio ottenuto indebitamente. Ne deriva che, non solo il rilascio di una concessione costituisce un provvedimento di attribuzione di vantaggi economici “a persone ed enti pubblici e privati” (per come è specificato nell’art. 12 l. 241/1990), ampliativo della sfera giuridica (ed economica) del destinatario, che rappresenta il momento prodromico e pregiudiziale per la composizione civilistica degli interessi del concedente e del concessionario, ma nei confronti di detto provvedimento e del procedimento all’esito del quale esso viene adottato trovano sicuramente applicazione le disposizioni recate dalla l. 241/1990, ivi compreso l’istituto dell’autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies l. 241/1990. Il potere di autotutela decisoria, anche nel caso che qui rileva, è invero, un potere amministrativo di secondo grado, che si esercita su un precedente provvedimento amministrativo, vale a dire su una manifestazione di volontà già responsabilmente espressa dall'amministrazione e in sé costitutiva di affidamenti nei destinatari e che, in base all'art. 21-nonies l. 241/1990, per esigenze di sicurezza giuridica e certezza dei rapporti immanenti all’ordinamento, deve essere inderogabilmente esercitato entro un termine ragionevole e, comunque, entro diciotto mesi “dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici” Ed è proprio per tale ragione che il giudice di primo grado ha accolto il ricorso proposto dall’associazione DHI, atteso che il provvedimento di annullamento in autotutela impugnato e il successivo ordine restitutorio del bene sono intervenuti in epoca ampiamente successiva al termine di 18 mesi dall’adozione sia dell’atto di individuazione del concessionario (16 giugno 2017) che dalla stipula della convenzione concessoria (14 febbraio 2018), giacché l’atto di annullamento del primo provvedimento è stato assunto in data 6 ottobre 2019 e l’ordine di restituzione è stato assunto in data 5 dicembre 2019. 12. – Tuttavia le conclusioni alle quali è giunto il giudice di primo grado, in merito alla tardività dell’adozione dell’atto di annullamento in autotutela non convincono il Collegio. Va rimarcato, preliminarmente, che nel caso di specie siamo al cospetto di un soggetto (l’associazione DHI) che ha conseguito un vantaggio economico (l’assegnazione del bene di rilievo culturale, all’esito di una selezione, tramite concessione) sulla scorta di dichiarazioni rese al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla relativa selezione, poi dimostratesi non veritiere. Il Tribunale amministrativo regionale non ha ignorato tale elemento, ma ha ritenuto che, al ricorrere di una siffatta ipotesi, l’amministrazione avrebbe potuto annullare il provvedimento, adottato sulla scorta della dichiarazione non veritiera, solo all’esito del giudizio penale (e quindi dopo il passaggio in giudicato della relativa sentenza) avviato nei confronti del dichiarante (ovviamente, laddove detto procedimento venga realmente avviato), in ossequio alla norma contenuta nell’art. 21-nonies, comma 2-bis, l. 241/1990. Tale lettura interpretativa della norma non è condivisibile. Va detto che in epoca recente, pur se in materia di dichiarazioni rese in occasione di una procedura di gara svolta ai sensi del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, ma esprimendo principi che ben possono attagliarsi al caso qui in esame, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 25 settembre 2020 n. 16, ha sviluppato le seguenti argomentazioni che il Collegio ritiene di riferire al caso di specie come segue: - in via generale, “è risalente l'insegnamento filosofico secondo cui vero e falso non sono nelle cose ma nel pensiero e nondimeno dipendono dal rapporto di quest'ultimo con la realtà. In tanto una dichiarazione che esprima tale pensiero può dunque essere ritenuta falsa in quanto la realtà cui essa si riferisce sia in rerum natura”; - premesso quanto sopra, le informazioni false o fuorvianti rese da un concorrente ben possono essere idonee ad influenzare le decisioni che verranno assunte da un’amministrazione che sta svolgendo una procedura selettiva; - va però precisato che non è sufficiente che l’informazione sia falsa ma anche che la stessa sia diretta ed in grado di sviare l’amministrazione nell’adozione dei provvedimenti concernenti la procedura selettiva; - a ciò va aggiunto che le informazioni sono strumentali rispetto ai provvedimenti di competenza dell’amministrazione relativamente alla procedura selettiva, i quali sono a loro volta emessi non solo sulla base dell’accertamento di presupposti di fatto ma anche di valutazioni di carattere giuridico, opinabili tanto per quest’ultima quanto per l’operatore economico che le abbia fornite. Ne consegue che, in presenza di un margine di apprezzamento discrezionale, la demarcazione tra informazione contraria al vero e informazione ad essa non rispondente ma comunque in grado di sviare la valutazione della stazione appaltante diviene da un lato difficile, con rischi di aggravio della procedura di gara e di proliferazione del contenzioso ad essa relativo e dall'altro lato irrilevante rispetto al disvalore della fattispecie, consistente nella comune attitudine di entrambe le informazioni a sviare l’operato della medesima amministrazione; - da tutto quanto sopra discende che la considerazione della dichiarazione in termini omissivi o non veritieri, per poter condurre all’esclusione dalla selezione (ovvero, come nel caso di specie, laddove la scoperta della inadeguatezza della dichiarazione rispetto alle regole di partecipazione alla selezione sia successiva all’adozione del provvedimento conclusivo e quindi conduca al suo annullamento in autotutela), deve essere ricondotta dall’amministrazione nell’ambito di un contraddittorio tra l’amministrazione procedente e il concorrente, solo all’esito del quale l’amministrazione potrà stabilire se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante, se inoltre la stessa era in grado di sviare le proprie valutazioni ed infine se il comportamento tenuto dal concorrente abbia inciso in senso negativo sulla sua integrità o affidabilità partecipativa. Del pari l’amministrazione dovrà stabilire allo stesso scopo se quest'ultimo ha omesso di fornire informazioni rilevanti, sia perché previste dalla legge o dalla normativa della selezione, sia perché evidentemente in grado di incidere sul giudizio di integrità ed affidabilità. Nel caso in esame: - non si è al cospetto di valutazioni opinabili, posto che le ragioni della non veridicità delle dichiarazioni poggiano su dimostrazioni documentali di insussistenza dei requisiti richiesti dalla procedura di selezione; - prima di adottare il provvedimento di annullamento in autotutela l’amministrazione ha svolto una apposita istruttoria coinvolgendo pienamente l’associazione DHI, consentendo quindi alla stessa di contraddire su ogni profilo dei deficit rilevati dall’amministrazione in ordine ai requisiti di partecipazione dichiarati ma, all’esito della verifica successiva all’esito della selezione, la cui sussistenza non è stata confermata dalla documentazione ricevuta; - ne consegue che, non solo si è confermata la insussistenza dei requisiti di partecipazione in capo all’associazione DHI al momento della presentazione della domanda (il 16 gennaio 2017), ma si è anche dimostrata la non veridicità delle dichiarazioni rese ai sensi del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445. 13. – A questo punto, dunque, si impone lo sviluppo di ulteriori considerazioni in merito ai due istituti, apparentemente confliggenti tra di loro, dell’annullamento in autotutela e in particolare della previsione di cui all’art. 21-nonies, comma 2-bis, l. 241/1990, grazie al quale sarebbe possibile superare il limite temporale di diciotto mesi, con riferimento all’annullamento degli atti di rilascio di autorizzazione e di attribuzione di vantaggi economici (di cui al comma 1 del suddetto articolo), solo in epoca successiva al passaggio in cosa giudicata della sentenza penale di condanna di colui che ha ottenuto l’autorizzazione o il beneficio dichiarando il falso e del diverso istituto della decadenza dal beneficio, di cui all’art. 75 d.P.R. 445/2000, a mente del quale (per la parte che qui interessa non modificata dall’art. 264, comma 2, lett. a), n. 2), d.l.. 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 luglio 2020, n. 77, che vi ha introdotto un nuovo comma 1-bis) “Fermo restando quanto previsto dall'articolo 76, qualora dal controllo di cui all'articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”. La Sezione ha già chiarito che (cfr., tra le ultime, Cons. Stato, Sez. VI, 31 dicembre 2019 n. 8920) è ferma in giurisprudenza, per i più vari casi d’esercizio di una funzione amministrativa ampliativa delle facoltà giuridiche del privato e connessa ad autodichiarazioni rese da quest'ultimo (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. V, 12 giugno 2019 n. 3940, 3 febbraio 2016 n. 404 e 24 luglio 2014 n. 3934), la regola secondo cui, in base a detto art. 75, la non veridicità di quanto descritto nella dichiarazione sostitutiva presentata implica la decadenza dai benefici ottenuti con il provvedimento conseguente a tale dichiarazione, senza che, per l’applicazione di detta norma, abbia rilievo la condizione soggettiva del dichiarante (rispetto alla quale è irrilevante l’accertamento della falsità degli atti in forza di una sentenza penale definitiva di condanna), facendo invece leva sul principio di autoresponsabilità. 14. - Da ciò discende che (come ha chiarito l’Adunanza plenaria nella richiamata sentenza n. 16/2020), anche a voler seguire la prospettazione del TAR in tema d’autotutela discrezionale e di perentorietà del termine per esercitarla, laddove la fallace dichiarazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del provvedimento amministrativo, è del pari congruo che il termine “ragionevole” (massimo di 18 mesi) decorra solo dal momento in cui la pubblica amministrazione abbia appreso tale non veridicità (cfr., ancora per tutte, seppure in materia edilizia ma con principi sovrapponibili pienamente al caso in esame, Cons. Stato, Ad. pl., 17 ottobre 2017 n. 8). Tenendo conto dei principi espressi dall’Adunanza plenaria nelle due sentenze appena richiamate, si può dunque affermare che l’avere omesso di dichiarare o l’avere dichiarato in modo fuorviante ovvero non veritiero elementi indispensabili a permettere la formazione della volontà dell’amministrazione che si coagula nel provvedimento ampliativo, laddove tale volontà sia negli esiti coartata e comunque inquinata dalla non rispondenza al vero degli elementi di fatto e di diritto dichiarati dalla parte interessata, è lo stesso soggetto interessato, con il proprio comportamento, ad indurre l’amministrazione a rimuovere in autotutela il provvedimento caratterizzato da patologie rilevanti e quindi a provocare la decadenza dal beneficio ingiustamente acquisito, senza che possa essere garantita la sopravvivenza dello stesso in base ad un mero elemento di fatto quale il trascorrere del termine di 18 mesi. Una lettura costituzionalmente orientata della norma di cui all’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990, tenuto conto della portata degli artt. 3 e 97 Cost., conduce ad affermare che: - il termine massimo di 18 mesi assegnato dal legislatore nel 2015 all’amministrazione per ritirare dal mondo giuridico, con effetto retroattivo, il provvedimento di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici è stato introdotto al fine di garantire il rispetto del principio del legittimo affidamento che trova il suo fondamento, nell’ordinamento unionale, nei principi del Trattato dell’unione europea e, in quello nazionale, nei principi dell’art. 97 Cost. nonché nelle disposizioni recate dall’art. 1, comma 1, l. 241/1990; - sotto il versante del diritto eurounitario (nell'ambito della giurisprudenza della Corte di giustizia UE), il principio di tutela del legittimo affidamento impone che una situazione di vantaggio, assicurata ad un privato da un atto specifico e concreto dell'autorità amministrativa, non possa essere successivamente rimossa, salvo che non sia strettamente necessario per l'interesse pubblico (e fermo in ogni caso l'indennizzo della posizione acquisita). - nello stesso tempo però (cfr. Cons. stato, Sez. III, 8 luglio 2020 n. 4392), affinché un affidamento sia legittimo è necessario un requisito oggettivo, che coincide con la necessità che il vantaggio sia chiaramente attribuito da un atto all'uopo rivolto e che sia decorso un arco temporale tale da ingenerare l'aspettativa del suo consolidamento e un requisito soggettivo, che coincide con la buona fede non colposa del destinatario del vantaggio (l'affidamento non è quindi legittimo ove chi lo invoca versi in una situazione di dolo o colpa); - sulla spinta dei principi unionali il nostro legislatore ha dunque introdotto un limite massimo per l’adozione di atto di ritiro di provvedimenti ampliativi della sfera giuridica del destinatario, sempre che costui sia parte passiva e incolpevole nella provocazione della patologia che, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 1, l. 241/1990, affligge l’atto da ritirarsi, sicché la responsabilità nella adozione dell’atto illegittimo deve totalmente ascriversi all’amministrazione; - diverso è il caso in cui il profilo patologico che affligge l’atto e che ne impone, al ricorrere dei presupposti, la rimozione, sia ascrivibile al comportamento mantenuto dalla parte che ha ottenuto l’adozione in suo favore dell’atto autorizzatorio ovvero di attribuzione di vantaggi economici; - ancora una volta, in considerazione dell’art. 97 Cost e dell’art. 3 Cost., quest’ultimo con riferimento agli altri soggetti che pur potendo aspirare al rilascio del provvedimento ampliativo della sfera giuridica dell’interessato hanno dovuto accettare che il provvedimento favorevole fosse assegnato ad altri, l’ordinamento (sia quello unionale che quello nazionale) non può tollerare che il vantaggio sia conseguito attraverso un comportamento non corretto che abbia indotto in errore l’amministrazione procedente, sviando in modo decisivo la valutazione dei presupposti fissati dalla legge ai fini del rilascio del provvedimento attributivo di quel vantaggio, pregiudicando (anche solo potenzialmente) le aspirazioni di altri (nel caso di specie alla selezione potrebbero non avere partecipato associazioni che, non possedendo i requisiti richiesti dall’avviso pubblico, sapevano che sarebbero state escluse e che, peraltro, potrebbero avere conseguito i requisiti richiesti in epoca successiva rispetto alla scadenza del termine per la presentazione delle domande esattamente come l’associazione DHI che ha, dunque, partecipato alla selezione senza essere in possesso dei requisiti richiesti, addirittura aggiudicandosela). Pertanto, la surriproposta lettura costituzionalmente orientata dell’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990, porta ad affermare che il limite temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non può trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 17 maggio 2019 n. 3192, 24 aprile 2019 n. 2645 e 14 giugno 2017). 15. – Per completezza merita ancora di essere ricordato come la condivisibile giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha chiarito come il superamento dei limiti temporali previsti per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela (sanciti dall'art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990, e già ivi espressi attraverso il canone del “termine ragionevole”) in presenza di una falsità dichiarativa o documentale presupponga la valenza obiettivamente determinante di siffatta falsa rappresentazione, tanto che è proprio sulla base di essa che il provvedimento ampliativo è stato adottato (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 27 giugno 2018 n. 3940). Coerente con tale prospettiva risulta la (più sopra) citata pronuncia n. 8 del 2017 dell'Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, la quale ha posto in risalto che, se “la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull'amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte”, ciò vale tuttavia nelle ipotesi in cui “la non veritiera prospettazione dei fatti rilevanti da parte del soggetto interessato abbia sortito un rilievo determinante per l'adozione dell'atto illegittimo”. Tenuto conto di quanto sopra, in presenza di un provvedimento attributivo di vantaggi economici, nella specie il provvedimento di approvazione della graduatoria della selezione che aveva decretato quale assegnataria della concessione l’associazione DHI, rilasciato sulla base di una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà resa dalla predetta associazione, recante l'attestazione di circostanze obiettivamente non veritiere, ossia l'assenza delle situazioni indicate dall’avviso pubblico e, prima ancora, dall’art. 2 del decreto ministeriale 6 ottobre 2015 (espressamente richiamato dalla legge speciale della selezione), il MIBACT non avrebbe potuto esimersi dal provvedere in autotutela, stante anche il chiaro disposto dell’art. 75 d.P.R. 445/2000. La suddetta previsione normativa costituisce, come si è sopra già anticipato, il punto di emersione del principio di autoresponsabilità, che è il cardine fondamentale dell'intera disciplina in materia di dichiarazioni sostitutive. In forza di tale principio, al privato è precluso di trarre qualsivoglia vantaggio da dichiarazioni obiettivamente non rispondenti al vero, per cui l'amministrazione è vincolata ad assumere le conseguenti determinazioni, senza alcun margine di discrezionalità e a prescindere dal profilo soggettivo del dolo o della colpa del dichiarante. Conseguentemente alla vicenda qui oggetto di scrutinio trovano contemporanea applicazione l’art. 21-nonies, comma 1, l. 214/1990 e l’art. 75, comma 1, d.P.R. n. 445/2000. Il rapporto osmotico tra le due disposizioni è tale che la seconda incide sulla prima anestetizzando l’applicazione del termine di diciotto mesi per l’esercizio del potere di autotutela. Le due norme, dunque, non sono antitetiche tra di loro, ma trovano il punto d’incontro nel principio per il quale l’affidamento va garantito solo se è legittimo e se quindi il provvedimento favorevole non è stato acquisito coartando o inquinando o (ancora) deviando la volontà dell’amministrazione attraverso non veritiere rappresentazione della realtà, sia con la produzione di documentazione fuorviante che con la predisposizione di dichiarazioni dal contenuto omissivo ovvero non rispondente a quanto era richiesto di dichiarare. In siffatta ricostruzione della compatibilità applicativa delle due disposizioni qui in esame, trova plastica collocazione anche la norma di cui all’art. 21-nonies, comma 2-bis, l. 241/1990, statuendo essa stessa, nell’ultimo periodo, che ai fini del superamento del termine dei diciotto mesi previsto dal comma 1 è “fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”. L’art. 75 d.P.R. 445/2000 è collocato per l’appunto nel capo VI del decreto, concretizzandosi quindi la “decadenza dai benefici” in una sanzione amministrativa aggiuntiva rispetto a quelle penali previste dallo stesso decreto e dal codice penale. Tutto ciò con la conseguenza che, dunque, la necessità di attendere la sentenza penale di condanna per poter “sforare” il termine di diciotto mesi per l’adozione del provvedimento di annullamento in autotutela, è condizione limitata alla sola ipotesi in cui la dichiarazione non veritiera o infedele sia stata già oggetto dell’avvio di un procedimento penale nei confronti del dichiarante, di talché, perdurante il processo penale, è impedito all’amministrazione di rimuovere il provvedimento amministrativo che, insieme con la dichiarazione non veritiera, va considerato quale “corpo di reato”. Laddove tale esigenza non vi sia, perché non è pendente alcun procedimento penale, l’amministrazione ha il dovere di rimuovere il provvedimento amministrativo adottato illegittimamente per cause assolutamente rilevanti ed esclusivamente riconducibili all’apporto procedimentale infedele della parte interessata, ciò anche nel rispetto del principio di leale collaborazione il cui onere, positivizzato ora nell’art. 1, comma 2-bis, l. 241/1990, incombe anche a carico del “privato”, in un’ottica di bilanciamento degli interessi (pubblici e privati) in gioco. Né rileva, in senso inverso, per come ha chiarito di recente la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 16 marzo 2020 n. 1872), il richiamo alla sentenza 24 luglio 2019 n. 199 con la quale la Corte costituzionale si è limitata a dichiarare inammissibile la questione di legittimità sollevata in relazione all'art. 75 d.P.R. 445/2000 (sollevata in riferimento all'art. 3 Cost.) non offrendo alcun elemento utile ai fini delle questioni oggetto del presente giudizio, né ancor meno appaiono nella presente sede rilevanti i dubbi di legittimità costituzionale nuovamente mossi dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, con ordinanza 30 gennaio 2020 n.92 al richiamato art. 75, vertendo tali questioni (come quelle già dichiarate inammissibili dalla Corte costituzionale) sull’automaticità della sanzione decadenziale, posto che nella vicenda qui in esame la decadenza è conseguenza di un atto di annullamento in autotutela adottato all’esito di un procedimento al quale ha partecipato attivamente la stessa parte interessata. Ad avviso del Collegio quindi tutti gli elementi caratterizzanti l’applicazione dell’istituto dell’annullamento in autotutela sono dimostrati come esistenti nella vicenda in esame, ivi compreso l’interesse pubblico all’annullamento della concessione di un bene culturale demaniale che avrebbe favorito un soggetto che non ha dimostrato il reale possesso di tutti i requisiti richiesti dall’avviso della selezione e, prima ancora, dal decreto ministeriale 6 ottobre 2015. Deriva da ciò anche la correttezza del provvedimento con il quale è stata espressa la decadenza dal beneficio ed è stato richiesto il rilascio del bene immobile concesso all’associazione DHI. 16. – In ragione delle suesposte osservazioni la fondatezza dei motivi di appello, per come si è sopra chiarito, conduce all’accoglimento del gravame proposto dal MIBACT e alla riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sede staccata di Latina, Sez. I, 26 maggio 2020 n. 173, con la conseguente reiezione del ricorso introduttivo (R.g. n. 697/2019) e di quello recante motivi aggiunti proposti in primo grado dall’associazione DHI. L’appello incidentale, con il quale sono stati riproposti i motivi dedotti in primo grado dalla predetta associazione va, per le stesse ragioni sopra rappresentate, respinto, mentre può accogliersi l’appello incidentale proposto dalle associazioni interventrici. Le spese del doppio grado di giudizio, stante la peculiarità e la complessità delle questioni di fatto e giuridiche fatte oggetto di controversia possono compensarsi tra tutte le parti costituite, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., per come richiamato espressamente dall’art. 26, comma 1, c.p.a. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello (n. R.g. 6503/2020), come in epigrafe indicato, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sede staccata di Latina, Sez. I, 26 maggio 2020 n. 173, respinge il ricorso introduttivo (R.g. n. 697/2019) e il ricorso recante motivi aggiunti proposti in primo grado. Respinge l’appello incidentale proposto dall’associazione DHI - Dignitatis Humanae Institute. Accoglie l’appello incidentale delle associazioni: Comunità Solidali Lab, Associazione Gottifredo, Alle origini del cammino di San Benedetto, Amici del cammino di San Benedetto, Club Alpino Italiano, Sezione di Alatri, De Rerum Natura, Gruppo di azione locale versante laziale del Parco Nazionale D’Abruzzo, Circolo Legambiente il Cigno di Frosinone, Fondazione l’Abbadia, Res Ciociaria e Sylvatica. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 18 febbraio 2021 con l'intervento dei magistrati: Sergio Santoro, Presidente Bernhard Lageder, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere Stefano Toschei, Consigliere, Estensore Sergio Santoro, Presidente Bernhard Lageder, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere Stefano Toschei, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Beni culturali – Concessione - Certosa di Trisulti – requisiti - Mancanza . Ritiro dell’affidamento della concessione – legittimità.    Atto amministrativo – Autotutela – Termine – Provvedimento ampliativo - Autotutela a seguito di false dichiarazioni – Termine di 18 mesi ex art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990 – Inapplicabilità.                E’ legittimo il decreto del Ministero dei beni culturali ed ambientali che ha ritirato l'affidamento in concessione del bene immobile culturale denominato della Certosa di Trisulti, in provincia di Frosinone, alla Dignitatis Humanae, a causa della mancanza dei requisiti richiesti dal bando che riguardavano non solo la personalità giuridica, ma anche lo Statuto dell'associazione, che al tempo della presentazione della domanda non riportava gli indirizzi di tutela e valorizzazione richiesti dal ministero (1).                Il limite temporale dei 18 mesi per l’esercizio del potere di autotutela, introdotto dall’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole (2).    (1) Ha chiarito la Sezione che il d.m. 6 ottobre 2015, recante la disciplina del rilascio delle concessioni in uso a privati di beni immobili del demanio culturale dello Stato, si esprimano in termini estremamente chiari nel prevedere che alla selezione possano partecipare solo associazioni e fondazioni riconosciute, perché solo a queste tipologie di enti è consentito di essere destinatari della concessione di beni immobili del demanio culturale dello Stato.  Il tenore dell’art. 2 del citato decreto ministeriale non lascia spazio a diverse interpretazioni laddove stabilisce testualmente che “Le concessioni disciplinate dal presente decreto sono riservate alle associazioni e fondazioni di cui al Libro I del codice civile, dotate di personalità giuridica e prive di fini di lucro, che siano in possesso dei seguenti requisiti: a) previsione, tra le finalità principali definite per legge o per statuto, dello svolgimento di attività di tutela, di promozione, di valorizzazione o di conoscenza dei beni culturali e paesaggistici; b) documentata esperienza almeno quinquennale nel settore della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale; c) documentata esperienza nella gestione, nell'ultimo quinquennio antecedente la pubblicazione dell'avviso pubblico di cui all'art. 3, di almeno un immobile culturale, pubblico o privato, con attestazione della soprintendenza territorialmente competente di adeguata manutenzione e apertura alla pubblica fruizione”.  I requisiti dovevano essere posseduti alla scadenza del termine fissato per presentazione delle domande. Ciò discende da un principio immanente nel nostro ordinamento in virtù del quale i requisiti richiesti per la partecipazione ad una selezione pubblica debbono essere posseduti al momento della scadenza del termine perentorio stabilito dal bando per la presentazione della domanda di partecipazione, al fine di non pregiudicare la par condicio tra i candidati ad una selezione pubblica, che sempre deve assistere lo svolgimento di una siffatta procedura amministrativa, anche solo quale precipitato del principio di cui all’art. 97 Cost., oltre ai principi, criteri e disposizioni recati dall’art. 1, l. n. 241 del 1990, che disciplina ogni tipologia di attività amministrativa, anche di tipo selettivo (Cons. Stato, sez. VI, 8 settembre 2020, n. 5412) e che, ovviamente (operando, in via principale, quale principio generale relativo alla legittimazione a partecipare alla selezione e non quale condizione per l’ottenimento del beneficio derivante dall’avere superato favorevolmente la selezione stessa), trova applicazione anche nell’ipotesi in cui si verifichi il caso della partecipazione di un solo candidato alla selezione.  Ha ancora affermato la Sezione che la selezione avviata dal Ministero dei beni culturali e conclusa con l’adozione di un decreto di approvazione della graduatoria e di individuazione dell’assegnatario della concessione di un bene immobile di rilievo culturale ha ad oggetto, senza alcun dubbio, l’assegnazione di un vantaggio economico [e proprio per questa ragione la scelta del concessionario di un bene pubblico suscettibile di sfruttamento economico va effettuata mediante procedura competitiva di evidenza pubblica, in applicazione diretta dei principi di matrice eurounitaria del Trattato dell'Unione europea (Cons. Stato, sez. V, 31 maggio 2011, n. 3250 e 7 aprile 2011, n. 2151).       (2) La Sezione ha premesso che la concessione per la cura e lo sfruttamento (e quindi, in sintesi, della gestione) di un bene culturale demaniale costituisce un atto autoritativo con il quale, all’esito di un procedimento amministrativo di tipo selettivo, l’amministrazione concedente individua il soggetto al quale rilasciare la concessione. L’operazione, ad evidente carattere dicotomico, si completa con la stipula della convenzione, che caratterizza il momento civilistico della seconda fase dell’operazione, per mezzo della quale le parti, concedente e concessionario, disciplinano gli aspetti concreti e “la vita” della gestione del bene demaniale, individuando le peculiarità che contraddistinguono il rapporto tra le parti, anche sotto il profilo economico.  Dunque il momento civilistico non avrebbe vita autonoma senza la definizione della fase pubblicistica e, anzi, è strettamente condizionato dalla validità ed efficacia delle scelte effettuate dall’amministrazione concedente nella fase autoritativa di individuazione del concessionario.  Infatti la concessione demaniale integra una fattispecie complessa (a portata dicotomica), alla cui formazione concorrono il potere discrezionale dell’amministrazione e la volontà del privato di accettare le condizioni negoziali di disciplina del rapporto (regime di utilizzo, durata, assetto economico dei rapporti, cause di decadenza per inadempimento, condizioni economiche per lo sfruttamento e la gestione del bene, ecc.). Nell’operazione di rilascio della concessione di beni coesistono, pertanto, un atto amministrativo unilaterale, con il quale l’amministrazione dispone di un proprio bene in via autoritativa e una convenzione attuativa, avente ad oggetto la regolamentazione degli aspetti patrimoniali, nonché dei diritti e obblighi delle parti connessi all'utilizzo di detto bene, elementi, questi, entrambi necessari ai fini della costituzione del rapporto concessorio.  Nello stesso tempo, però, i due momenti, quello pubblicistico e quello consensuale, integrano l’atto complesso costituito dalla concessione-contratto. L’atto accessivo ad una concessione (il “contratto”) che, giuridicamente, va qualificata quale tipico provvedimento amministrativo costitutivo, parteciperebbe della natura provvedimentale della concessione medesima, ben potendo, dunque, al pari di essa, essere oggetto dell'esercizio di poteri di autotutela da parte dell'amministrazione, stante l’intimo rapporto di causa-effetto che intercorre tra le due fasi e tra gli atti che le concludono. D’altronde, anche per quello che si dirà nel prosieguo, una volta accertata l’illegittimità del provvedimento concessorio e una volta che si è proceduto al suo annullamento (in sede giudiziale o in sede amministrativa tramite lo strumento dell’autotutela), l’effetto patologico di tale illegittimità pervade il contratto e quindi provoca la decadenza dal beneficio ottenuto indebitamente.  Ne deriva che, non solo il rilascio di una concessione costituisce un provvedimento di attribuzione di vantaggi economici “a persone ed enti pubblici e privati” (per come è specificato nell’art. 12, l. n. 241 del 1990), ampliativo della sfera giuridica (ed economica) del destinatario, che rappresenta il momento prodromico e pregiudiziale per la composizione civilistica degli interessi del concedente e del concessionario, ma nei confronti di detto provvedimento e del procedimento all’esito del quale esso viene adottato trovano sicuramente applicazione le disposizioni recate dalla l. n. 241 del 1990, ivi compreso l’istituto dell’autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990.  Ha ancora ricordato la Sezione che il potere di autotutela decisoria è, invero, un potere amministrativo di secondo grado, che si esercita su un precedente provvedimento amministrativo, vale a dire su una manifestazione di volontà già responsabilmente espressa dall'amministrazione e in sé costitutiva di affidamenti nei destinatari e che, in base all'art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, per esigenze di sicurezza giuridica e certezza dei rapporti immanenti all’ordinamento, deve essere inderogabilmente esercitato entro un termine ragionevole e, comunque, entro diciotto mesi “dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”  Nel caso di specie si è al cospetto di un soggetto (l’associazione DHI) che ha conseguito un vantaggio economico (l’assegnazione del bene di rilievo culturale, all’esito di una selezione, tramite concessione) sulla scorta di dichiarazioni rese al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla relativa selezione, poi dimostratesi non veritiere.  Il giudice di primo grado ha ritenuto che, al ricorrere di una siffatta ipotesi, l’amministrazione avrebbe potuto annullare il provvedimento, adottato sulla scorta della dichiarazione non veritiera, solo all’esito del giudizio penale (e quindi dopo il passaggio in giudicato della relativa sentenza) avviato nei confronti del dichiarante (ovviamente, laddove detto procedimento venga realmente avviato), in ossequio alla norma contenuta nell’art. 21-nonies, comma 2-bis, l. n. 241 del 1990.  La Sezione ha ritenuto che tale lettura interpretativa della norma non è condivisibile.  Va detto che in epoca recente, pur se in materia di dichiarazioni rese in occasione di una procedura di gara svolta ai sensi del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, ma esprimendo principi che ben possono attagliarsi al caso qui in esame, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 25 settembre 2020 n. 16, ha affermato che: in via generale, “è risalente l'insegnamento filosofico secondo cui vero e falso non sono nelle cose ma nel pensiero e nondimeno dipendono dal rapporto di quest'ultimo con la realtà. In tanto una dichiarazione che esprima tale pensiero può dunque essere ritenuta falsa in quanto la realtà cui essa si riferisce sia in rerum natura”; premesso quanto sopra, le informazioni false o fuorvianti rese da un concorrente ben possono essere idonee ad influenzare le decisioni che verranno assunte da un’amministrazione che sta svolgendo una procedura selettiva; va però precisato che non è sufficiente che l’informazione sia falsa ma anche che la stessa sia diretta ed in grado di sviare l’amministrazione nell’adozione dei provvedimenti concernenti la procedura selettiva; a ciò va aggiunto che le informazioni sono strumentali rispetto ai provvedimenti di competenza dell’amministrazione relativamente alla procedura selettiva, i quali sono a loro volta emessi non solo sulla base dell’accertamento di presupposti di fatto ma anche di valutazioni di carattere giuridico, opinabili tanto per quest’ultima quanto per l’operatore economico che le abbia fornite. Ne consegue che, in presenza di un margine di apprezzamento discrezionale, la demarcazione tra informazione contraria al vero e informazione ad essa non rispondente ma comunque in grado di sviare la valutazione della stazione appaltante diviene da un lato difficile, con rischi di aggravio della procedura di gara e di proliferazione del contenzioso ad essa relativo e dall'altro lato irrilevante rispetto al disvalore della fattispecie, consistente nella comune attitudine di entrambe le informazioni a sviare l’operato della medesima amministrazione.   Da tutto quanto sopra discende che la considerazione della dichiarazione in termini omissivi o non veritieri, per poter condurre all’esclusione dalla selezione (ovvero, come nel caso di specie, laddove la scoperta della inadeguatezza della dichiarazione rispetto alle regole di partecipazione alla selezione sia successiva all’adozione del provvedimento conclusivo e quindi conduca al suo annullamento in autotutela), deve essere ricondotta dall’amministrazione nell’ambito di un contraddittorio tra l’amministrazione procedente e il concorrente, solo all’esito del quale l’amministrazione potrà stabilire se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante, se inoltre la stessa era in grado di sviare le proprie valutazioni ed infine se il comportamento tenuto dal concorrente abbia inciso in senso negativo sulla sua integrità o affidabilità partecipativa. Del pari l’amministrazione dovrà stabilire allo stesso scopo se quest'ultimo ha omesso di fornire informazioni rilevanti, sia perché previste dalla legge o dalla normativa della selezione, sia perché evidentemente in grado di incidere sul giudizio di integrità ed affidabilità.  Una lettura costituzionalmente orientata della norma di cui all’art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241 del 1990, tenuto conto della portata degli artt. 3 e 97 Cost., conduce ad affermare che il termine massimo di 18 mesi assegnato dal legislatore nel 2015 all’amministrazione per ritirare dal mondo giuridico, con effetto retroattivo, il provvedimento di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici è stato introdotto al fine di garantire il rispetto del principio del legittimo affidamento che trova il suo fondamento, nell’ordinamento unionale, nei principi del Trattato dell’unione europea e, in quello nazionale, nei principi dell’art. 97 Cost. nonché nelle disposizioni recate dall’art. 1, comma 1, l. n. 241 del 1990.  Sotto il versante del diritto eurounitario (nell'ambito della giurisprudenza della Corte di giustizia UE), il principio di tutela del legittimo affidamento impone che una situazione di vantaggio, assicurata ad un privato da un atto specifico e concreto dell'autorità amministrativa, non possa essere successivamente rimossa, salvo che non sia strettamente necessario per l'interesse pubblico (e fermo in ogni caso l'indennizzo della posizione acquisita). Nello stesso tempo però (Cons. Stato, sez. III, 8 luglio 2020, n. 4392), affinché un affidamento sia legittimo è necessario un requisito oggettivo, che coincide con la necessità che il vantaggio sia chiaramente attribuito da un atto all'uopo rivolto e che sia decorso un arco temporale tale da ingenerare l'aspettativa del suo consolidamento e un requisito soggettivo, che coincide con la buona fede non colposa del destinatario del vantaggio (l'affidamento non è quindi legittimo ove chi lo invoca versi in una situazione di dolo o colpa).  Sulla spinta dei principi unionali il nostro legislatore ha dunque introdotto un limite massimo per l’adozione di atto di ritiro di provvedimenti ampliativi della sfera giuridica del destinatario, sempre che costui sia parte passiva e incolpevole nella provocazione della patologia che, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 1, l. n. 241 del 1990, affligge l’atto da ritirarsi, sicché la responsabilità nella adozione dell’atto illegittimo deve totalmente ascriversi all’amministrazione.    Diverso è il caso in cui il profilo patologico che affligge l’atto e che ne impone, al ricorrere dei presupposti, la rimozione, sia ascrivibile al comportamento mantenuto dalla parte che ha ottenuto l’adozione in suo favore dell’atto autorizzatorio ovvero di attribuzione di vantaggi economici.  Ancora una volta, in considerazione dell’art. 97 Cost e dell’art. 3 Cost., quest’ultimo con riferimento agli altri soggetti che pur potendo aspirare al rilascio del provvedimento ampliativo della sfera giuridica dell’interessato hanno dovuto accettare che il provvedimento favorevole fosse assegnato ad altri, l’ordinamento (sia quello unionale che quello nazionale) non può tollerare che il vantaggio sia conseguito attraverso un comportamento non corretto che abbia indotto in errore l’amministrazione procedente, sviando in modo decisivo la valutazione dei presupposti fissati dalla legge ai fini del rilascio del provvedimento attributivo di quel vantaggio, pregiudicando (anche solo potenzialmente) le aspirazioni di altri (nel caso di specie alla selezione potrebbero non avere partecipato associazioni che, non possedendo i requisiti richiesti dall’avviso pubblico, sapevano che sarebbero state escluse e che, peraltro, potrebbero avere conseguito i requisiti richiesti in epoca successiva rispetto alla scadenza del termine per la presentazione delle domande esattamente come l’associazione DHI che ha, dunque, partecipato alla selezione senza essere in possesso dei requisiti richiesti, addirittura aggiudicandosela).  Pertanto, la surriproposta lettura costituzionalmente orientata dell’art. 21-nonies, comma 1, l. 241 del n. 1990, porta ad affermare che il limite temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non può trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario (Cons. Stato, sez. IV, 17 maggio 2019, n. 3192; id. 24 aprile 2019, n. 2645).
Atto amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/poteri-di-revoca-di-una-autorizzazione-alla-coltivazione-per-sopravvenienze
Poteri di revoca di una autorizzazione alla coltivazione per sopravvenienze
N. 01837/2020REG.PROV.COLL. N. 00936/2011 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 936 del 2011, proposto dalla Regione Veneto, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Luisa Londei, Ezio Zanon, con domicilio eletto presso l’avv. Luigi Manzi in Roma, via Federico Confalonieri, 5; contro Società Chesini S.n.c. (ora Chesini S.r.l.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Chiara Cacciavillani, con domicilio eletto presso l’avv. Franco Gaetano Scoca in Roma, via Giovanni Paisiello 55; nei confronti la Provincia di Verona, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Simone Cadeddu, Franco Zumerle, con domicilio eletto presso l’avv. Simone Cadeddu in Roma, via Flaminia n. 133; il signor Giulio Soffiati, rappresentato e difeso dall'avvocato Giorgio Orrico, con domicilio eletto presso l’avv. Sergio Blasi in Roma, via Duilio n. 13; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda) n. 2384/2010, resa tra le parti, concernente la impugnativa della provvedimento della Giunta regionale n. 1922 del 25 giugno 2004 di revoca della autorizzazione alla coltivazione di una cava di ghiaia Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Chesini S.n.c. della Provincia di Verona e del signor Giulio Soffiati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 gennaio 2020 il Cons. Cecilia Altavista e uditi per le parti gli avvocati Gaia Stivali, Chiara Cacciavillani e Simone Cadeddu; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con decreto della Giunta della Regione Veneto n. 3841 del 3 novembre 2000 è stata rilasciata alla Chesini Ernesto e Figli s.n.c. una autorizzazione per la coltivazione di una cava di ghiaia sita nella località “Bardoline Alte”, nel Comune di Pescantina; il provvedimento prevedeva la scadenza al 31 dicembre 2024, sulla base del progetto di coltivazione e ricomposizione ambientale e del piano economico-finanziario presentati dalla ditta; l’autorizzazione era sottoposta ad alcune prescrizioni tra cui, ai fini della prosecuzione dei lavori, un sopralluogo quinquennale di concerto tra Regione Comune e Provincia per una verifica circa lo stato di avanzamento dei lavori. Tale autorizzazione sostituiva integralmente la precedente autorizzazione di coltivazione rilasciata alla Chesini con delibera della Giunta regionale del 3 febbraio 1981. Con provvedimento n. 5113 del 10 ottobre 2002, la Provincia di Verona autorizzava l’installazione nell’area di cava, di un impianto per la lavorazione e il recupero di materiali inerti provenienti da scavi e demolizioni esterne. Il 6 novembre 2002 veniva presentato un esposto da un gruppo di cittadini del Comune di Pescantina al Presidente della Giunta Regionale chiedendo l’esercizio dei poteri di autotutela in particolare lamentando che l’autorizzazione era stata rilasciata senza alcuna valutazione della vicinanza della zona di estrazione ad un’area destinata in base al PRG vigente a zona omogenea D. Con nota del 6 marzo 2003 il Dirigente Regionale della Direzione Geologia e Ciclo dell’Acqua della Regione Veneto inviava alla impresa Chesini l’esposto dei cittadini invitando alla presentazione di osservazioni in particolare sulle tempistiche di realizzazione del progetto di coltivazione della cava autorizzato fino al 31 dicembre 2024; le osservazioni sono state effettivamente inviate il 3 aprile 2003, contestando le argomentazioni dell’esposto e facendo presente di avere acquistato un impianto per la lavorazione e il recupero di materiali inerti provenienti anche dall’esterno, autorizzato dalla Provincia di Verona con provvedimento del 10 ottobre 2002. La Commissione tecnica regionale per le attività estrattive, organo consultivo regionale, ai sensi dell’art. 39 della legge regionale 7 settembre 1982 n. 44, anche a seguito di un sopralluogo dei propri tecnici sul sito della cava e di ulteriori osservazioni della impresa interessata prevenute il 26 novembre 2003, proponeva, nella seduta del 27 novembre 2003, la modifica del periodo di durata della autorizzazione, indicando la cessazione alla data del 31 dicembre 2008, con la estrazione delle stesse quantità di materiali previste nel piano originario per il periodo fissato al 31 dicembre 2024. Il parere della Commissione indicava, quali valutazioni poste a base del parere, il contemperamento dei contrapposti interessi ambientali e ricompostivi e imprenditoriali, alla luce dei fatti sopravvenuti al rilascio del provvedimento del 2000, in particolare l’aggravio dell’impatto ambientale prodotto dal sommarsi dell’attività di estrazione con quella di recupero degli inerti con relativo frantoio autorizzato dalla Provincia di Verona nel 2002, nonché la vicinanza ai nuclei abitati; quindi riteneva idonea una riduzione temporale del periodo di coltivazione della cava, in rapporto alle dimensioni della stessa, in funzione delle esigenze di ricomposizione. Tali esigenze venivano assicurate anche tramite le prescrizioni imposte ovvero la messa a dimora di una quinta arborea protettiva da polveri e rumori, la realizzazione di un argine di terra di circa 2 metri all’interno di tale quinta, e di un ulteriore filare di piante con funzione protettiva su tale argine; nonché da una raccomandazione anche a Comune e Provincia di valutare lo spostamento del punto di accesso alla cava. La Giunta Regionale, sulla base di tale parere, adottava la n. 1922 del 25 giugno 2004, con cui l’impresa Chiesini veniva autorizzata a coltivare la cava di ghiaia fino al 31 dicembre 2008, riducendo il termine originariamente previsto dalla concessione, ma con riferimento allo stesso piano di coltivazione quindi alle medesime quantità di materiale estratto; recepiva altresì le prescrizioni di cui al parere della Commissione tecnica. Tale provvedimento è stato impugnato dalla Chesini s.n.c. davanti al Tribunale amministrativo regionale del Veneto formulando i seguenti motivi: -violazione dell’art. 21 quinquies della legge n. 241 del 1990, per non avere motivato sull’interesse pubblico ed attuale alla revoca della concessione; -eccesso di potere in relazione alla valutazione della sopravvenuta autorizzazione alla frantumazione, estranea al provvedimento di concessione della cava ed oggetto di altro ricorso pendente davanti al Tribunale amministrativo regionale per il Veneto R.G. n. 662 del 2004 (successivamente dichiarato improcedibile con sentenza n. 2952 del 2005 essendo intervenuta una nuova rideterminazione della Provincia a seguito dell’ordinanza di accoglimento della domanda cautelare ai fini del riesame pronunciata in quel giudizio); - violazione delle norme sulla partecipazione al procedimento non essendo stata data comunicazione relativa allo specifico provvedimento negativo che si intendeva adottare. Nel giudizio di primo grado si costituivano la Regione Veneto e il controinteressato signor Soffiati contestando la fondatezza del ricorso; la Provincia di Verona interveniva ad opponendum; Con ordinanza n. 1043 del 17 dicembre 2008 è stata respinta la domanda cautelare di sospensione del provvedimento impugnato per la mancanza del periculum in mora, confermata dal Consiglio di Stato con ordinanza n. 1184 del 2009. La sentenza n. 2384 del 4 giugno 2010 ha accolto il ricorso, qualificando il provvedimento impugnato come revoca priva dei requisiti di valutazione dell’interesse pubblico richiesti dall’art. 21 quinquies della legge 7 agosto 1990 n. 241 ed espressione di principi generali applicabili anche agli atti precedenti alla introduzione di tale disposizione ritenendo ingiustificate la ragioni addotte dalla Regione. Avverso tale sentenza ha proposto appello la Regione Veneto formulando un unico motivo di appello relativo alla erronea valutazione degli atti e dei documenti con conseguente travisamento dei fatti da parte del giudice di primo grado, con cui ha dedotto che la modifica del periodo della concessione era stata proposta dalla Commissione tecnica regionale per essere intervenuti fatti sopravvenuti, in particolare dovuti all’ attività di frantumazione di inerti da parte della Chesini autorizzata dalla provincia di Verona con atto del 15 ottobre 2002; inoltre, il provvedimento del 2000 prevedeva comunque una verifica quinquennale da effettuarsi con Comune e Provincia e i poteri di revoca erano espressamente previsti dalla legge regionale n. 44 del 1982. In ogni caso, il provvedimento regionale aveva ampiamente contemperato i differenti interessi in gioco e la riduzione del periodo di estrazione doveva ritenersi congrua in relazione alla ingente domanda di ghiaia nell’ambito provinciale che avrebbe consentito di assorbire lo sfruttamento più intensivo della cava La Chesini s.r.l. si è costituita in giudizio contestando la fondatezza dell’appello e riproponendo i due motivi di ricorso assorbiti con la sentenza. Si è costituito altresì il controinteressato Giuliano Soffiati che nella memoria difensiva ha sostenuto la fondatezza dell’appello della Regione La Provincia di Verona si è costituita sostenendo anch’essa la fondatezza dell’appello della Regione. La parte appellata ha depositato in giudizio in vista della udienza pubblica i provvedimenti regionali del 14 febbraio 2019 di trasferimento della intestazione della autorizzazione a Chesini s.r.l.., il piano di gestione dei rifiuti di estrazione della cava approvato con delibera della Giunta regionale del 21 dicembre 2015; il verbale di sopralluogo quinquennale congiunto di Regione, Provincia e Comune di Pescantina dell’11 novembre 2016; le comunicazioni annuali dei quantitativi estratti di sabbia e ghiaia per l’anno 2008 e per gli anni dal 2010 al 2018 - da cui emergerebbe secondo la difesa appellante la impossibilità della estrazione di tale quantità di materiale solo fino al 2008; il nulla osta provinciale del 13 gennaio 2010 per le attività di frantumazione e vagliatura dei materiali inerti e terra; la determinazione provinciale n. 2063 del 20 giugno 2018 di aggiornamento all'autorizzazione di carattere generale alle emissioni in atmosfera; il nulla osta provinciale e assegnazione n. 69 nel registro imprese per recupero rifiuti non pericolosi prot. n. 5918/2010; la determinazione provinciale n. 4301/12 del 1 ottobre 2012 di rinnovo dell'iscrizione al registro imprese per recupero rifiuti non pericolosi; la nota provinciale prot. n. 64549 del 4 agosto 2016 per la sottoposizione a verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale; la determinazione provinciale n. 422/17 del 9 novembre 2017, di esclusione da valutazione di impatto ambientale; la determinazione provinciale n. 2715/18 del 10 agosto 2018, di conferma dell'iscrizione al registro imprese per recupero rifiuti non pericolosi; ulteriore documentazione relativa alla sistemazione del tratto stradale attraversato dai mezzi con il materiale per la frantumazione degli inerti imposta come prescrizione dalla Provincia. Nelle memorie e nelle memorie di repliche la Regione Veneto e la Chesini hanno insistito nelle rispettive posizioni. All’udienza pubblica del 28 gennaio 2020 l’appello è stato trattenuto in decisione. DIRITTO Il presente giudizio ha ad oggetto l’impugnazione della sentenza n. 2384 del 2010 del Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto con il quale è stato accolto il ricorso dell’impresa Chiesini s.n.c. avverso la delibera della Giunta Regionale della Regione Veneto n. 1922 del 25 giugno 2004. La delibera è basata sul parere della Commissione tecnica regionale per le attività estrattive che, a seguito di un sopralluogo, e dell’esame delle osservazioni della ditta interessata, riteneva di contemperare i contrapposti interessi imprenditoriali e ambientali e ricompositivi con la riduzione del periodo di coltivazione della cava, originariamente fissato al 31 dicembre 2024, al 31 dicembre 2008, riducendolo, quindi, di 16 anni, pari a due terzi del periodo complessivo; oltre alla imposizione di alcune prescrizioni relative alla diminuzione dell’impatto ambientale tramite l’obbligo di messa a dimore di filari arborei. E’ rimasto, invece, invariato il quantitativo di ghiaia complessivamente estraibile, con la conseguenza che per tale periodo temporale complessivo di 8 anni -di cui 4 ancora rimanenti alla data di adozione del provvedimento-sarebbe stata estratta la medesima quantità di ghiaia prevista nell’arco temporale originario di 24 anni. La Regione, nell’atto di appello, sostiene l’erroneità della affermazioni del giudice di primo grado relative all’illegittimo esercizio del potere di revoca in assenza della motivazione dell’interesse pubblico, deducendo che la Giunta regionale manteneva comunque il potere di verifica sulle condizioni di coltivazione e il potere revoca della autorizzazione previsto in generale dalla legge regionale n. 44 del 1982; inoltre, in concreto, la Giunta regionale, sulla base del parere della Commissione tecnica regionale, aveva proceduto ad una specifica valutazione dei contrapposti interessi in funzione di contemperare l’interesse imprenditoriale - non avendo inciso sulla posizione della Chesini consentendo anzi il completamento del piano di estrazione solo riducendo il periodo originariamente previsto- con quello ambientale e con le esigenze di ricomposizione al più presto del territorio della cava. Con riferimento alla conservazione della medesima quantità di materiale estraibile in tempi ridotti la difesa regionale ha sostenuto anche in appello che la notevole domanda di ghiaia nel territorio della provincia di Verona avrebbe consentito alla impresa di completare facilmente la quantità di estrazione prevista nel piano solo aumentando il numero dei mezzi impiegati ogni giorno e la loro portata. Ritiene il Collegio la infondatezza di tale motivo d’appello. La legge regionale Veneto 7 settembre 1982, n. 44, “Norme per la disciplina dell'attività di cava” ora abrogata dalla legge regionale 16 marzo 2018, n. 13, disciplinava il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione alla coltivazione di una cava prevedendo anche una fase partecipativa di tutti i cittadini tramite la presentazione di osservazioni a seguito dell’affissione di un avviso della avvenuta presentazione della domanda all’albo pretorio del Comune. In particolare ai sensi del comma 7 dell’art. 18 l’autorizzazione “stabilisce: a) il piano e i tempi di estrazione; b) le modalità della ricomposizione ambientale delle aree interessate; c) l'ammontare del deposito cauzionale da prestarsi nelle forme ammesse dalle leggi a garanzia di tutti gli obblighi derivanti dall'autorizzazione. L'entità del deposito è adeguata, a cura del titolare, ogni due anni, alla intervenuta variazione nell'indice I.S.T.A.T. del costo della vita. La certificazione comprovante l'intervenuto adeguamento deve essere depositata entro sessanta giorni presso la struttura regionale competente; d) il recepimento della convenzione di cui all'art. 20; e) il termine entro il quale il titolare deve, a pena di decadenza dell'autorizzazione medesima, produrre il titolo di disponibilità del giacimento; f) le eventuali prescrizioni a tutela del pubblico interesse”. Da tale disciplina della legge regionale deriva, in primo luogo, che già al momento del rilascio dell’autorizzazione n. 3481 del 3 novembre 2000 - oggetto del provvedimento di revoca - la Regione aveva valutato o avrebbe dovuto valutare le varie esigenze anche ambientali e ricompositive, nonché di tutela dei cittadini del Comune, tenuto conto che l’autorizzazione del 2000 era una nuova autorizzazione integralmente sostitutiva di quella precedente. Quanto all’esercizio dei poteri sulla gestione della cava in corso, le disposizioni della legge regionale prevedono, all’art. 28, generali funzioni di vigilanza sui lavori di coltivazione dei materiali di cava circa la loro abusività o difformità dalla legge e dal titolo abilitativo. Le disposizioni successive prevedono il potere di ordinare la sospensione dei lavori, in caso di inosservanza delle prescrizioni del provvedimento e fino al loro adempimento o quando siano necessari ulteriori accertamenti in vista dell'adozione di un provvedimento di decadenza o di revoca del titolo di modifica, totale o parziale, del progetto di coltivazione; di disporre la decadenza dell’autorizzazione, quando il titolare non inizi i lavori di coltivazione o non dia a essi adeguato sviluppo secondo il progetto di coltivazione o non ottemperi a un precedente provvedimento di sospensione dei lavori, adottato dalle autorità competenti nell’ambito dei rispettivi poteri; quando non siano state ottemperate le prescrizioni del provvedimento per l'osservanza delle quali la decadenza sia stata espressamente prevista nel medesimo provvedimento; quando sia venuta meno la capacità tecnica o economica del titolare. Ai sensi dell’art. 31 è prevista la revoca “qualora sia intervenuta una alterazione della situazione geologica e idrogeologica della zona interessata dal giacimento tale da rendere pericoloso il proseguimento dell’attività di cava o siano intervenuti altri fattori tali da rendere non tollerabile la prosecuzione dell'attività di cava, è disposta la revoca dell'autorizzazione o della concessione, fatta salva la determinazione di equo indennizzo e fermo restando l'obbligo per il titolare alla ricomposizione ambientale prevista dal provvedimento di cui viene disposta la revoca”. La Regione, nel caso di specie, ha esercitato, quindi, il potere di revoca che la legge regionale le attribuiva in relazione all’intervento di fatti sopravvenuti, di natura geologica, o anche di altro tipo, in cui rientra senz’altro la valutazione della intervenuta autorizzazione provinciale per l’impianto di frantumazione degli inerti rilasciata dalla Provincia il 10 ottobre 2002 successivamente alla autorizzazione alla coltivazione della cava del 3 novembre 2000. Peraltro, poiché la disposizione della legge regionale configura un generale potere di revoca per l’intervento di elementi sopravvenuti, tale potere non può che rientrare nel potere generale di revoca degli atti amministrativi (cfr. Cons. Stato Sez. VI, 28 febbraio 2006, n. 895, con riferimento alla revoca prevista dalle legge regionale del Veneto n. 44 del 1982). Inoltre, per costante giurisprudenza il potere di revoca può essere esercitato - in attuazione del principio di conservazione degli atti - anche con una revoca parziale (Cons. Stato Sez. VI, 9 aprile 2010 n. 2380; id. 28 febbraio 2006, n. 895, citata, con riferimento alla revoca prevista dalle legge regionale del Veneto n. 44 del 1982), che, nel caso di specie, si è esplicata nella riduzione temporale dell’autorizzazione. Pertanto, la Regione poteva rivalutare la situazione posta alla base del provvedimento impugnato in primo grado, in relazione a fatti sopravvenuti, quali l’aumento dell’impatto ambientale dovuto al rilascio dell’autorizzazione provinciale all’impianto di frantumazione, ma tale potere avrebbe dovuto essere esercitato conformemente ai principi generali, successivamente codificati dall’art. 21 quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241, nel testo modificato dalla legge 11 febbraio 2015, n. 15, ma comunque applicabili anche agli atti precedentemente adottati, in base ai principi già elaborati dalla giurisprudenza, ovvero in relazione alla valutazione della sussistenza di un interesse pubblico attuale alla revoca anche in considerazione dell’ affidamento ingenerato nel privato. L’atto di revoca, infatti, anche se per sua natura ampiamente discrezionale, deve dar conto del raffronto con l’interesse privato sotteso all’atto oggetto di revoca. Questo Consiglio ha, infatti, evidenziato che la revoca si configura come lo strumento dell’autotutela decisoria preordinato alla rimozione di un atto ad efficacia durevole, in esito ad una nuova e diversa valutazione dell'interesse pubblico. I presupposti del valido esercizio dello ius poenitendi sono definiti dall'art. 21 quinquies, con formule lessicali volutamente generiche e consistono nella sopravvenienza di motivi di interesse pubblico, nel mutamento della situazione di fatto, imprevedibile al momento dell’adozione del provvedimento e in una rinnovata e diversa valutazione dell'interesse pubblico originario. A differenza del potere di annullamento d’ufficio, che postula l’illegittimità dell’atto rimosso d’ufficio, quello di revoca resta, comunque, rimesso a un apprezzamento ampiamente discrezionale dell'Amministrazione procedente. Peraltro, la previsione normativa dell’art. 21 quinquies della legge n. 241 del 1990 deve essere interpretata alla luce anche dei principi generali dell'ordinamento della tutela della buona fede, della lealtà nei rapporti tra privati e Pubblica Amministrazione e del buon andamento dell’azione amministrativa, che implicano il rispetto della imparzialità e della proporzionalità, per cui la revisione dell’assetto di interessi recato dall’atto originario deve essere preceduta da un confronto procedimentale con il destinatario dell’atto che si intende revocare; non è sufficiente, per legittimare la revoca, un ripensamento tardivo e generico circa la convenienza dell’emanazione dell'atto originario; le ragioni addotte a sostegno della revoca devono rivelare la consistenza e l'intensità dell’interesse pubblico che si intende perseguire con il ritiro dell'atto originario; la motivazione della revoca deve esplicitare, non solo i contenuti della nuova valutazione dell'interesse pubblico, ma anche la prevalenza di tale interesse pubblico su quello del privato che aveva ricevuto vantaggi dal provvedimento originario a lui favorevole (cfr. Consiglio di Stato Sez. III, 29 novembre 2016, n. 5026; Sez. IV, 10 luglio 2018, n. 4206). Applicando tali principi affermati dalla giurisprudenza, la delibera impugnata in primo grado risulta carente, come correttamente osservato dal Tribunale, proprio sotto il profilo motivazionale in punto di interesse pubblico all’adozione del provvedimento di revoca in relazione all’affidamento del privato al mantenimento della autorizzazione fino al 31 dicembre 2024. Correttamente il giudice di primo grado ha, infatti, ritenuto la illegittimità del provvedimento, in quanto privo di una specifica motivazione sulla attualità dell’interesse pubblico alla revoca come concretamente disposta con la riduzione temporale di ben 16 anni del periodo di coltivazione della cava. La Regione ha contestato tale affermazione del giudice di primo grado sostenendo che il provvedimento sarebbe ampiamente motivato in relazione alla sussistenza dell’interesse pubblico alle esigenze di tutela ambientale anche tenuto conto della posizione imprenditoriale della Chesini, che avrebbe potuto continuare ad estrarre la medesima quantità di materiali dalla cava. Il Collegio non condivide le argomentazioni della difesa regionale. Nel caso di specie, è evidente dalla natura del provvedimento di revoca concretamente adottato che esso ha inciso in maniera determinante sull’autorizzazione originaria, riducendone “drasticamente” la durata dell’autorizzazione 24 a 8 anni (di cui solo 4 residui alla data di adozione del provvedimento impugnato), quindi di ben due terzi del periodo complessivo (di quattro quinti con riferimento al periodo residuo di 4 anni), senza alcuna valutazione, quindi, della posizione di affidamento del privato che solo qualche anno prima aveva avuto una autorizzazione che prevedeva un periodo di sfruttamento di 24 anni. Inoltre, la revoca non ha modificato la quantità del materiale estratto né ha imposto ulteriori specifiche prescrizioni, se non quelle relative ai filari di alberi sopra indicate, con la conseguenza che, con tale provvedimento di revoca parziale, nella sostanza, è stato previsto uno sfruttamento molto più intenso della cava, con la estrazione del medesimo materiale originariamente previsto in un arco temporale di venti anni in soli quattro anni, con un prevedibile aumento della movimentazione di mezzi e materiali giornalieri, come dimostrato dalle stesse deduzioni difensive della Regione nell’atto di appello, che si riferiscono alla necessità di impiego di un numero maggiore di mezzi di trasporto e di maggiore portata. Tale scelta dell’amministrazione, posta implicitamente a base del provvedimento impugnato, di ridurre il tempo complessivo di sfruttamento della cava a fronte di una coltivazione a ritmi più intensi, non trova però riscontro né nella motivazione del provvedimento stesso, né nella relativa istruttoria, che appaiono privilegiare le esigenze di tutela ambientale. Tale sfruttamento intensivo, oltre che più costoso per la società Chesini, avrebbe comportato un evidente aumento dell’impatto ambientale della cava per i quattro anni dal 2004 al 2008, che l’Amministrazione avrebbe dovuto specificamente motivare come maggiormente funzionale all’interesse pubblico alla successiva ricomposizione rispetto ad uno sfruttamento più blando ma prolungato nel tempo. In ogni caso, tale scelta dell’Amministrazione non appare ragionevole e proporzionale al sacrificio imposto alla Chesini circa lo sfruttamento della cava in un periodo di tempo così radicalmente ridotto. L’Amministrazione regionale aveva il potere di rivalutare l’autorizzazione alla luce dei fatti sopravvenuti, ma avrebbe dovuto specificamente esplicitare le ragioni per cui l’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente, all’interesse ricompositivo della cava e alla tutela dei residenti fosse maggiormente garantito da uno sfruttamento concentrato in quattro anni piuttosto che diluito nei successivi venti anni, in relazione all’affidamento del privato autorizzato con il provvedimento oggetto di revoca fino al 2024, anche tenuto conto che, rispetto al provvedimento concretamente adottato, avrebbero potuto essere esaminate soluzioni intermedie, quali la modifica delle quantità complessivamente estratte o la diminuzione del periodo di coltivazione in termini contenuti e ragionevoli, anche in relazione al rispetto del principio di proporzionalità. Una ponderata rivalutazione degli interessi originariamente considerati a fondamento del provvedimento ampliativo, alla luce dei fatti sopravvenuti, avrebbe potuto portare l’Amministrazione Regionale, quindi, ad una rimodulazione del piano di estrazione o alla limitazione di qualche anno del periodo di sfruttamento privilegiando in particolare, ad esempio, nell’ultimo periodo le attività di ricomposizione, mentre il provvedimento in concreto adottato comportava al contrario che le aumentate quantità di materiale estratto (evidentemente quintuplicate per ogni anno di estrazione fino al 2008) almeno per quattro anni avrebbero aggravato le conseguenze ambientali sul territorio e i rischi lamentati dai residenti, senza alcuna preventiva valutazione istruttoria circa l’effettiva fattibilità economica e ambientale di tale attività estrattiva. L’appello è quindi infondato e deve essere respinto. L’infondatezza dell’appello comporta la conferma della sentenza impugnata e la carenza di interesse all’esame dei motivi assorbiti in primo grado e riproposti in appello. In considerazione della particolarità e novità della questione, sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 gennaio 2020 con l'intervento dei magistrati: Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Giancarlo Luttazi, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere Cecilia Altavista, Consigliere, Estensore Francesco Guarracino, Consigliere Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Giancarlo Luttazi, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere Cecilia Altavista, Consigliere, Estensore Francesco Guarracino, Consigliere IL SEGRETARIO
Cave – Attività di estrazione -  Autorizzazione – Revoca – Per fatti sopravvenuti – Possibilità – Condizione.             In tema di revoca di una autorizzazione alla coltivazione di una cava di ghiaia l’Amministrazione regionale ha il potere di rivalutare l’autorizzazione alla luce dei fatti sopravvenuti, ma deve esplicitare le ragioni di interesse pubblico in relazione ai principi di proporzionalità e affidamento del privato, tenuto conto delle concrete modalità con cui si dispone la revoca (1).   (1) Il potere di revoca può essere esercitato - in attuazione del principio di conservazione degli atti - anche con una revoca parziale (Cons. St., sez. VI, 9 aprile 2010, n. 2380; id. 28 febbraio 2006, n. 895). Nella specie la Regione poteva rivalutare la situazione posta alla base del provvedimento impugnato in primo grado, in relazione a fatti sopravvenuti, quali l’aumento dell’impatto ambientale dovuto al rilascio dell’autorizzazione provinciale all’impianto di frantumazione, ma tale potere avrebbe dovuto essere esercitato conformemente ai principi generali, successivamente codificati dall’art. 21 quinquies, l. 7 agosto 1990, n. 241, nel testo modificato dalla l. 11 febbraio 2015, n. 15, ma comunque applicabili anche agli atti precedentemente adottati, in base ai principi già elaborati dalla giurisprudenza, ovvero in relazione alla valutazione della sussistenza di un interesse pubblico attuale alla revoca anche in considerazione dell’ affidamento ingenerato nel privato.   L’atto di revoca, infatti, anche se per sua natura ampiamente discrezionale, deve dar conto del raffronto con l’interesse privato sotteso all’atto oggetto di revoca. Il giudice di appello ha, infatti, evidenziato che la revoca si configura come lo strumento dell’autotutela decisoria preordinato alla rimozione di un atto ad efficacia durevole, in esito ad una nuova e diversa valutazione dell'interesse pubblico. I presupposti del valido esercizio dello ius poenitendi sono definiti dall'art. 21 quinquies, con formule lessicali volutamente generiche e consistono nella sopravvenienza di motivi di interesse pubblico, nel mutamento della situazione di fatto, imprevedibile al momento dell’adozione del provvedimento e in una rinnovata e diversa valutazione dell'interesse pubblico originario. A differenza del potere di annullamento d’ufficio, che postula l’illegittimità dell’atto rimosso d’ufficio, quello di revoca resta, comunque, rimesso a un apprezzamento ampiamente discrezionale dell'Amministrazione procedente. Peraltro, la previsione normativa dell’art. 21 quinquies, l. n. 241 del 1990 deve essere interpretata alla luce anche dei principi generali dell'ordinamento della tutela della buona fede, della lealtà nei rapporti tra privati e Pubblica Amministrazione e del buon andamento dell’azione amministrativa, che implicano il rispetto della imparzialità e della proporzionalità, per cui la revisione dell’assetto di interessi recato dall’atto originario deve essere preceduta da un confronto procedimentale con il destinatario dell’atto che si intende revocare; non è sufficiente, per legittimare la revoca, un ripensamento tardivo e generico circa la convenienza dell’emanazione dell'atto originario; le ragioni addotte a sostegno della revoca devono rivelare la consistenza e l'intensità dell’interesse pubblico che si intende perseguire con il ritiro dell'atto originario; la motivazione della revoca deve esplicitare, non solo i contenuti della nuova valutazione dell'interesse pubblico, ma anche la prevalenza di tale interesse pubblico su quello del privato che aveva ricevuto vantaggi dal provvedimento originario a lui favorevole (Cons. St., sez. III, 29 novembre 2016, n. 5026; id., sez. IV, 10 luglio 2018, n. 4206).
Cave
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Oneri economici del servizio di trasporto dello studente disabile
Numero 00403/2021 e data 15/03/2021 Spedizione REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato Sezione Prima Adunanza di Sezione del 7 ottobre 2020 NUMERO AFFARE 01004/2020 OGGETTO: Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con istanza sospensiva, proposto da -OMISSIS-per la figlia minore -OMISSIS- contro il Comune di Crocetta del Montello, avverso provvedimenti in materia di determinazione di contribuzione tariffe per il trasporto scolastico LA SEZIONE Vista la relazione del 07/08/2020 con la quale il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto; Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Fabrizio Cafaggi; Premesso: La minore -OMISSIS- come riconosciuto dalla Commissione medica per l’accertamento dell’handicap di cui alla legge n. 104 del 1992 e alla legge n. 102 del 2009 risulta “portatrice di handicap in situazione di gravità” , in specie invalida con gravi limitazioni della capacità di deambulazione ossia “portatrice di handicap con ridotte o impedite capacità motorie permanenti”, come da verbale sanitario allegato alla nota INPS del 30 dicembre 2019. Con istanza presentata al Comune di Crocetta di Montello i genitori richiedevano il trasporto scolastico dalla residenza in Crocetta del Montello all’istituto -OMISSIS- In data 8 agosto 2019 con nota prot. 8275 il Comune di Crocetta del Montello, nel dare riscontro alla domanda presentata dai genitori della minore, rappresentava come, diversamente dal servizio di trasporto presso istituti scolastici presenti nel territorio comunale – assicurato dall’ Ente in virtù di convenzioni stipulate con locali associazioni di volontariato – non sussistessero le condizioni organizzative per garantire trasporti al di fuori del territorio comunale. La Giunta Comunale di Crocetta di Montello con deliberazione dell’8 del 3 dicembre 2019 provvedeva alla organizzazione del trasporto della minore dalla residenza al Comune di Conegliano Veneto sede della scuola primaria di destinazione. La Giunta inquadrava l’attivazione del servizio di trasporto nell’ambito della disciplina dei servizi socio-assistenziali. Di conseguenza riteneva risultasse un obbligo di partecipazione del soggetto fruitore agli oneri del servizio secondo i criteri espressi nella stessa delibera comunale. Con Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica si chiede l’annullamento, previa sospensione, dei seguenti atti: nota prot. 150 dell’8.01.2020; deliberazione della Giunta comunale n. 108 del 3.12.2019; nota prot. 13106 del 5.12.2019; in parte qua, deliberazione del Consiglio comunale n. 13 del 31.01.2017; in parte qua, deliberazione della Giunta comunale n. 96 del 14.11.2029; nota prot. 1308, ricevuta il 7.2.2020; relazione della Responsabile dei Servizi sociali del Comune del 29.11.2019; nota prot. 13666 del 24.12.2019; in parte qua, verbale UVMD del 3.9.2019; nota prot. n. 3678 del 14.4.2020. I ricorrenti deducono i seguenti motivi di gravame: violazione di legge, in particolare l’articolo 28 comma 1 legge n. 118 /1971, ed eccesso di potere. Il Ministero riferente esprime l’avviso che il ricorso debba essere accolto. Considerato E’ necessario in primo luogo esaminare l’eccezione di irricevibilità sollevata dall’amministrazione resistente. Come affermato dalla giurisprudenza di questo Consiglio, ai fini del computo dei termini per la presentazione del ricorso straordinario, è necessario tenere conto – sulla base di quanto previsto, in relazione all’emergenza epidemiologica da COVID-19, dall’art. 103, comma 1, del decreto-legge n. 18/2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 27/2020, e dall’art. 37, comma 1, del decreto-legge n. 23/2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 40/2020 - dell’obbligo sopravvenuto di non considerare il periodo compreso tra la medesima data e quella del 15 maggio 2020, ai fini del computo dei termini ordinatori o perentori, propedeutici, endoprocedimentali, finali ed esecutivi, relativi allo svolgimento di procedimenti amministrativi su istanza di parte o d'ufficio, pendenti alla data del 23 febbraio 2020 o iniziati successivamente a tale data. Questa Sezione ha già avuto modo di puntualizzare che tali disposizioni sono applicabili anche al procedimento per il ricorso straordinario (cfr. Cons. Stato, Sez. I, parere 1359/2020). Una diversa conclusione condurrebbe a esiti palesemente irragionevoli, che lascerebbero sguarnito il procedimento giustiziale del ricorso straordinario della garanzia costituita dalla sospensione dei termini, anche e soprattutto a tutela della parte privata, e, nel caso di specie, rischierebbe di indebolire il principio del contraddittorio (Cons. Stato, sez. I, Parere 1500/2020). Deve, pertanto, ravvisarsi l’infondatezza della l’eccezione di irricevibilità ritenendo ricevibile il ricorso. Lamentano i ricorrenti che il provvedimento con cui il Comune nega la gratuità e richiede il pagamento della quota di contribuzione sia illegittimo per violazione di legge, in particolare l’articolo 28 comma 1 legge n. 118 /1971, e per eccesso di potere. Il morivo è fondato. Recita l’articolo 28, comma 1, della legge n. 118 del 1971 che “ai mutilati ed invalidi civili che non siano autosufficienti e che frequentino la scuola dell’obbligo o i corsi di addestramento professionale finanziati dallo Stato viene assicurato il trasporto gratuito dalla propria abitazione alla sede della scuola o del corso e viceversa”. Sostengono i ricorrenti che si versi nella fattispecie di trasporto scolastico e che questo debba essere effettuato a titolo gratuito e non con una contribuzione di quota commisurata al reddito in base alla certificazione ISEE, come sostenuto dalla parte resistente secondo la diversa prospettiva per cui si tratterebbe di un trasporto socio-sanitario. Le prestazioni di trasporto scolastico ed assistenza specialistica a favore di alunni disabili costituiscono prestazioni di pubblico servizio non collegate a contratti individuali di utenza e, pertanto, le relative controversie rientrano nella giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. c) c.p.a. (Cass., ord. S.U., 25 marzo 2009, n. 7103; Cass., ord. S.U., 28 gennaio 2020, n. 1870). Deve dunque ritenersi sussistente la giurisdizione di questo giudice. Nel merito vanno esaminati i motivi di doglianza relativi alla natura del trasporto di persone con disabilità diretto a garantire il diritto all’istruzione. Questo Consiglio ha di recente affermato che il diritto all’istruzione delle persone disabili ha rilevanza costituzionale (cfr. Cons. Stato, sez. I, parere 1331/2020: “ A fondamento delle disposizioni della legge n. 104 del 1992, di cui si lamenta la violazione e delle altre leggi sulla tutela degli alunni disabili, si pongono i principi costituzionali di cui all’articolo 2 (sulla tutela dei «diritti inviolabili dell’uomo» e sui «doveri inderogabili di solidarietà … sociale»), all’articolo 3 (secondo cui «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»), all’articolo 34, primo comma (sulla apertura della scuola «a tutti») e all’articolo 38, terzo comma (sul «diritto all’educazione» anche quando vi sia una disabilità) (in tal senso anche Cons. Stato, sez. VI, n. 2023/2017). In particolare, il diritto all’istruzione delle persone con disabilità, di cui il diritto all’integrazione scolastica costituisce parte integrante, ha il suo fondamento nell’articolo 34 della Costituzione, al pari di quello delle persone normo-dotate. Esso è intrinsecamente connesso allo sviluppo della personalità per il legame esistente tra il principio di solidarietà, di cui all’articolo 2 Cost., ed il diritto all’istruzione, di cui all’articolo 34 Cost. L’integrazione scolastica delle persone con disabilità costituisce fattore fondamentale dello sviluppo della personalità e trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 38 Cost. (Corte Costituzionale, sentenza n. 215/1987, ribadito di recente nella sentenza n. 83/2019). Essa richiede adattamenti sia logistici che didattici alla singola persona con disabilità, attraverso la definizione di percorsi educativi individualizzati che riflettano le difficoltà specifiche di ciascuno studente con disabilità e le caratteristiche del gruppo in cui l’inserimento deve essere realizzato (Cons. Stato, sez. VI, n. 2023/2017, Id. n. 758/2018, Corte Europea dei diritti dell’uomo, Cam c. Turchia, 23 febbraio 2016, in particolare paragrafi 65 e 66). Tali diritti hanno avuto pieno riconoscimento anche sul piano europeo nell’articolo 26 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, nell’art. 2 del Primo Protocollo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, primo comma, nell’art. 15 della Carta Sociale Europea ( G.I. c. Italia, Corte Europea dei diritti dell’uomo, prima sezione, 10 settembre 2020) . I principi relativi all’istruzione delle persone con disabilità hanno trovato altresì riconoscimento nel Piano strategico per le disabilità 2017/2023 del Consiglio d’Europa, che ha esplicitamente indicato la necessità di un approccio basato sulle capacità piuttosto che sulle disabilità. Sul piano internazionale il riferimento relativo ai principi esposti è alla Convenzione di New York del 13 dicembre 2006 sui diritti delle persone disabili, entrata in vigore il 3 maggio 2008 e resa esecutiva in Italia con la legge 3 marzo 2009, n. 18. L’integrazione scolastica dei disabili persegue un obiettivo alto ma complesso: garantire non solo l’accesso a conoscenze ma anche alle competenze necessarie per l’acquisizione di capacità idonee all’inserimento sociale del disabile. L’apprendimento e l’integrazione scolastica delle persone con disabilità costituiscono, infatti, una premessa fondamentale della integrazione lavorativa e di quella sociale, che sono alla base di società informate ai principii di solidarietà ed uguaglianza (principii enunciati già da Corte Costituzionale sentenza n. 215/1987 e ribaditi di recente nella sentenza n. 83/2019). La disciplina costituzionale dell’istruzione dei soggetti portatori di handicap ha avuto la sua concretizzazione nella legislazione ordinaria che definisce il diritto all’integrazione scolastica delle persone con disabilità. In base a quanto disposto dalla legge-quadro n. 104/1992 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone disabili e dal d.lgs. n. 297/1994, recante disposizioni legislative in materia di istruzione, che sanciscono il diritto del disabile all’integrazione scolastica ed allo sviluppo delle sue potenzialità nell’apprendimento, nella comunicazione e nelle relazioni, per consentirgli il raggiungimento della massima autonomia possibile, gli istituti scolastici sono tenuti ad assicurare l’integrazione configurando percorsi educativi individualizzati (art. 12 l. n. 105/1992). L’articolo 24 della Convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità, resa esecutiva in Italia con la legge 3 marzo 2009, n. 18, regola il diritto all’istruzione affermando il principio secondo cui (comma 2) “ 2. Nel realizzare tale diritto, gli Stati Parti dovranno assicurare che: (a) le persone con disabilità non vengano escluse dal sistema di istruzione generale sulla base della disabilità e che i bambini con disabilità non siano esclusi da una libera ed obbligatoria istruzione primaria gratuita o dall’istruzione secondaria sulla base della disabilità; (b) le persone con disabilità possano accedere ad un’istruzione primaria e secondaria integrata, di qualità e libera, sulla base di eguaglianza con gli altri, all’interno delle comunità in cui vivono; (c) un accomodamento ragionevole venga fornito per andare incontro alle esigenze individuali; (d) le persone con disabilità ricevano il sostegno necessario, all’interno del sistema educativo generale, al fine di agevolare la loro effettiva istruzione; (e) efficaci misure di supporto individualizzato siano fornite in ambienti che ottimizzino il programma scolastico e la socializzazione, conformemente all’obiettivo della piena integrazione.” . Tale disposizione va coordinata con l’articolo 13 della l. n. 104 in materia di diritto all’integrazione scolastica, dove vengono definire le modalità attraverso cui rendere effettiva tale integrazione. Con una recente pronuncia la Corte Europea dei diritti dell’uomo (G.I. c. Italia, Corte Europea dei diritti dell’uomo, prima sezione, 10 settembre 2020) proprio in un caso relativo all’ Italia sono stati ribaditi i principi fondamentali in materia di diritto all’istruzione delle persone disabili contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte ha valutato se lo Stato italiano abbia adottato tutte le misure ragionevoli per assicurare il diritto all’istruzione della minore disabile Nel caso di specie vi era stata l’interruzione del servizio di sostegno alla minore disabile. La Corte ha concluso affermando che lo Stato Italiano non ha motivato adeguatamente le ragioni dell’insufficienza di risorse necessarie ed in particolare non ha mostrato di avere ripartito le risorse tra studenti normo-dotati e studenti portatori di handicap in modo da evitare trattamenti discriminatori nei confronti di questi ultimi (par. 62 G.I. c. Italia). La Corte di Strasburgo ha pertanto ritenuto che non siano state adottate le misure necessarie condannando lo Stato Italiano sia per la violazione dell’art. 2 protocollo in combinato con l’art. 14 della Convenzione sia per la violazione dell’art 8 Sulla base del quadro normativo nazionale ed internazionale descritto deve concludersi che il diritto all’istruzione dei disabili, ascritto alla categoria dei diritti fondamentali, passa attraverso l’attivazione dell’Amministrazione scolastica per la sua garanzia, mediante l’adozione delle doverose misure di integrazione e sostegno, atte a rendere possibile ai disabili la frequenza delle scuole e l’insieme delle pratiche di cura e riabilitazione necessarie per il superamento ovvero il miglioramento della condizione di disabilità e per quel che qui rileva anche la coerente acquisizione di competenze - seppur ridotte - scolastiche (CGARS n. 482/2020). Con delibera n.8 del 3 dicembre 2019 la Giunta Comunale di Crocetta di Montello ha ascritto il servizio di trasporto all’ambito socio-sanitario e non a quello scolastico. Tale configurazione viola la disposizione di legge di cui all’articolo 28, primo comma, l. n. 118/1971, in quanto il servizio di trasporto della persona disabile va funzionalemente inquadrato nell’ambito del diritto all’istruzione e non in quello dell’assistenza socio-sanitaria. Nel caso di specie il trasporto con le sue specifiche caratteristiche legate alla particolare disabilità motoria della minore è indispensabile a garantire la realizzazione del diritto all’istruzione. La circostanza che la minore disabile fruisca presso l’istituto anche di prestazioni sanitarie riabilitative non modifica la natura del trasporto che rimane scolastico. Così come le particolari condizioni fisiche che richiedono un trasporto assistito non modificano la finalità del trasporto che rimane scolastico. Come mostrato in atti, peraltro, l’attività riabilitativa viene svolta prevalentemente presso altra istituzione specializzata ovverosia la fondazione. Il diritto al trasporto scolastico dall’abitazione all’istituto scolastico più idoneo alle esigenze della persona con disabilità è un diritto soggettivo funzionale alla realizzazione di un diritto fondamentale del disabile all’istruzione (Cons. Stato sez. V, 1675/2020). Il contenuto di tale diritto è quindi correlato ad obblighi positivi sussistenti in capo all’amministrazione. Di conseguenza, contrariamente a quanto sostenuto dall’amministrazione resistente, non sussiste un obbligo di compartecipazione agli oneri. Giova tuttavia precisare, che anche nell’ipotesi in cui tale obbligo fosse esistito, mai potrebbe l’amministrazione procedere all’interruzione del servizio, potendo se mai impiegare gli ordinari strumenti per la riscossione del credito. Come affermato, non è questo il caso di specie, trattandosi di trasporto scolastico e dunque di servizio pubblico da erogarsi a titolo gratuito. Sostiene l’amministrazione resistente che il diritto al trasporto scolastico debba essere garantito nella misura delle risorse disponibili e comunque nell’ambito del vincolo della parità di bilancio. La tesi non è condivisibile ed è stata rigettata dalla giurisprudenza di questo Consiglio che ha affermato che “ non costituisce ostacolo alla qualificazione di diritto soggettivo l’art. 26 della legge n. 104 del 1992, laddove, al primo comma, demanda alle Regioni di disciplinare le modalità con le quali i Comuni dispongono interventi per consentire alle persone handicappate di muoversi liberamente sul territorio, usufruendo alle stesse condizioni degli altri cittadini, dei servizi di trasporto collettivo appositamente adattati o di servizi alternativi, prevedendo, al secondo comma, che i comuni assicurano modalità di trasporto individuali per le persone handicappate non in grado di servirsi dei mezzi pubblici <<nell’ambito delle proprie ordinarie risorse di bilancio>> ( Cons. Stato, sez. V, 809/2018). La medesima pronuncia ha chiarito che “ la pretesa di trasporto gratuito scolastico vantata da un determinato alunno portatore di handicap accertato ai sensi della legge n. 104 del 1992 assume la consistenza di diritto soggettivo, rientrando in quel <<nucleo indefettibile di garanzia per gli interessati>> (come su individuato dalla Consulta), che non è consentito nemmeno al legislatore, ed a maggior ragione alla pubblica amministrazione, escludere del tutto in forza di vincoli derivanti dalla carenza di risorse economiche, in quanto finirebbe per essere sacrificato il diritto fondamentale allo studio e all’istruzione […]” sicché “il servizio pubblico di trasporto acquisisce la detta (ulteriore) finalità assistenziale del diritto all’istruzione scolastica costituzionalmente garantito, e deve perciò prevalere sulle esigenze di natura finanziaria, di modo che disposizioni legislative contrarie darebbero luogo a serie questioni di legittimità costituzionale, così come d’altronde ripetutamente affermato in riferimento alla materia dell’organizzazione scolastica e degli insegnanti di sostegno” (cfr. Cons. Stato, VI, n. 2320/17 ed altre cit.) ( Cons. di Stato, sez. V, 809/2018). Per le ragioni suddette la Sezione ritiene che il ricorso debba essere accolto, annullando la nota impugnata emessa dal Comune di Crocetta del Montello con la quale viene addossato alla famiglia della minore un improprio onere di contribuzione e dispone che l’amministrazione comunale debba continuare lo svolgimento del servizio di trasporto scolastico della minore -OMISSIS- al fine di garantire l’immediato e tempestivo esercizio del diritto fondamentale all’istruzione della minore con disabilità. Tale servizio dovrà essere reso a titolo gratuito in conformità con l’art. 28, comma 1, l. n. 118/1971 ed il principio del divieto di discriminazione di cui agli articoli 21 Carta dei diritti fondamentali UE e dell’articolo 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. P.Q.M. La Sezione esprime il parere che il ricorso debba essere accolto. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art.22, comma 8 D.lg.s. 196/2003, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate. IL SEGRETARIO Maria Cristina Manuppelli In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Pubblica istruzione – Studenti disabili - Diritto all’istruzione - Servizio di trasporto - Rientra nell’ambito del diritto all’istruzione – Conseguenza – Oneri economici – Incombono sul Comune.        Il servizio di trasporto dello studente rientra nell’ambito del diritto all’istruzione e non in quello dell’assistenza socio-sanitaria, con la conseguenza che sulla famiglia dello studente non incombe un onere di contribuzione mentre ricade sulla amministrazione comunale lo svolgimento del servizio di trasporto scolastico al fine di garantire l’immediato e tempestivo esercizio del diritto fondamentale all’istruzione dello studente con disabilità; tale servizio deve essere reso a titolo gratuito in conformità con l’art. 28, comma 1, l. n. 118/1971 ed il principio del divieto di discriminazione di cui agli artt. 21 Carta dei diritti fondamentali UE e dell’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che il diritto all’istruzione delle persone disabili ha rilevanza costituzionale (Cons. Stato, sez. I, n. 1331 del 2020). A fondamento delle disposizioni della l. n. 104 del 1992, di cui si lamenta la violazione e delle altre leggi sulla tutela degli alunni disabili, si pongono i principi costituzionali di cui all’art. 2 (sulla tutela dei “diritti inviolabili dell’uomo” e sui “doveri inderogabili di solidarietà … sociale”), all’art. 3 (secondo cui “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”), all’art. 34, primo comma (sulla apertura della scuola “a tutti”) e all’art. 38, terzo comma (sul “diritto all’educazione” anche quando vi sia una disabilità) (Cons. Stato, sez. VI, n. 2023 del 2017). In particolare, il diritto all’istruzione delle persone con disabilità, di cui il diritto all’integrazione scolastica costituisce parte integrante, ha il suo fondamento nell’art. 34 Cost., al pari di quello delle persone normo-dotate. Esso è intrinsecamente connesso allo sviluppo della personalità per il legame esistente tra il principio di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., ed il diritto all’istruzione, di cui all’art. 34 Cost. L’integrazione scolastica delle persone con disabilità costituisce fattore fondamentale dello sviluppo della personalità e trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 38 Cost. (Corte cost. n. 215 del 1987, ribadito di recente nella sentenza n. 83 del 2019). Essa richiede adattamenti sia logistici che didattici alla singola persona con disabilità, attraverso la definizione di percorsi educativi individualizzati che riflettano le difficoltà specifiche di ciascuno studente con disabilità e le caratteristiche del gruppo in cui l’inserimento deve essere realizzato (Cons. Stato, sez. VI, n. 2023 del 2017; id. n. 758 del 2018; Corte Europea dei diritti dell’uomo, Cam c. Turchia, 23 febbraio 2016, in particolare paragrafi 65 e 66). Tali diritti hanno avuto pieno riconoscimento anche sul piano europeo nell’articolo 26 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, nell’art. 2 del Primo Protocollo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, primo comma, nell’art. 15 della Carta Sociale Europea (G.I. c. Italia, Corte Europea dei diritti dell’uomo, prima sezione, 10 settembre 2020) . I principi relativi all’istruzione delle persone con disabilità hanno trovato altresì riconoscimento nel Piano strategico per le disabilità 2017/2023 del Consiglio d’Europa, che ha esplicitamente indicato la necessità di un approccio basato sulle capacità piuttosto che sulle disabilità. Sul piano internazionale il riferimento relativo ai principi esposti è alla Convenzione di New York del 13 dicembre 2006 sui diritti delle persone disabili, entrata in vigore il 3 maggio 2008 e resa esecutiva in Italia con la legge 3 marzo 2009, n. 18. L’integrazione scolastica dei disabili persegue un obiettivo alto ma complesso: garantire non solo l’accesso a conoscenze ma anche alle competenze necessarie per l’acquisizione di capacità idonee all’inserimento sociale del disabile. L’apprendimento e l’integrazione scolastica delle persone con disabilità costituiscono, infatti, una premessa fondamentale della integrazione lavorativa e di quella sociale, che sono alla base di società informate ai principii di solidarietà ed uguaglianza (principii enunciati già da Corte Costituzionale sentenza n. 215 del 1987 e ribaditi di recente nella sentenza n. 83 del 2019). La disciplina costituzionale dell’istruzione dei soggetti portatori di handicap ha avuto la sua concretizzazione nella legislazione ordinaria che definisce il diritto all’integrazione scolastica delle persone con disabilità. In base a quanto disposto dalla legge-quadro n. 104 del 1992 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone disabili e dal d.lgs. n. 297 del 1994, recante disposizioni legislative in materia di istruzione, che sanciscono il diritto del disabile all’integrazione scolastica ed allo sviluppo delle sue potenzialità nell’apprendimento, nella comunicazione e nelle relazioni, per consentirgli il raggiungimento della massima autonomia possibile, gli istituti scolastici sono tenuti ad assicurare l’integrazione configurando percorsi educativi individualizzati (art. 12, l. n. 105 del 1992). L’art. 24 della Convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità, resa esecutiva in Italia con la l.3 marzo 2009, n. 18, regola il diritto all’istruzione affermando il principio secondo cui (comma 2) “2. Nel realizzare tale diritto, gli Stati Parti dovranno assicurare che: (a) le persone con disabilità non vengano escluse dal sistema di istruzione generale sulla base della disabilità e che i bambini con disabilità non siano esclusi da una libera ed obbligatoria istruzione primaria gratuita o dall’istruzione secondaria sulla base della disabilità; (b) le persone con disabilità possano accedere ad un’istruzione primaria e secondaria integrata, di qualità e libera, sulla base di eguaglianza con gli altri, all’interno delle comunità in cui vivono; (c) un accomodamento ragionevole venga fornito per andare incontro alle esigenze individuali; (d) le persone con disabilità ricevano il sostegno necessario, all’interno del sistema educativo generale, al fine di agevolare la loro effettiva istruzione; (e) efficaci misure di supporto individualizzato siano fornite in ambienti che ottimizzino il programma scolastico e la socializzazione, conformemente all’obiettivo della piena integrazione.” . Tale disposizione va coordinata con l’art. 13, l. n. 104 in materia di diritto all’integrazione scolastica, dove vengono definire le modalità attraverso cui rendere effettiva tale integrazione. Con una recente pronuncia la Corte Europea dei diritti dell’uomo (G.I. c. Italia, Corte Europea dei diritti dell’uomo, prima sezione, 10 settembre 2020) proprio in un caso relativo all’ Italia sono stati ribaditi i principi fondamentali in materia di diritto all’istruzione delle persone disabili contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte ha valutato se lo Stato italiano abbia adottato tutte le misure ragionevoli per assicurare il diritto all’istruzione della minore disabile Nel caso di specie vi era stata l’interruzione del servizio di sostegno alla minore disabile. La Corte ha concluso affermando che lo Stato Italiano non ha motivato adeguatamente le ragioni dell’insufficienza di risorse necessarie ed in particolare non ha mostrato di avere ripartito le risorse tra studenti normo-dotati e studenti portatori di handicap in modo da evitare trattamenti discriminatori nei confronti di questi ultimi (par. 62 G.I. c. Italia). La Corte di Strasburgo ha pertanto ritenuto che non siano state adottate le misure necessarie condannando lo Stato Italiano sia per la violazione dell’art. 2 protocollo in combinato con l’art. 14 della Convenzione sia per la violazione dell’art 8 Sulla base del quadro normativo nazionale ed internazionale descritto deve concludersi che il diritto all’istruzione dei disabili, ascritto alla categoria dei diritti fondamentali, passa attraverso l’attivazione dell’Amministrazione scolastica per la sua garanzia, mediante l’adozione delle doverose misure di integrazione e sostegno, atte a rendere possibile ai disabili la frequenza delle scuole e l’insieme delle pratiche di cura e riabilitazione necessarie per il superamento ovvero il miglioramento della condizione di disabilità e per quel che qui rileva anche la coerente acquisizione di competenze - seppur ridotte - scolastiche (C.g.a. n. 482 del 2020).  Nel caso all’esame della Sezione il trasporto con le sue specifiche caratteristiche legate alla particolare disabilità motoria della minore è indispensabile a garantire la realizzazione del diritto all’istruzione. La circostanza che la minore disabile fruisca presso l’istituto anche di prestazioni sanitarie riabilitative non modifica la natura del trasporto che rimane scolastico. Così come le particolari condizioni fisiche che richiedono un trasporto assistito non modificano la finalità del trasporto che rimane scolastico. Come mostrato in atti, peraltro, l’attività riabilitativa viene svolta prevalentemente presso altra istituzione specializzata ovverosia la fondazione. Il diritto al trasporto scolastico dall’abitazione all’istituto scolastico più idoneo alle esigenze della persona con disabilità è un diritto soggettivo funzionale alla realizzazione di un diritto fondamentale del disabile all’istruzione (Cons. Stato, sez. V, n. 1675 del 2020). Il contenuto di tale diritto è quindi correlato ad obblighi positivi sussistenti in capo all’amministrazione. Di conseguenza non sussiste un obbligo di compartecipazione agli oneri. Giova tuttavia precisare, che anche nell’ipotesi in cui tale obbligo fosse esistito, mai potrebbe l’amministrazione procedere all’interruzione del servizio, potendo se mai impiegare gli ordinari strumenti per la riscossione del credito. Come affermato, non è questo il caso di specie, trattandosi di trasporto scolastico e dunque di servizio pubblico da erogarsi a titolo gratuito. ​​​​​​​Sostiene l’amministrazione resistente che il diritto al trasporto scolastico debba essere garantito nella misura delle risorse disponibili e comunque nell’ambito del vincolo della parità di bilancio. La tesi non è condivisibile ed è stata rigettata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha affermato che “ non costituisce ostacolo alla qualificazione di diritto soggettivo l’art. 26, l. n. 104 del 1992, laddove, al primo comma, demanda alle Regioni di disciplinare le modalità con le quali i Comuni dispongono interventi per consentire alle persone handicappate di muoversi liberamente sul territorio, usufruendo alle stesse condizioni degli altri cittadini, dei servizi di trasporto collettivo appositamente adattati o di servizi alternativi, prevedendo, al secondo comma, che i comuni assicurano modalità di trasporto individuali per le persone handicappate non in grado di servirsi dei mezzi pubblici “nell’ambito delle proprie ordinarie risorse di bilancio” (Cons. Stato, sez. V, n. 809 del 2018). La medesima pronuncia ha chiarito che “la pretesa di trasporto gratuito scolastico vantata da un determinato alunno portatore di handicap accertato ai sensi della l.n. 104 del 1992 assume la consistenza di diritto soggettivo, rientrando in quel “nucleo indefettibile di garanzia per gli interessati” (come su individuato dalla Consulta), che non è consentito nemmeno al legislatore, ed a maggior ragione alla pubblica amministrazione, escludere del tutto in forza di vincoli derivanti dalla carenza di risorse economiche, in quanto finirebbe per essere sacrificato il diritto fondamentale allo studio e all’istruzione […]” sicché “il servizio pubblico di trasporto acquisisce la detta (ulteriore) finalità assistenziale del diritto all’istruzione scolastica costituzionalmente garantito, e deve perciò prevalere sulle esigenze di natura finanziaria, di modo che disposizioni legislative contrarie darebbero luogo a serie questioni di legittimità costituzionale, così come d’altronde ripetutamente affermato in riferimento alla materia dell’organizzazione scolastica e degli insegnanti di sostegno” (Cons. Stato, sez. VI, n. 2320 del 2017; id., sez. V, n. 809 del 2018).
Pubblica istruzione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/partecipazione-ai-progetti-del-pnrr-e-principio-anche-di-matrice-euro-unitaria-della-cd.-sana-gestione-finanziaria-dell-aiuto.
Partecipazione ai progetti del Pnrr e principio (anche) di matrice euro-unitaria della cd. sana gestione finanziaria dell’aiuto.
N. 00028/2022 REG.PROV.COLL. N. 00013/2022 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale della Valle D'Aosta (Sezione Unica) ha pronunciato la presente SENTENZA ex art. 60 cod. proc. amm.;sul ricorso numero di registro generale 13 del 2022, integrato da motivi aggiunti, proposto da Comune di Bard, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Matteo Chiosso, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Torino, via Luigi Mercantini n. 6; contro Regione Autonoma Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Francesco Pastorino, Riccardo Jans, Massimiliano Cadin, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Comune di Arvier, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Maria Paola Roullet, Rosario Scalise, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Ministero della Cultura, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale Torino, domiciliataria ex lege in Torino, corso Stati Uniti, 45; Comune di Fontainemore, non costituito in giudizio; Per quanto riguarda il ricorso introduttivo: per l'annullamento, previa la misura cautelare della sospensione dell'esecutività, - della deliberazione della Giunta Regionale n. 244 dell'8 marzo 2022, con cui è stato individuato, quale “progetto pilota” della Regione Autonoma Valle d'Aosta per la rigenerazione culturale sociale ed economica dei borghi storici a rischio di abbandono ed in stato di abbandono nell'ambito dell'intervento finanziato dalla Linea di Azione “A” della Misura 2.1 “Attrattività dei Borghi” del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), il progetto presentato dal Comune di Fontainemore, con contestuale intesa tra la Regione ed il Comune medesimo ai fini della presentazione del suddetto progetto pilota al Ministero della Cultura; - di ogni provvedimento ed atto ad essa presupposti, tra i quali in particolare la deliberazione della Giunta Regionale n. 32 del 17 gennaio 2022, recante l'approvazione ed indizione dell'Avviso Pubblico per la manifestazione d'interesse da parte dei Comuni della Regione Autonoma Valle d'Aosta ai fini della selezione ed individuazione del “progetto pilota” per la rigenerazione culturale sociale ed economica dei borghi storici a rischio di abbandono ed in stato di abbandono; la deliberazione della Giunta Regionale n. 184 del 21 febbraio 2022, avente ad oggetto la definizione della composizione e delle modalità di costituzione del Nucleo di Valutazione incaricato della disamina e valutazione dei progetti presentati dai Comuni candidati alla procedura selettiva indetta; del verbale n. 1 del 25 febbraio 2022 e dell'allegata “Tabella A”, entrambi redatti dal designato Nucleo di Valutazione ed aventi ad oggetto la definizione della griglia dei criteri di valutazione dei progetti presentati dai Comuni candidati, del verbale n. 2 dell'1 e 2 marzo 2022 e dell'allegata “Tabella B”, entrambi redatti dal Nucleo di Valutazione e riportanti la griglia dei punteggi numerici attribuiti a ciascheduno dei progetti presentati dai Comuni candidati, - di ogni altro provvedimento ed atto, presupposto ovvero conseguente, al momento non conosciuto dal ricorrente Comune, con espressa riserva di proposizione di motivi aggiunti; e per la condanna della resistente Amministrazione al risarcimento del danno patito e patiendi dal ricorrente Comune per la denegata ipotesi di mancata individuazione del rispettivo progetto quale progetto pilota per la Regione Autonoma Valle d'Aosta da presentarsi al Ministero della Cultura ai fini della concessione della misura d'aiuto prevista dalla Linea di Azione “A” della Misura 2.1 “Attrattività dei Borghi” del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) a valere per l'importo di finanziamento pari a 20 milioni di Euro, con espressa riserva di quantificazione del suddetto danno in corso di causa. Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da Comune di Bard il 22/4/2022: per l'annullamento, previa la misura cautelare della sospensione dell'esecutività • della deliberazione della Giunta regionale n. 376 del 7 aprile 2022 (doc. 8) attraverso cui l'organo di governo regionale, una volta dichiarata la presunta ed asserita sussistenza di “irregolarità amministrative” nei confronti della proposta progettuale presentata dal Comune di Bard nell'ambito della procedura selettiva definita dallo stesso organo di governo in favore del controinteressato Comune di Fontainemore (v. pagg. 1-2 doc. 8), ha deliberato di “procedere alla revoca, in autotutela, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 21quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241, delle deliberazioni della Giunta regionale n. 32 in data 17 gennaio 2022, n. 184 in data 21 febbraio 2022 e n. 244 in data 8 marzo 2022” poste a fondamento della procedura selettiva e già impugnate dal Comune di Bard con il ricorso introduttivo del presente giudizio (v. pag. 2 doc. 8) e, contestualmente, ha deliberato altresì di individuare, in via diretta, al di fuori di ogni predeterminato confronto competitivo, la proposta progettuale del controinteressato Comune di Arvier quale “progetto pilota della Valle d'Aosta” da presentarsi al Ministero della Cultura in data 8 aprile 2022, con la conseguente intesa intervenuta tra la resistente Regione e il Comune di Arvier in merito all'individuazione di quest'ultimo quale soggetto attuatore della proposta progettuale (v. pagg. 2-3 doc. 8); • di ogni provvedimento ed atto ad essa presupposti, tra i quali in particolare le Note a firma della Coordinatrice del Dipartimento Soprintendenza per i beni e le attività culturali della resistente Regione, di cui al prot. 1368/CULT del 28 marzo 2022 ed al prot. 1520/CULT del 1° aprile 2022, aventi ad oggetto, rispettivamente, la richiesta di chiarimenti inoltrata al Sindaco del Comune di Bard circa l'eventuale “sussistenza di interessi propri o di prossimi congiunti” nel contesto della proposta progettuale presentata nell'ambito della procedura selettiva ed il successivo riscontro ai chiarimenti resi dal Comune di Bard in merito alla posizione del Sindaco, ove la Coordinatrice del Dipartimento Soprintendenza per i beni e le attività culturali ha avuto modo di affermare che “dalla documentazione prodotta, anche, per le precisazioni date, a ritenere superato il possibile rilievo relativo a conflitti di interessi anche solo potenziali, risulta che la partecipazione di codesto Comune all'avviso pubblico per la manifestazione di interesse finalizzata alla selezione di un progetto pilota per la rigenerazione culturale non sia stata approvata dall'organo comunale competente”; i documenti amministrativi recanti le “analisi svolte dal Nucleo di valutazione”, sulla cui base la Coordinatrice del Dipartimento Soprintendenza per i beni e le attività culturali ha formulato il giudizio di maggiore meritevolezza della proposta progettuale del Comune di Arvier, poi recepito dalla Giunta Regionale nella deliberazione n. 376 del 7 aprile 2022 sopra impugnata (v. l'ultimo paragrafo della pag. 2 doc. 8); il parere favorevole di legittimità reso dalla Coordinatrice del Dipartimento Soprintendenza per i beni e le attività culturali unitamente alla motivazione e disposto della deliberazione della Giunta Regionale n. 376 del 7 aprile 2022 sopra impugnata; - nonché di ogni altro provvedimento ed atto, presupposto ovvero conseguente, o comunque meramente preordinato, al momento non conosciuto dal Comune ricorrente, con espressa riserva di proposizione di eventuali ulteriori motivi aggiunti; nonché per l'annullamento, previa la misura cautelare della sospensione dell'esecutività della deliberazione della Giunta Regionale n. 244 dell'8 marzo 2022, e di ogni provvedimento ed atto ad essa presupposti, già impugnati nell'epigrafe del ricorso introduttivo; e per la condanna della resistente Amministrazione al risarcimento del danno patito e patiendi dal ricorrente Comune per la denegata ipotesi di mancata individuazione del rispettivo progetto quale progetto pilota per la Regione Autonoma Valle d'Aosta da presentarsi al Ministero della Cultura ai fini della concessione della misura d'aiuto prevista dalla Linea di Azione “A” della Misura 2.1 “Attrattività dei Borghi” del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) a valere per l'importo di finanziamento pari a 20 milioni di Euro, con espressa riserva di quantificazione del suddetto danno in corso di causa. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Arvier, del Ministero della Cultura e della Regione Autonoma Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 10 maggio 2022 il dott. Carlo Buonauro e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.; Ritenuto che parte ricorrente impugna gli atti in epigrafe relativi al procedimento di individuazione del “progetto pilota” della Regione Autonoma Valle d’Aosta per la rigenerazione culturale sociale ed economica dei borghi storici a rischio di abbandono ed in stato di abbandono nell’ambito dell’intervento finanziato dalla Linea di Azione “A” della Misura 2.1 “Attrattività dei Borghi” del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR); Considerato che risulta preliminare e decisivo lo scrutinio della doglianza con cui, in sede i motivi aggiunti, si censura la non ammissione della proposta del Comune ricorrente in quanto presentata senza nessuna previa manifestazione di volontà da parte dei competenti organi collegiali del Comune; Ritenuto che tale motivo di gravame si presenta infondato per l’inidoneità a tal fine (impegno del Comune alla partecipazione al progetto) dell’invocata deliberazione della Giunta comunale di Bard n. 5 del 19 gennaio 2022, recante ad oggetto “Accordo quadro di cooperazione con Dipartimento di management dell’Università degli studi di Torino per sostenere attività di supporto nella progettazione delle attività legate al PNRR”; Considerato invero, per un verso, che tale delibera, con oggetto plurimo, mentre prevede, al punto 3, di “presentare” la candidatura del Comune a bando della Fondazione San Paolo e per la linea B del bando borghi, dispone, invece, in termini generici e meramente programmatici, al punto 4, l’intento “promuovere” la candidatura del Comune di Bard “per l’ottenimento di fondi legati al PNRR e/o eventuali bandi di altre fondazioni/enti legati alle tematiche del PNRR che siano coerenti con l’obiettivo strategico dell’Amministrazione volto alla valorizzazione del borgo di Bard, avvalendosi anche delle competenze e delle professionalità messe a disposizione del Dipartimento di Management dell’Università degli studi di Torino, dando in tal senso ampio mandato alla segretaria comunale previa, condivisione, anche verbale, con il Sindaco, in quanto legale rappresentante dell’ente”; Considerato, per altro verso, che tale delibera risulta, quanto al segmento procedurale de quo, priva della necessaria specificità non solo riguardo alla linea di azione ma anche riguardo ai contenuti della proposta, sicché con evidenza è carente la specifica formazione di volontà da parte dell’Ente Comune, atteso che la proposta progettuale avente i contenuti di uno studio di fattibilità deriva soltanto dalla determinazione del Sindaco senza nessuna previa manifestazione di volontà da parte dei competenti organi collegiali del Comune; Ritenuto, in altri termini, che la sanzionata irregolarità amministrativa correttamente discenda dalla circostanza documentale per cui difetta nel caso di specie una specifica e tempestiva volontà dell’Ente in ordine alla presentazione della propria candidatura a valere su quella specifica Linea di Intervento (Investimento M1-C3 – investimento 2.1 – attrattività dei borghi – linea A), essendo, invece, l’indirizzo giuntale finalizzato, in termini puntuali, a confermare la (sola) collaborazione con il Dipartimento di Management dell’Università degli studi di Torino per sostenere attività di supporto nella progettazione delle attività legate al PNRR con particolare attenzione ai temi della valutazione d’impatto e della valutazione economico-finanziaria e per predisporre congiuntamente le domande per la partecipazione a bandi competitivi volti alla realizzazione della complessiva attività di rigenerazione territoriale; Ritenuto pertanto che - in ragione della legittima esclusione della propria proposta progettuale dal procedimento in esame con conseguente impossibilità di conseguire il bene della vita in contestazione - parte ricorrente non abbia interesse a censurare né l’inziale iter valutativo né soprattutto l’esercizio del potere di autotutela e la conseguente modalità di scelta del progetto selezionato, risultando pertanto non scrutinabili in questa sede le relative censure; Considerato, in definitiva, che il ricorso vada respinto anche in relazione alla spiegata domanda risarcitoria, non venendo in rilievo un pregiudizio connotato in termini di ingiustizia del danno correlato all’esercizio della funzione amministrativa; Ritenuto che le spese del giudizio, in ragione delle questioni trattate, possano essere compensate tra tutte le parti costituite; P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale della Valle D'Aosta (Sezione Unica) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Aosta nella camera di consiglio del giorno 10 maggio 2022 con l'intervento dei magistrati: Silvia La Guardia, Presidente Maria Ada Russo, Consigliere Carlo Buonauro, Consigliere, Estensore Silvia La Guardia, Presidente Maria Ada Russo, Consigliere Carlo Buonauro, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Piano nazionale di ripresa e resilienza – Fondi – Candidatura di un Comune – Delibera meramente programmatica – Sufficienza.    La delibera comunale che, in termini generici e meramente programmatici, indichi l’intento di promuovere la candidatura dell’ente per l’ottenimento di fondi legati al Pnrr ovvero di eventuali bandi di altri soggetti alle tematiche del Pnrr si presenta inidonea allo specifico fine (1).    (1) Il Tar – sul presupposto assiologico per cui la correttezza formale e completezza contenutistica della decisione della giunta comunale incide sul piano sostanziale sul controllo in ordine al principio (anche) di matrice euro-unitaria della cd. sana gestione finanziaria dell’aiuto, anche in termini di emersione di situazione di conflitto di interesse dei singoli amministratori e della loro responsabilità individuale - osserva con riferimento al caso di specie che la delibera dell’ente locale per un verso, con oggetto plurimo, mentre prevede, al punto 3, di “presentare” la candidatura del Comune a bando della Fondazione San Paolo e per la linea B del bando borghi, dispone, invece, in termini generici e meramente programmatici, al punto 4, l’intento “promuovere” la candidatura del Comune ricorrente “per l’ottenimento di fondi legati al PNRR e/o eventuali bandi di altre fondazioni/enti legati alle tematiche del PNRR che siano coerenti con l’obiettivo strategico dell’Amministrazione volto alla valorizzazione del borgo di Bard, avvalendosi anche delle competenze e delle professionalità messe a disposizione del Dipartimento di Management dell’Università degli studi di Torino, dando in tal senso ampio mandato alla segretaria comunale previa, condivisione, anche verbale, con il Sindaco, in quanto legale rappresentante dell’ente”; per altro verso, tale delibera risulta, quanto al segmento procedurale de quo, priva della necessaria specificità non solo riguardo alla linea di azione ma anche riguardo ai contenuti della proposta, sicché con evidenza è carente la specifica formazione di volontà da parte dell’Ente Comune, atteso che la proposta progettuale avente i contenuti di uno studio di fattibilità deriva soltanto dalla determinazione del Sindaco senza nessuna previa manifestazione di volontà da parte dei competenti organi collegiali del Comune. 
Piano nazionale di ripresa e resilienza
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Eccezione sollevata dalla parte per la prima volta nelle note di udienza
N. 05404/2021REG.PROV.COLL. N. 05192/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm. sul ricorso numero di registro generale 5192 del 2021, proposto da Anagni Viva, Rete per la Tutela della Valle del Sacco e Comitato Residenti Colleferro, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’avvocato Vittorina Teofilatto, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro la Regione Lazio e i Ministeri della Transizione Ecologica e della Salute, non costituiti in giudizio, nei confronti di Saxa Gres S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Germana Cassar, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. 12805/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio di Saxa Gres S.p.a.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nella camera di consiglio del giorno 8 luglio 2021, il Consigliere Giuseppe Rotondo e uditi per le parti l’avvocato Vittorina Teofilatto e l’avvocato Germana Cassar che partecipano alla discussione orale ai sensi dell’art. 25 d.l. n. 137/2020; Sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.; 1. I ricorrenti si oppongono alla realizzazione di un impianto per la produzione di ceramiche con recupero di scorie da termovalorizzazione di RSU presso l’esistente impianto sito in località Selcianella – Anagni e, a tal fine, hanno impugnato dinanzi al T.a.r. per il Lazio (ric. n.r.g. 14953 del 2019) la determinazione G 11755, datata 9 settembre 2019 di V.I.A. (valutazione impatto ambientale) rilasciata dalla Regione Lazio, deducendo due articolati motivi di gravame per incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere sotto vari profili. 2. Nel giudizio di primo grado si sono costituiti la Regione Lazio e la società Saxa Gres S.p.a. 2.1. Con note di udienza, controparti hanno, altresì, eccepito l’improcedibilità del ricorso per omessa impugnazione della sopravvenuta determinazione regionale del 16 luglio 2020, n. G08410, recante l’approvazione dell’A.I.A. (autorizzazione integrata ambientale). 2.2. Con sentenza n. 12805/2020, il T.a.r. per il Lazio ha dichiarato improcedibile il ricorso per mancata impugnazione della determinazione recante l’autorizzazione ambientale integrata. 3. Appellano la sentenza gli originari ricorrenti, che affidano il gravame a due mezzi di impugnazione. 3.1. Con il primo, deducono nullità della sentenza di primo grado in quanto il TAR per il Lazio non avrebbe dovuto accogliere l’eccezione proposta per la prima volta da parte resistente e controinteressata nelle note di udienza. Rilevano che il deposito di note di udienza presuppone la fissazione di un’udienza da remoto con la presenza delle parti. Tale udienza si svolge solamente a seguito di richiesta delle parti, che nella specie non veniva presentata. Ragion per cui, il TAR avrebbe dovuto considerare nulle le suddette note e rilevare d’ufficio, se del caso, la questione di rito assegnando termini alle parti per controdedurre sul punto ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a.. Sostengono, altresì, che la carenza di interesse avrebbe dovuto essere rilevata in concreto, tenuto conto dell’utilità effettiva che l’annullamento del provvedimento avrebbe sortito per i ricorrenti. La VIA concerne aspetti di salute, l’AIA solo quelli ambientali; osterebbe alla declaratoria di carenza di interesse il disposto dell’art. 29, comma 3, D.lvo n. 152/2006 e dell’art. 29 octies, comma 4, D.lvo n.152/2006; una eventuale pronuncia di annullamento della VIA anche in assenza di impugnazione dell’AIA, per le norme sopraindicate, non sarebbe inutile in quanto consentirebbe di riavviare la sperimentazione e di valutare nuovamente l’effettiva percorribilità della commercializzazione su larga scala di un gres porcellanato prodotto con il recupero di rifiuti pericolosi, magari comportando la necessità di riesaminare l’autorizzazione; il TAR, prima di giungere alla decisione impugnata, avrebbe dovuto infatti rimettere alla Corte di Giustizia Europea la questione di diritto introdotta (di cui non si conoscono precedenti), secondo la quale l’omessa impugnazione dell’autorizzazione determinerebbe la sopravvenuta preclusione di uno scrutinio di legittimità sulla valutazione di impatto ambientale. 3.2. Con un secondo gruppo di censure, essi riarticolano gli originari motivi dedotti in primo grado. 4. Si è costituita in resistenza la società Saxa Gres S.p.a. 5. Alla camera di consiglio del giorno 8 luglio 2021, svoltasi in modalità da remoto e fissata per l’esame dell’istanza cautelare formulata in una all’appello, la causa, previo avviso datone dal Presidente alle parti, è stata trattenuta in decisione per la sua immediata definizione nel merito. 6. L’appello è fondato per le ragioni che seguono. 7. Parte appellante ha dedotto (primo motivo di appello)) la nullità della sentenza di primo grado per violazione del contraddittorio. 7.1. Il dedotto motivo postula il previo chiarimento in ordine al rapporto tra trattazione orale da remoto e note d’udienza alla luce della recente normativa processuale emergenziale introdotta dal decreto legge n. 28/2020. 7.2. Le note di udienza, nel rito speciale de quo, costituiscono una modalità alternativa alla discussione orale del ricorso, configurata dall’art. 4 d.l. n. 28/2020 (richiamato dall’art. 25 d.l. n. 137/2020). Si tratta, dunque, di una facoltà difensiva alternativa a quella della discussione orale. Tanto che, come è stato chiarito in alcune pronunce, nel caso in cui le parti, per il tramite dei relativi difensori, partecipino alla discussione telematica, le note d’udienza dalle medesime depositate devono essere oggetto di una declaratoria di inutilizzabilità. 7.3. Nel caso di specie, le parti non hanno chiesto la discussione orale. Parte resistente e controinteressata si sono avvalse della facoltà di depositare brevi note in prossimità dell’udienza, a mezzo delle quali hanno sollevato, per la prima volta in causa, l’eccezione di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse (a cagione della mancata impugnazione dell’A.I.A. di cui alla Determinazione regionale del 16 luglio 2020, n. G08410). 8. La Sezione osserva che le note d’udienza presentate dalle controparti nel giudizio di primo grado, depositate in assenza di richiesta di discussione del ricorso, se anche non costituiscono, di norma, una deminutio del contraddittorio rispetto alla trattazione orale, si traducono, nella peculiarità della fattispecie, in un vulnus dello stesso a cagione del quale la sentenza deve essere dichiarata nulla con rimessione della causa al giudice di primo grado. 8.1. In primo luogo, va considerato che il contraddittorio scritto disciplinato dal Codice del processo amministrativo è significativamente articolato, in quanto consiste nella presentazione di memorie e repliche. Le repliche debbono contenere soltanto la risposta alle argomentazioni sviluppate da controparte nella memoria e non possono introdurre elementi nuovi. 8.2. Se ne deve inferire che, le note di udienza rappresentano semplicemente una estrema sintesi degli argomenti già dibattuti oppure una contestazione di quanto controparte abbia illustrato in modo non corretto nella replica. Non appare possibile, pertanto, introdurre questioni nuove in precedenza non dibattute (v. ex plurimis, ordinanza C.G.A.R.S. n. 36/2021). 8.3. Di poi, rileva la collocazione delle note di udienza. Posto che si tratta di scritti depositati in prossimità dell’udienza, è evidente che ad esse va attribuito il significato non di nuovi scritti difensivi bensì, di trascrizione di quanto altrimenti la parte avrebbe dedotto in udienza o in camera di consiglio. 8.4. Ancora, rileva la circostanza che, essendo mancata la discussione orale del ricorso, alle quali le parti avevano rinunciato, il mezzo utilizzato per introdurre la divisata eccezione si è tradotto in un surrettizio strumento di elusione del contraddittorio sul punto controverso, atteso che sulla questione nuova non è stato possibile replicare nelle ordinarie forme. Né è possibile replicare che, giusta la previsione della facoltà delle parti di depositare le anzi dette note entro le ore 9,00 del giorno stesso dell’udienza, sarebbe stato onere delle ricorrenti verificare anche in extremis gli eventuali depositi di controparte e i relativi contenuti: è evidente infatti che un siffatto modo di argomentare, determinando una sorta di “gara” tra le parti per avere l’ultima parola nei confronti del giudice, non è idoneo ad assicurare il contraddittorio processuale nel modo pieno e leale imposto dai principi costituzionali in materia di “giusto processo”. 8.5. Infine, e non per ultimo, va osservato che nel caso di specie le parti intimate in primo grado avrebbero avuto tutta la possibilità di evidenziare prima le cause del sopravvenuto difetto di interesse, anziché ridursi all’ultimo momento utile processuale, così precostituendosi, ancorché inconsapevolmente, i presupposti di una eccezione formulata “a sorpresa”, sulla quale controparte non ha potuto replicare né è stata messa nelle condizioni per farlo. 9. Il giudice di prime cure, quindi, per un verso avrebbe dovuto considerare l’eccezione alla stregua di una questione nuova, fino ad allora non trattata, come tale inutilizzabile in quanto introdotta per la prima volta con mere note di udienza; per l’altro, ove ne avesse ravvisata la rilevanza ai fini della decisione (come poi accaduto in concreto), avrebbe dovuto procedere ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a, sostanziandosi essa in una questione rilevata ex officio. 10. Per le ragioni che precedono, l’appello è fondato avuto riguardo al primo, dirimente motivo di gravame. 11. La riscontrata lesione del contraddittorio e la conseguente necessità del rinvio della causa al primo giudice per l’integrazione del contraddittorio sul punto controverso, impediscono al Collegio di accedere ai restanti motivi di gravame. 12. La sentenza di primo grado deve essere, pertanto, annullata e la causa rimessa al giudice di primo grado ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 105, comma 1, c.p.a. Le spese del grado di giudizio possono essere compensate tra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), accoglie l’appello e, per l’effetto, annulla la sentenza n. 12805/2020, resa dal T.a.r. per il Lazio, e rimette la causa al giudice di primo grado ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a. Spese compensate. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 luglio 2021 con l’intervento dei magistrati: Raffaele Greco, Presidente Oberdan Forlenza, Consigliere Luca Lamberti, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Giuseppe Rotondo, Consigliere, Estensore Raffaele Greco, Presidente Oberdan Forlenza, Consigliere Luca Lamberti, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Giuseppe Rotondo, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Udienza – Udienza da remoto – Senza discussione orale – Deposito note scritte – Nuove eccezioni di parte – Esclusione – Eccezioni d’ufficio - Contraddittorio tra le parti - Necessità.                 Nello speciale rito di cui all’art. 4, d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla l. 25 giugno 2020, n. 70, qualora non sia chiesta la discussione orale in collegamento da remoto, e le parti si avvalgano della facoltà di depositare note scritte di udienza, in queste ultime non possono essere sollevate eccezioni nuove, neanche afferenti a questioni di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione; ove intenda comunque rilevare d’ufficio tali questioni, il giudice è tenuto a sollecitare su di esse il contraddittorio tra le parti, non potendo la speciale disciplina in questione prestarsi a interpretazioni o prassi applicative inidonee ad assicurare la piena ed effettiva applicazione dei principi costituzionali del cd. giusto processo (1). (1) Ha chiarito la Sezione che agli scritti depositati in prossimità dell’udienza non va attribuito il significato non di nuovi scritti difensivi bensì, di trascrizione di quanto altrimenti la parte avrebbe dedotto in udienza o in camera di consiglio. ​​​​​​​Ove non sia chiesta la discussione orale del ricorso, alle quali le parti hanno rinunciato, il mezzo utilizzato per introdurre la divisata eccezione si tradurrebbe in un surrettizio strumento di elusione del contraddittorio sul punto controverso, atteso che sulla questione nuova non è stato possibile replicare nelle ordinarie forme. ​​​​​​​L’eccezione sollevata nelle note di udienza è inammissibile perché costituisce una novità introdotta per la prima volta alla vigilai dell’udienza di discussione, come tale inutilizzabile in quanto introdotta per la prima volta con mere note di udienza; per l’altro, ove ne avesse ravvisata la rilevanza ai fini della decisione (come poi accaduto in concreto), avrebbe dovuto procedere ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a, sostanziandosi essa in una questione rilevata ex officio.
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/la-terza-sezione-rimette-alla-plenaria-alcune-questioni-in-tema-di-meccanismo-transattivo-per-le-controversie-risarcitorie-instaurate-dai-cc.dd.-emotr
La terza sezione rimette alla plenaria alcune questioni in tema di meccanismo transattivo per le controversie risarcitorie instaurate dai cc.dd. emotrasfusi
N. 07511/2022 REG.PROV.COLL. N. 07477/2021 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA sul ricorso numero di registro generale 7477 del 2021, proposto dal Ministero della Salute, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, contro il signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Simone Lazzarini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Seconda) n. -OMISSIS-, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio del signor -OMISSIS-; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 21 aprile 2022, il Cons. Raffaello Sestini; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Considerato che: 1 - L’appellante, affetto da thalassemia major e da HCV, infezioni contratte a causa di trasfusioni di sangue non adeguatamente controllate, spiegava intervento adesivo nel giudizio risarcitorio promosso avanti al Tribunale di Roma da numerosi soggetti, anch’essi danneggiati da trasfusioni di sangue infetto; 1.1 - In data 27 novembre 2009, dopo numerosi rinvii in vista di possibili soluzioni transattive, l’interessato chiedeva di aderire alla transazione dell’azione giudiziaria ai sensi dell’art. 33 della legge 22 novembre 2007, n. 222, nonché dell’art. 2, commi 361-365, della legge 24 dicembre 2007, n. 244; 1.2 - Nelle more della decisione sulla sua domanda, il TAR del Lazio, con sentenza n. -OMISSIS-, ordinava al Ministero “di pronunciarsi, con provvedimento espresso, sulle domande di adesione alla transazione presentate dai ricorrenti entro 90 giorni”; 1.3 - Nel frattempo, il Tribunale di Roma con sentenza del 29 settembre 2014 accertava il diritto dell’appellante al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio; 1.4 - Proseguendo il ritardo nella definizione procedure risarcitorie la CEDU, con sentenza del 14 gennaio 2016, sanciva l’obbligo dello Stato italiano di concludere le procedure entro il 31 dicembre 2017; 1.5 - Il Ministero solo con comunicazione Prot -OMISSIS-, oggetto dell’impugnazione di primo grado nel presente giudizio, rispondeva che “che la domanda di adesione alla procedura transattiva indicata in oggetto non può essere accolta, in quanto risulta decorso il termine di cui all’art.5 comma 1 lettera a) del D.M. 4 maggio 2012”; 1.6 - Il TAR della Calabria, sede di Catanzaro, accoglieva infine il proposto ricorso con sentenza del 2 luglio 2021, n. 1342, qui appellata dal Ministero della salute; 1.7 - Con ordinanza n. -OMISSIS-, resa all’esito della camera di consiglio del 28 settembre 2021 (e successivamente corretta con decreto collegiale n. -OMISSIS-), questa Sezione respingeva l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva dell’impugnata sentenza del TAR. 2 – Tanto premesso, nel merito, con l’unico motivo di appello il Ministero della salute afferma l’erroneità della decisione con la quale il TAR ha accolto il ricorso sulla base di un presupposto del tutto erroneo, ovvero che il Ministero non avrebbe tenuto conto, in sede di valutazione della domanda di transazione, del fatto che era decaduto dalla possibilità di eccepire e rilevare la prescrizione, non avendo formulato tale eccezione nel giudizio civile pendente ora in Corte di Appello; 2.1 - Al contrario, secondo il Ministero la sentenza del Tribunale di Roma n. -OMISSIS-darebbe conto dell’avvenuta proposizione dell’eccezione, pur respinta con decisione ora sottoposta al giudice d’appello. Ne sarebbe conseguito il dovere dell’Amministrazione, in presenza di una sentenza (fatta oggetto di appello tuttora pendente) di rigetto dell’eccezione di prescrizione e di riconoscimento della responsabilità, con condanna generica al risarcimento dei danni, di verificare che non si trattasse di una pretesa, così come sarebbe risultato, ormai prescritta; 3 – Al riguardo, considera la Sezione che le censure dedotte dal Ministero della Salute sono già state respinte in relazione a numerosi analoghi contenziosi, avendo il Consiglio di Stato statuito che “nonostante la specificità dei due procedimenti, quello diretto al risarcimento del danno e quello relativo all’ammissione alla transazione, rientranti nell’ambito di giurisdizioni diverse, nondimeno sussiste un evidente collegamento tra i due procedimenti” e che, “sebbene sia condivisibile, in astratto, il principio secondo cui la transazione costituisce una scelta e non un obbligo per la P.A., nondimeno tale principio va considerato alla luce della peculiarità della presente controversia; la vicenda dei danni derivanti da emotrasfusione o da emoderivati ha interessato una moltitudine di persone ed è stata causata dalla previsione, da parte del Ministero dalla Salute, di misure rivelatesi inadeguate ad evitare il rischio di contagio: il legislatore ha chiaramente espresso la volontà di definire in via transattiva questo genere di controversie, anziché portarle avanti per anni dinanzi ai Tribunali, con la conseguenza che l’Amministrazione non può liberamente decidere se avvalersi di tale strumento, essendo tenuta a verificare caso per caso se sussistono i presupposti previsti dalla legge per farvi ricorso, potendo esimersi dal ricorrervi solo quando sussista una preclusione normativa” (cfr. ex plurimis Cons. Stato, Sez. III, 11 maggio 2021, n. 3698); 3.1 - Alla stregua di tale pregressa giurisprudenza della Sezione, l’appello dovrebbe pertanto essere respinto, conseguendone la piena esecutività della sentenza appellata; 3.2 – In particolare la Sezione si è già pronunciata nel senso che la disposizione di cui all’articolo 5, comma 1, lettera a), del d.m. 4 maggio 2012 va interpretata nel senso di incentivare l’ammissione al modulo transattivo di definizione della controversia risarcitoria pendente quante volte quest’ultima sarebbe suscettibile di concludersi con la condanna dell’Amministrazione, essendo dunque l’accesso alla transazione precluso solo in presenza di una sentenza che abbia positivamente accertato l’estinzione per prescrizione del diritto al risarcimento, e dovendo pertanto pervenirsi a opposte conclusioni allorché – come nel caso di specie – la stessa Amministrazione sia decaduta dalla possibilità di eccepire la prescrizione nel giudizio civile (così Cons. Stato, sez. III, 7 luglio 2021, n. 5191, relativa a fattispecie identica a quella per cui qui è causa, come già la copiosa giurisprudenza pregressa ivi richiamata); 4 - Tale orientamento deve però oggi misurarsi con quanto affermato dall’Adunanza plenaria nella sentenza n. 16 del 5 novembre 2021, laddove – su rimessione di questa stessa Sezione – si è chiarito che i termini stabiliti dalle lettere a) e b) del citato articolo 5 non attengono affatto alla prescrizione del diritto al risarcimento (ché, se così fosse, si tratterebbe di disposizioni illegittime nella misura in cui pretenderebbero di incidere in senso derogatorio sulle norme di rango primario che disciplinano il regime civilistico della prescrizione), ma piuttosto “si limitano, ferma la condizione del mancato intervento di una sentenza accertativa della prescrizione, a definire un arco temporale entro il quale la domanda di adesione alla procedura transattiva può essere presentata. Ciò fanno, è da ritenere, sulla base di motivazioni che non attengono al presunto maturarsi della prescrizione alla luce delle previsioni codicistiche, ma a ragioni di carattere gestionale correlate alla limitatezza delle risorse messe a disposizione, e, probabilmente, al grado di interesse e bisogno del danneggiato presuntivamente evincibile dai tempi di attivazione del giudizio”; 4.1 – Accedendo ad un tale orientamento, l’appello dell’Amministrazione potrebbe andare incontro a sorte diversa da quella segnata alla stregua della giurisprudenza dianzi richiamata; 4.2 - Infatti, risulta per tabulas che l’atto di intervento dell’odierno appellato nel giudizio risarcitorio proposto da altri fu proposto in data (27 luglio 2007) ampiamente successiva al decorso del quinquennio dalla data in cui egli aveva presentato la domanda di indennizzo ai sensi della legge 25 febbraio 1992, n. 210 (1 aprile 1996: cfr. documento n. 21 delle produzioni di primo grado dell’appellato in data 16 dicembre 2020); 5 – Non sfugge però al Collegio la irragionevolezza che potrebbe caratterizzare una tale decisione. In particolare: 5.1 - appare in ipotesi irragionevole che un soggetto sia penalizzato (nel senso di subire una preclusione assoluta a poter accedere alla definizione transattiva della propria controversia) per il mancato rispetto di una scadenza prevista da una norma che, al momento in cui egli pose in essere l’adempimento in questione (ossia la domanda di indennizzo ai sensi della legge n. 210/1996), nemmeno esisteva, come se la norma ex post fosse intervenuta a differenziare le posizioni degli interessati sulla base di un criterio che all’epoca costoro non potevano conoscere, finendo per essere di fatto discriminatoria in modo del tutto casuale; 5.2 – una tale irragionevolezza si rifletterebbe sul piano sostanziale nel presente giudizio, laddove l’odierno appellato in sede civile era parte di un giudizio civile collettivo, coinvolgente altri soggetti i quali hanno avuto accesso alla transazione sulla base della precedente giurisprudenza di questa Sezione. In particolare, risulta che il Ministero appellante abbia stipulato atti transattivi con altri soggetti parti del medesimo contenzioso attivato dal ricorrente di primo grado, titolari della medesima posizione processuale e sostanziale. Inoltre, deduce l’odierno resistente che cinque delle sei sentenze emesse dal TAR Lazio e favorevoli alle ragioni dei danneggiati, non sono state tempestivamente impugnate dal Ministero appellante e sono pertanto passate in giudicato, discendendone l’obbligo dello stesso Ministero di ammettere tali soggetti, interessati dalla stessa sentenza del Tribunale di Roma favorevole al ricorrente di primo grado, alla stipula della transazione, e conseguendone una grave disparità di trattamento; 5.3 - inoltre, le conseguenze di una tale interpretazione potrebbero essere di segno contrario alla ratio stessa della disposizione, volta non solo a velocizzare e semplificare le procedure di indennizzo ma anche a risparmiare all’Amministrazione i tempi del contenzioso e il rischio di maggiori esborsi in caso di condanna; 5.4 - anche il predetto profilo potrebbe riflettersi sul piano sostanziale nel presente giudizio, laddove – come già accennato - medio tempore l’appellato ha ottenuto sentenza favorevole in sede civile, sia pure con rinvio a separato giudizio per la definizione del quantum del risarcimento; 6 – Al riguardo, considera la Sezione che gli indennizzi in parola sono previsti e disciplinati, così come rilevato dall’Adunanza plenaria, da disposizioni di legge speciali (leggi n. 222/2007, art. 33, e 244/2007, art. 2, comma 360) che autorizzano puntualmente il Ministero della Salute, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, a stipulare transazioni con soggetti talassemici, affetti da altre emoglobinopatie o affetti da anemie ereditarie, emofiliaci ed emotrasfusi occasionali danneggiati da trasfusioni con sangue infetto o da somministrazione di emoderivati infetti e con soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie che abbiano istaurato azioni di risarcimento ai sensi dell’art. 2043 ss. c.c. e che, inoltre, impongono l’equa riparazione per i soggetti danneggiati da trasfusione con sangue infetto o emoderivati infetti da vaccinazioni obbligatorie che abbiano presentato domanda di adesione alla procedura transattiva, di cui alla l. n. 244 del 2007, entro il 19 gennaio 2010; 6.1 - I predetti plurimi interventi legislativi, adottati a seguito di una grave emergenza sanitaria che ha visto moltissimi pazienti del Servizio sanitario pubblico nazionale infettati a causa di inadeguati controlli sulle emotrasfusioni, rispondono, quindi, ad una evidente ratio equitativa, volta a contenere il conseguente - imponente e finanziariamente molto oneroso - contenzioso risarcitorio mediante la possibilità, per tutti gli interessati, di accedere in modo paritario ad un equo indennizzo, sottraendosi ai tempi, ai costi ed all’alea di un giudizio civilistico, conseguendone al contempo un risparmio organizzativo e un minor rischio finanziario anche per l’Amministrazione; 6.2 – Sembra quindi doversi prendere atto, sulla scia della sentenza dell’Adunanza plenaria n. 16 del 5 novembre 2021, dell’avvenuto conferimento, all’Amministrazione, di una potestà pubblicistica, e quindi del potere-dovere di ristorare il danno indebitamente subito dai pazienti emotrasfusi, anche stipulando una transazione con ogni soggetto richiedente qualora lo stesso risulti oggettivamente compreso fra quelli danneggiati ed abbia formulato “domanda di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 ss. c.c.” ovvero abbia presentato “domanda di adesione alla procedura transattiva, di cui alla l. 244 del 2007, entro il 19 gennaio 2010”; 6.3 - Alla luce della predetta previsione di legge speciale, appare ultroneo, ancora come rilevato dall’Adunanza plenaria, ogni diverso ed ulteriore limite prescrizionale o temporale previsto dalla normativa codicistica, divenendo problematica la possibilità di applicare la ordinaria disciplina prescrizionale per la parte in cui ciò impedirebbe di dare attuazione al chiaro disposto della citata previsione di legge speciale; 6.4 - Una tale ricostruzione della vigente disciplina sembra però comportare l’ulteriore conseguenza che, in presenza di una domanda di risarcimento ex art. 2043 c.c. ritualmente proposta (e peraltro accolta dal Tribunale civile di primo grado) e di plurime domande di indennizzo reiteratamente proposte dall’interessata già prima dell’azione in giudizio, la previsione di cui al D.M. 4 maggio 2012, art. 5, comma 1, lett. a), non potrebbe ritenersi ostativa alla stipula della richiesta transazione, indipendentemente dal suo riconosciuto autonomo valore organizzativo gestionale anziché quale mero richiamo a termini prescrizionali in realtà non applicabili alla fattispecie in esame; 6.5 – Infatti, i tempi e le modalità del diniego, opposto dopo il decorso dei termini procedimentali in esame e pur dopo plurime pronunce del giudice civile e di quello amministrativo, anche in sede di ottemperanza, di accoglimento della domanda di ammissione dell’appellante, hanno determinato una situazione oggettivamente idonea a generare e poi violare un legittimo affidamento dell’appellante circa il buon esito della propria domanda, che ha certamente ostacolato la sua possibilità di avvalersi della ulteriore possibilità di transazione prevista dal citato decreto n. 90 del 2014, concretando il dedotto vizio di violazione del principio eurounitario di tutela dell’affidamento; 6.6 – Dalla pregressa ricostruzione sembra emergere, inoltre, l’irragionevolezza e contraddittorietà dell’azione del Ministero intimato in contrasto con il generalissimo principio dell’ordinamento concernente la necessità d’improntare la propria azione secondo buona fede, essendo state messe in atto attività non coerenti con la necessità di realizzazione di un interesse meritevole di tutela quale quello di una persona, gravemente ammalata a causa del sangue infetto trasfusogli senza adeguati controlli del Ministero, di accedere alla procedura transattiva volta ad ottenere un’equa riparazione secondo le competenze e le procedure imposte al medesimo Ministero dalla vigente legislazione; 6.7 - La irragionevolezza dell’impugnato provvedimento e la conseguente ingiustizia delle sue conseguenze per l’appellante sembrano altresì consentire un giudizio di contraddittorietà e di sviamento dalle funzioni istituzionali attribuite al Ministero dalle citate disposizioni di legge in violazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione, considerate le descritte inique differenziazioni fra le sorti dei diversi interessati; 7 - Di fronte agli evidenziati profili problematici, a giudizio della Sezione si può ritenere che la predetta sentenza dell’Adunanza plenaria n. 16 del 5 novembre 2021 abbia affrontato direttamente solo la dedotta questione del rapporto fra la previsione di cui all’articolo 5, comma 1, lettera a), del d.m. 4 maggio 2012 e l’istituto civilistico della prescrizione, ma non si sia pronunciata sulla diversa questione concernente una possibile irragionevole applicazione della predetta previsione decadenziale da parte del Ministero in contrasto con la ratio legis ed ai generali principi di tutela dell’affidamento e della buona fede dei cittadini e dei famigliari così duramente colpiti dal malfunzionamento del Servizio sanitario pubblico facente capo proprio al Ministero appellante; 7.1 – Resterebbe pertanto estraneo al decisum della Plenaria il citato obiter dictum della sentenza, riferito alle ipotetiche e presuntive motivazioni dell’introduzione della disposizione de quo, che differiscono dalla sua oggettiva ratio e che, peraltro, non risultano comunque applicabili a fattispecie quali quella in esame, stante il carattere indennizzatorio conseguente alla lesione del fondamentale diritto della persona alla salute, lesione che alla stregua degli artt. 2 e 32 della Costituzione impone alla Repubblica un equo ristoro correlato al danno cagionato alla persona dal malfunzionamento del sistema sanitario facente capo al Ministero appellante, e casomai correlato alla fragilità della persona colpita e del suo nucleo famigliare, ma certamente non correlato alla diligenza e perspicacia professionale dei consulenti tecnici e giuridici attivati, a proprie spese, rispetto ad un quadro normativo ed amministrativo non semplice ed in costante e non sempre lineare evoluzione; 7.3 – Ne conseguirebbe l’estraneità della questione sopra indicata al decisum della plenaria, e si dovrebbe pertanto ritenere non applicabile e comunque non dirimente nel caso in esame la disposizione di cui all’articolo 5, comma 1, lettera a), del d.m. 4 maggio 2012, non avendo il Ministero provveduto ad una sua corretta applicazione; 8 – In ogni caso, stante l’evidente interferenza delle problematiche esaminate con i principi enunciati dalla citata sentenza n. -OMISSIS-, la Sezione ritiene di rimettere la questione all’Adunanza plenaria, anche ai sensi del comma 3 dell’articolo 99 c.p.a., per una possibile rimeditazione dell’indirizzo circa il carattere decadenziale e non prescrizionale dei termini previsti dall’articolo 5 del d.m. 4 maggio 2012, in ragione della conseguenze irragionevoli cui il predetto indirizzo potrebbe condurre, sanzionando con una decadenza una condotta posta in essere in un’epoca ben anteriore all’entrata in vigore della norma che ha posto la decadenza e che all’epoca non poteva essere conosciuta; 9 – Qualora, al contrario, si dovesse concludere nel senso della natura prescrizionale e non decadenziale del termine (con revisione dell’orientamento espresso nella citata decisione n. -OMISSIS-), si porrebbe la possibilità di considerare l’illegittimità della norma in questione e procedere quindi alla sua disapplicazione per le medesime ragioni esposte nella precedente ordinanza di rimessione di questa Sezione; 10 – La Sezione peraltro si rimette fin da ora, naturalmente, a qualsiasi ulteriore soluzione circa la natura giuridica dei termini in questione ai fini di una loro applicazione a fattispecie come quella in esame rispettosa delle legittime aspettative maturate dai cittadini e dai lori famigliari alla stregua dei principi di buona fede e di tutela dell’affidamento in relazione alla perpetrata violazione del fondamentale diritto alla salute sancito dall’articolo 32 della Costituzione; Alla stregua delle pregresse considerazioni il presente ricorso viene deferito all’esame dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, commi 1 e 3, c.p.a., alla quale si sottopongono i seguenti quesiti: 1) se, fermo restando quanto affermato nella sentenza n. -OMISSIS- in ordine alla natura non prescrizionale ma decadenziale dei termini stabiliti dall’articolo 5, lettere a) e b), del d.m. 4 maggio 2012 per l’ammissibilità delle domande di adesione allo speciale modulo transattivo previsto dalle leggi nn. 222 e 244 del 2007 (e salva l’eventuale rimeditazione di tale orientamento), le precitate disposizioni ministeriali siano compatibili con i principi di proporzionalità e ragionevolezza, oltre che con la ratio della stessa istituzione normativa di uno speciale meccanismo transattivo per le controversie risarcitorie instaurate dai cc.dd. emotrasfusi, laddove fanno dipendere l’ammissibilità o meno della domanda di accesso a tale speciale modulo transattivo esclusivamente dalla tempestività di una condotta (la instaurazione del giudizio risarcitorio) rispetto a un adempimento (la presentazione della domanda di indennizzo ex legge n. 210/1992) entrambi posti in essere in epoca ampiamente anteriore all’entrata in vigore delle norme in questione, allorché nessuna decadenza era prevista né era prevedibile potesse essere introdotta; 2) se, in ogni caso, sia consentito all’Amministrazione, alla stregua del principio di buon andamento e dell’obbligo di buona fede cui deve informarsi l’azione amministrativa (oltre che dei medesimi canoni richiamati sub 1), motivare il diniego di accesso al modulo transattivo esclusivamente con il mancato rispetto dei termini in questione, anche laddove lo sviluppo della vicenda procedimentale e giudiziale (fino al sopravvenire di una sentenza di condanna dell’Amministrazione al risarcimento, ancorché non definitiva, come nel caso di specie) possa aver ingenerato in capo all’interessato un affidamento per una celere definizione della propria controversia. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, ne dispone il deferimento all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Manda alla Segreteria della Sezione per gli adempimenti di competenza, e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di causa e della presente ordinanza al segretario incaricato di assistere all’Adunanza plenaria. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’odierno resistente ed i suoi famigliari. Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 21 aprile 2022 e 15 luglio 2022, con l’intervento dei magistrati: Raffaele Greco, Presidente Giovanni Pescatore, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere, Estensore Umberto Maiello, Consigliere Raffaele Greco, Presidente Giovanni Pescatore, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere, Estensore Umberto Maiello, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Sanità pubblica – sangue infetto – risarcimento danni – meccanismo transattivo – compatibilità con i principi – diniego di accesso – mero riferimento ai termini – ammissibilità – rimessione all’Adunanza plenaria   Vengono deferiti all’esame dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, commi 1 e 3, c.p.a., i seguenti quesiti: 1) se, fermo restando quanto affermato nella sentenza n. 16 del 2021 in ordine alla natura non prescrizionale ma decadenziale dei termini stabiliti dall’articolo 5, lettere a) e b), del d.m. 4 maggio 2012 per l’ammissibilità delle domande di adesione allo speciale modulo transattivo previsto dalle leggi nn. 222 e 244 del 2007 (e salva l’eventuale rimeditazione di tale orientamento), le precitate disposizioni ministeriali siano compatibili con i principi di proporzionalità e ragionevolezza, oltre che con la ratio della stessa istituzione normativa di uno speciale meccanismo transattivo per le controversie risarcitorie instaurate dai cc.dd. emotrasfusi, laddove fanno dipendere l’ammissibilità o meno della domanda di accesso a tale speciale modulo transattivo esclusivamente dalla tempestività di una condotta (la instaurazione del giudizio risarcitorio) rispetto a un adempimento (la presentazione della domanda di indennizzo ex legge n. 210/1992) entrambi posti in essere in epoca ampiamente anteriore all’entrata in vigore delle norme in questione, allorché nessuna decadenza era prevista né era prevedibile potesse essere introdotta; 2) se, in ogni caso, sia consentito all’Amministrazione, alla stregua del principio di buon andamento e dell’obbligo di buona fede cui deve informarsi l’azione amministrativa (oltre che dei medesimi canoni richiamati sub 1), motivare il diniego di accesso al modulo transattivo esclusivamente con il mancato rispetto dei termini in questione, anche laddove lo sviluppo della vicenda procedimentale e giudiziale (fino al sopravvenire di una sentenza di condanna dell’Amministrazione al risarcimento, ancorché non definitiva, come nel caso di specie) possa aver ingenerato in capo all’interessato un affidamento per una celere definizione della propria controversia.  
Sanità pubblica
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/interdittiva-antimafia-e-posizione-di-nicchia-dei-soggetti-vicini-alla-criminalita-organizzata-all-interno-della-societa-conformita-a-costituzione-del
Interdittiva antimafia e posizione “di nicchia” dei soggetti vicini alla criminalità organizzata all’interno della società – Conformità a Costituzione delle disciplina della interdittiva antimafia
N. 03641/2020REG.PROV.COLL. N. 08015/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8015 del 2019, proposto dalla società -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, e dal signor -OMISSIS-, entrambi rappresentati e difesi dagli avvocati Natale Carbone e Michela Catanese, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Natale Carbone in Roma, via Germanico, n. 172, contro la Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Reggio Calabria, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12,il Comune di Reggio Calabria, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Lucia Falcomatà, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,il Ministero dell’Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituito in giudizio,il Dirigente Generale pro tempore del Settore Sviluppo Economico del Comune di Reggio Calabria, Sportello Unico Attività Produttive, non costituito in giudizio, per la riforma della sentenza del Tar Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, n.-OMISSIS-dell’11 febbraio 2019, non notificata, con la quale è stato respinto il ricorso preposto per l’annullamento, tra l’altro, l’informazione interdittiva antimafia emessa nei confronti della società -OMISSIS-. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Reggio Calabria; Visto l’atto di costituzione in giudizio della Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Reggio Calabria; Viste le memorie difensive depositate dalla società -OMISSIS-, depositata in date 6 febbraio 2020, 14 febbraio 20-OMISSIS-e 7 aprile 2020; Vista la memoria difensiva del Comune di Reggio Calabria, depositata in data 11 febbraio 2020; Vista la memoria difensiva della Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Reggio Calabria, depositata in data 10 marzo 2020; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza del giorno 30 aprile 2020, svoltasi da remoto in videoconferenza ex art. 84, comma 6, d.l. n. 18 del 2020, il Cons. Giulia Ferrari; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. In data 25 luglio 2017 è stata emessa dalla Prefettura – UTG di Reggio Calabria un’informazione antimafia di contenuto interdittivo (prot. n.-OMISSIS-) nei confronti della società -OMISSIS- (d’ora in poi, -OMISSIS-). Tale provvedimento ha, in particolare, tratto fondamento dalle seguenti circostanze: la -OMISSIS-, dal 18 novembre 2016, annovera come amministratore unico la signora -OMISSIS-, dipendente della -OMISSIS-(d’ora in poi, -OMISSIS-), società destinataria di certificazione antimafia interdittiva; la signora -OMISSIS- è stata collaboratrice familiare (cameriera, come ha precisato l’appellante) dall’1 febbraio 2015 al 31 dicembre 2015, presso il signor -OMISSIS-; quest’ultimo è il socio unico della -OMISSIS- dal 19 gennaio 2016 e amministratore unico dal 19 gennaio 2016 al 18 novembre 2016 ed è stato socio della -OMISSIS- al 16,67%; la -OMISSIS- ha analoga sede legale della -OMISSIS-; esiste un rapporto di continuità lavorativa tra le due società; il signor -OMISSIS- è legato da stretti vincoli familiari con i soci e con l’amministratore unico della -OMISSIS-, i quali, a loro volta, frequentano soggetti gravati da pregiudizi penali; la signora -OMISSIS-, pur non risultando nello stesso stato di famiglia, ha la medesima residenza del signor -OMISSIS-; le segnalazioni di Polizia hanno evidenziato come la famiglia -OMISSIS- sia legata da vincoli di parentela con soggetti appartenenti alla cosca di ‘ndrangheta “-OMISSIS-” di -OMISSIS-. La Prefettura, valorizzando tali elementi, ha reputato sussistente un rapporto di continuità tra le due società tale da far emergere il malcelato fine di nascondere il reale assetto gestionale delle stesse e da far ritenere che la -OMISSIS- potesse essere condizionata dalla criminalità organizzata. A seguito di ciò, sempre in data 25 luglio 2017, il Comune di Reggio Calabria – Sportello Unico Attività Produttive, ha emesso l’ordinanza n. -OMISSIS-, prot. n. -OMISSIS-, con la quale è stata disposta la revoca degli effetti autorizzativi della Scia - Somministrazione alimenti e bevande riferita al pubblico esercizio “--OMISSIS-”. 2. Con ricorso proposto innanzi al Tar Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, la -OMISSIS- ha impugnato i suddetti provvedimenti. In particolare, la ricorrente ha dedotto che non sussisterebbero precedenti penali in capo alla signora -OMISSIS-; la -OMISSIS- avrebbe cessato definitivamente la propria attività e non risulterebbe più iscritta nel Registro delle Imprese; fatta eccezione per -OMISSIS-, nessuno dei soci che componevano la -OMISSIS- risulterebbe inserito nella compagine della -OMISSIS-; quest’ultima sarebbe frutto di un rilevante investimento del signor -OMISSIS-, posto in essere con risorse proprie. 3. Con sentenza n.-OMISSIS-dell’11 febbraio 2019, il Tar Reggio Calabria ha respinto il ricorso, valorizzando l’articolato quadro indiziario elaborato dalla Prefettura. In particolare, il Tar ha ritenuto significativo il fatto che la -OMISSIS- avesse rilevato la totalità dei beni della -OMISSIS- e che fosse stato messo a capo della società ricorrente un soggetto privo di mezzi e di esperienza, il quale avrebbe rassegnato le dimissioni successivamente al rigetto dell’istanza di sospensione degli atti avversati. Tali elementi, complessivamente considerati, avrebbero correttamente fornito indizi concreti ed attuali del pericolo di infiltrazione mafiosa. 4. La citata sentenza n.-OMISSIS-dell’11 febbraio 2019 è stata impugnata con appello notificato il 5 settembre 2019 e depositato il successivo 2 ottobre, riproducendo sostanzialmente le cesure non accolte in primo grado e ponendole in chiave critica rispetto alla sentenza avversata. In particolare, il Tar avrebbe errato: a) nel valutare la struttura della -OMISSIS-. Al contrario, la società appellante risulterebbe oggi costituita da un unico amministratore e socio, signor -OMISSIS-, rispetto al quale non sussisterebbero pregiudizi di rilevanza penale; la -OMISSIS- avrebbe cessato la propria attività; il signor -OMISSIS- avrebbe posseduto una quota irrisoria nella -OMISSIS-, ereditata dalla moglie deceduta; l’oggetto sociale delle due società sarebbe completamente diverso; la costituzione della -OMISSIS- sarebbe stato un rilevante investimento del signor -OMISSIS-, attraverso mezzi propri; le operazioni commerciali poste in essere dalla -OMISSIS- sarebbero improntate a trasparenza e correttezza sia nelle fasi operative che nella quotidiana attività d’impresa; b) nel fondare il pericolo di infiltrazione mafiosa sui legami familiari intercorrenti tra i soci delle due società ove, per contro, il semplice rapporto di parentela non potrebbe da solo costituire elemento idoneo a fondare il giudizio di pericolo di condizionamenti da parte della criminalità organizzata. 5. Si è costituita in giudizio la Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Reggio Calabria, affermando l’infondatezza dell’appello. 6. Si è costituito in giudizio il Comune di Reggio Calabria, sostenendo l’infondatezza dell’appello. 7. Il Ministero dell’Interno non si è costituito in giudizio. 8. Il Dirigente Generale quale legale rappresentante del Settore Sviluppo Economico del Comune di Reggio Calabria, Sportello Unico Attività Produttive, non si è costituito in giudizio. 9. Alla udienza del 30 aprile 20-OMISSIS-la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1. Come esposto in narrativa, oggetto della controversia è l’interdittiva antimafia emessa dalla Prefettura – UTG di Reggio Calabria nei confronti della società -OMISSIS- (d’ora in poi, -OMISSIS-) in data 25 luglio 2017. Detta società è stata costituita il 19 gennaio 2016 per l’attività commerciale di gastronomia da asporto e con successivo atto notarile del 10 marzo 2016 l’oggetto sociale è stato esteso alla somministrazione di alimenti e bevande. 2. L’appello è infondato. Alla base dell’interdittiva è la vicinanza della struttura societaria --OMISSIS- ad ambienti della criminalità organizzata. In particolare, la signora -OMISSIS-, già amministratore unico della società dal 18 novembre 2016 e poi dimissionaria, è stata controllata (i giorni 11 luglio 2015, 29 luglio 2015, 18 settembre 2015 e 29 marzo 2017) con il signor -OMISSIS-, socio unico della società -OMISSIS- dal 19 gennaio 2016 e già suo amministratore unico dal 19 gennaio 2016 al 18 novembre 2016. Il signor -OMISSIS- è stato socio della --OMISSIS- (d’ora in poi, -OMISSIS-), società che svolgeva attività di “Bar – gelateria” e destinataria di certificazione antimafia interdittiva emessa il 19 luglio 2016 e in scioglimento e liquidazione dal 3 ottobre 2016. Il ricorso proposto dinanzi al Tar Reggio Calabria avverso l’interdittiva è stato dichiarato perento con decreto, non opposto, n. -OMISSIS-del 5 marzo 2019. L’istanza di sospensione cautelare dell’interdittiva era stata precedentemente respinta in primo (ord. n.-OMISSIS-del 22 settembre 2016) e secondo grado. Il Consiglio di Stato, con ord. della sez. III n.-OMISSIS-del 4 novembre 2016, aveva parlato di “quadro indiziario univoco e credibile, circa la presenza di possibili punti di permeabilità suscettibili di generare ingerenze della criminalità organizzata ed alterazioni delle libere dinamiche di mercato”. Una prima interdittiva (n.-OMISSIS-del 16 febbraio 2011) era stata emessa anche nei confronti della -OMISSIS-, anch’essa definitiva, essendo stato il ricorso, proposto dinanzi al Tar Reggio Calabria, dichiarato estinto, con decreto non opposto n. -OMISSIS- del 9 aprile 2015, perché alla pubblica udienza del 19 dicembre 2012, su richiesta della società, il ricorso era stato cancellato dal ruolo, senza che nel termine annuale previsto dall’art. 81 c.p.a. fosse stata presentata nuova istanza di fissazione di udienza. Presso --OMISSIS- – interamente in mano alla famiglia -OMISSIS- (il 50% delle quote sociali erano di -OMISSIS- e il restante 50% diviso in tre parti eguali - con il 16,67% - tra -OMISSIS-, il figlio -OMISSIS- e -OMISSIS-) –ha lavorato la signora -OMISSIS- dall’1 febbraio 2015 al 31 dicembre 2015; la stessa, pur non risultando nello stato di famiglia del signor -OMISSIS-, ha la medesima sua residenza, via -OMISSIS-(nota della Questura di Reggio Calabria del 7 luglio 2017). L’interdittiva prefettizia gravata si fonda sulla vicinanza tra la società -OMISSIS- e la società -OMISSIS-, comprovata dalla forte presenza del signor -OMISSIS- in entrambe, dalla analoga sede legale e da un evidente rapporto di continuità lavorativa tra le due società. Come riconosciuto nello stesso atto di appello (pag. 3), della società -OMISSIS- la società -OMISSIS- ha acquisto, in data 22 novembre 2016, i beni mobili e le attrezzature utilizzate nello svolgimento dell’attività presso il dismesso esercizio commerciale “-OMISSIS-”. La famiglia -OMISSIS- è legata da vincoli di parentela con soggetti appartenenti alla cosca di ‘ndrangheta “-OMISSIS-” di -OMISSIS-. Il signor -OMISSIS-, figlio di -OMISSIS-, è imputato presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria nel procedimento penale n. -OMISSIS-/12 RGNR — n. -OMISSIS-/13 GIP e n. -OMISSIS-/14 DIB in ordine ai reati di cui agli artt. 110 e 221 T.U. del 1931 n. 773, nonché, presso la stessa Procura della Repubblica, nel procedimento penale n. -OMISSIS-/14 RGNR GIP in ordine ai reati di cui agli artt. 165, comma 11, e 55 comma 1, d.lgs. n. 81 del 2008. É coniugato con -OMISSIS-, dipendente della società -OMISSIS- dal mese di novembre 2009, persona inserita in un contesto familiare di cui fanno parte elementi, a vario titolo, riconducibili alla criminalità organizzata. In particolare il padre, -OMISSIS-, denunciato per violazione al T.U. leggi sanitarie; la madre -OMISSIS-, denunciata per oltraggio, resistenza e violenza a P.U.; il nonno materno deceduto, -OMISSIS-(cl. 1937), già sorvegliato speciale di P.S. e ritenuto inserito nell'omonimo sodaliato mafioso unitamente ad altri cugini di I grado; la nonna materna -OMISSIS-, terza interessata nella procedura di confisca di beni a carico del marito-OMISSIS-lo zio materno-OMISSIS-, pregiudicato per associazione di tipo mafioso e ricettazione, arrestato dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria in data 29 ottobre 2011, nell'ambito dell'operazione condotta nei confronti delle cosche di tridrangheta "-OMISSIS-"; il fratello -OMISSIS-, soggetto più volte controllato con soggetti controindicati e, in particolare, con -OMISSIS-, soggetto già sorvegliato speciale di P.S.. Quanto, in particolare, ai vincoli di parentela della famiglia -OMISSIS- con soggetti appartenenti alla cosca di ‘ndrangheta “-OMISSIS-” di -OMISSIS- vale ricordare che -OMISSIS- è nipote di -OMISSIS-, già sorvegliato speciale dì P.S., arrestato per associazione mafiosa e in atto detenuto, nonché nipote di -OMISSIS-, già sorvegliato speciale di P.S. e destinatario di confisca di beni connessa a misura di prevenzione, arrestato per estorsione, associazione mafiosa, turbata libertà degli incanti, corruzione per un atto d'ufficio e truffa e con -OMISSIS- (cI. 1981) già sorvegliato speciale di P.S. arrestato per favoreggiamento aggravato in concorso. La signora -OMISSIS- è, inoltre, coniugata con -OMISSIS- (cI. 1967), figlio di -OMISSIS-(cl. 1931) già sorvegliato speciale di P.S., gravato da pregnanti vicende giudiziarie e ritenuto contiguo alla cosca mafiosa "-OMISSIS-". -OMISSIS- (cl. 1956), padre di -OMISSIS-e marito di -OMISSIS-, è stato controllato dalle Forze di polizia unitamente a -OMISSIS- (cl. 1946) detenuto a seguito dell'operazione di polizia "-OMISSIS-". Infine, -OMISSIS- ha assunto presso l'omonima impresa individuale, nel periodo compreso tra il 2008 e il 2009, -OMISSIS- (cl. 1950) moglie convivente di -OMISSIS- (cl. 1943), fratello di -OMISSIS-, ritenuto essere organico ed elemento di vertice dell'omonima cosca appartenente al cartello criminale "-OMISSIS- 3. Tutti questi elementi hanno concorso a far ritenere, alla Prefettura di Reggio Calabria prima e al Tar Reggio Calabria poi, la società appellante -OMISSIS- vicina alle consorterie criminali perché attigua alla malavita organizzata era la società -OMISSIS-. A tale conclusione perviene anche il Collegio, giudicando gli indizi ai quali si è fatto riferimento gravi, precisi e concordanti, sì da considerare “più probabile che non” il pericolo di infiltrazione mafiosa. Il rischio di inquinamento mafioso deve essere, infatti, valutato in base al criterio del più “probabile che non”, alla luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, quale è, anzitutto, anche quello mafioso (Cons. St., sez. III, 13 novembre 2017, n. 5214; 9 maggio 2016, n. 1743). Come chiarito dalla Sezione (30 gennaio 2019, n. 759), l’art. 84, comma 3, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 riconosce quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di questi ad influenzare la gestione dell’impresa sono all’evidenza tutte nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzate, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, potendo essere anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo – anche quello di infiltrazione mafiosa – è per definizione la probabilità di un evento. L’introduzione delle misure di prevenzione, come quella qui in esame, è stata dunque la risposta cardine dell’Ordinamento per attuare un contrasto all’inquinamento dell’economia sana da parte delle imprese che sono strumentalizzate o condizionate dalla criminalità organizzata. Una risposta forte per salvaguardare i valori fondanti della democrazia. La sopra richiamata funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi (Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758). 4. A supportare l’interdittiva, proprio in ragione della ratio ad essa sottesa, possono essere anche fatti non penalmente rilevanti o che non costituiscono oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione (Cons. St., sez. III, 27 novembre 2018, n. 6707). In questo senso diventa dunque irrilevante la circostanza, affermata in appello (pag. 7), che a carico del signor -OMISSIS- “non sussistono …. fattispecie di reato, né risulta alcunché dal certificato del Casellario giudiziale”. 5. Contrariamente a quanto afferma l’appellante società, pertinente è stato, da parte del giudice di primo grado, il richiamo ai legami familiari che hanno caratterizzato la gestione della società -OMISSIS- e dunque della società -OMISSIS-. Le decisioni del responsabile di una società e la sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto con il proprio congiunto. Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione. Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (Cons. St., sez. III, 24 aprile 2020, n. 2651). Nel caso in esame dagli elementi descritti sub 1 appare evidente come non possa essere messa in dubbio la vicinanza tra la società "--OMISSIS-" e la società "-OMISSIS-" e che quest’ultima, in quanto “continuazione” della prima, colpita da interdittiva, possa essere condizionata dalla criminalità organizzata. Il signor -OMISSIS- era infatti presente nella società "--OMISSIS-" e lo è nella società appellante, senza che possa interessare la percentuale di quote societarie possedute. Per esercitare la propria influenza non rileva necessariamente il peso nella società, e ciò tanto più nel caso, che si verifica all’interno della "--OMISSIS-", di società a compagine esclusivamente familiare: come già chiarito, infatti, il 50% delle quote sociali erano di -OMISSIS- e il restante 50% diviso in tre parti eguali - con il 16,67% - tra -OMISSIS-, il figlio -OMISSIS- e -OMISSIS-. 6. La circostanza che l’amministratore unico della società -OMISSIS-, poi dimessosi, fosse estranea alla famiglia -OMISSIS- non è elemento sintomatico di una istruttoria sommaria da parte della Prefettura di Reggio Calabria. Il ruolo assunto all’interno della società appellante dalla signora -OMISSIS-, domestica di -OMISSIS-, dimessasi dalla carica di amministratore converge nel delineare la finalità, elusiva dei controlli previsti dalla legislazione antimafia, della fuoruscita dalla società di detto soggetto (Cons. St., sez. III, 10 aprile 2019, n. 2347). Non rileva neanche la circostanza che la signora -OMISSIS- non rivesta all’interno della società più alcuna carica; il momento in cui l’interdittiva è adottata non fotografa l’inizio della vicinanza della società agli ambienti della criminalità organizzata, che possono trovare la loro genesi anche in epoca di gran lunga antecedente. Giova a tale proposito ricordare che alcune operazioni societarie possono disvelare un’attitudine elusiva della normativa antimafia ove risultino in concreto inidonee a creare una netta cesura con la pregressa gestione subendone, anche inconsapevolmente, i tentativi di ingerenza (Cons. St., sez. III, 27 novembre 2018, n. 6707; 7 marzo 2013, n. 1386). Tale conclusione consente di superare anche l’ulteriore rilievo (pag. 11 dell’atto di appello) – dedotto al fine di smentire l’asserito carattere continuativo delle due società – secondo cui “quando la -OMISSIS-veniva costituita (19 gennaio 2016), la società -OMISSIS- non aveva neppure sentore che potesse essere adottata nei propri confronti un’informativa a carattere interdittivo, emessa dalla Prefettura solo nel luglio 2016.”. Le società vicine ai sodalizi criminali, infatti, precostituiscono una congerie di dati fattuali che potrebbero essere ex post utilizzati per dimostrare la cesura con il passato. Sempre più spesso le associazioni a delinquere di stampo mafioso fanno ricorso a tecniche volte a paralizzare il potere prefettizio di adottare misure cautelari (Cons St., sez. III, 6 maggio 2020, n. 2854). Di fronte al “pericolo” dell’imminente informazione antimafia di cui abbiano avuto in quale modo notizia o sentore, reagiscono mutando sede legale, assetti societari, intestazioni di quote e di azioni, cariche sociali, soggetti prestanome, cercando comunque di controllare i soggetti economici che fungono da schermo, anche grazie alla distinta e rinnovata personalità giuridica, nei rapporti con le pubbliche amministrazioni (Cons. St., sez. III, 13 maggio 2020, n. 3030). 7. Non è elemento in grado di scalfire l’impianto motivazionale a supporto dell’interdittiva neanche la circostanza che le due società – la --OMISSIS- e la -OMISSIS- – non avessero identico oggetto sociale (la prima svolgendo attività di “Bar – gelateria” e la seconda di gastronomia da asporto e di somministrazione di alimenti e bevande), non essendo questo un elemento richiesto per determinare la continuità sostanziale tra due società. 8. In conclusione, correttamente il coacervo di elementi è stato ritenuto dal Prefetto di Reggio Calabria sufficiente ad evidenziare la persistenza del pericolo di contiguità con la mafia, con un giudizio peraltro connotato da ampia discrezionalità di apprezzamento, con conseguente sindacabilità in sede giurisdizionale delle conclusioni alle quali l’autorità perviene solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (Cons. St. n. 4724 del 2001). Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati (Cons. St. n. 7260 del 2010). 9. Da ultimo va esaminata la questione di legittimità costituzionale, sollevata da parte appellante con le memorie depositate in date 6 febbraio 20-OMISSIS-e 7 aprile 2020, degli artt. 84, comma 4, lett. d ed e, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011 per contrasto all’ordinamento interno costituzionale e, in specie, agli artt. 117 e 3 Cost.. La questione è manifestamente infondata, alla luce dei principi dettati dallo stesso Giudice delle leggi, più volte intervenuto sulla normativa antimafia confermando l’iter argomentativo del giudice amministrativo. Come ha ben posto in rilievo la Corte costituzionale nella sentenza n. 24 del 2019, allorché si versi al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base «dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione». Essenziale – nell’ottica costituzionale così come in quella convenzionale (v., ex multis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione quinta, sentenza 26 novembre 2011, Gochev c. Bulgaria; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 4 giugno 2002, Olivieiria c. Paesi Bassi; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza -OMISSIS-maggio 2010, Lelas c. Croazia) – è, infatti, che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa. In tale direzione la verifica della legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343). Ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343). Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, «ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale» (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483). I principi elaborati dalla Sezione – che hanno ricevuto un primo avallo dal giudice delle leggi (sentenze n. 24 del 27 febbraio 2019 e n. 195 del 24 luglio 2019) – sono stati da ultimo nuovamente confermati dalla Corte costituzionale (sentenza n. 57 del 26 marzo 2020), che, sebbene abbia pronunciato con specifico riferimento alla comunicazione antimafia interdittiva che impinge sull’esercizio di una attività imprenditoriale puramente privatistica, ha ribadito le linee fondanti di tale misura preventiva. In particolare, in detta occasione il giudice delle leggi è stato chiamato ad esaminare la conformità dell’art. 89-bis (e in via conseguenziale dell’art. 92, commi 3 e 4), d.lgs. n. 159 del 2011 per violazione degli artt. 3 e 41 Cost. perché priverebbe un soggetto del diritto, sancito dall’art. 41 Cost., di esercitare l’iniziativa economica, ponendolo nella stessa situazione di colui che risulti destinatario di una misura di prevenzione personale applicata con provvedimento definitivo. Nel respingere la questione di legittimità costituzionale la Corte – prendendo le mosse da una analisi della giurisprudenza di questa Sezione – ha affermato che il fenomeno mafioso rappresenta un quadro preoccupante non solo per le dimensioni ma anche per le caratteristiche del fenomeno, e in particolare – e in primo luogo − per la sua pericolosità (rilevata anche da questa Corte: sentenza n. 4 del 2018). Difatti la forza intimidatoria del vincolo associativo e la mole ingente di capitali provenienti da attività illecite sono inevitabilmente destinate a tradursi in atti e comportamenti che inquinano e falsano il libero e naturale sviluppo dell’attività economica nei settori infiltrati, con grave vulnus, non solo per la concorrenza, ma per la stessa libertà e dignità umana. Le modalità, poi, di tale azione criminale non sono meno specifiche, perché esse manifestano una grande “adattabilità alle circostanze”: variano, cioè, in relazione alle situazioni e alle problematiche locali, nonché alle modalità di penetrazione, e mutano in funzione delle stesse. Ha aggiunto la Corte costituzionale che quello che si chiede alle autorità amministrative non è di colpire pratiche e comportamenti direttamente lesivi degli interessi e dei valori prima ricordati, compito naturale dell’autorità giudiziaria, bensì di prevenire tali evenienze, con un costante monitoraggio del fenomeno, la conoscenza delle sue specifiche manifestazioni, la individuazione e valutazione dei relativi sintomi, la rapidità di intervento. È in questa prospettiva anticipatoria della difesa della legalità che si colloca il provvedimento di informativa antimafia al quale, infatti, è riconosciuta dalla giurisprudenza natura “cautelare e preventiva” (Cons. Stato, A.P., 6 aprile 2018, n. 3), comportando un giudizio prognostico circa probabili sbocchi illegali della infiltrazione mafiosa. La Corte costituzionale ha quindi fatto riferimento alle situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale, individuate da questa Sezione. Tra queste: i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale; le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa; la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159 del 2011; i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”; i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa e nella sua gestione, incluse le situazioni in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità. Sulla base di tali principi possono escludersi profili di incostituzionalità degli artt. 84, comma 4, lett. d ed e, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011. 10. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c.. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso. 11. In conclusione, per i suesposti motivi, l’appello va respinto e va, dunque, confermata la sentenza del Tar Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, n.-OMISSIS-dell’11 febbraio 2019, che ha respinto il ricorso di primo grado. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna parte appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in € 5.000,00 (euro quattromila/00), rispettivamente a favore della Prefettura di Reggio Calabria e del Comune di Reggio Calabria. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Vista la richiesta dell'interessato e ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, comma 1, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte interessata. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 30 aprile 2020, svoltasi da remoto in videoconferenza ex art. 84, comma 6, d.l. n. 18 del 2020, con l’intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore Raffaello Sestini, Consigliere Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore Raffaello Sestini, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Informativa antimafia – Presupposti – Amministratore vicino alla criminalità organizzata - Successive dimissioni – Irrilevanza ex se. Informativa antimafia – Disciplina - Artt. 84, comma 4, lett. d ed e, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011 – Violazione artt. 117 e 3 Cost. – Manifesta infondatezza.   1) Cons. St., sez. III, 10 aprile 2019, n. 2347. La Sezione ha affermato che non rileva neanche la circostanza che l’ex amministratore dimissionario non rivesta all’interno della società più alcuna carica; il momento in cui l’interdittiva è adottata non fotografa l’inizio della vicinanza della società agli ambienti della criminalità organizzata, che possono trovare la loro genesi anche in epoca di gran lunga antecedente. Giova a tale proposito ricordare che alcune operazioni societarie possono disvelare un’attitudine elusiva della normativa antimafia ove risultino in concreto inidonee a creare una netta cesura con la pregressa gestione subendone, anche inconsapevolmente, i tentativi di ingerenza (Cons. St., sez. III, 27 novembre 2018, n. 6707; 7 marzo 2013, n. 1386). Le società vicine ai sodalizi criminali, infatti, precostituiscono una congerie di dati fattuali che potrebbero essere ex post utilizzati per dimostrare la cesura con il passato. Sempre più spesso le associazioni a delinquere di stampo mafioso fanno ricorso a tecniche volte a paralizzare il potere prefettizio di adottare misure cautelari (Cons St., sez. III, 6 maggio 2020, n. 2854). Di fronte al “pericolo” dell’imminente informazione antimafia di cui abbiano avuto in quale modo notizia o sentore, reagiscono mutando sede legale, assetti societari, intestazioni di quote e di azioni, cariche sociali, soggetti prestanome, cercando comunque di controllare i soggetti economici che fungono da schermo, anche grazie alla distinta e rinnovata personalità giuridica, nei rapporti con le pubbliche amministrazioni (Cons. St., sez. III, 13 maggio 2020, n. 3030).   (2) La Sezione ha giudicato la questione manifestamente infondata, alla luce dei principi dettati dallo stesso Giudice delle leggi, più volte intervenuto sulla normativa antimafia confermando l’iter argomentativo del giudice amministrativo. Come ha ben posto in rilievo la Corte costituzionale nella sentenza n. 24 del 2019, allorché si versi al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base «dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione». Essenziale – nell’ottica costituzionale così come in quella convenzionale (v., ex multis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione quinta, sentenza 26 novembre 2011, Gochev c. Bulgaria; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 4 giugno 2002, Olivieiria c. Paesi Bassi; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza del maggio 2010, Lelas c. Croazia) – è, infatti, che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa. In tale direzione la verifica della legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343). Ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343). Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, «ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale» (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483). I principi elaborati dalla Sezione – che hanno ricevuto un primo avallo dal giudice delle leggi (sentenze n. 24 del 27 febbraio 2019 e n. 195 del 24 luglio 2019) – sono stati da ultimo nuovamente confermati dalla Corte costituzionale (sentenza n. 57 del 26 marzo 2020), che, sebbene abbia pronunciato con specifico riferimento alla comunicazione antimafia interdittiva che impinge sull’esercizio di una attività imprenditoriale puramente privatistica, ha ribadito le linee fondanti di tale misura preventiva. In particolare, in detta occasione il giudice delle leggi è stato chiamato ad esaminare la conformità dell’art. 89-bis (e in via conseguenziale dell’art. 92, commi 3 e 4), d.lgs. n. 159 del 2011 per violazione degli artt. 3 e 41 Cost. perché priverebbe un soggetto del diritto, sancito dall’art. 41 Cost., di esercitare l’iniziativa economica, ponendolo nella stessa situazione di colui che risulti destinatario di una misura di prevenzione personale applicata con provvedimento definitivo. Nel respingere la questione di legittimità costituzionale la Corte – prendendo le mosse da una analisi della giurisprudenza di questa Sezione – ha affermato che il fenomeno mafioso rappresenta un quadro preoccupante non solo per le dimensioni ma anche per le caratteristiche del fenomeno, e in particolare – e in primo luogo − per la sua pericolosità (rilevata anche da questa Corte: sentenza n. 4 del 2018). Difatti la forza intimidatoria del vincolo associativo e la mole ingente di capitali provenienti da attività illecite sono inevitabilmente destinate a tradursi in atti e comportamenti che inquinano e falsano il libero e naturale sviluppo dell’attività economica nei settori infiltrati, con grave vulnus, non solo per la concorrenza, ma per la stessa libertà e dignità umana. Le modalità, poi, di tale azione criminale non sono meno specifiche, perché esse manifestano una grande “adattabilità alle circostanze”: variano, cioè, in relazione alle situazioni e alle problematiche locali, nonché alle modalità di penetrazione, e mutano in funzione delle stesse. Ha aggiunto la Corte costituzionale che quello che si chiede alle autorità amministrative non è di colpire pratiche e comportamenti direttamente lesivi degli interessi e dei valori prima ricordati, compito naturale dell’autorità giudiziaria, bensì di prevenire tali evenienze, con un costante monitoraggio del fenomeno, la conoscenza delle sue specifiche manifestazioni, la individuazione e valutazione dei relativi sintomi, la rapidità di intervento. È in questa prospettiva anticipatoria della difesa della legalità che si colloca il provvedimento di informativa antimafia al quale, infatti, è riconosciuta dalla giurisprudenza natura “cautelare e preventiva” (Cons. Stato, A.P., 6 aprile 2018, n. 3), comportando un giudizio prognostico circa probabili sbocchi illegali della infiltrazione mafiosa. La Corte costituzionale ha quindi fatto riferimento alle situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale, individuate da questa Sezione. Tra queste: i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale; le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa; la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159 del 2011; i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”; i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa e nella sua gestione, incluse le situazioni in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità. Sulla base di tali principi possono escludersi profili di incostituzionalità degli artt. 84, comma 4, lett. d ed e, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011.
Informativa antimafia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/la-disciplina-della-revisione-dei-prezzi
La disciplina della revisione dei prezzi
N. 05667/2022REG.PROV.COLL. N. 01729/2015 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1729 del 2015, proposto dall’impresa dell'Impresa CO.ME.BA. di Bagalà Francesco, in persona del legale rappresentante pro tempore, in proprio e in qualità di mandataria dell'A.T.I. costituita con ISOTECH S.r.l., rappresentata e difesa dagli avvocati Francesco Lilli e Fabio Massimo Pellicano, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, con domicilio eletto presso lo studio dei medesimi avvocati in Roma, viale di Val Fiorita n. 90; contro A.N.A.S. s.p.a., Ufficio per l'Autostrada SA/RC, Ufficio di Cosenza, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa per legge dalla Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, è domiciliato; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione prima, n. 1900 del 24 novembre 2014, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio di ANAS s.p.a., depositato il 18 marzo 2015; Vista la memoria difensiva dell’appellante, depositata il 14 aprile 2022; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 19 maggio 2022 il consigliere Claudio Tucciarelli e udito per l’appellante l’avvocato Francesco Lilli; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Oggetto del presente giudizio è la domanda proposta dall’A.t.i. Co.Me.Ba. per: i) l’accertamento del diritto di ottenere il pagamento dei maggiori oneri subiti a seguito dell'incremento dei prezzi delle materie prime e conseguentemente per la condanna di A.N.A.S. s.p.a. al pagamento degli importi tutti recati dalle riserve iscritte in contabilità ai nn. 1, 4 e 7 e confermate in sede di stato finale, per un totale pari a € 998.085,73; ii) in via subordinata, per la condanna di A.N.A.S. s.p.a. al pagamento della somma riconosciuta dalla commissione nominata ex art. 240 del d.lgs. n. 163/2006, pari a € 499.042,86, e al risarcimento di tutti i maggiori oneri subiti per la maggiore o minore somma che risulterà di giustizia, da individuarsi anche in via equitativa, oltre interessi legali dalla data della domanda sino al giorno dell'effettivo ristoro. 2. Con contratto rep. n. 5214 del 14 aprile 2008 ANAS s.p.a., ufficio per l'Autostrada SA/RC, aveva affidato all'A.t.i. Co.Me.Ba. - ISOTECH S.r.l. l'appalto per il "completamento dei lavori di ammodernamento al tipo 1° delle Norme CNR/80 del Tronco 2°- Tratto 4° - lotto 2° - Stralcio 2° dal km 213,500 al Km 222,000 dell'Autostrada Salerno Reggio Calabria". L'importo della gara, al netto del ribasso del 22,7 %, era pari a euro 2.852.700,87, oltre oneri di sicurezza per euro 113.643,36. I lavori erano poi stati completati dopo che nel corso dei lavori stessi si era verificato un rilevante aumento del prezzo dei materiali ferrosi e bituminosi rispetto a quelli previsti al momento dell’offerta e l’impresa aveva segnalato la conseguente intenzione di recedere dal contratto ma, a fronte dell’intimazione di ANAS a completare i lavori e alla prospettazione di una risoluzione per inadempimento oltre che del rigetto della istanza di recesso, i lavori venivano portati a termine, con iscrizione di una serie di riserve nella contabilità dei lavori medesimi. L’ANAS avrebbe riconosciuto una somma di gran lunga inferiore a quella richiesta dalla ricorrente (richiesta superiore a un milione di euro) mentre la commissione prevista dall’art. 240 del d.lgs. n. 163/2006 aveva riconosciuto invece alla ricorrente la somma di circa euro 537.000, non versata dalla resistente. 2.1. L’odierna appellante, si era quindi rivolta al Tribunale di Cosenza, adito con ricorso ex art. 702 bis c.c., il quale, con ordinanza del 26 ottobre 2011, aveva declinato la propria giurisdizione. L’A.t.i. ha quindi proposto, nel 2012, ricorso al T.a.r. per la Calabria per l'accertamento del diritto ad ottenere il ristoro dei maggiori oneri subiti dall'incremento dei costi delle materie prime, nell'esecuzione del contratto di appalto, stipulato in data 18 aprile 2008, ad oggetto il "completamento dei lavori di ammodernamento al tipo 1° delle Norme CNR/80 del Tronco 2°- Tratto 4° - lotto 2° - Stralcio 2° dal km 213 500 al Km 222 000 dell'Autostrada Salerno Reggio Calabria"; e per la conseguente condanna di ANAS S.p.a. al pagamento degli importi iscritti nelle riserve nn. 1, 4 e 6, confermate in sede di stato finale, ivi compreso il risarcimento di ogni ulteriore danno subito e subendi. Ad avviso della ricorrente: a) non sarebbe stato possibile nel caso di specie ricorrere all’istituto del prezzo chiuso, riferibile, ai sensi dell’art. 133, comma 2, del codice appalti ratione temporis applicabile, ai soli contratti di durata pluriennale; b) le modifiche non sarebbero state assorbite dall’alea contrattuale; c) occorreva fare riferimento alle condizioni previste dal codice civile; d) sarebbe maturato il diritto a un importo di euro 20.368,87 per le barriere ed euro 600 per le recinzioni, nonché di euro 934.291,50 per gli agglomerati bituminosi; e) anche la commissione costituita ex art. 240 avrebbe concordato, almeno in parte, con le determinazioni della ricorrente, tanto da riconoscere in totale oltre 537.000 euro, rispetto alla somma offerta da A.N.A.S., pari a euro 55.238,23, a fronte della richiesta avanzata dall’A.t.i. per i maggiori costi, pari a euro 1.009.395,73. Si è costituita nel giudizio di primo grado A.N.A.S., chiedendo di rigettare il ricorso in quanto: a) ai sensi dell’art. 133, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006, per i lavori pubblici affidati alle stazioni appaltanti non si poteva procedere a revisione dei prezzi e non poteva trovare applicazione il primo comma dell’art. 1664 c.c.; b) la disposizione citata trovava applicazione in tutti i tipi di contratti di appalto pubblici; c) la disposizione citata non distingueva tra lavori di durata infrannuale e pluriennale; d) l’art. 5 del contratto di appalto stabiliva che non era prevista alcuna revisione dei prezzi e non trovava applicazione l’art. 1664, primo comma, del codice civile; e) la domanda di revisione non poteva costituire oggetto di riserva; f) anche per l’applicabilità dell’istituto della compensazione doveva ritenersi ampiamente scaduto il termine previsto dall’art. 133, comma 6-bis, del d.lgs. n. 163/2006, relativo alla presentazione della istanza di compensazione da parte dell’appaltatore a seguito di variazioni superiori al dieci per cento dei prezzi dei materiali da costruzione, rilevate annualmente dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. 3. La sentenza del T.a.r. per la Calabria, sezione prima, n. 1900 del 24 novembre 2014, ha respinto il ricorso, in considerazione: - del contenuto dell’art. 5 del contratto di appalto stipulato tra le parti del giudizio, rubricato “invariabilità del corrispettivo”, in base a cui “non è prevista alcuna revisione dei prezzi e non trova applicazione l’art. 1664, primo comma, del codice civile”; - del contenuto dell’art. 133 del codice dei contratti pubblici, per cui la domanda proposta da parte ricorrente non poteva trovare accoglimento, oltre che per la previsione contrattuale, per il fatto che non poteva essere condivisa la limitazione dell’applicabilità della disposizione alle sole ipotesi di contratti pluriennali, anche in base a un’interpretazione teleologica della disposizione; inoltre, il secondo comma dell’art. 133 non distingueva tra le due categorie di contratti; - dell’assenza nel ricorso introduttivo della domanda per l’applicabilità del differente istituto della compensazione, del quale non risultava d’altro canto rispettata la relativa procedura; - della inidoneità dell’eventuale comportamento della stazione appaltante in relazione all’istanza di recesso avanzata dalla ricorrente a rappresentare una volontà di modificare le disposizioni contrattuali ovvero di rivedere l’importo del corrispettivo in mancanza di specifica prova in tal senso; né una tale prova poteva desumersi dall’attivazione della procedura di cui all’art. 240 del d.lgs. n. 163/2006, finalizzata al raggiungimento di un possibile accordo tra le parti; - del fatto che la statuizione della commissione ex art. 240 del d. lgs. n. 162/2006 non poteva ritenersi vincolante per le parti; - del fatto che l’art. 1467 c.c. non prevede il diritto potestativo del contraente di determinare la risoluzione del contratto mediante atto unilaterale (recesso), ma subordina tale effetto a una pronuncia dell’autorità giudiziaria di natura costitutiva; ne discende l’irrilevanza della richiesta stragiudiziale formulata dalla ricorrente, così come dell’eventuale rigetto da parte della pubblica amministrazione; - con riguardo alla disciplina delle riserve, del condiviso prevalente orientamento giurisprudenziale che conclude nel senso della sua inapplicabilità all’ipotesi della revisione dei prezzi, stante la diversa natura anche ontologica dei due istituti; - della inapplicabilità della revisione dei prezzi discendente sia dalle previsioni contrattuali che dalle norme di legge, senza alcuno spazio all'esercizio di poteri discrezionali dell'amministrazione. La sentenza del T.a.r. ha quindi rigettato la domanda di pagamento della somma indicata nel ricorso, sia a titolo di risarcimento del danno, per mancanza dell’elemento della fattispecie dell’inadempimento dell’altro contraente, sia a titolo di ingiustificato arricchimento in difetto del requisito della residualità. La sentenza ha infine compensato le spese di giudizio. 4. L’impresa ha interposto appello, articolando due autonomi mezzi di gravame (estesi da pagina 5 a pagina 14 del ricorso). 4.1. Con il primo mezzo si lamenta la erronea e insufficiente motivazione su un punto decisivo per la controversia in relazione all'art. 112 c.p.c.; nonché violazione e falsa applicazione dell'art. 133 del d.lgs. n. 163/2006. L’appellante rappresenta di avere contestato l'applicazione dell'art. 133 e di avere invocato l'accertamento della fondatezza delle pretese economiche iscritte in contabilità, mentre il T.a.r. avrebbe escluso la possibilità di accertare il danno subito dal raggruppamento in adempimento del contratto d'appalto, sulla base di disposizioni inapplicabili alla fattispecie. Il T.a.r. non avrebbe infatti valutato i fatti della vicenda da cui si ricaverebbe che la controversia non riguardava l'applicabilità del prezzo chiuso ex art. 133, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006, dal momento che nessuna delle due parti contrattuali ha mai manifestato la volontà di procedervi, ma l'accertamento della correttezza degli importi iscritti nelle riserve e, per l'effetto, la fondatezza della pretesa economica dell'A.t.i.; Anas s.p.a. avrebbe assentito parzialmente alle richieste avanzate dall'A.t.i. e promosso il procedimento di composizione della controversia ex art. 240 del d.lgs. n. 163/2006. Inoltre, l'ordine di servizio n. 4 (provvedimento nemmeno citato in sentenza) e la convocazione della Commissione ex art. 240 del d.lgs. n. 163/2006 costituirebbero atti inequivoci della volontà di A.N.A.S. di verificare le pretese dal raggruppamento aggiudicatario, prescindendo da ogni censura circa le modalità di contestazione avviate. A.N.A.S. avrebbe poi scelto di non uniformarsi alle conclusioni della Commissione, per asserita "carenza di criteri oggettivi nella determinazione del quantum e per il ricorso a motivazioni non riportate nelle riserve" e non, invece, per asserita illegittimità della relativa procedura. Si tratterebbe di circostanze valutate dal T.a.r. come prive di rilevanza. Vengono poi contestati gli argomenti dell’impugnata sentenza del T.a.r., secondo cui l'unica procedura astrattamente applicabile alla fattispecie sarebbe stata quella prevista dall'art. 133, comma 3, del Codice, di talché le pretese avanzate dall'A.T.I. non avrebbero potuto, in alcun caso, costituire oggetto di riserva. Rileva infatti l’appellante che: a) al fine dell'applicazione della procedura del prezzo chiuso, A.N.A.S. avrebbe dovuto adottare una delibera, ovvero un atto interno; b) il contratto d'appalto non conteneva alcun richiamo al procedimento ex art. 133 del d.lgs. n. 163/2006, necessario ex lege per ricorrervi; c) alla data di conclusione dei lavori (26 settembre 2008), non erano ancora entrati in vigore né il d.lgs. n. 162/2008 (23 ottobre 2008), né il d.m. 30 aprile 2009, relativo all'elenco dei materiali (9 maggio 2009); d) le riserve indagate riguardavano complessivamente la corretta contabilizzazione del corrispettivo contrattuale delle opere eseguite e non, viceversa, la revisione dei prezzi tout court. Sarebbe inconferente la disposizione applicata alla fattispecie. Tantopiù che la stessa Commissione istituita ex art. 240 cit. aveva considerato inapplicabile l'istituto del prezzo chiuso. L’appellante contesta poi quanto sostenuto dalla sentenza sul fatto che l'art. 133 non opererebbe alcun distinguo tra lavori di durata infra-annuale e pluriennale, prevedendo per tutti i lavori pubblici l'applicazione del prezzo chiuso, se non altro perché confliggerebbero con tale ipotesi proprio, le previsioni del comma 3 che fa riferimento a “ogni anno intero", il che implicherebbe che il "prezzo chiuso" è collegato alla durata dei lavori, necessariamente superiore all'anno. Né le alterazioni dei prezzi dei materiali sono riconducibili alla normale alea contrattuale. L'art. 133, comma 3, del codice dei contratti pro tempore applicabile nulla disporrebbe circa le fattispecie "infra-annuali", con la conseguenza che - per tali ultime tipologie - deve giocoforza farsi riferimento ai rimedi previsti dal codice civile. 4.2. Con il secondo mezzo si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 30 del c.p.a.; erronea e insufficiente motivazione circa la domanda di risarcimento danni; violazione degli artt. 1175 e ss. cod. civ.; violazione dei principi di buona fede e lealtà contrattuale e del legittimo affidamento del privato. Viene contestato il riferimento all'inadempimento contrattuale indicato in sentenza per negare il risarcimento, in quanto sarebbe stata sottovalutata la condotta di A.N.A.S. S.p.a. nella gestione dell'appalto e, segnatamente, all'adozione dell'ordine di servizio n. 4, nemmeno citato, in violazione dei principi di correttezza e buona fede oggettiva. Circa la quantificazione delle somme richieste, vengono indicate le circostanze dell’incremento dei prezzi a suo tempo registrate, l'importo proposto dalla commissione di accordo bonario che, sebbene inadeguate, compenserebbero, oggi, parte dello squilibrio creatosi nelle rispettive prestazioni contrattuali. La scelta di continuare ad adempiere agli obblighi contrattuali, nonostante i maggiori costi da sostenere, si sarebbe poi dimostrata la più pregiudizievole per gli interessi dell'A.t.i. 4.3. In conclusione l’appello chiede, in via principale, la condanna di A.N.A.S. al pagamento degli importi, recati dalle riserve iscritte in contabilità ai nn. 1, 4 e 7 e confermati in sede di stato finale, per un totale pari a € 998.085,73; in via subordinata al pagamento della somma riconosciuta dalla commissione nominata ex art. 240 del d.lgs. n. 163/2006, pari a € 499.042,86; di tutti i maggiori oneri subiti per la maggiore o minore somma che risulterà di giustizia, da individuarsi anche in via equitativa, oltre interessi legali dalla data della domanda sino al giorno dell'effettivo ristoro. 5. Si è costituita in giudizio A.N.A.S. che ha successivamente depositato memoria difensiva (relativa al primo grado di giudizio) in data 26 marzo 2015. 6. Con ordinanza n. 2032/2021, sono stati sollecitati elementi informativi a carico delle parti anche ai fini dell’applicazione delle misure previste dall’art. 26 c.p.a. L’impresa appellante ha adempiuto, confermando l’interesse al ricorso con propria nota del 9 dicembre 2021. 7. All’udienza pubblica del 19 maggio 2022, la causa è stata trattenuta in decisione. 8. L’appello è infondato e deve essere respinto. 9. Preliminarmente, va osservato che, a cagione della proposizione dell’appello, è riemerso l’intero thema decidendum del giudizio di primo grado e, quindi, per ragioni di economia dei mezzi processuali e semplicità espositiva, secondo la logica affermata dalla decisione della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 5 del 2015, il Collegio ritiene di esaminare direttamente il ricorso di primo grado (sul principio e la sua applicazione pratica, fra le tante, cfr. Cons. Stato, sez. IV n. 1137 del 2020; sez. IV, n. 1130 del 2016; sez. V, n. 5868 del 2015; sez. V, n. 5347 del 2015, che esclude in radice che tale modus procedendi possa dare corso ad un vizio revocatorio per errore di fatto). 10. La disposizione di rango primario di riferimento per l’odierna controversia - che riguarda un contratto di appalto di lavori pubblici, di durata infra annuale, stipulato ad aprile del 2008 ed eseguito a ottobre 2008 - è costituita dall’art. 133 del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti pubblici, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame) che, per quanto qui rileva, prevedeva: al comma 2, che per i lavori pubblici affidati dalle stazioni appaltanti non si può procedere alla revisione dei prezzi e non si applica il comma 1 dell'articolo 1664 del codice civile; al comma 3, che per i lavori di cui al comma 2 si applica il prezzo chiuso, consistente nel prezzo dei lavori al netto del ribasso d'asta, aumentato di una percentuale da applicarsi, nel caso in cui la differenza tra il tasso di inflazione reale e il tasso di inflazione programmato nell'anno precedente sia superiore al 2 per cento, all'importo dei lavori ancora da eseguire per ogni anno intero previsto per l'ultimazione dei lavori stessi (tale percentuale è fissata, con decreto del Ministro delle infrastrutture da emanare entro il 31 marzo di ogni anno, nella misura eccedente la predetta percentuale del 2 per cento); al comma 4, che, in deroga a quanto previsto dal comma 2, qualora il prezzo di singoli materiali da costruzione, per effetto di circostanze eccezionali, subisca variazioni in aumento o in diminuzione, superiori al 10 per cento rispetto al prezzo rilevato dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti nell'anno di presentazione dell'offerta con il decreto di cui al comma 6, si fa luogo a compensazioni, in aumento o in diminuzione, per la metà della percentuale eccedente il 10 per cento e nel limite delle risorse di cui al comma 7; al comma 5, che la compensazione è determinata applicando la metà della percentuale di variazione che eccede il 10 per cento al prezzo dei singoli materiali da costruzione impiegati nelle lavorazioni contabilizzate nell'anno solare precedente al decreto di cui al comma 6 nelle quantità accertate dal direttore dei lavori; al comma 6, che il Ministero delle infrastrutture, entro il 31 marzo di ogni anno, rileva con proprio decreto le variazioni percentuali annuali dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi; al comma 6-bis, che, a pena di decadenza, l'appaltatore presenta alla stazione appaltante l'istanza di compensazione entro sessanta giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto ministeriale; al comma 7, che, per le finalità di cui al comma 4, si possono utilizzare le somme appositamente accantonate per imprevisti, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, nel quadro economico di ogni intervento, in misura non inferiore all'1 per cento del totale dell'importo dei lavori, fatte salve le somme relative agli impegni contrattuali già assunti, nonché le eventuali ulteriori somme a disposizione della stazione appaltante per lo stesso intervento nei limiti della relativa autorizzazione di spesa. Nell’art. 133 del d.lgs. n. 163/2006 erano confluiti sia il meccanismo del prezzo chiuso, già previsto dall’art. 26 della legge n. 109/1994, sia le forme di compensazione di cui alla legge n. 311/2004. Diversamente, l’art. 115 del medesimo codice del 2006, stabiliva espressamente che tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture dovessero recare una clausola di revisione periodica del prezzo. 11. Le disposizioni richiamate vanno peraltro inquadrate coerentemente con le disposizioni europee e l’interpretazione che di esse ha dato la Corte di giustizia. Va ricordato, infatti, che la Corte (con sentenza 19 aprile 2018, C 152/17) ha risposto ai dubbi interpretativi sollevati dal Consiglio di Stato con ordinanza 22 marzo 2017, n. 1297 circa la conformità all’ordinamento UE dell’esclusione della revisione prezzi per gli appalti “con oggetto diverso da quelli cui si riferisce la stessa direttiva, ma legati a questi ultimi da un nesso di strumentalità”; il Consiglio di Stato aveva anche dubitato della validità della direttiva n. 2004/17/CE (ove ritenuta fonte diretta dell’esclusione della revisione dei prezzi in tutti i contratti stipulati ed applicati nell’ambito dei cd. settori speciali) per contrasto con i principi dell’Unione europea (in particolare, di quelli espressi agli artt. 3, comma 1, TUE, 26, 56/58 e 101 TFUE). La sentenza della Corte ha affermato che: a) la direttiva n. 2004/17/CE trova applicazione, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza della stessa Corte, non solo agli appalti dei settori speciali, ma, altresì, agli appalti che, anche se di natura diversa, risultano comunque utili all’esercizio delle attività definite dalla medesima direttiva; a1) sebbene non sia espressamente contemplato nella predetta direttiva, un appalto deve ritenersi assoggettato alle procedure ivi disciplinate quando: è affidato da un “ente aggiudicatore”; riveste un nesso con un’attività da questo esercitata nei settori disciplinati dagli artt. da 3 a 7 della direttiva (in tal senso, Corte di giustizia UE, 10 aprile 2008, C 393/06, Aigner, punti da 56 a 59; a2) in particolare, per quanto qui maggiormente rileva, poiché la stessa direttiva non stabilisce, a carico degli Stati membri, alcun obbligo specifico di prevedere la revisione al rialzo del prezzo dopo l’aggiudicazione di un appalto, la mancata previsione nel combinato disposto degli artt. 115 e 206 del d.lgs. n. 163 del 2006 – quanto agli appalti dei settori speciali – del compenso revisionale non è in contrasto con l’ordinamento UE; a3) parimenti, nemmeno i principi di parità di trattamento e di trasparenza sanciti dall’articolo 10 di tale direttiva, ostano a siffatte norme. a4) poiché il prezzo dell’appalto costituisce un elemento di grande rilievo nella valutazione delle offerte da parte di un ente aggiudicatore, così come nella scelta del privato contraente, è proprio attraverso la mancata previsione del compenso revisionale – e non già con la sua obbligatorietà – che le norme di diritto nazionale si pongono in linea con il rispetto dei suddetti principi (v., per analogia, Corte di giustizia UE, 7 settembre 2016, C 549/14). Se ne deve trarre la conclusione che, al pari della mancata previsione del compenso revisionale, anche il divieto di revisione prezzi è pienamente conforme al diritto europeo. 11.1. Per completezza, il nuovo codice degli appalti, diversamente dal precedente codice del 2006, non solo prevede espressamente che la revisione prezzi, prevista dall’art. 106 del d.lgs. n. 50 del 2016, trovi applicazione anche con riguardo ai settori speciali, ma stabilisce che essa non è obbligatoria per legge come nella previgente disciplina (artt. 114 e 133, d.lgs. n. 163/2006), ma operante solo se prevista dai documenti di gara. 11.2. Circa la natura e gli obiettivi della disciplina sulla revisione prezzi, il Consiglio di Stato (sez. V, 16 giugno 2020, n. 3874) ha posto in evidenza che: a) la revisione prezzi (al tempo disciplinata per gli appalti di servizi o forniture dall'art. 115 d.lgs. n. 163 del 2006 che ha recepito la disposizione di cui all'art. 6 della legge 24 dicembre 1993, n. 537) si applica ai contratti di durata, ad esecuzione continuata o periodica, trascorso un determinato periodo di tempo dal momento in cui è iniziato il rapporto e fino a quando lo stesso, fondato su uno specifico contratto, non sia cessato ed eventualmente sostituito da un altro; b) con la previsione dell'obbligo di revisione del prezzo i contratti di forniture e servizi sono stati muniti di un meccanismo che, a cadenze determinate, comporti la definizione di un «nuovo» corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto, conseguente alla dinamica dei prezzi registrata in un dato arco temporale, con beneficio per entrambi i contraenti; c) l'istituto della revisione dei prezzi, in particolare, ha la finalità di salvaguardare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa e al contempo essa è posta a tutela dell'interesse dell'impresa a non subire l'alterazione dell'equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi sopraggiunte durante l'arco del rapporto; d) l'istituto della revisione prezzi si atteggia secondo un modello procedimentale volto al compimento di un'attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso revisionale. Presupposto comune all’istituto della revisione dei prezzi – comunque all’epoca applicabile, come si è visto, ai soli appalti di servizi e forniture – è l’esecuzione continuata o periodica. Del tutto coerente risulta quindi – a maggior ragione per i contratti infra annuali - il divieto di carattere generale relativo alla revisione dei prezzi previsto dall’art. 133 del d.lgs. n. 163/2006 per gli appalti di lavori. Peraltro (e a fortiori con riguardo alla fattispecie in esame), il Consiglio di Stato (sez. III, 12 agosto 2019, n. 5686) ha chiarito che la revisione prezzi, secondo la disciplina pro tempore applicabile, si riferisce ai contratti di durata pluriennale a partire dall'anno successivo al primo, e l'art. 115 d.lgs. 163/2006 prevede l'inserimento obbligatorio della clausola di revisione prezzi, con conseguente sostituzione di diritto ex art. 1339 cod. civ. delle clausole contrattuali difformi, nulle di pieno diritto ex art. 1419 cod. civ. (in termini affini cfr. Cons. Stato, sez. VI, 7 maggio 2015, n. 2295). 12. Venendo alla fattispecie oggetto del presente giudizio, il Collegio rileva in primo luogo che, non solo l’art. 133 del d.lgs. n. 163/2006 vietava la revisione dei prezzi, ma che, come documentato in atti, era stata inserita nel contratto apposita clausola di divieto (v. art. 5). 13. L’art. 5 del contratto di appalto stipulato tra le parti del giudizio, rubricato “invariabilità del corrispettivo” chiarisce infatti che “non è prevista alcuna revisione dei prezzi e non trova applicazione l’art. 1664, primo comma, del codice civile”. Esso risulta del tutto coerente con il contenuto dell’art. 133 del codice dei contratti pubblici. Non solo la revisione dei prezzi è stata espressamente esclusa contrattualmente ma la prospettata delimitazione dell’applicabilità della disposizione di rango primario alle sole ipotesi di contratti pluriennali è priva di adeguati riscontri testuali e sistematici, non potendosi dedurre dalle disposizioni dell’art. 133 alcuna distinzione tra le due categorie dei contratti in oggetto. Anzi, al contrario, tale conclusione risulta confortata – come ha correttamente messo in evidenza la sentenza del T.a.r. impugnata - anche dalla interpretazione teleologica della disposizione di legge, atteso che la revisione dei prezzi, da rapportarsi a sopravvenute esigenze dei contraenti, caratterizza in particolare i contratti di durata pluriennale, ove è possibile una variazione dei prezzi dei beni o servizi nel corso degli anni. Ne consegue che il divieto di revisione è da riferire sia (e a maggior ragione) ai contratti di durata inferiore sia a quelli di durata superiore all’anno non essendo presente, al secondo comma, alcuna distinzione tra le due categorie di contratti. In questo senso si è espresso il Consiglio di Stato (sez. IV, n. 832 del 2003), chiarendo tra l’altro che si applica solo agli appalti aggiudicati dopo la sua entrata in vigore l'art. 3 del d.l. 11 n. 333/1992, convertito dalla legge n. 359/1992 che a sua volta aveva esteso a tutti gli appalti il divieto di revisione dei prezzi già previsto per i soli appalti infrannuali dall'art. 33 legge n. 41/1986 (cfr. anche Cons. Stato, sez. IV, n. 4444 del 2012). Inoltre, nel ricorso introduttivo di primo grado l’odierna appellante non ha proposto domanda per l’applicabilità del differente istituto della compensazione né risulta essere stata osservata la relativa procedura (v. art. 133, comma 6-bis, del d.lgs. n. 163/2006). 13.1. E’ poi inconferente il riferimento – rispetto alla revisione prezzi ex art. 133 del d.lgs. n. 163/2006 – alla disciplina derogatoria introdotta dal decreto legge n. 162/2008, entrato in vigore dopo la conclusione dei lavori. 13.2. Non si può inoltre che convenire con la sentenza impugnata nel riconoscere l’inidoneità dell’eventuale comportamento della stazione appaltante in relazione all’istanza di recesso avanzata dalla ricorrente a configurare una volontà di modificare le disposizioni contrattuali ovvero di rivedere l’importo del corrispettivo in mancanza di specifica prova in tal senso. Tanto meno una prova del genere può essere tratta dall’attivazione della procedura di cui all’art. 240 del d.lgs. 163/2006, diretta al conseguimento di un accordo tra le parti per la definitiva risoluzione della controversia. Quanto statuito dalla Commissione ex art. 240 non può ritenersi vincolante per le parti. Né l'ordine di servizio n. 4 (provvedimento invero non citato nella sentenza impugnata ma richiamato nelle memorie dell’appellante) né la convocazione della Commissione di conciliazione ex art. 240 del d.lgs. 163/2006 bastano a sostenere che A.N.A.S. avrebbe rinunciato a ogni censura circa le modalità di contestazione avviate. Va peraltro annotato che A.N.A.S. – diversamente da quanto rilevato dall’appellante- non avrebbe mai assentito alle richieste, tanto che il rappresentante di A.N.A.S. nella commissione di conciliazione non aveva aderito alla soluzione prospettata dalla commissione, che riconosceva un importo rilevante all’impresa (v. memoria di A.N.A.S. versata in primo grado). 13.3. Con riguardo all’art. 1467 c.c., non può che condividersi la conclusione della sentenza del T.a.r. impugnata secondo cui tale disposizione, la cui applicabilità è limitata ai contratti a esecuzione continuata o periodica o a esecuzione differita, non assegna al contraente il diritto potestativo di determinare la risoluzione del contratto mediante atto unilaterale (il recesso), ma subordina un effetto di tal fatta a una pronuncia dell’autorità giudiziaria di natura costitutiva. E’ pertanto irrilevante la richiesta stragiudiziale formulata dall’odierna appellante, così come l’eventuale rigetto da parte della pubblica amministrazione. 13.4. Infine, la disciplina delle riserve non è applicabile all’ipotesi della revisione dei prezzi, in ragione della diversa natura dei due istituti. Come ha sottolineato la Corte di cassazione (n. 21035/2009), l'onere dell'appaltatore di inserire le proprie pretese nei confronti dell'amministrazione o dell'ente appaltante nel registro di contabilità e nel conto finale e, quindi, nel certificato di collaudo ex artt. 91 e 107 del r.d. n. 350 del 1895, riguarda le sole istanze inerenti alla contabilizzazione del corrispettivo contrattuale delle opere eseguite o da eseguire, ma non già anche le riserve per eventuale revisione dei prezzi, con riguardo alle quali ultime è sufficiente che la relativa domanda sia comunque presentata prima della firma del certificato di collaudo, senza che sia necessaria la sua riproduzione in quel documento (cfr. Cons. St., sez. IV, 3818/2002; Cass. civ., sez. I, 16 giugno 1997, n. 5373). 14. In conclusione, per le ragioni esposte, l’appello deve essere respinto. 15. Le spese del presente grado di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento 10 marzo 2014, n. 55, e dell’art. 26, comma 1, c.p.a., ricorrendone i presupposti applicativi, secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio, sostanzialmente recepita, sul punto in esame, dalla novella recata dal decreto-legge n. 90 del 2014 all’art. 26 c.p.a. [cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, n. 148 del 2022, n. 5008 del 2018; sez. V, 9 luglio 2015, n. 3462, cui si rinvia ai sensi degli artt. 74 e 88, comma 2, lettera d), c.p.a., anche in ordine alle modalità applicative ed alla determinazione della misura indennitaria conformemente, peraltro, ai principi elaborati dalla Corte di cassazione (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. VI, n. 11939 del 2017; n. 22150 del 2016)]. La condanna dell’appellante, ai sensi dell’art. 26, comma 1, c.p.a. rileva, infine, anche agli eventuali effetti di cui all’art. 2, comma 2-quinquies, lettere a) e d), della legge 24 marzo 2001, n. 89, come da ultimo modificato dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 148 del 2022). P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello n.r.g. 1729/2015, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l’appellante a rifondere ad A.N.A.S. s.p.a., Ufficio per l'Autostrada SA/RC, Ufficio di Cosenza le spese del presente grado di giudizio, liquidate in complessivi € 7.000 (euro settemila), oltre IVA, CPA e spese generali al 15%, come per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 maggio 2022 con l'intervento dei magistrati: Vito Poli, Presidente Nicola D'Angelo, Consigliere Silvia Martino, Consigliere Claudio Tucciarelli, Consigliere, Estensore Ugo De Carlo, Consigliere Vito Poli, Presidente Nicola D'Angelo, Consigliere Silvia Martino, Consigliere Claudio Tucciarelli, Consigliere, Estensore Ugo De Carlo, Consigliere IL SEGRETARIO
Contratti della pubblica amministrazione – Revisione prezzi – Oggetto – Presupposti – Finalità - Individuazione     La revisione prezzi (al tempo disciplinata per gli appalti di servizi o forniture dall'art. 115 d.lgs. n. 163 del 2006 che ha recepito la disposizione di cui all'art. 6 della legge 24 dicembre 1993, n. 537) si applica ai contratti di durata, ad esecuzione continuata o periodica, trascorso un determinato periodo di tempo dal momento in cui è iniziato il rapporto e fino a quando lo stesso, fondato su uno specifico contratto, non sia cessato ed eventualmente sostituito da un altro. Con la previsione dell'obbligo di revisione del prezzo i contratti di forniture e servizi sono stati muniti di un meccanismo che, a cadenze determinate, comporti la definizione di un «nuovo» corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto, conseguente alla dinamica dei prezzi registrata in un dato arco temporale, con beneficio per entrambi i contraenti. L'istituto della revisione dei prezzi, in particolare, ha la finalità di salvaguardare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa e al contempo essa è posta a tutela dell'interesse dell'impresa a non subire l'alterazione dell'equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi sopraggiunte durante l'arco del rapporto. L'istituto della revisione prezzi si atteggia secondo un modello procedimentale volto al compimento di un'attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso revisionale (1) La revisione prezzi, ai sensi dell’art. 106 del d.lgs. n. 50 del 2016, non è obbligatoria come nella previgente disciplina (artt. 114 e 133 del d.lgs. n. 163/2006), ma opera solo se prevista dai documenti di gara. (2) La mancata previsione della revisione prezzi, al pari della mancata previsione del compenso revisionale, è pienamente conforme al diritto europeo. (3) La disciplina delle riserve non è applicabile all’ipotesi della revisione dei prezzi, in ragione della diversa natura dei due istituti. (4)
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/l-adunanza-plenaria-individua-i-soggetti-ai-quali-pu-c3-b2-essere-escussa-la-garanzia-ex-art.-93-comma-6-d.lgs.-n.-50-del-2016
L’Adunanza plenaria individua i soggetti ai quali può essere escussa la garanzia ex art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016
N. 00007/2022REG.PROV.COLL. N. 00002/2022 REG.RIC.A.P. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2 di A.P. del 2022, proposto da -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Angelo Clarizia, Gennaro Macri, Mario Pagliarulo e Fiorita Iasevoli, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Angelo Clarizia in Roma, via Principessa Clotilde, 2; contro Comune di Monza, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Annalisa Bragante e Giancosimo Maludrottu, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac), in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; nei confronti Impresa -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Roberto Invernizzi e Andrea Manzi, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Andrea Manzi in Roma, via Alberico II, n. 33; -OMISSIS-, in proprio e quale mandataria del costituendo Rti, -OMISSIS-, in proprio e quale mandante del costituendo Rti, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza 28 giugno 2021, n. 1581 del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, Sezione Quarta. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Monza, dell’Impresa -OMISSIS- e della Autorità Nazionale Anticorruzione; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 marzo 2022 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti gli avvocati Paolo Clarizia, in sostituzione dell’avvocato Angelo Clarizia, Gennaro Macri, Annalisa Bragante, Giancosimo Maludrottu e Roberto Invernizzi. FATTO 1.- Il Comune di Monza, con bando pubblicato in Gazzetta Ufficiale in data 5 ottobre 2018, ha indetto una procedura aperta per l’affidamento del servizio di raccolta, trasporto e spazzamento dei rifiuti urbani. La procedura prevedeva: i) il criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, con attribuzione di settanta punti massimi all’offerta tecnica e di trenta punti massimi a quella economica; ii) una soglia minima di sbarramento pari a quaranta punti per il punteggio tecnico complessivo, con conseguente esclusione del concorrente che non avesse raggiunto tale soglia. All’esito della seduta del 18 luglio 2019, la commissione di gara ha dato atto che: i) la società -OMISSIS- (d’ora innanzi solo -OMISSIS- o Società) è stata ammessa alla procedura con determinazione dirigenziale prot. n. 722 del 18 aprile 2019; ii) dei cinque concorrenti ammessi, soltanto la società -OMISSIS- e la società Impresa -OMISSIS- (gestore uscente del servizio, d’ora innanzi solo -OMISSIS-) hanno superato l’esposta soglia di sbarramento. La commissione, dopo l’apertura delle buste, ha redatto la graduatoria finale e ha formulato la “proposta di aggiudicazione” a favore della -OMISSIS-. In data 22 luglio 2019 il Comune ha avviato i controlli finalizzati a verificare il rispetto, da parte della suddetta Società, dei requisiti di cui all’art. 80 del decreto legislativo 1° aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) e, con determinazione dirigenziale 29 gennaio 2020, n. 21874, l’ha esclusa dalla procedura di gara. In particolare, il Comune ha indicato le seguenti ragioni a sostegno della determinazione assunta: i) il rinvio a giudizio disposto all’esito dell’udienza preliminare del 22 novembre 2019 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Salerno, su richiesta del Pubblico ministero del 1° febbraio 2019, nei confronti, tra gli altri, del presidente del consiglio di amministrazione, del socio di maggioranza e del socio di minoranza, per fatti connessi all’affidamento di appalti pubblici e ritenuti integranti le fattispecie di reato di cui agli artt. 110, 353, 353-bis, 356 e 314 cod. pen.; ii) la statuizione di una sentenza del Consiglio di Stato (sez. V, 12 aprile 2019, n. 2407) da cui risulta «l’esistenza di un’ulteriore vicenda penale in capo ad un rappresentante della -OMISSIS-», nell’ambito della quale è stata emessa la «sentenza di condanna n. 243/2013, che avrebbe dovuto essere resa nota al Comune di Monza»; iii) la sentenza 23 agosto 2019, n. 959 del Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte che ha dichiarato la nullità dell’aggiudicazione disposta a favore della Società da parte del Consorzio dei Comuni piemontesi in ragione della rilevanza escludente di talune omissioni dichiarative della stessa Società inerenti a «condotte penalmente rilevanti» di esponenti sociali. Il Comune, a seguito di tali eventi: i) con determinazione del responsabile del settore del 29 gennaio 2020, n. 131, ha dichiarato di non approvare la “proposta di aggiudicazione” formulata dalla commissione; ii) con determinazione dirigenziale del 18 febbraio 2020, n. -OMISSIS-, ha disposto l’escussione della “garanzia provvisoria”, costituita da una fideiussione prestata dalla Reale mutua Assicurazioni, con contratto del 27 novembre 2018, pari ad euro 896.000,00. 2.- La Società ha impugnato il provvedimento di esclusione dalla procedura di gara innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, Sezione Quarta. Con ricorso per motivi aggiunti, la Società ha impugnato l’intervenuta aggiudicazione in favore della -OMISSIS-. Il Tribunale amministrativo, con sentenza 28 giugno 2021, n. 1581, ha rigettato il ricorso principale e per motivi aggiunti e ha dichiarato improcedibile per difetto di interesse il ricorso incidentale proposto dalla -OMISSIS-. 3.- La -OMISSIS- ha proposto appello. 3.1.- La -OMISSIS- ha proposto appello incidentale. 4.- La Quarta Sezione del Consiglio di Stato, all’esito dell’udienza pubblica del 25 novembre 2021, con sentenza non definitiva del 4 gennaio 2022, n. 26, ha dichiarato l’appello non fondato, quanto alle censure proposte avverso il provvedimento di esclusione. Si è rilevato che nel capitolato speciale era stata inserita una clausola risolutiva espressa operante in presenza, tra l’altro, di un rinvio a giudizio per taluni reati, ivi compresi quelli nella specie contestati alla società -OMISSIS-. Inoltre, il Comune aveva indicato, quale ragione del venir meno dell’affidabilità, la commissione di un grave illecito professionale. Con riferimento alla contestazione dell’aggiudicazione in favore della -OMISSIS-, si è sottolineato come l’intervenuta esclusione dalla procedura di gara comporti la carenza di legittimazione ad impugnare il provvedimento conclusivo della procedura amministrativa. Con riferimento all’appello incidentale della -OMISSIS-, è stata confermata la dichiarazione di improcedibilità per difetto di interesse pronunciata dal Tribunale amministrativo. 4.1- Con riferimento alla contestazione della determinazione dirigenziale del 18 febbraio 2020, n. -OMISSIS- di escussione della “garanzia provvisoria”, è stato disposto il rinvio all’Adunanza Plenaria per la soluzione della questione riportata nella parte in diritto e per la definizione del giudizio. 5.- Nell’imminenza dell’udienza pubblica innanzi all’Adunanza Plenaria, la Società appellante e il Comune resistente hanno depositato memorie difensive a sostegno delle rispettive posizioni. 6.- La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 16 marzo 2022. DIRITTO 1.- La questione posta all’esame dell’Adunanza Plenaria attiene all’ambito di operatività della “garanzia provvisoria”, che correda l’offerta dei partecipanti alla procedura di gara, al fine di stabilire se essa copra soltanto i “fatti” che si verificano nel periodo compreso tra l’aggiudicazione e il contratto ovvero se si estenda anche a quelli che si verificano nel periodo compreso tra la “proposta di aggiudicazione” e l’aggiudicazione. 2.- In via preliminare, occorre ricostruire il quadro normativo rilevante. 2.1.- La disciplina contenuta nel decreto legislativo 1° aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) è basata sulla distinzione tra: i) la fase procedimentale, finalizzata alla selezione del migliore offerente mediante l’adozione, all’esito del procedimento, del provvedimento di aggiudicazione; ii) la fase provvedimentale, che va dall’aggiudicazione alla stipulazione del contratto; iii) la fase costitutiva di stipulazione del contratto tra pubblica amministrazione e aggiudicatario; iv) la fase esecutiva di adempimento delle obbligazioni contrattuali. La “proposta di aggiudicazione” si inserisce nella fase procedimentale (art. 32, comma 5). Il legislatore ha attribuito autonomia all’istituto in esame, recependo le indicazioni fornite dal parere del Consiglio di Stato 1° aprile 2016, n. 855, che aveva ritenuto necessario superare i dubbi interpretativi sorti con riguardo all’istituto, elaborato in sede giurisprudenziale, dell’“aggiudicazione provvisoria” che era un atto infraprocedimentale, considerato, però, suscettibile, in via facoltativa, di immediata impugnazione, con onere di impugnazione successiva anche dell’“aggiudicazione definitiva”. 2.2.- Il Codice ha previsto che la fase procedimentale e la fase esecutiva siano corredate da un sistema di “garanzie provvisorie” (che rilevano in questa sede) e “garanzie definitive”. 2.2.1.- Nella vigenza del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce), l’art. 75, comma 1, disponeva che l’offerta fosse corredata da una garanzia, pari al due per cento, del prezzo base indicato nel bando o nell’invito, sotto forma di “cauzione” o di “fideiussione” a scelta dell’offerente. L’escussione di tale garanzia poteva avvenire secondo due differenti forme. La prima forma era disciplinata dall’art. 48 di tale decreto che, a sua volta, contemplava due diverse fattispecie. La prima fattispecie prevedeva che le stazioni appaltanti, prima di procedere all’apertura delle buste, dovessero richiedere ad un numero di offerenti non inferiore al dieci per cento delle offerte presentate, scelti con sorteggio pubblico, di provare, entro dieci giorni dalla richiesta, il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa (cd. requisiti speciali), eventualmente richiesti (cd. controllo a campione). Nel caso in cui tale prova non fosse stata fornita ovvero non fosse risultata conforme alle dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell’offerta, le stazioni appaltanti dovevano procedere – oltre all’esclusione dalla gara e alla segnalazione all’Autorità di vigilanza dei contratti pubblici (le cui funzioni sono oggi assegnate all’Autorità nazionale anticorruzione), che avrebbe disposto la sospensione da uno a dodici mesi dalla partecipazione alle procedure di affidamento – alla «escussione della relativa cauzione provvisoria» (art. 48, comma 1). L’altra fattispecie riguardava la richiesta indirizzata, entro dieci giorni dalla conclusione delle operazioni di gara, anche all’aggiudicatario e al concorrente che seguiva in graduatoria, qualora gli stessi non fossero stati ricompresi fra i concorrenti sorteggiati (art. 48, comma 2). La seconda forma era quella prevista dallo stesso art. 75, il quale, al comma 6, disponeva che «la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario, ed è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto medesimo». 2.2.2.- Nella vigenza del decreto legislativo n. 50 del 2016 è stata mantenuta, con modifiche, soltanto quest’ultima forma di garanzia. L’art. 93, comma 1, prevede, infatti, che «l’offerta è corredata da una garanzia fideiussoria, denominata “garanzia provvisoria” pari al due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell’offerente». In particolare: i) la “cauzione” «può essere costituita, a scelta dell'offerente, in contanti, con bonifico, in assegni circolari o in titoli del debito pubblico garantiti dallo Stato al corso del giorno del deposito, presso una sezione di tesoreria provinciale o presso le aziende autorizzate, a titolo di pegno a favore dell'amministrazione aggiudicatrice»; ii) la “fideiussione” «a scelta dell’appaltatore può essere rilasciata da imprese bancarie o assicurative che rispondano ai requisiti di solvibilità previsti dalle leggi che ne disciplinano le rispettive attività o rilasciata dagli intermediari finanziari», che abbiano anch’essi determinati requisiti specificamente indicati. Il sesto comma dell’art. 93 stabiliva che «la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione, per fatto dell’affidatario riconducibile ad una condotta connotata da dolo o colpa grave, ed è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto medesimo». L'art. 59, comma 1, lett. d), del decreto legislativo 19 aprile 2017, n. 56, ha modificato tale ultimo comma, disponendo che «la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all'affidatario o all’adozione di informazione antimafia interdittiva emessa ai sensi degli articoli 84 e 91 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159; la garanzia è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto». La possibilità di escussione della “garanzia provvisoria” per il concorrente è prevista soltanto nel caso di dichiarazioni false rese dall’operatore economico nell’ambito della procedura di avvalimento (art. 89, comma 1). 2.2.3.- La “garanzia definitiva” deve essere rilasciata dall’appaltatore al momento della sottoscrizione del contratto, nella forma della “cauzione” o della “fideiussione”, a garanzia, in particolare, «dell'adempimento di tutte le obbligazioni del contratto e del risarcimento dei danni derivanti dall'eventuale inadempimento delle obbligazioni stesse» (art. 103, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016; cfr. anche art. 113 d.lgs. n. 163 del 2006). 3.- In via preliminare, occorre stabilire, altresì, quali siano la natura e la funzione della “garanzia provvisoria”. 3.1.- Nella vigenza del Codice del 2006, l’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa distingueva la “garanzia provvisoria” escussa nei confronti dei concorrenti di cui all’art. 48, comma 1, e la “garanzia provvisoria” escussa nei confronti dell’aggiudicatario di cui all’art. 75, comma 1 (Cons. Stato, Ad. plen., 4 ottobre 2005, n. 8; Cons. Stato, Ad. plen., 10 dicembre 2014, n. 34; Cons. Stato, sez. V, ord. 26 aprile 2021, n. 3299). Alla prima tipologia di garanzia si assegnava natura sanzionatoria, con funzione punitiva, in quanto l’amministrazione poteva escutere la garanzia, incamerando la somma predeterminata, nei confronti di tutti gli offerenti sorteggiati che non fossero in possesso dei requisiti di partecipazione, con conseguenze economiche sovra-compensative. Ne conseguiva la necessità – in conformità con le regole convenzionali (art. 7 Cedu) – di assicurare il rispetto del principio di legalità e dei suoi corollari della prevedibilità, accessibilità e limiti di applicabilità delle norme nel tempo. Alla seconda tipologia di garanzia si assegnava natura non sanzionatoria, qualificando la “cauzione” quale garanzia avente una valenza analoga a quella della caparra confirmatoria e la “fideiussione” quale contratto di garanzia personale, con funzione di evidenziare «la serietà ed affidabilità dell’offerta» (Cons. Stato, Ad. plen., n. 34 del 2014, cit.), nonché con funzione compensativa dei danni subiti dalla stazione appaltante. 3.2.- Nella vigenza del Codice del 2016, l’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa, essendo stata eliminata la prima forma di garanzia, ha attribuito alla “garanzia provvisoria” natura esclusivamente non sanzionatoria (Cons. Stato, sez. IV, ord. n. 26 del 2022, cit.). 3.3.- L’Adunanza Plenaria ritiene che entrambi gli istituti in esame hanno natura non sanzionatoria, con differente qualificazione giuridica a seconda che venga in rilievo la “cauzione” o la “fideiussione”. La “cauzione” è una obbligazione di garanzia di fonte legale imposta ai fini della partecipazione alla gara, che deve essere eseguita dallo stesso debitore. Nella fase fisiologica, la “cauzione” assolve alla funzione di evidenziare la serietà e l’affidabilità dell’offerta, con obbligo dell’amministrazione di restituire la prestazione al momento della sottoscrizione del contratto. Nella fase patologica, la “cauzione” ha natura di rimedio di autotutela, con funzione compensativa, potendo l’amministrazione incamerare il bene consegnato a titolo di liquidazione forfettaria dei danni relativi alla fase procedimentale. In questa prospettiva, non è conferente il richiamo alla caparra confirmatoria di cui all’art. 1385 cod. civ., in quanto la stessa, nella configurazione del codice civile, presuppone la stipulazione di un contratto – che, nella specie, manca – con l’inserimento della clausola che consente, in caso di inadempimento, di recedere dal contratto stesso trattenendo la caparra (cfr. Cass. civ., sez. un., 14 gennaio 2009, n. 553). La “fideiussione”, che rileva in questa sede, è una obbligazione di garanzia di fonte legale imposta ai fini della partecipazione alla gara, che sorge a seguito della stipulazione di un contratto tra un terzo garante e il creditore che si può perfezionare anche mediante la sola proposta del primo non rifiutata secondo il meccanismo dell’art. 1333 cod. civ. Tale forma di garanzia si caratterizza in modo peculiare rispetto al contratto di fideiussione disciplinato dal codice civile (artt. 1936-1957 cod. civ.). L’art. 1936 cod. civ. prevede che «è fideiussore colui che, obbligandosi personalmente, garantisce l’adempimento di un’obbligazione altrui». Le regole civilistiche rilevanti in questa sede sono le seguenti: i) il fideiussore è obbligato in solido con il debitore principale al pagamento del debito, con la possibilità che le parti convengano che il fideiussore non sia tenuto a pagare prima dell’escussione del debitore (art. 1944, commi 1 e 2, cod. civ.); ii) il fideiussore può opporre contro il creditore tutte le eccezioni che spettano al debitore principale, salva quella derivante dall’incapacità (art. 1945 cod. civ.); iii) il fideiussore rimane obbligato anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale, purché il creditore entro sei mesi abbia proposto le sue istanze contro il debitore e le abbia con diligenza continuate (art. 1956, comma 1, cod. civ.). L’art. 93, comma 4, del Codice dei contratti pubblici deroga alle disposizioni sopra riportate, disponendo che deve essere prevista la rinuncia: i) al beneficio della preventiva escussione del debitore principale; ii) al rapporto di accessorietà, dovendo operare questa forma di garanzia a semplice richiesta; iii) all’eccezione che consente di fare valere la garanzia anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale. Tale peculiare disciplina e, in particolare, la deroga al rapporto di accessorietà comporta che il tipo contrattuale deve essere identificato nel contratto autonomo di garanzia (Cass. civ., sez. un., 18 febbraio 2010, n. 3947). Nella fase fisiologica, la “fideiussione” assolve alla sola funzione di consentire la serietà e l’affidabilità dell’offerta, con obbligo dell’amministrazione di svincolare tale garanzia al momento della sottoscrizione del contratto. Nella fase patologica, la “fideiussione” consente all’amministrazione di azionare il rimedio di adempimento dell’obbligo di pagamento della somma predeterminata dalla legge con funzione compensativa dei danni relativi alla fase procedimentale. L’operatività di entrambe le forme di garanzia presuppone un “fatto” del debitore principale che viola le regole di gara che comporta – a seguito dell’eliminazione del riferimento al dolo e alla colpa grave da parte del citato decreto legislativo n. 56 del 2017 – la configurazione di un modello di responsabilità oggettiva, con conseguente esclusione di responsabilità nei soli casi di dimostrata assenza di un rapporto di causalità. 4.- La questione specifica rimessa all’esame dell’Adunanza Plenaria – da risolvere alla luce delle premesse generali sin qui svolte – riguarda l’individuazione dei “soggetti” nei cui confronti può essere escussa la “garanzia provvisoria”. Nell’ordinanza di rimessione si afferma che, pur non sussistendo precedenti specifici del Consiglio di Stato, potrebbero sorgere «contrasti giurisprudenziali» e che sia, pertanto, necessario assicurare certezza «nell’interesse non solo degli operatori di settore ma del diritto oggettivo nel suo complesso». L’orientamento espresso nell’ordinanza di rimessione è nel senso che i “soggetti” siano non solo l’“aggiudicatario”, ma anche il destinatario di una “proposta di aggiudicazione” per le seguenti ragioni. In primo luogo, si osserva che occorre valorizzare una interpretazione di «carattere logico-sistematico e teleologico», che fa emergere «plasticamente l’assoluta identità (…) tra la situazione dell’aggiudicatario e quella in cui versa il soggetto “proposto per l’aggiudicazione” che, tuttavia, si sia visto rifiutare la formale aggiudicazione, con contestuale esclusione dalla procedura, poiché, all’esito dei controlli operati dalla stazione appaltante proprio in vista della stipulazione del contratto, sia emersa l’assenza, non importa se originaria o sopravvenuta, dei necessari requisiti di legge». In secondo luogo, si afferma come risulterebbe «contraddittorio e diseconomico obbligare la stazione appaltante a procedere all’aggiudicazione nei confronti del “proposto” e, subito dopo, ad esercitare l’annullamento in autotutela di tale provvedimento per carenza, in capo all’affidatario, di un imprescindibile requisito soggettivo». 5.- L’Adunanza Plenaria ritiene che deve essere seguito un orientamento diverso da quello proposto dalla Quarta Sezione con l’ordinanza di rimessione, per ragioni che si fondano sui criteri di interpretazione della legge. 5.1.- L’art. 12 delle preleggi dispone che «nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore» (primo inciso). Si tratta dei criteri letterale e teleologico (cd. ratio legis), a cui deve aggiungersi, tra gli altri, il criterio sistematico, il quale impone di avere riguardo anche alle altre norme rilevanti inserite nel contesto di regolazione complessiva della materia. Il citato art. 12 prevede, inoltre, che «se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato» (secondo inciso). Si tratta dell’interpretazione analogica, che opera in presenza di una lacuna normativa. In applicazione dei riportati criteri, si perviene ai seguenti esiti. 5.2.- Sul piano dell’interpretazione letterale, il comma 6 dell’art. 93 del decreto legislativo n. 50 del 2016 è chiaro nello stabilire che «la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all’affidatario (…)». Il riferimento sia all’aggiudicazione, quale provvedimento finale della procedura amministrativa, sia al «fatto riconducibile all’affidatario» e non anche al concorrente destinatario della “proposta di aggiudicazione” rende palese il significato delle parole utilizzate dal legislatore nel senso di delimitare l’operatività della garanzia al momento successivo all’aggiudicazione (in questo senso anche Cons. Stato, sez. IV, 15 dicembre 2021, n. 8367, che ha esaminato una questione analoga a quella in esame, con decisione, però, assunta successivamente alla camera di consiglio con cui è stata disposta la remissione all’Adunanza Plenaria). Il comma 9 dello stesso art. 93 prevede, inoltre, che «la stazione appaltante, nell’atto con cui comunica l’aggiudicazione ai non aggiudicatari, provvede contestualmente, nei loro confronti, allo svincolo della garanzia» prestata a corredo dell’offerta. Il significato letterale della norma è confermato anche dal contenuto degli atti della procedura di gara. Il disciplinare dispone, infatti, che «l’eventuale esclusione dalla gara prima dell’aggiudicazione, al di fuori dei casi di cui all’art. 89, comma 1, non comporterà l’escussione della garanzia provvisoria». 5.3.- Sul piano dell’interpretazione teleologica, il legislatore ha inteso ridurre l’ambito di operatività del sistema delle garanzie nella fase procedimentale, come risulta dall’analisi della successione delle leggi nel tempo. In particolare, il Codice del 2016 non ha confermato il sistema previgente disciplinato dall’art. 48 del Codice del 2006, che prevedeva la possibilità, ricorrendo i presupposti indicati, di escutere la garanzia, con funzione sanzionatoria, anche nei confronti dei partecipanti alla procedura. Ne consegue che l’estensione del perimetro della “garanzia provvisoria” si porrebbe in contrasto con la ratio legis. L’esposta diversità di regime ha indotto il Consiglio di Stato, con la citata ordinanza n. 3299 del 2021, a rimettere alla Corte Costituzionale la questione relativa all’applicazione retroattiva della nuova disciplina della “garanzia provvisoria” (applicata al solo aggiudicatario con funzione compensativa) perché più favorevole rispetto alla precedente disciplina (applicata anche al concorrente con funzione punitiva). 5.4.- Sul piano dell’interpretazione sistematica, in primo luogo, dall’analisi del contesto in cui la norma è inserita e, in particolare, dalla lettura coordinata di alcune disposizioni del Codice risulta chiara la distinzione tra la fase procedimentale relativa alla “proposta di aggiudicazione” e la fase provvedimentale relativa all’“aggiudicazione”. Con riguardo alla “proposta di aggiudicazione” formulata dalla commissione di gara, il Codice – che, come già esposto, ha inteso attribuirle natura autonoma – disciplina il rapporto tra essa e l’aggiudicazione. Il destinatario della proposta è ancora un concorrente, ancorché individualizzato. In questa fase si inseriscono i seguenti adempimenti: i) la stazione appaltante, prima dell’aggiudicazione dell’appalto, «richiede all’offerente cui ha deciso di aggiudicare l’appalto (…) di presentare documenti complementari aggiornati», nel rispetto di determinate modalità, per dimostrare la sussistenza dei requisiti generali e speciali di partecipazione alla gara (art. 85, comma 5); ii) la “proposta di aggiudicazione” «è soggetta ad approvazione dell’organo competente secondo l’ordinamento della stazione appaltante e nel rispetto dei termini dallo stesso previsti, decorrenti dal ricevimento della proposta di aggiudicazione da parte dell’organo competente» (art. 33, comma 1); iii) la stazione appaltante, dopo la suddetta approvazione, «provvede all’aggiudicazione» (art. 32, comma 5). Nella prospettiva della tutela, la “proposta di aggiudicazione”, essendo atto endoprocedimentale, non è suscettibile di autonoma impugnazione. Con riguardo all’aggiudicazione, il Codice disciplina il rapporto tra essa e il contratto. L’art. 32, comma 6, stabilisce che «l’aggiudicazione non equivale ad accettazione dell'offerta», in quanto occorre la stipula del contratto e l'offerta dell'aggiudicatario è irrevocabile per sessanta giorni. Nella prospettiva della tutela, l’aggiudicazione è il provvedimento finale di conclusione del procedimento di scelta del contraente che, in quanto tale, ha rilevanza esterna e può essere oggetto sia di impugnazione in sede giurisdizionale sia di autotutela amministrativa. In secondo luogo, la valutazione sistematica anche delle regole civilistiche impone di evitare che il terzo – che ha stipulato un contratto autonomo di garanzia collegato al rapporto principale tra amministrazione e partecipante alla procedura di gara – debba eseguire prestazioni per violazioni non chiaramente definite dalle regole di diritto pubblico. 5.5.- Sul piano dell’interpretazione analogica, la diversità della disciplina e delle situazioni regolate relativa alle due fasi, risultante dall’applicazione degli esposti criteri interpretativi, impedisce di estendere alla fase procedimentale le “garanzie provvisorie” della fase provvedimentale per i motivi di seguito indicati. Nel caso di mancata stipulazione del contratto a seguito di una “aggiudicazione”, le ragioni, come esposto, possono dipendere sia dalla successiva verifica della mancanza dei requisiti di partecipazione sia, soprattutto, dalla condotta dell’aggiudicatario che, per una sua scelta, decide di non stipulare il contratto. In queste ipotesi la stazione appaltante deve annullare d’ufficio il provvedimento di aggiudicazione e rinnovare il procedimento con regressione alla fase della “proposta di aggiudicazione”. In tale contesto i possibili pregiudizi economici determinati dalla condotta dell’aggiudicatario sono coperti dalla “garanzia provvisoria” che consente all’amministrazione di azionare il rimedio di adempimento della prestazione dovuta con la finalità di compensare in via fortettaria i danni subiti dall’amministrazione per violazione delle regole procedimentali nonché dell’obbligo di concludere il contratto. Nel caso di “mancata aggiudicazione” a seguito di una “proposta di aggiudicazione”, i motivi di tale determinazione possono dipendere, oltre che da ragioni relative all’offerta, dalla verifica negativa preventiva del possesso dei requisiti di partecipazione del concorrente individuato. In queste ipotesi, contrariamente a quanto affermato nell’ordinanza di rimessione, l’amministrazione non è costretta a procedere all’aggiudicazione e poi ad esercitare il potere di annullamento in autotutela, potendosi limitare a non adottare l’atto di aggiudicazione e ad individuare il secondo classificato nei cui confronti indirizzare la nuova “proposta di aggiudicazione”. In tale contesto i pregiudizi economici, se esistenti, hanno portata differente rispetto a quelli che si possono verificare nella fase provvedimentale, con possibilità per l’amministrazione, ricorrendone i presupposti, di fare valere l’eventuale responsabilità precontrattuale del concorrente ai sensi degli artt. 1337-1338 cod. civ. Rimane fermo, altresì, il potere dell’Autorità nazionale anticorruzione di applicare sanzioni amministrative pecuniarie qualora si accertino specifiche condotte contrarie alle regole della gara da parte degli operatori economici (art. 213, comma 13, d.lgs. n. 50 del 2016). 6.- Alla luce di quanto sin qui esposto, l’Adunanza Plenaria afferma il seguente principio di diritto: il comma 6 dell’art. 93 del decreto legislativo n. 50 del 2016 – nel prevedere che la “garanzia provvisoria” a corredo dell’offerta «copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all’affidatario (…)» – delinea un sistema di garanzie che si riferisce al solo periodo compreso tra l’aggiudicazione ed il contratto e non anche al periodo compreso tra la “proposta di aggiudicazione” e l’aggiudicazione. 7.- In applicazione di tale principio, la questione rimessa all’esame della Plenaria con la sentenza non definitiva n. 26 del 2022 della Quarta Sezione deve essere decisa, in riforma parziale della sentenza n. 1581 del 2021 del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, Sezione Quarta, con l’accoglimento del motivo di appello relativo all’escussione della “garanzia provvisoria” ed il conseguente annullamento del provvedimento 18 febbraio 2020, n. -OMISSIS- del Comune di Monza. 8.- Le spese del giudizio sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria, definitivamente pronunciando: a) afferma i principi di diritto di cui in motivazione; b) accoglie il motivo di appello relativo alla escussione della “garanzia provvisoria” e, per l’effetto, in riforma parziale della sentenza 28 giugno 2021, n. 1581 del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, Sezione Quarta, annulla il provvedimento 18 febbraio 2020, n. -OMISSIS- del Comune di Monza; c) dichiara compensate tra le parti le spese del presente giudizio per un terzo e pone a carico dell’appellante le spese dei rimanenti due terzi che si determinano in complessivi euro 6.000,00, oltre accessori di legge, che devono essere ripartite, in parti uguali, in favore delle parti resistenti costituite in giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 marzo 2022 con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Carmine Volpe, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Luciano Barra Caracciolo, Presidente Marco Lipari, Presidente Ermanno de Francisco, Presidente Hadrian Simonetti, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore Fabio Franconiero, Consigliere Federico Di Matteo, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Franco Frattini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Carmine Volpe, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Luciano Barra Caracciolo, Presidente Marco Lipari, Presidente Ermanno de Francisco, Presidente Hadrian Simonetti, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore Fabio Franconiero, Consigliere Federico Di Matteo, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere
Contratti della Pubblica amministrazione – Garanzia – Escussione – Concorrente proposto per l’aggiudicazione – Esclusione.       Il comma 6 dell’art. 93, d.lg. n. 50 del 2016 – nel prevedere che la “garanzia provvisoria” a corredo dell’offerta “copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all’affidatario (…)” – delinea un sistema di garanzie che si riferisce al solo periodo compreso tra l’aggiudicazione ed il contratto e non anche al periodo compreso tra la “proposta di aggiudicazione” e l’aggiudicazione (1).    (1) La questione è stata rimessa dalla sez. IV con sentenza parziale 4 gennaio 2022, n. 26.   Ha chiarito l’Alto consesso, in relazione alla natura e alla funzione della “garanzia provvisoria”, che nella vigenza del Codice del 2006, l’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa distingueva la “garanzia provvisoria” escussa nei confronti dei concorrenti di cui all’art. 48, comma 1, e la “garanzia provvisoria” escussa nei confronti dell’aggiudicatario di cui all’art. 75, comma 1 (Cons. Stato, Ad. plen., 4 ottobre 2005, n. 8; Cons. Stato, Ad. plen., 10 dicembre 2014, n. 34; Cons. Stato, sez. V, ord. 26 aprile 2021, n. 3299).  Alla prima tipologia di garanzia si assegnava natura sanzionatoria, con funzione punitiva, in quanto l’amministrazione poteva escutere la garanzia, incamerando la somma predeterminata, nei confronti di tutti gli offerenti sorteggiati che non fossero in possesso dei requisiti di partecipazione, con conseguenze economiche sovra-compensative. Ne conseguiva la necessità – in conformità con le regole convenzionali (art. 7 Cedu) – di assicurare il rispetto del principio di legalità e dei suoi corollari della prevedibilità, accessibilità e limiti di applicabilità delle norme nel tempo.   Alla seconda tipologia di garanzia si assegnava natura non sanzionatoria, qualificando la “cauzione” quale garanzia avente una valenza analoga a quella della caparra confirmatoria e la “fideiussione” quale contratto di garanzia personale, con funzione di evidenziare «la serietà ed affidabilità dell’offerta» (Cons. Stato, Ad. plen., n. 34 del 2014, cit.), nonché con funzione compensativa dei danni subiti dalla stazione appaltante.  Nella vigenza del Codice del 2016, l’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa, essendo stata eliminata la prima forma di garanzia, ha attribuito alla “garanzia provvisoria” natura esclusivamente non sanzionatoria.    L’Adunanza Plenaria ritiene che entrambi gli istituti in esame hanno natura non sanzionatoria, con differente qualificazione giuridica a seconda che venga in rilievo la “cauzione” o la “fideiussione”.   La “cauzione” è una obbligazione di garanzia di fonte legale imposta ai fini della partecipazione alla gara, che deve essere eseguita dallo stesso debitore. Nella fase fisiologica, la “cauzione” assolve alla funzione di evidenziare la serietà e l’affidabilità dell’offerta, con obbligo dell’amministrazione di restituire la prestazione al momento della sottoscrizione del contratto. Nella fase patologica, la “cauzione” ha natura di rimedio di autotutela, con funzione compensativa, potendo l’amministrazione incamerare il bene consegnato a titolo di liquidazione forfettaria dei danni relativi alla fase procedimentale. In questa prospettiva, non è conferente il richiamo alla caparra confirmatoria di cui all’art. 1385 cod. civ., in quanto la stessa, nella configurazione del codice civile, presuppone la stipulazione di un contratto – che, nella specie, manca – con l’inserimento della clausola che consente, in caso di inadempimento, di recedere dal contratto stesso trattenendo la caparra (cfr. Cass. civ., sez. un., 14 gennaio 2009, n. 553).   La “fideiussione”, che rileva in questa sede, è una obbligazione di garanzia di fonte legale imposta ai fini della partecipazione alla gara, che sorge a seguito della stipulazione di un contratto tra un terzo garante e il creditore che si può perfezionare anche mediante la sola proposta del primo non rifiutata secondo il meccanismo dell’art. 1333 cod. civ.  Tale forma di garanzia si caratterizza in modo peculiare rispetto al contratto di fideiussione disciplinato dal codice civile (artt. 1936-1957 cod. civ.).  L’art. 1936 cod. civ. prevede che «è fideiussore colui che, obbligandosi personalmente, garantisce l’adempimento di un’obbligazione altrui». Le regole civilistiche rilevanti in questa sede sono le seguenti: i) il fideiussore è obbligato in solido con il debitore principale al pagamento del debito, con la possibilità che le parti convengano che il fideiussore non sia tenuto a pagare prima dell’escussione del debitore (art. 1944, commi 1 e 2, cod. civ.); ii) il fideiussore può opporre contro il creditore tutte le eccezioni che spettano al debitore principale, salva quella derivante dall’incapacità (art. 1945 cod. civ.); iii) il fideiussore rimane obbligato anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale, purché il creditore entro sei mesi abbia proposto le sue istanze contro il debitore e le abbia con diligenza continuate (art. 1956, comma 1, cod. civ.).   L’art. 93, comma 4, del Codice dei contratti pubblici deroga alle disposizioni sopra riportate, disponendo che deve essere prevista la rinuncia: i) al beneficio della preventiva escussione del debitore principale; ii) al rapporto di accessorietà, dovendo operare questa forma di garanzia a semplice richiesta; iii) all’eccezione che consente di fare valere la garanzia anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale.   Tale peculiare disciplina e, in particolare, la deroga al rapporto di accessorietà comporta che il tipo contrattuale deve essere identificato nel contratto autonomo di garanzia (Cass. civ., sez. un., 18 febbraio 2010, n. 3947).  Nella fase fisiologica, la “fideiussione” assolve alla sola funzione di consentire la serietà e l’affidabilità dell’offerta, con obbligo dell’amministrazione di svincolare tale garanzia al momento della sottoscrizione del contratto. Nella fase patologica, la “fideiussione” consente all’amministrazione di azionare il rimedio di adempimento dell’obbligo di pagamento della somma predeterminata dalla legge con funzione compensativa dei danni relativi alla fase procedimentale.  L’operatività di entrambe le forme di garanzia presuppone un “fatto” del debitore principale che viola le regole di gara che comporta – a seguito dell’eliminazione del riferimento al dolo e alla colpa grave da parte del citato decreto legislativo n. 56 del 2017 – la configurazione di un modello di responsabilità oggettiva, con conseguente esclusione di responsabilità nei soli casi di dimostrata assenza di un rapporto di causalità.   La questione specifica rimessa all’esame dell’Adunanza Plenaria riguarda l’individuazione dei “soggetti” nei cui confronti può essere escussa la “garanzia provvisoria”.   Diversamente da quanto suggerito dalla sezione remittente, il soggetto è solo l’aggiudicatario.  Ed invero, sul piano dell’interpretazione letterale, il comma 6 dell’art. 93, d.lgs. n. 50 del 2016 è chiaro nello stabilire che «la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all’affidatario (…)». Il riferimento sia all’aggiudicazione, quale provvedimento finale della procedura amministrativa, sia al «fatto riconducibile all’affidatario» e non anche al concorrente destinatario della “proposta di aggiudicazione” rende palese il significato delle parole utilizzate dal legislatore nel senso di delimitare l’operatività della garanzia al momento successivo all’aggiudicazione (in questo senso anche Cons. Stato, sez. IV, 15 dicembre 2021, n. 8367, che ha esaminato una questione analoga a quella in esame, con decisione, però, assunta successivamente alla camera di consiglio con cui è stata disposta la remissione all’Adunanza Plenaria). Il comma 9 dello stesso art. 93 prevede, inoltre, che «la stazione appaltante, nell’atto con cui comunica l’aggiudicazione ai non aggiudicatari, provvede contestualmente, nei loro confronti, allo svincolo della garanzia» prestata a corredo dell’offerta.  Il significato letterale della norma è confermato anche dal contenuto degli atti della procedura di gara. Il disciplinare dispone, infatti, che «l’eventuale esclusione dalla gara prima dell’aggiudicazione, al di fuori dei casi di cui all’art. 89, comma 1, non comporterà l’escussione della garanzia provvisoria».  Sul piano dell’interpretazione teleologica, il legislatore ha inteso ridurre l’ambito di operatività del sistema delle garanzie nella fase procedimentale, come risulta dall’analisi della successione delle leggi nel tempo.   In particolare, il Codice del 2016 non ha confermato il sistema previgente disciplinato dall’art. 48 del Codice del 2006, che prevedeva la possibilità, ricorrendo i presupposti indicati, di escutere la garanzia, con funzione sanzionatoria, anche nei confronti dei partecipanti alla procedura. Ne consegue che l’estensione del perimetro della “garanzia provvisoria” si porrebbe in contrasto con la ratio legis.   L’esposta diversità di regime ha indotto il Consiglio di Stato, con la citata ordinanza n. 3299 del 2021, a rimettere alla Corte Costituzionale la questione relativa all’applicazione retroattiva della nuova disciplina della “garanzia provvisoria” (applicata al solo aggiudicatario con funzione compensativa) perché più favorevole rispetto alla precedente disciplina (applicata anche al concorrente con funzione punitiva).   Sul piano dell’interpretazione sistematica, in primo luogo, dall’analisi del contesto in cui la norma è inserita e, in particolare, dalla lettura coordinata di alcune disposizioni del Codice risulta chiara la distinzione tra la fase procedimentale relativa alla “proposta di aggiudicazione” e la fase provvedimentale relativa all’“aggiudicazione”.   Con riguardo alla “proposta di aggiudicazione” formulata dalla commissione di gara, il Codice – che, come già esposto, ha inteso attribuirle natura autonoma – disciplina il rapporto tra essa e l’aggiudicazione. Il destinatario della proposta è ancora un concorrente, ancorché individualizzato. In questa fase si inseriscono i seguenti adempimenti: i) la stazione appaltante, prima dell’aggiudicazione dell’appalto, «richiede all’offerente cui ha deciso di aggiudicare l’appalto (…) di presentare documenti complementari aggiornati», nel rispetto di determinate modalità, per dimostrare la sussistenza dei requisiti generali e speciali di partecipazione alla gara (art. 85, comma 5); ii) la “proposta di aggiudicazione” «è soggetta ad approvazione dell’organo competente secondo l’ordinamento della stazione appaltante e nel rispetto dei termini dallo stesso previsti, decorrenti dal ricevimento della proposta di aggiudicazione da parte dell’organo competente» (art. 33, comma 1); iii) la stazione appaltante, dopo la suddetta approvazione, «provvede all’aggiudicazione» (art. 32, comma 5). Nella prospettiva della tutela, la “proposta di aggiudicazione”, essendo atto endoprocedimentale, non è suscettibile di autonoma impugnazione.   Con riguardo all’aggiudicazione, il Codice disciplina il rapporto tra essa e il contratto. L’art. 32, comma 6, stabilisce che «l’aggiudicazione non equivale ad accettazione dell'offerta», in quanto occorre la stipula del contratto e l'offerta dell'aggiudicatario è irrevocabile per sessanta giorni. Nella prospettiva della tutela, l’aggiudicazione è il provvedimento finale di conclusione del procedimento di scelta del contraente che, in quanto tale, ha rilevanza esterna e può essere oggetto sia di impugnazione in sede giurisdizionale sia di autotutela amministrativa.   In secondo luogo, la valutazione sistematica anche delle regole civilistiche impone di evitare che il terzo – che ha stipulato un contratto autonomo di garanzia collegato al rapporto principale tra amministrazione e partecipante alla procedura di gara – debba eseguire prestazioni per violazioni non chiaramente definite dalle regole di diritto pubblico.   Sul piano dell’interpretazione analogica, la diversità della disciplina e delle situazioni regolate relativa alle due fasi, risultante dall’applicazione degli esposti criteri interpretativi, impedisce di estendere alla fase procedimentale le “garanzie provvisorie” della fase provvedimentale per i motivi di seguito indicati.  Nel caso di mancata stipulazione del contratto a seguito di una “aggiudicazione”, le ragioni, come esposto, possono dipendere sia dalla successiva verifica della mancanza dei requisiti di partecipazione sia, soprattutto, dalla condotta dell’aggiudicatario che, per una sua scelta, decide di non stipulare il contratto. In queste ipotesi la stazione appaltante deve annullare d’ufficio il provvedimento di aggiudicazione e rinnovare il procedimento con regressione alla fase della “proposta di aggiudicazione”. In tale contesto i possibili pregiudizi economici determinati dalla condotta dell’aggiudicatario sono coperti dalla “garanzia provvisoria” che consente all’amministrazione di azionare il rimedio di adempimento della prestazione dovuta con la finalità di compensare in via fortettaria i danni subiti dall’amministrazione per violazione delle regole procedimentali nonché dell’obbligo di concludere il contratto. ​​​​​​​Nel caso di “mancata aggiudicazione” a seguito di una “proposta di aggiudicazione”, i motivi di tale determinazione possono dipendere, oltre che da ragioni relative all’offerta, dalla verifica negativa preventiva del possesso dei requisiti di partecipazione del concorrente individuato. In queste ipotesi, contrariamente a quanto affermato nell’ordinanza di rimessione, l’amministrazione non è costretta a procedere all’aggiudicazione e poi ad esercitare il potere di annullamento in autotutela, potendosi limitare a non adottare l’atto di aggiudicazione e ad individuare il secondo classificato nei cui confronti indirizzare la nuova “proposta di aggiudicazione”. In tale contesto i pregiudizi economici, se esistenti, hanno portata differente rispetto a quelli che si possono verificare nella fase provvedimentale, con possibilità per l’amministrazione, ricorrendone i presupposti, di fare valere l’eventuale responsabilità precontrattuale del concorrente ai sensi degli artt. 1337-1338 cod. civ. Rimane fermo, altresì, il potere dell’Autorità nazionale anticorruzione di applicare sanzioni amministrative pecuniarie qualora si accertino specifiche condotte contrarie alle regole della gara da parte degli operatori economici (art. 213, comma 13, d.lgs. n. 50 del 2016). 
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/effetti-sui-contributi-concessi-del-controllo-giudiziario-con-esito-positivo-della-societ-c3-a0-colpita-da-interdittiva
Effetti sui contributi concessi del controllo giudiziario con esito positivo della società colpita da interdittiva
N. 01203/2021 REG.PROV.COLL. N. 01405/2018 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1405 del 2018, proposto da -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Nazareno Pergolizzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Regione Calabria, in persona del Presidente in carica, rappresentata e difesa dall'avvocato Annapaola De Masi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l'annullamento del decreto del dirigente del Settore Recettività Alberghiera del Dipartimento Turismo della Regione Calabria del 18 settembre 2018, n. -OMISSIS- , con il quale la Regione Calabria ha revocato “il DDS n. -OMISSIS-del 09/07/2014 (…) con il quale è stato concesso un finanziamento per un importo complessivo di € 378.525,56” con invito “al versamento della somma del contributo di € 317.452,71 già erogata a titolo di SAL finale, comprensiva di parte del conto interesse del contributo concesso”. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Calabria; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 maggio 2021 il dott. Francesco Tallaro e trattato il ricorso ai sensi dell’art. 25, comma 2 d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. con mod, dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176; Rilevato in fatto e ritenuto in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. – Con provvedimento del 28 agosto 2018, n. -OMISSIS- la Prefettura U.T.G. di Vibo Valentia ha emesso informazione interdittiva antimafia nei confronti della -OMISSIS- Il provvedimento interdittivo è stato impugnato d’innanzi a questo Tribunale Amministrativo Regionale con ricorso iscritto al n. -OMISSIS-R.G., tuttora pendente. 2. – L’odierno ricorso, invece, riguarda il decreto con cui la Regione Calabria ha revocato un finanziamento di € 378.525,56, quale conseguenza dell’informazione interdittiva. Secondo parte ricorrente, che ha adito questo Tribunale Amministrativo Regionale per ottenerne l’annullamento, il finanziamento, erogato in corrispondenza di un investimento produttivo per la realizzazione di programma di ristrutturazione, ammodernamento e ampliamento della struttura turistica denominata -OMISSIS-, non avrebbe potuto essere revocato, in quanto l’investimento è stato completato e l’art. 94 , comma 3 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 prevede che le amministrazioni “non procedono alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente nel caso in cui l'opera sia in corso di ultimazione”. Peraltro, anche l’art. 92, comma 3 d.lgs. n. 159 del 2011 chiarisce che le amministrazioni “revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti, fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”. E il comma 2 del già citato art. 94, dal canto suo, specifica che in caso di recesso dai contratti viene “fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”. 3. – La Regione Calabria si è costituita in giudizio e ha resistito all’avverso ricorso. 4. – Nelle more della trattazione del ricorso, il Tribunale di Catanzaro ha, con decreto 29 aprile 2019, n. -OMISSIS-Reg. CC/INT, ammesso la società ricorrente all’istituto del controllo giudiziario di cui all’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, con conseguente sospensione ex lege degli effetti del provvedimento interdittivo. Quindi, su istanza della -OMISSIS-, è stata sospesa l’efficacia anche del provvedimento di revoca impugnato in questa sede, in ragione della ratio dell’istituto tesa a consentire la prosecuzione dell’impresa, condizionata solo occasionalmente, attraverso il “tutoraggio”, nonché in vista della possibile revoca dell’interdittiva all’esito di una favorevole conclusione del periodo di controllo giudiziario. 5. – Ed effettivamente, all’esito del controllo giudiziario, la Prefettura U.T.G. di Vibo Valentia ha emesso il provvedimento del 14 aprile 2021, n. -OMISSIS-, contenente informazione antimafia con effetto liberatorio. 6. – Il ricorso avverso il provvedimento regionale di revoca del finanziamento è stato trattato nel merito in data 19 maggio 2021, ai sensi dell’art. 25, comma 2 d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. con mod, dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176. 7. - L’istituto del controllo giudiziario è stato ideato allo scopo di consentire agli operatori economici oggetto di occasionale infiltrazione mafiosa di continuare, in regime di controllo straordinario, a svolgere la propria attività imprenditoriale, per ragioni di libertà di iniziativa e di garanzia dei posti di lavoro (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 31 maggio 2018, n. 3268). Il fine ultimo della misura, però, è quello di incentivare l’interruzione, attraverso l’adozione di misure di self-cleaning, di ogni occasione di contatto con il mondo della criminalità organizzata, da cui può sorgere il pericolo di infiltrazione mafiosa, onde consentire la riammissione dell’operatore economico nel mercato, libero da condizionamenti criminali; si è infatti affermato che l’istituto “trova la sua ratio nell'obiettivo di promuovere il recupero delle imprese infiltrate dalle organizzazioni criminali, nell’ottica di bilanciare in maniera più equilibrata gli interessi che si contrappongono in questa materia” (Cass. Pen., Sez. V, 2 luglio 2018, n. 34526). Per tale ragione, allorché all’esito del controllo giudiziario venga richiesto l’aggiornamento della documentazione antimafia, alla Prefettura è demandato il delicato compito di verificare se il periodo di applicazione dell’istituto abbia portato a recidere i contatti con le organizzazioni criminali (TAR Calabria – Sez. I, 19 marzo 2021, n. 607). 8. – L’art. 34-bis citato nulla dispone in ordine al coordinamento tra gli effetti, da un lato, dell’istituto del controllo giudiziario e l’efficacia, dall’altra, dei provvedimenti di revoca di contributi e finanziamenti derivanti in maniera vincolata dall’informazione interdittiva. Nondimeno, la regola in questione va trovata e nelle finalità dell’istituto del controllo giudiziario, che, come visto, è quello di recuperare e riammettere nel mercato l’operatore economico soggetto a infiltrazione mafiosa; e nella ratio della norma contenuta nell'art. 67, comma 1, lett. g) d.lgs. n. 159 del 2011, che preclude al soggetto colpito dall'interdittiva antimafia ogni possibilità di ottenere contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali, “stante l'esigenza di evitare ogni esborso di matrice pubblicistica in favore di imprese soggette ad infiltrazioni criminali" (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 6 aprile 2018, n. 3; Cons. Stato, Sez. III, 4 marzo 2019, n. 1500). Ciò posto, è chiarito che, se si ritenesse che il fatto storico dell’emissione di una informazione interdittiva comporti la definitiva revoca dei contributi e dei finanziamenti concessi precedentemente alla sua emanazione, indipendentemente dal positivo percorso di self-cleaning svolto in regime di controllo giudiziario immediatamente richiesto, le finalità dell’istituto in questione sarebbero ampiamente vanificate. D’altra parte, un orientamento così restrittivo non appare imposto dall’art. 67, comma 1, lett. g) citato, considerato che, una volta che sia stata accertata la recisione di ogni possibile rapporto tra operatore economico e criminalità organizzata, risulta minimizzato il rischio che denaro pubblico possa giovare alla criminalità organizzata. 9. – Al contrario, si deve ritenere che il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., imponga che le amministrazioni, una volta che il controllo giudiziario si sia concluso con esito favorevole, e alla luce di questo, debbano riconsiderare, ed eventualmente ritirare in autotutela, i provvedimenti di revoca dei contributi e dei finanziamenti. Peraltro, risulta evidente che la prospettiva di poter mantenere i contributi e i finanziamenti, già conseguiti prima dell’informazione interdittiva, possa rappresentare un notevole incentivo all’interruzione di ogni contatto con la criminalità organizzata e alla liberazione di ogni sorta di giogo mafioso. 10. – Se così è, nel caso in esame viene meno l’interesse della società ricorrente alla decisione dell’odierno ricorso, stante l’obbligo gravante sull’amministrazione, anche quale effetto conformativo della presente pronuncia, di riconsiderare la vicenda amministrativa che coinvolge la ricorrente. La presente decisione, peraltro, si pone in posizione del tutto autonoma rispetto al ricorso proposto contro l’informazione interdittiva, non essendo dunque necessario disporre la riunione dei due procedimenti. 11. – Le spese del presente giudizio possono essere compensate tra le parti in considerazione della particolarità della vicenda. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile, salvi gli effetti conformativi specificati al § 10. della parte motiva. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la società ricorrente. Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del giorno 19 maggio 2021 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Pennetti, Presidente Francesco Tallaro, Primo Referendario, Estensore Francesca Goggiamani, Referendario Giancarlo Pennetti, Presidente Francesco Tallaro, Primo Referendario, Estensore Francesca Goggiamani, Referendario IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Informativa antimafia - Controllo giudiziario  – Controllo con esito positivo - Effetti sui contributi concessi      Il fatto storico dell’emissione di una informazione interdittiva non comporta la definitiva revoca dei contributi e dei finanziamenti concessi precedentemente alla sua emanazione, indipendentemente dal positivo percorso di self-cleaning svolto in regime di controllo giudiziario immediatamente richiesto (1).    (1) Ha chiarito il Tar che l’istituto del controllo giudiziario è stato ideato allo scopo di consentire agli operatori economici oggetto di occasionale infiltrazione mafiosa di continuare, in regime di controllo straordinario, a svolgere la propria attività imprenditoriale, per ragioni di libertà di iniziativa e di garanzia dei posti di lavoro (Cons. Stato, sez. V, 31 maggio 2018, n. 3268).  Il fine ultimo della misura, però, è quello di incentivare l’interruzione, attraverso l’adozione di misure di self-cleaning, di ogni occasione di contatto con il mondo della criminalità organizzata, da cui può sorgere il pericolo di infiltrazione mafiosa, onde consentire la riammissione dell’operatore economico nel mercato, libero da condizionamenti criminali. Per tale ragione, allorché all’esito del controllo giudiziario venga richiesto l’aggiornamento della documentazione antimafia, alla Prefettura è demandato il compito di verificare se il periodo di applicazione dell’istituto abbia portato a recidere i contatti con le organizzazioni criminali (Tar Catanzaro, sez. I, 19 marzo 2021, n. 607). L’art. 34-bis non dispone in ordine al coordinamento tra gli effetti, da un lato, dell’istituto del controllo giudiziario e l’efficacia, dall’altra, dei provvedimenti di revoca di contributi e finanziamenti derivanti in maniera vincolata dall’informazione interdittiva. Nondimeno, la regola in questione va trovata e nelle finalità dell’istituto del controllo giudiziario, che, come visto, è quello di recuperare e riammettere nel mercato l’operatore economico soggetto a infiltrazione mafiosa; e nella ratio della norma contenuta nell'art. 67, comma 1, lett. g) d.lgs. n. 159 del 2011, che preclude al soggetto colpito dall'interdittiva antimafia ogni possibilità di ottenere contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali, “stante l'esigenza di evitare ogni esborso di matrice pubblicistica in favore di imprese soggette ad infiltrazioni criminali" (Cons. Stato, Ad. Plen., 6 aprile 2018, n. 3; id., sez. III, 4 marzo 2019, n. 1500). Ciò posto, ad avviso del Tar se si ritenesse che il fatto storico dell’emissione di una informazione interdittiva comporti la definitiva revoca dei contributi e dei finanziamenti concessi precedentemente alla sua emanazione, indipendentemente dal positivo percorso di self-cleaning svolto in regime di controllo giudiziario immediatamente richiesto, le finalità dell’istituto in questione sarebbero ampiamente vanificate. D’altra parte, un orientamento così restrittivo non appare imposto dall’art. 67, comma 1, lett. g) citato, considerato che, una volta che sia stata accertata la recisione di ogni possibile rapporto tra operatore economico e criminalità organizzata, risulta minimizzato il rischio che denaro pubblico possa giovare alla criminalità organizzata. Al contrario, si deve ritenere che il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., imponga che le amministrazioni, una volta che il controllo giudiziario si sia concluso con esito favorevole, e alla luce di questo, debbano riconsiderare, ed eventualmente ritirare in autotutela, i provvedimenti di revoca dei contributi e dei finanziamenti. Peraltro, risulta evidente che la prospettiva di poter mantenere i contributi e i finanziamenti, già conseguiti prima dell’informazione interdittiva, possa rappresentare un notevole incentivo all’interruzione di ogni contatto con la criminalità organizzata e alla liberazione di ogni sorta di giogo mafioso. ​​​​​​​Se così è, nel caso in esame viene meno l’interesse della società ricorrente alla decisione dell’odierno ricorso, stante l’obbligo gravante sull’amministrazione, anche quale effetto conformativo della presente pronuncia, di riconsiderare la vicenda amministrativa che coinvolge la ricorrente. ​​​​​​​
Informativa antimafia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/legittimazione-dell-operatore-privato-titolare-di-struttura-sanitaria-ad-impugnare-un-autorizzazione-rilasciata-a-terzi
Legittimazione dell’operatore privato titolare di struttura sanitaria ad impugnare un’autorizzazione rilasciata a terzi
N. 05591/2021REG.PROV.COLL. N. 08779/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8779 del 2020, proposto da Friul Medica S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Luca De Pauli, Luca Mazzeo, Alberto Bozzo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Luca Mazzeo in Roma, via Eustachio Manfredi 5; contro Azienda per L'Assistenza Sanitaria n. 3 “Alto Friuli, Collinare, Medio Friuli”, Asuiud – Azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Udine, Comune di Codroipo non costituiti in giudizio; Azienda Sanitaria Universitaria Friuli Centrale - Asufc, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Mario Sanino, Giuseppe Sbisà, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Mario Sanino in Roma, viale Parioli, n. 180; Regione Friuli Venezia Giulia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Michela Delneri, Ettore Volpe, con domicilio eletto presso l’Ufficio di Rappresentanza della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia in Roma, piazza Colonna, n. 355; Punto Salute S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Massimo Luciani, Patrizio Ivo D'Andrea, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Massimo Luciani in Roma, Lungotevere Raffaello Sanzio, n. 9; nei confronti Puntosalute S.r.l. (P.Iva 02967410305), Puntomedical S.r.l. non costituiti in giudizio; Lgf S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Massimo Luciani, Piermassimo Chirulli, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Massimo Luciani in Roma, Lungotevere Raffaello Sanzio, n. 9; per la riforma della sentenza non definitiva del Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia (Sezione Prima) n. 00374/2020, resa tra le parti, concernente l’autorizzazione finalizzata alla apertura di una struttura sanitaria a media complessità, sita in Codroipo (UD) rilasciata in favore della società controinteressata; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Azienda Sanitaria Universitaria Friuli Centrale – Asufc, della Regione Friuli Venezia Giulia, di Lgf S.r.l. e di Punto Salute S.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica, tenutasi da remoto, del giorno 8 giugno 2021 il Cons. Stefania Santoleri e uditi per le parti gli avvocati Giuseppe Sbisà, Michela Delneri, Massimo Luciani e Piermassimo Chirulli; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. - Con il ricorso di primo grado la società Friul Medica S.r.l., operatore che gestisce un Poliambulatorio per visite specialistiche nel Comune di Codroipo, con servizi di radiologia e laboratorio analisi, insediato da oltre 10 anni, ha impugnato l’autorizzazione (della quale ha avuto conoscenza in data 3/2/2020), prot. 053484 del 18/11/2019, rilasciata dal Commissario Straordinario dell’Azienda l’Assistenza Sanitaria n. 3 “Alto Friuli, Collinare, Medio Friuli” alla società Puntosalute S.r.l., finalizzata all’apertura di una struttura sanitaria di media complessità sita in Codroipo, Via dei Carpini n. 25; unitamente all’autorizzazione ha impugnato gli atti del procedimento (parere della Commissione di Vigilanza delle strutture sanitarie private dell’ASUID resa con verbale del 18/11/2019, presupposto parere del Comune di Codroipo, autorizzazione alla realizzazione della struttura sanitaria, delibera della Giunta Regionale della Regione Autonoma F.V.G. n. 3586 del 20/12/2004). 1.1 - Al ricorso introduttivo del giudizio hanno fatto seguito un primo ricorso per motivi aggiunti avverso il parere favorevole della Commissione di Vigilanza del 18/11/2019, della quale la parte ha preso conoscenza a seguito della sua esibizione in giudizio; un secondo ricorso per motivi aggiunti avverso il provvedimento di accreditamento, con riserva, della struttura sanitaria per l’attività di cardiologia, Centro Prelievi, Dermatologia, Diabetologia/Endocrinologia, Medicina Fisica e Riabilitativa e Oculistica (limitatamente a visite e consulenze) con scadenza 7/9/2020; un terzo ricorso per motivi aggiunti avverso il provvedimento di voltura della originaria autorizzazione da Puntosalute S.r.l. a Punto Salute S.r.l. 1.2 - All’udienza pubblica di trattazione della causa la società ricorrente ha chiesto rinvio dovendo presentare motivi aggiunti avverso il provvedimento di accreditamento definitivo della società Punto Salute S.r.l. 1.3 - In seguito all’opposizione della Azienda Sanitaria, il TAR ha adottato una sentenza non definitiva pronunciando sul solo ricorso principale, sui primi e sui terzi motivi aggiunti, lasciando quindi impregiudicata la decisione sul provvedimento di accreditamento con riserva, da definirsi separatamente. 2. - Con la sentenza non definitiva n. 374/2020 il TAR ha dichiarato inammissibili sia il ricorso introduttivo che i primi e terzi motivi aggiunti, ritenendo fondata l’eccezione di carenza di legittimazione della ricorrente ad impugnare l’autorizzazione sanitaria rilasciata in favore della controinteressata; ha quindi condannato la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio nella misura di € 2.500 per ciascuna delle parti resistenti e controinteressate. 3. - Avverso tale decisione la ricorrente ha proposto appello articolato sulla base di tre motivi di gravame; ha poi riproposto tutti i motivi dedotti in primo grado con il ricorso introduttivo ed i successivi motivi aggiunti che sono stati assorbiti dal TAR. 3.1 - Si è costituita per resistere all’appello l’Azienda Sanitaria Universitaria Friuli Centrale (ASUFC) che, dopo aver controdedotto sulle doglianze proposte, ha prospettato eccezioni di inammissibilità dell’appello sotto diversi profili (cumulatività dell’impugnazione in assenza dei presupposti, mancata prova della lesività, tardività del ricorso avverso il provvedimento comunale; carenza di interesse sotto altro profilo, inammissibilità delle doglianze avverso la deliberazione della Giunta Regionale n. 3586/2004). 3.2 - Si è costituita in giudizio anche la Regione Friuli Venezia Giulia che, con memoria, ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse; ha poi dedotto l’infondatezza delle censure dell’appellante chiedendone il rigetto. 3.3 - Si sono costituite in giudizio anche le società Punto Salute S.r.l. e L.G.F. S.r.l. che hanno replicato alle doglianze proposte chiedendone il rigetto. 3.4 - Le parti hanno depositato scritti difensivi, anche in replica, a sostegno delle rispettive tesi. 3.5 - Con ordinanza n. 7244/2020 il Collegio ha dato atto della rinunzia all’istanza cautelare. 4. - All’udienza pubblica del giorno 8 giugno 2021 l’appello è stato trattenuto in decisione. 5. - L’appello è fondato e va, dunque, accolto e va quindi dichiarato ammissibile il ricorso di primo grado; i motivi del ricorso di primo grado e successivi motivi aggiunti, riproposti in appello, vanno respinti. 6. - Prima di procedere alla disamina delle censure è opportuno richiamare, per sintesi, il contenuto della sentenza impugnata. Il TAR ha dichiarato il ricorso inammissibile per difetto di legittimazione attiva della società Friul Medica sia con riferimento al permesso di costruire rilasciato in favore della società Punto Salute, (tenuto conto della distanza esistente tra le due strutture sanitarie), sia con riferimento all’autorizzazione sanitaria, in quanto fondato su ragioni anticoncorrenziali; secondo il TAR, pur avendo la società ricorrente una posizione differenziata rispetto agli altri cittadini, non sarebbe però titolare di una posizione qualificata, e cioè direttamente tutelata dalle norme che disciplinano il potere dell’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione sanitaria; tale interesse potrebbe rinvenirsi in capo ai pazienti, in quanto destinatari delle prestazioni sanitarie, ma non in capo agli operatori del settore che vantano soltanto un interesse di natura economica, non presa in considerazione dalla norma attributiva del potere; ciò potrebbe evincersi non solo dalla disciplina nazionale, ma anche dall’art. 48 della L.R. n. 17/2014 sulla verifica di compatibilità della nuova struttura rispetto al fabbisogno complessivo e alla localizzazione territoriale delle strutture presenti; tale disposizione rivela che detto potere è funzionale a garantire pienezza ed effettività del diritto alla salute dei cittadini, prescindendo da interessi privatistici di profitto, propri dell’esercizio delle attività economiche, che non sono considerati dalla norma stessa. 7. - Con il primo motivo l’appellante ha dedotto la “violazione di legge (art. 35 c.p.a., art. 24 Cost., art. 100 c.p.c. in relazione all’art. 48 L.R. FVG n. 17/2014. Erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso di primo grado” sostenendo l’erroneità della tesi secondo cui gli operatori già presenti che configurino un danno economico dalla presenza di altre strutture sanitarie di nuovo autorizzazione, collocate a poca distanza e operanti nel medesimo settore di attività, non sarebbero legittimati ad impugnare i titoli autorizzativi altrui. L’appellante sostiene l’erroneità di tale assunto richiamando la giurisprudenza della Sezione su una fattispecie analoga, relativa all’impugnazione di un’autorizzazione all’esercizio rilasciata ad un nuovo operatore del settore che esercita le medesime attività sanitarie, lamentando la mancata valutazione preventiva di compatibilità con il fabbisogno. 7.1 - Con il secondo motivo l’appellante ha dedotto la censura di “violazione di legge (art. 48 L.R. FVG 17/2014) – Erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso di primo grado – Travisamento e falsa applicazione di norme di diritto” contestando l’affermazione del TAR, secondo cui la norma dell’art. 48 della L.R. n. 17/2014, sarebbe funzionale a garantire pienezza ed effettività del diritto alla salute dei cittadini, prescindendo da interessi privatistici di profitto nell’esercizio delle attività economiche. Con tale doglianza l’appellante ha sostenuto l’erroneità di tale ricostruzione rilevando che il secondo comma di tale disposizione – laddove prevede la preventiva verifica di compatibilità del progetto da parte della Regione con il fabbisogno complessivo regionale, in relazione alla localizzazione territoriale delle strutture presenti – risponde proprio all’esigenza di garantire l’equa distribuzione sul territorio delle strutture, evitando l’eccessiva concorrenza che potrebbe portare ad uno scadimento del livello della prestazione sanitaria. Le due doglianze possono essere esaminate congiuntamente in quanto tra loro connesse. 8. – Le censure sono fondate. L’art. 8 bis, comma 3, del d.lgs. n. 502/1992 dispone che: “ La realizzazione di strutture sanitarie e l'esercizio di attività sanitarie, l'esercizio di attività sanitarie per conto del Servizio sanitario nazionale e l'esercizio di attività sanitarie a carico del Servizio sanitario nazionale sono subordinate, rispettivamente, al rilascio delle autorizzazioni di cui all'articolo 8-ter, dell'accreditamento istituzionale di cui all'articolo 8-quater, nonché alla stipulazione degli accordi contrattuali di cui all'articolo 8-quinquies. La presente disposizione vale anche per le strutture e le attività sociosanitarie”. L'offerta delle prestazioni sanitarie è articolata, infatti, in tre momenti distinti: l'autorizzazione (art. 8 ter del D.Lgs. n. 502 del 1992), necessaria per realizzare strutture sanitarie e per l'esercizio delle relative attività, l'accreditamento istituzionale, necessario per operare per conto del Servizio Sanitario Regionale (art. 8 quater), subordinatamente alla rispondenza della struttura ai requisiti ulteriori di qualificazione e in relazione al fabbisogno di assistenza definito dalla Regione, e la stipulazione di accordi contrattuali con le Aziende Sanitare Locali con indicazione, tra l'altro, del volume massimo di prestazioni che le strutture sanitarie si impegnano ad assicurare, distinto per tipologia e per modalità di assistenza (art. 8-quinquies) (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, n. 5682/2019). 8.1 - L'autorizzazione per lo svolgimento di attività sanitaria privata segue un regime differenziato rispetto all'attività in accreditamento, e, tuttavia, per ragioni attinenti non solo alla tutela della salute, quale irrinunciabile interesse della collettività (art. 32 Cost.), ma anche alla tutela della concorrenza, l'autorizzazione per la realizzazione delle strutture sanitarie e sociosanitarie, ai sensi dell'art. 8-ter, comma 3, del D.Lgs. n. 502 del 1992, deve necessariamente restare inserita nell'ambito della programmazione regionale, in quanto la verifica di compatibilità, effettuata dalla Regione, ha proprio il fine di accertare l'armonico inserimento della struttura in un contesto di offerta sanitaria rispondente al fabbisogno complessivo e alla localizzazione territoriale delle strutture presenti in ambito regionale, anche al fine di garantire meglio l'accessibilità ai servizî e di valorizzare le aree di insediamento prioritario delle nuove strutture. (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 10/02/2021, n. 1249). La programmazione riguarda, quindi, gli standard di qualità delle strutture che intendono operare in ambito sanitario a garanzia della qualità del servizio salute fornito ai pazienti, la determinazione del fabbisogno complessivo delle strutture in ambito territoriale, tenendo conto del bacino di utenza, e la loro collocazione in ambito territoriale, in modo da garantire la capillarità e l’adeguatezza del servizio rispetto all’utenza, ma nel contempo anche la remuneratività per gli operatori che operano nel settore, che garantisce la qualità del servizio reso alla collettività. 8.2 - Il potere di programmazione compete alla Regione, che è chiamata a valutare la compatibilità circa il fabbisogno e la localizzazione territoriale della struttura sanitaria, nell’ambito del procedimento diretto al rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione e della successiva autorizzazione all’esercizio della struttura sanitaria. L’art. 27, comma 2, del D.L. n. 90 del 24 giugno 2014, che aveva espressamente abrogato l’art. 8 ter del D.Lgs. n. 502 del 1992, è stato soppresso con la legge di conversione n.114 del 2014, con il conseguente ripristino del quadro normativo originario, a dimostrazione della persistente volontà del legislatore di sottoporre a regolamentazione l’attività sanitaria privata (Cons. Stato, Sez. III, n. 4190 n. 11/10/2016). In materia sanitaria la pianificazione si rinviene anche in altri settori, come quello delle farmacie, in cui l’apertura delle sede farmaceutiche e la loro localizzazione è regolamentata in modo da garantire la capillare distribuzione sul territorio degli esercizi farmaceutici; il contingentamento delle farmacie, derivante dalla pianta organica, ed il criterio della distanza per l’apertura dei singoli esercizi farmaceutici nell’ambito delle zone di pertinenza, risponde all’esigenza che sia assicurato il servizio pubblico farmaceutico in modo da garantire, al contempo, la capillarità del servizio farmaceutico e la remuneratività dell’attività economica svolta dal farmacista, che è un soggetto privato che garantisce un servizio pubblico, ma che trae il proprio reddito dallo svolgimento di tale attività economica. Un sistema della programmazione si rinviene, ad esempio, per il rilascio delle autorizzazioni per l’installazione di apparecchiature diagnostiche quali le RMN ad alta potenza: anche in quel caso il legislatore, con il D.P.R. 8 agosto 1994 n. 542 all’art. 5, comma 2, ha previsto che “L'autorizzazione è data previa verifica della compatibilità dell'installazione rispetto alla programmazione sanitaria regionale o delle province autonome”. Il corretto rapporto tra gli impianti ed il fabbisogno per la popolazione garantisce la qualità delle prestazioni: l’eccessiva proliferazione degli impianti rispetto al fabbisogno non consente il loro uso a pieno regime e, quindi, l’acquisizione di una remunerazione adeguata per la struttura sanitaria derivante dal numero di esami eseguiti, si riverbera sulla stessa qualità del servizio, tenuto conto che le insufficienti entrate non consentono il necessario rinnovamento e sostituzione dei macchinari per garantire alti standard delle prestazioni diagnostiche. 8.3 - Questo breve excursus serve a sottolineare che gli operatori privati che erogano prestazioni in materia sanitaria, forniscono servizi agli utenti dietro remunerazione; a tutela dell’interesse pubblico la loro attività deve essere conformata rispetto di parametri di professionalità e sicurezza previsti dell’Amministrazione, ma deve essere comunque assicurato a tali operatori un margine di profitto. Come già evidenziato dalla Sezione, il legislatore ha ritenuto che “il vincolo della programmazione sia il mezzo più idoneo, da un lato, a garantire la equa distribuzione sul territorio di varie tipologie di centri di cura e, dall’altro, ad evitare il fenomeno deteriore di un’offerta di prestazioni sanitarie con alta remunerazione, che risulti sovradimensionata rispetto al fabbisogno effettivo della collettività e, quindi, dia luogo anche a processi di eccessiva concorrenza, che potrebbero portare ad una inaccettabile caduta del livello di prestazione sanitaria o, comunque, alla utilizzazione di tecniche non virtuose di orientamento della scelta dell’assistito, parimenti non compatibili con la tutela del diritto alla salute del cittadino” (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 10/9/2018 n. 5310; id. 7/3/2019 n. 1589; id. 4/9/2017 n. 4187; id 11/10/2016 n. 4190). 8.4 - Se al sistema normativo previsto dal legislatore in materia di programmazione sanitaria dell’attività svolta da privati, non è estraneo l’aspetto economico, deve ritenersi che i soggetti già insediati siano legittimati a sindacare se un’autorizzazione rilasciata a terzi, riferita al loro stesso ambito territoriale, temporaneamente successiva alla propria, sia stata rilasciata nell’osservanza del diritto vigente e nel rispetto dei presupposti stabiliti dalla normativa nazionale e regionale con riferimento ai presupposti relativi alla programmazione regionale, come già ritenuto da questa Sezione. Nella sentenza del 23/5/2017 n. 2393 la Sezione ha ritenuto che: “….in linea di principio, un operatore economico abbia una posizione differenziata e qualificata che lo abilita a contestare la legittimità del titolo autorizzatorio rilasciato ad altro operatore almeno nelle ipotesi in cui l’esercizio del potere autorizzativo non sia finalizzato solo alla verifica dei requisiti, ma presupponga una valutazione del settore economico e determini, comunque, un impatto sulle condizioni del mercato in cui il nuovo operatore viene autorizzato ad entrare. 6.2. La posizione di controinteressato sul piano sostanziale, più nello specifico, non può essere negata all’operatore economico tutte le volte in cui l’autorizzazione postuli una valutazione della domanda o – come nel caso di specie, relativo alle prestazioni sanitarie – del fabbisogno e modifichi, in modo apprezzabile, le condizioni dell’offerta nel mercato di riferimento. 6.3. Il concorrente può, in altri termini, contestare il titolo autorizzatorio rilasciato ad altro operatore se e nella misura in cui tale titolo sia esso stesso condizione o limite di quel mercato, regolamentato dai pubblici poteri anche, o anzitutto, mediante il regime autorizzatorio”. Tale pronuncia si riferisce ad una situazione speculare alla presente, in quanto l’impugnazione del terzo è motivata proprio con riferimento al mancata valutazione di conformità rispetto al fabbisogno e alla localizzazione territoriale: la nuova struttura – della quale si contesta l’illegittimità dell’autorizzazione -, come nel caso di specie, incide sul mercato di riferimento che viene quindi diversamente conformato. La situazione esaminata dalla Sezione nella sentenza richiamata dalla difesa delle appellate (Cons. Stato, Sez. III, 30 aprile 2020 n. 2773, che a sua volta richiama la decisione n. 5370/2016) si riferisce ad una fattispecie diversa relativa all’impugnazione del provvedimento di accreditamento istituzionale (e non dell’autorizzazione all’esercizio), che si pone a valle dell’autorizzazione e, quindi, riguarda soggetti che già hanno superato la verifica di compatibilità con il fabbisogno e la localizzazione territoriale, problematiche che si riferiscono, invece, al caso di specie. Per tale ragione non può essere invocata nella presente controversia. Ritiene dunque il Collegio che sussista la legittimazione in capo al ricorrente, ora appellante, alla proposizione del ricorso. 9. - Quanto all’interesse al ricorso, problematica che costituisce l’oggetto di una specifica eccezione di inammissibilità sollevata dalle parti appellate, ritiene il Collegio che la questione debba essere risolta alla luce dei criteri già indicati da questa Sezione nella citata sentenza n. 2393/2017. In tale decisione la Sezione ha rilevato che poiché la legittimazione deriva astrattamente dalla posizione del concorrente in un determinato mercato, che dal provvedimento autorizzatorio viene in ipotesi “conformato” o modificato, “il controinteressato non può esimersi dal dare prova, sul piano dell’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), che la modifica delle condizioni o dei limiti di quel mercato, per effetto dell’autorizzazione contestata, incida immediatamente, direttamente e concretamente sulla sua sfera giuridica in termini apprezzabili, anche mediante il ricorso a presunzioni, sul piano economico”. In quella specifica vicenda questa Sezione ha ritenuto infondata la pretesa dell’attore non avendo fornito tale prova: nel caso di specie, invece, ritiene il Collegio che tenuto conto della circostanze di fatto tale prova possa ritenersi raggiunta mediante presunzioni. La nuova struttura sanitaria è stata aperta nello stesso territorio comunale; il Comune di Codroipo vanta poco più di 16.000 abitanti; le attività sanitarie svolte dalla due strutture sono sovrapponibili; le due strutture distano tra loro poche centinaia di metri, come si evince dalla mappa prodotta in giudizio; la nuova struttura sanitaria ha reclutato il personale anche tra il personale medico dell’appellante: ritiene dunque il Collegio che tali circostanze siano idonee a sostenere la sussistenza dell’interesse concreto ed attuale all’impugnazione dell’autorizzazione rilasciata in favore delle appellate Punto Salute S.r.l. e L.G.F. S.r.l. 10. - Prima di passare alla disamina del merito, ritiene il Collegio di doversi pronunciare preventivamente sulle eccezioni di inammissibilità sollevate dalle appellate (ASUFC succeduta alla ASS n 3 Alto Friuli, Collinare, Medio Friuli e all’Azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Udine e Regione Friuli Venezia Giulia). In particolare, l’Azienda Sanitaria Universitaria Friuli Centrale – ASUFC, ha dedotto l’inammissibilità del ricorso in quanto cumulativamente proposto: con il ricorso di primo grado sono stati impugnati oltre alla delibera della Giunta Regionale n. 3586 del 30/12/2004, anche due autonomi provvedimenti promananti da due diverse amministrazioni, nell’ambito di procedimenti diversi: - il permesso di costruire rilasciato dal Comune di Codroipo prot. n. 2016/268 del 28/11/2016 alla snc Bianchin e Zanet e poi volturato in data 12/4/2017 alla LGF S.r.l. integrato dal parere sanitario del 22/11/2016 dell’ASS n. 3, ai sensi della deliberazione giuntale n. 3586/2004, riguardante la costruzione di un edificio a destinazione direzionale-commerciale, comprendente anche ambulatori medici; - l’autorizzazione sanitaria prot. 053484 del 18/11/2019, rilasciata dall’ASUFC per l’apertura di una struttura sanitaria di media complessità, previo parere favorevole del 18/11/2019 della Commissione di Vigilanza delle strutture sanitarie private della stessa ASS n. 3. Secondo l’appellata non sussisterebbero ragioni di collegamento tra i diversi atti tali da giustificare la loro impugnazione congiunta. 10.1 - L’eccezione non può essere condivisa, atteso che gli atti impugnati sono tra loro collegati. L’autorizzazione all’esercizio della struttura sanitaria presuppone il previo rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione della struttura; a sua volta, il provvedimento di accreditamento istituzionale presuppone il previo rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’esercizio dell’attività sanitaria. La delibera della Giunta Regionale n. 3586/2004 è collegata agli altri atti, in quanto prevede l’esonero dalla verifica preventiva del fabbisogno complessivo regionale e della localizzazione territoriale delle strutture sanitarie per quelle di media complessità. Nei vari procedimenti intervengono più autorità (Comune, ASS, Regione) ma vi è una indubbia connessione tra gli atti che giustifica la loro impugnazione cumulativa (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 21/4/2017 n. 1866). L’eccezione va quindi respinta. 10.2 - L’eccezione di carenza di interesse al ricorso – proposta anche dalla Regione Friuli Venezia Giulia – è stata già esaminata e respinta. 10.3 - Quanto all’eccezione di inammissibilità del ricorso in considerazione dell’inammissibile venire contra factum proprium, è sufficiente rilevare che l’autorizzazione all’esercizio è stata rilasciata alla struttura ricorrente in base alla D.G.R. 3586/2004 in data anteriore all’entrata in vigore della L.R. 17/2014, art. 48, comma 3. Tale delibera, come è noto, non prevedeva per le strutture di media complessità il parere regionale sul fabbisogno e la localizzazione territoriale. Per le ragioni in seguito esposte tale disciplina è rimasta in vigore anche successivamente: ne consegue che la prospettazione dell’appellante sul punto è infondata nel merito. Ciò comporta la declaratoria di inammissibilità dell’eccezione. 10.4 - Quanto all’eccezione di tardività dell’impugnazione del permesso di costruire rilasciato dal Comune di Codroipo, correttamente l’appellante ha rilevato che l’oggetto della sua impugnazione non è il permesso di costruire, (con conseguente irrilevanza del richiamo al criterio della vicinitas) bensì l’autorizzazione alla realizzazione prevista dalla normativa nazionale e regionale per le strutture sanitarie: le parti appellate hanno rilevato che, in base alla delibera della G.R. n. 3586/2004, per le strutture sanitarie di media complessità non era richiesta l’autorizzazione alla realizzazione essendo sufficiente la sola acquisizione del parere igienico sanitario della competente Azienda Sanitaria espresso in data 22/11/2016. Anche questa problematica sarà esaminata nel merito con conseguente inammissibilità, per carenza di interesse, della relativa eccezione. 10.5 - Per quanto riguarda l’impugnazione della DGR 3586 del 30/12/2004, va rilevata la sua tardività, tenuto conto che la società ricorrente conosceva da anni il contenuto dispositivo di tale deliberazione, della quale si è giovata al momento del rilascio delle autorizzazioni in suo favore (in sede di costruzione del fabbricato ed in sede di rilascio dell’autorizzazione all’ampliamento, emessa nel 2009). Ne consegue che la decisione sfavorevole sulle eccezioni di rito sollevate dalla difesa delle appellate, tranne quella relativa all’impugnazione della DGR 3586 del 2004, comporta l’obbligo di esame del merito della controversia. 10.6 - L’accoglimento delle prime due doglianze comporta la riforma della sentenza appellata: ciò fa venir meno l’interesse a coltivare il terzo motivo di appello che investe la condanna alle spese, tenuto conto che la riforma della sentenza impugnata impone di provvedere d' ufficio a una nuova regolamentazione delle spese del doppio grado di giudizio, tenendo presente 1' esito finale della lite (cfr., ex multis, Cass. n. 6259/14 ord., Cass. n. 23226/13 ord. e Cass. n. 14633/12). In ogni caso la doglianza è infondata, in quanto il TAR si è limitato ad applicare il principio della soccombenza condannando la parte soccombente alla refusione delle spese. Secondo la giurisprudenza, in tema di regolamento delle spese processuali, il sindacato sulla statuizione del giudice è limitato ad accertare che non risulti violato il principio che le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa (circostanza che non ricorre nel caso di specie). Per converso è rimessa alla discrezionalità del Collegio giudicante la valutazione dell’opportunità di liquidare (e in che misura) le spese a carico del soccombente o di compensare in tutto o in parte le spese di lite (cfr. Cass. Civ. Sez. V, 19 giugno 2013, n. 15317). 11. - Devono essere quindi esaminati i motivi del ricorso di primo grado, assorbiti dal TAR, che investono la questione di merito. 11.1 - Con il primo motivo riproposto l’appellante ha dedotto la doglianza di “Violazione e/o falsa applicazione di legge (artt. 8 bis e 8 ter d.lgs. 30.12.1992, n. 502 – art. 48 l.r. FVG 16.10.2014, n. 17) – Difetto dei presupposti e di istruttoria – Illegittimità propria e derivata” sostenendo che gli artt. 8-bis e 8-ter del d.lgs. 502/1992 prevedono il rilascio dell’autorizzazione per la realizzazione e l’esercizio dell’attività sanitaria; in particolare l’art. 8-ter cit. prevede che il rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione delle strutture sanitarie avvenga a seguito della verifica del “fabbisogno complessivo” e “della localizzazione territoriale delle strutture presenti in ambito regionale anche al fine di meglio garantire l’accessibilità ai servizi e valorizzare le aree di insediamento prioritario di nuove strutture”. L’art. 48 della L.R. FVG 16.10.2014, n. 17 (abrogato dall’art. 71, co. 2, L.R. FVG n. 22/2019, ma solo a decorrere dall'1.1.2020 e dunque applicabile alla autorizzazione impugnata, rilasciata in data 18.11.2019), stabilisce che: “In attuazione dell'articolo 8 ter del decreto legislativo 502/1992 e successive modifiche, nonché dell'atto di intesa Stato-Regioni del 20 dicembre 2012, con regolamento regionale, da adottarsi entro dodici mesi dall'entrata in vigore della presente legge, sono stabiliti: a) i requisiti, i criteri e le evidenze minimi strutturali, tecnologici e organizzativi per la realizzazione di strutture sanitarie e sociosanitarie e per l'esercizio di attività sanitarie e sociosanitarie specifici per le diverse tipologie di struttura; b) la procedura per il rilascio delle autorizzazioni alla realizzazione delle strutture e all'esercizio dell'attività. 2. L'autorizzazione per la realizzazione di strutture sanitarie e sociosanitarie necessita di preventiva verifica di compatibilità del progetto da parte della Regione in rapporto con il fabbisogno complessivo regionale e alla localizzazione territoriale delle strutture presenti in ambito regionale. Nelle more della riclassificazione delle strutture residenziali per anziani e delle strutture di cui all'articolo 24, comma 2, lettera a), il parere sul fabbisogno è vincolante. L'autorizzazione per la realizzazione delle strutture è rilasciata dal Comune. Fatte salve quelle già rilasciate, l'autorizzazione per l'esercizio delle attività delle strutture sociosanitarie non gestite direttamente dalle Aziende per l'assistenza sanitaria è rilasciata dalle medesime. L'autorizzazione per l'esercizio delle attività delle strutture sanitarie private e quella delle strutture pubbliche sono rilasciate, rispettivamente, dalle Aziende per l'assistenza sanitaria e dalla Regione, Direzione centrale competente in materia, sulla base dei requisiti e delle procedure stabiliti con il regolamento di cui al comma 1. Il rilascio delle autorizzazioni per la realizzazione delle strutture e per l'esercizio delle attività non determina, in alcun modo, l'accreditamento delle strutture e la sussistenza degli accordi contrattuali di cui agli articoli 49 e 50. 3. Quanto disposto ai commi 1 e 2 si applica alla costruzione di nuove strutture e a qualsiasi intervento sulle strutture esistenti, ivi compreso il trasferimento in altra sede di strutture già autorizzate. Fermo restando quanto stabilito al comma 2, nelle more dell'adozione del regolamento di cui al comma 1, trovano applicazione i requisiti e le procedure, in quanto compatibili, stabiliti con i provvedimenti adottati sulla base della previgente normativa”. Lamenta l’appellante che l’autorizzazione rilasciata a Puntosalute S.r.l. (poi volturata a Punto Salute S.r.l.) non avrebbe in alcun modo tenuto conto né del “fabbisogno complessivo regionale”, né tanto meno della “localizzazione territoriale delle strutture presenti in ambito regionale”. Tale previa verifica, che l’art. 48, co. 2 della L.R. FVG 17/2014 indica quale condizione per la realizzazione, e quindi per l’apertura, di una struttura sanitaria privata (autorizzazione che secondo l’art. 8-ter del d.lgs. 502/1992 è di competenza comunale, previa acquisizione da parte della Regione del relativo parere) non sarebbe stata mai compiuta. 11.2 - Le controparti hanno replicato che la delibera della G.R. n. 3586 del 30 dicembre 2004 prevedeva tale verifica solo per le strutture sanitarie di alta complessità: nel caso di specie, invece, si sarebbe trattato di una struttura di media complessità per la quale tale parere non sarebbe stato richiesto. 11.3 - L’appellante ha però sostenuto che al momento dell’adozione dell’autorizzazione la delibera G.R. n. 3586/2004 non sarebbe stata più in vigore, essendo stata superata dalla disciplina recata dall’art. 48, comma 2, della L.R. n. 17/2014 che non distingueva tra strutture di media e di alta complessità, con la conseguenza che anche per la struttura della controinteressata sarebbe stata necessaria la valutazione relativa al fabbisogno e alla localizzazione territoriale. 11.4 - La doglianza è infondata. È opportuno sottolineare fin d’ora che la L.R. 17/2014 è stata abrogata dalla L.R. n. 22/2019; l’art. 63, comma 7 di tale legge prevede che: “Fermo restando quanto previsto al comma 6, nelle more dell'adozione del regolamento, trovano applicazione i requisiti e le procedure stabiliti con i provvedimenti adottati sulla base della previgente normativa”. A sua volta il comma 6 ivi richiamato dispone che: “Con regolamento, da adottarsi entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono stabiliti: a) i requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi specifici per le diverse tipologie di strutture sanitarie e sociosanitarie; b) la procedura per il rilascio delle autorizzazioni alla realizzazione delle strutture sanitarie e sociosanitarie e all'esercizio delle relative attività”. Da tali norme si evince che fino all’adozione del regolamento di cui al comma 6, trovano applicazione “i requisiti e le procedure stabiliti con i provvedimenti adottati sulla base della previgente normativa”: in pratica, continua ad applicarsi la disciplina pregressa e, quindi, trova applicazione la DGR n. 3586/2004, che impone la verifica relativa al fabbisogno e alla localizzazione delle strutture sanitarie solo con riferimento a quelle di alta complessità. Pertanto, in base all’attuale normativa, per la struttura della controinteressata non è richiesta alcuna verifica di conformità a tali parametri. 11.5 - L’appellante però sostiene che in base al principio del tempus regit actum, l’autorizzazione sarebbe illegittima, in quanto emessa nel periodo di vigenza della L.R. 17/2014 che avrebbe invece stabilito tale obbligo. Secondo l’appellante, infatti, la disposizione del comma 3 dell’art. 48 della L.R. n. 17/2014, facendo salvo quanto previsto al comma 2 della stessa disposizione, con tale inciso avrebbe fatto salva la valutazione relativa al fabbisogno e alla localizzazione, con la conseguenza che nell’arco di tempo che intercorre tra l’entrata in vigore della L.R. 17/2014 e la sua abrogazione, intervenuta con la L.R. n. 22/2019 (nel quale ricade il provvedimento impugnato), l’autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio avrebbe dovuto essere preceduta dalla valutazione relativa al fabbisogno e alla localizzazione. 11.6 - Tale prospettazione non può essere condivisa essendo persuasiva l’interpretazione delle norme rappresentata dalle appellate. L’art. 48, comma 1, cit. demandava a un regolamento regionale (da adottarsi entro 12 mesi dall’entrata in vigore della legge) la disciplina: a) dei requisiti, i criteri e le evidenze minimi strutturali, tecnologici e organizzativi per la realizzazione di strutture sanitarie e sociosanitarie e per l'esercizio di attività sanitarie e sociosanitarie specifici per le diverse tipologie di struttura; b) della procedura per il rilascio delle autorizzazioni alla realizzazione delle strutture e all'esercizio dell'attività. Quando, al comma 3, lo stesso art. 48 della L.R. n. 17/2014 stabilisce che “Fermo restando quanto stabilito al comma 2, nelle more dell'adozione del regolamento di cui al comma 1, trovano applicazione i requisiti e le procedure, in quanto compatibili, stabiliti con i provvedimenti adottati sulla base della previgente normativa”, il legislatore regionale ha inteso semplicemente ribadire che il nuovo regolamento deve disciplinare requisiti e procedura per le autorizzazione attenendosi a quanto previsto al comma 2. Ciò trova conferma dalla stessa lettura del comma 2 laddove prevede che: “L'autorizzazione per l'esercizio delle attività delle strutture sanitarie private e quella delle strutture pubbliche sono rilasciate, rispettivamente, dalle Aziende per l'assistenza sanitaria e dalla Regione, Direzione centrale competente in materia, sulla base dei requisiti e delle procedure stabiliti con il regolamento di cui al comma 1”. L’operatività del comma 2 è subordinata, quindi, all’adozione del regolamento di cui al comma 1, a cui il comma 2 rinvia, prevedendo che la Regione nell’adottarlo deve attenersi alle previsioni del comma 2, adottando una procedura che contempli i pareri ivi indicati. La medesima formula è utilizzata in relazione all’accreditamento. 11.7 - Ne consegue che anche durante la vigenza della L.R. n. 17/2014 continuava ad applicarsi la previgente disciplina e, dunque, la DGR 3586/2004, così come previsto dall’art. 63 della L.R. n. 22/2019. Ciò comporta l’infondatezza del primo motivo di ricorso di primo grado, riproposto in appello. 12. - Tali statuizioni comportano il rigetto anche del secondo mezzo, non essendovi alcun obbligo di motivazione in capo all’Amministrazione che si è limitata a dare applicazione alla delibera della Giunta Regionale sopra citata richiamata nelle premesse del provvedimento. 13. - Va respinto anche il terzo motivo di ricorso, riproposto in appello, con il quale l’appellante ha sostenuto che la società Puntosalute S.r.l., alla quale è stata rilasciata l’autorizzazione all’esercizio, atto poi volturato alla Punto Salute S.r.l., non avrebbe avuto i requisiti per l’apertura della struttura, avendo un capitale sociale di soli 1000 euro incompatibile con lo svolgimento dell’attività in ambito sanitario. 13.1 - La doglianza è infondata. La disciplina giuridica applicabile alla fattispecie non contempla tra i requisiti necessari per il rilascio dell’autorizzazione la titolarità di una soglia minima di capitale sociale superiore a quello minimo consentito dalla legge; ad ogni buon conto, l’autorizzazione è stata volturata alla società Punto Salute S.r.l. che è dotata di un capitale sociale elevato, come riconosciuto dalla stessa società appellante. 14. - Le doglianze proposte con i motivi aggiunti riproducono le medesime censure già sollevate con il ricorso di primo grado, riproposte in appello: per i medesimi motivi vanno quindi respinte. 15. - In conclusione, per i suesposti motivi, l’appello va accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, vanno dichiarati ammissibili il ricorso di primo grado ed il primo e terzo ricorso per motivi aggiunti; le censure del ricorso di primo grado e dei motivi aggiunti sopra indicati, riproposte in appello, vanno respinte perché infondate. 16. - Tenuto conto della novità e complessità della questione esaminata, sussistono i presupposti per disporre la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, dichiara ammissibile il ricorso di primo grado ed i primi e terzi motivi aggiunti; pronunciando sui motivi del ricorso di primo grado e dei primi e terzi motivi aggiunti, riproposti in appello, li respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 giugno 2021 con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere, Estensore Solveig Cogliani, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere Franco Frattini, Presidente Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere, Estensore Solveig Cogliani, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Legittimazione attiva – Sanità - Operatore privato titolare di struttura sanitaria - Autorizzazione rilasciata a terzi – Impugnazione – E’ legittimato.               L’operatore privato titolare di struttura sanitaria è legittimato ad impugnare un’autorizzazione rilasciata a terzi, riferita allo stesso ambito territoriale, temporaneamente successiva alla propria (1).     (1) Ha chiarito la Sezione che l'autorizzazione per lo svolgimento di attività sanitaria privata segue un regime differenziato rispetto all'attività in accreditamento, e, tuttavia, per ragioni attinenti non solo alla tutela della salute, quale irrinunciabile interesse della collettività (art. 32 Cost.), ma anche alla tutela della concorrenza, l'autorizzazione per la realizzazione delle strutture sanitarie e sociosanitarie, ai sensi dell'art. 8-ter, comma 3, d.lgs. n. 502 del 1992, deve necessariamente restare inserita nell'ambito della programmazione regionale, in quanto la verifica di compatibilità, effettuata dalla Regione, ha proprio il fine di accertare l'armonico inserimento della struttura in un contesto di offerta sanitaria rispondente al fabbisogno complessivo e alla localizzazione territoriale delle strutture presenti in ambito regionale, anche al fine di garantire meglio l'accessibilità ai servizî e di valorizzare le aree di insediamento prioritario delle nuove strutture (Cons. Stato, sez. III, 10 febbraio 2021, n. 1249).  La programmazione riguarda, quindi, gli standard di qualità delle strutture che intendono operare in ambito sanitario a garanzia della qualità del servizio salute fornito ai pazienti, la determinazione del fabbisogno complessivo delle strutture in ambito territoriale, tenendo conto del bacino di utenza, e la loro collocazione in ambito territoriale, in modo da garantire la capillarità e l’adeguatezza del servizio rispetto all’utenza, ma nel contempo anche la remuneratività per gli operatori che operano nel settore, che garantisce la qualità del servizio reso alla collettività.  Il potere di programmazione compete alla Regione, che è chiamata a valutare la compatibilità circa il fabbisogno e la localizzazione territoriale della struttura sanitaria, nell’ambito del procedimento diretto al rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione e della successiva autorizzazione all’esercizio della struttura sanitaria.  L’art. 27, comma 2, d.l. n. 90 del 24 giugno 2014, che aveva espressamente abrogato l’art. 8 ter, d.lgs. n. 502 del 1992, è stato soppresso con la legge di conversione n. 114 del 2014, con il conseguente ripristino del quadro normativo originario, a dimostrazione della persistente volontà del legislatore di sottoporre a regolamentazione l’attività sanitaria privata (Cons. Stato, sez. III, 11 ottobre 2016, n. 4190).  In materia sanitaria la pianificazione si rinviene anche in altri settori, come quello delle farmacie, in cui l’apertura delle sede farmaceutiche e la loro localizzazione è regolamentata in modo da garantire la capillare distribuzione sul territorio degli esercizi farmaceutici; il contingentamento delle farmacie, derivante dalla pianta organica, ed il criterio della distanza per l’apertura dei singoli esercizi farmaceutici nell’ambito delle zone di pertinenza, risponde all’esigenza che sia assicurato il servizio pubblico farmaceutico in modo da garantire, al contempo, la capillarità del servizio farmaceutico e la remuneratività dell’attività economica svolta dal farmacista, che è un soggetto privato che garantisce un servizio pubblico, ma che trae il proprio reddito dallo svolgimento di tale attività economica.  Un sistema della programmazione si rinviene, ad esempio, per il rilascio delle autorizzazioni per l’installazione di apparecchiature diagnostiche quali le RMN ad alta potenza: anche in quel caso il legislatore, con il d.P.R. 8 agosto 1994 n. 542 all’art. 5, comma 2, ha previsto che “L'autorizzazione è data previa verifica della compatibilità dell'installazione rispetto alla programmazione sanitaria regionale o delle province autonome”.  Il corretto rapporto tra gli impianti ed il fabbisogno per la popolazione garantisce la qualità delle prestazioni: l’eccessiva proliferazione degli impianti rispetto al fabbisogno non consente il loro uso a pieno regime e, quindi, l’acquisizione di una remunerazione adeguata per la struttura sanitaria derivante dal numero di esami eseguiti, si riverbera sulla stessa qualità del servizio, tenuto conto che le insufficienti entrate non consentono il necessario rinnovamento e sostituzione dei macchinari per garantire alti standard delle prestazioni diagnostiche.  Gli operatori privati che erogano prestazioni in materia sanitaria, forniscono servizi agli utenti dietro remunerazione; a tutela dell’interesse pubblico la loro attività deve essere conformata rispetto di parametri di professionalità e sicurezza previsti dell’Amministrazione, ma deve essere comunque assicurato a tali operatori un margine di profitto.  Come già evidenziato dalla Sezione, il legislatore ha ritenuto che “il vincolo della programmazione sia il mezzo più idoneo, da un lato, a garantire la equa distribuzione sul territorio di varie tipologie di centri di cura e, dall’altro, ad evitare il fenomeno deteriore di un’offerta di prestazioni sanitarie con alta remunerazione, che risulti sovradimensionata rispetto al fabbisogno effettivo della collettività e, quindi, dia luogo anche a processi di eccessiva concorrenza, che potrebbero portare ad una inaccettabile caduta del livello di prestazione sanitaria o, comunque, alla utilizzazione di tecniche non virtuose di orientamento della scelta dell’assistito, parimenti non compatibili con la tutela del diritto alla salute del cittadino” (Cons. Stato, sez. III, 10 settembre 2018, n. 5310; id. 7 marzo 2019, n. 1589; id. 4 settembre 2017, n. 4187; id 11 ottobre 2016, n. 4190). Se al sistema normativo previsto dal legislatore in materia di programmazione sanitaria dell’attività svolta da privati, non è estraneo l’aspetto economico, deve ritenersi che i soggetti già insediati siano legittimati a sindacare se un’autorizzazione rilasciata a terzi, riferita al loro stesso ambito territoriale, temporaneamente successiva alla propria, sia stata rilasciata nell’osservanza del diritto vigente e nel rispetto dei presupposti stabiliti dalla normativa nazionale e regionale con riferimento ai presupposti relativi alla programmazione regionale. 
Processo amministrativo
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Superamento limiti dimensionali non autorizzati
N. 03006/2021 REG.PROV.COLL. N. 09365/2020 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 9365 del 2020, proposto da ANTONIO LABATE, MAURIZIO LABATE, FIAMMETTA CARENA, rappresentati e difesi dagli avvocati Carlo Contaldi La Grotteria, Paolo Pittori, Elisa Scotti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Paolo Pittori in Roma, Lungotevere dei Mellini, n. 24; contro CARLA COLOCERO TENERELLI, rappresentato e difeso dall’avvocato Dario Andreoli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti COMUNE DI SANTA MARINELLA, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio n. 10702 del 2020; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Carla Colocero Tenerelli; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 8 aprile 2021 il Cons. Dario Simeoli e uditi per le parti gli avvocati Paolo Pittori e Dario Andreoli in collegamento da remoto, ai sensi degli artt. 4, comma 1 del decreto-legge n. 28 del 30 aprile 2020 e 25 del decreto-legge n. 137 del 28 ottobre 2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto della circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa; Rilevato che: - ai sensi dell’art. 13-ter, delle norme di attuazione del c.p.a. (introdotto dalla legge di conversione del decreto-legge 31 agosto 2016, n. 168), «le parti sono tenute a redigere il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del presidente del Consiglio di Stato», precisando altresì che «il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti» e che l’«omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione»; - il decreto del Presidente del Consiglio dello Stato 22 dicembre 2016, n. 167, fissa, con riguardo al rito del silenzio, in 30.000 caratteri (corrispondenti a circa 15 pagine nel formato di cui all’articolo 8 dello stesso decreto) i limiti dimensionali del ricorso e degli altri atti difensivi; - nel caso di specie, tali limiti risultano ampiamente superati, e segnatamente: il ricorso in appello conta 37 pagine; la memoria difensiva di controparte conta 32 pagine; la memoria finale dell’appellata conta 31 pagine; la memoria di replica dell’appellante conta 21 pagine; - va rimarcato che la controversia ‒ avente ad oggetto l’illegittimità del silenzio inadempimento mantenuto dall’Amministrazione comunale sulla denuncia di abusività di alcuni lavori di ampliamento e sopraelevazione ‒ non presenta questioni tecniche particolarmente complesse, né attiene a fondamentali interessi economici e sociali, circostanze queste ultime che avrebbero giustificato il superamento dei predetti limiti; Considerato che: - ciascuna Sezione del Consiglio di Stato ‒ non contemplando il nostro ordinamento processuale alcun meccanismo di filtro (a differenza della stragrande maggioranza delle Supreme Corti europee) ‒ ogni settimana deve scrutinare nel merito un numero elevatissimo di cause (nell’ordine delle centinaia), ciascuna delle quali (salvo che gli avvocati non compaiano o vi rinuncino) è ammessa alla discussione orale; - in questo contesto, la redazione di scritti chiari e sintetici, in grado cioè di selezionare in modo competente le sole questioni (di fatto e di diritto) rilevanti al fine del decidere, è dirimente per l’assunzione di decisioni approfondite e consapevoli; - la brevità dell’atto processuale (in termini di caratteri, pagine e battute) è appunto lo strumento attraverso il quale il legislatore ha inteso vincolare le parti a quello sforzo di “sintesi” giuridica della materia controversa, sul presupposto che l’intellegibilità dell’atto (e quindi la giustizia della decisione) è grandemente ostacolata da esposizioni confuse e causidiche; - in assenza (e aspettando) l’introduzione di meccanismi deflattivi, al fine di amministrare nel migliore modo possibile una imponente mole di contenzioso, il servizio giustizia, in quanto “risorsa scarsa”, ha bisogno della collaborazione dell’intero ceto giuridico; Ritenuto che: - mentre l’iniziale impostazione legislativa faceva leva unicamente sulla condanna alle spese di lite (art. 26 del c.p.a.), il citato art. 13-ter, in modo estremamente innovativo sul piano sistematico, sanziona in termini (non di nullità, bensì) di “inutilizzabilità” le difese sovrabbondanti, in quanto il giudice è autorizzato a presumere che la violazione dei limiti dimensionali (ove ingiustificata) sia tale da compromettere l’esame tempestivo e l’intellegibilità della domanda; - in questi termini va interpretata la disposizione che ha introdotto una deroga rispetto all’obbligo generalmente esistente in campo al giudice di pronunciare su tutta la domanda (il mancato esame delle difese sovrabbondanti non è infatti censurabile come vizio di infra-petizione); - in definitiva, la sinteticità non è più un mero canone orientativo della condotta delle parti, bensì è oramai una regola del processo amministrativo (che coinvolge peraltro anche il giudice: art. 3 del c.p.a.), strettamente funzionale alla realizzazione del giusto processo, sotto il profilo della sua ragionevole durata (art. 111 della Costituzione); - sennonché, nel caso di specie, al fine di non “sorprendere” le parti in una fase caratterizzata dall’assenza di una applicazione sistematica da parte della giurisprudenza delle suddette conseguenze delle condotte difformi (salvo alcuni sporadici ma significativi precedenti: cfr. Sez. IV, 7 novembre 2016, n. 4636.; Sez. V, 12 giugno 2017, n. 2852), appare al Collegio più opportuno, nel rispetto del principio di leale collaborazione (art. 2, comma 2, del c.p.a.), invitare le parti a riformulare le difese nei predetti limiti dimensionali, con il divieto di introdurre fatti, motivi ed eccezioni nuovi rispetto a quelli già dedotti; P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), rinvia all’udienza del 10 giugno 2021, onerando le parti al deposito di cui in motivazione sino a 15 giorni prima. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 aprile 2021 con l’intervento dei magistrati: Sergio De Felice, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Oreste Mario Caputo, Consigliere Dario Simeoli, Consigliere, Estensore Davide Ponte, Consigliere Sergio De Felice, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Oreste Mario Caputo, Consigliere Dario Simeoli, Consigliere, Estensore Davide Ponte, Consigliere IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Principio di sinteticità – Violazione limiti dimensionali – Conseguenza.       ​​​​​​​       Nel caso di superamento dei limiti dimensionali non autorizzati, l’art. 13-ter delle norme di attuazione del c.p.a. (introdotto dalla legge di conversione del d.l. 31 agosto 2016, n. 168), sanziona in termini (non di nullità, bensì) di “inutilizzabilità” le difese sovrabbondanti, in quanto il giudice è autorizzato a presumere che la violazione dei limiti dimensionali (ove ingiustificata) sia tale da compromettere l’esame tempestivo e l’intellegibilità della domanda; peraltro, al fine di non “sorprendere” le parti in una fase caratterizzata dall’assenza di una applicazione sistematica da parte della giurisprudenza delle suddette conseguenze delle condotte difformi, è opportuno, nel rispetto del principio di leale collaborazione ex art. 2, comma 2, c.p.a., invitare le parti a riformulare le difese nei limiti dimensionali previsti, con il divieto di introdurre fatti, motivi ed eccezioni nuovi rispetto a quelli già dedotti (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che la brevità dell’atto processuale (in termini di caratteri, pagine e battute) è appunto lo strumento attraverso il quale il legislatore ha inteso vincolare le parti a quello sforzo di “sintesi” giuridica della materia controversa, sul presupposto che l’intellegibilità dell’atto (e quindi la giustizia della decisione) è grandemente ostacolata da esposizioni confuse e causidiche.  In assenza (e aspettando) l’introduzione di meccanismi deflattivi, al fine di amministrare nel migliore modo possibile una imponente mole di contenzioso, il servizio giustizia, in quanto “risorsa scarsa”, ha bisogno della collaborazione dell’intero ceto giuridico.  Mentre l’iniziale impostazione legislativa faceva leva unicamente sulla condanna alle spese di lite (art. 26.p.a.), l’art. 13-ter delle norme di attuazione del c.p.a., in modo estremamente innovativo sul piano sistematico, sanziona in termini (non di nullità, bensì) di “inutilizzabilità” le difese sovrabbondanti, in quanto il giudice è autorizzato a presumere che la violazione dei limiti dimensionali (ove ingiustificata) sia tale da compromettere l’esame tempestivo e l’intellegibilità della domanda; in questi termini va interpretata la disposizione che ha introdotto una deroga rispetto all’obbligo generalmente esistente in campo al giudice di pronunciare su tutta la domanda (il mancato esame delle difese sovrabbondanti non è infatti censurabile come vizio di infra-petizione); in definitiva, la sinteticità non è più un mero canone orientativo della condotta delle parti, bensì è oramai una regola del processo amministrativo (che coinvolge peraltro anche il giudice: art. 3 c.p.a.), strettamente funzionale alla realizzazione del giusto processo, sotto il profilo della sua ragionevole durata (art. 111 Cost.). 
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/servizi-di-riscossione-e-accertamento-tributi-degli-enti-locali-il-maneggio-del-pubblico-denaro-e-la-distinzione-tra-affidamento-in-concessione-e-appa
Servizi di riscossione e accertamento tributi degli enti locali: il maneggio del pubblico denaro e la distinzione tra affidamento in concessione e appalto dei servizi di mero supporto alla gestione Tar
N. 01693/2020 REG.PROV.COLL. N. 00127/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 127 del 2020, integrato da motivi aggiunti, proposto da A.E G. Riscossioni S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Paolo Borioni, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Luigi Ceci n.21; contro Comune di Melito di Napoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Raffaello Capunzo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Centrale di Committenza (C.D.C.) Tra i Comune di Melito di Napoli, Mugnano di Napoli, Villaricca e Monte di Procida non costituito in giudizio; nei confronti Gamma Tributi S.r.l. non costituito in giudizio; Municipia S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Raffaele Ferola, Stefano Vinti, Angelo Buongiorno, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l'annullamento Per quanto riguarda il ricorso introduttivo: - del Verbale di gara n 2 del 13 dicembre 2019 – comunicato il 17 dicembre 2019 - , relativo alla procedura aperta indetta dalla Centrale di Committenza resistente avente ad oggetto l' “appalto del servizio di supporto alla riscossione ordinaria dell’IMU, della TARI e della TASI, di ricerca dell’evasione erariale, di accertamento, verifica e riscossione coattiva di IMU, TIA, TARES, TARI, TASI e del servizio di accertamento e riscossione volontaria e coattiva delle entrate minori (affissioni pubblicità TOSAP) - CIG: 7834339D0D”, nella parte in cui il Rup e la Commissione di gara e Giudicatrice ha disposto l’esclusione la ricorrente dalla gara per l’assenza del requisito di iscrizione all’ “Albo dei soggetti privati abilitati ad effettuare attività di liquidazione e di accertamento dei tributi e quelle di riscossione dei tributi e di altre entrate delle province e dei comuni” di cui all’art. 53, comma 1, D.Lgs, 15 dicembre 1997, n. 446 e ha ritenuto di dover procedere alla segnalazione al Casellario informatico dell’ANAC per dichiarazione non veritiera; - della Determinazione Dirigenziale n. 585 del 16 dicembre 2019 - comunicata in data 17 dicembre 2019 - adottata dal Comune di Melito di Napoli, con la quale è stato approvato il verbale di gara n. 2 del 13 dicembre 2019, disposta la definitiva esclusione della AeG Riscossioni s.r.l. e comunicato il Verbale di gara n 2 del 13 dicembre 2019; - ove occorrer possa, del bando/disciplinare di gara ove possa essere interpretato in senso ostativo all’accoglimento del presente ricorso nella parte in cui, al § VI.2, lett. A.2, prevede, trai requisiti di partecipazione alla gara, “A.2) Iscrizione all’albo dei soggetti privati abilitati ad effettuare attività di liquidazione e di accertamento dei tributi e quelle di riscossione dei tributi e di altre entrate delle province e dei comuni (art. 53 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 e s.m.i.)”; - ove occorrer possa, del Capitolato Speciale d’oneri ove possa essere interpretato in senso ostativo all’accoglimento del presente ricorso nella parte in cui, all’art. 5.1.2, prevede, trai requisiti di partecipazione alla gara, “Iscrizione all’albo dei soggetti privati abilitati ad effettuare attività di liquidazione e di accertamento dei tributi e quelle di riscossione dei tributi e di altre entrate delle province e dei comuni (art. 53 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 e s.m.i.)”; - ove occorre possa, di tutti gli atti della procedura di gara n 7273312 (Bando/disciplinare, CSA, tutti gli atti di gara) indetta dalla Centrale di Committenza resistente avente ad oggetto l' “appalto del servizio di supporto alla riscossione ordinaria dell’IMU, della TARI e della TASI, di ricerca dell’evasione erariale, di accertamento, verifica e riscossione coattiva di IMU, TIA, TARES, TARI, TASI e del servizio di accertamento e riscossione volontaria e coattiva delle entrate minori (affissioni pubblicità TOSAP) - CIG: 7834339D0D” nonché della Determinazione a contrarre n. 788 del 03/12/2018 il Responsabile p.t. del I Settore con la quale sono stati approvati gli elaborati tecnici per l’affidamento dell’appalto di servizi in oggetto ed indetta la relativa gara; - della segnalazione su Modello B fatta dalla S.A. all’ANAC della disposta esclusione ai fini dell’avvio del procedimento sanzionatorio e di segnalazione al Casellario informatico dell’ANAC per dichiarazione non veritiera comunicata alla ricorrente con nota del 27 dicembre 2019; - di tutti gli atti presupposti, connessi e/o consequenziali ancorché non noti al ricorrente, ed in particolare, tra questi, ove medio tempore intervenuto, del provvedimento di aggiudicazione provvisoria e/o definitiva nonché del relativo contratto, ove stipulato; Per quanto riguarda i motivi aggiunti, presentati da A.E G. RISCOSSIONI S.P.A. il 21\1\2020 : - della Determinazione Dirigenziale n 6 del 3 gennaio 2020 e dei relativi Verbali di gara allegati – comunicata il 17 gennaio 2020 – con la quale il Comune di Melito di Napoli ha approvato i verbali di gara della Commissione di gara n. 1 del 11/9/2019, n. 2, n. 3 e n. 4 del 13/12/2019 e n. 5 del 23/12/2019 ed ha aggiudicato alla ditta “RTI Costituendo Municipia SPA (capogruppo) con sede a Trento via A.Olivetti n.7 P.IVA: 01973900838 e Gamma Tributi srl (mandante) con sede in Battipaglia (SA) P.IVA: 02842830651 per l’importo di € 1.511.092,16 oltre Iva al 22% l' “appalto del servizio di supporto alla riscossione ordinaria dell’IMU, della TARI e della TASI, di ricerca dell’evasione erariale, di accertamento, verifica e riscossione coattiva di IMU, TIA, TARES, TARI, TASI e del servizio di accertamento e riscossione volontaria e coattiva delle entrate minori (affissioni pubblicità TOSAP) - CIG: 7834339D0D” ; - dei Verbali della Commissione di gara n. 1 del 11/9/2019, n. 2, n. 3 e n. 4 del 13/12/2019 e n. 5 del 23/12/2019 relativi alla predetta procedura allegati alla Determinazione – e delle valutazioni tutte in esse contenute - ed in particolare il Verbale n. 5 del 23/12/2019 “con il quale la Commissione di gara propone di aggiudicare il servizio di “Supporto alla riscossione ordinaria dell’Imu-della Tari e della Tasi e del servizio di accertamento e riscossione volontaria e coattiva alla ditta “RTI Costituendo Municipia SPA/Gamma Tributi srl che ha conseguito il punteggio più alto pari a 92.64 punti, non anomala e che ha offerto un ribasso percentuale pari al 11,13% dell’importo posto a base di gara quantificato in € 1.511.092,16 oltre Iva al 22%”; - della nota pec del 17 gennaio 2020, con la quale il Comune di Melito di Napoli ha comunicato, ai sensi dell’art 76, comma 5, lett a), D.Lgs. n 50/2016, che “con determina n 6 del 3 gennaio 2020, l’appalto è stato aggiudicato alla costituenda RTI Municipia S.p.A. Gamma Tributi S.r.l.”, Determina che con detta comunicazione era estesa alla ricorrente; - di tutti gli atti presupposti, connessi e/o consequenziali ancorché non noti al ricorrente, ed in particolare, tra questi, ove medio tempore intervenuto, del provvedimento di aggiudicazione provvisoria e/o definitiva nonché del relativo contratto, ove stipulato; PER LA DECLARATORIA del diritto della ricorrente ad essere ammessa alle successive fasi di gara nonché di subentro nell’aggiudicazione nelle more eventualmente intervenuta e nell’esecuzione del servizio nonché di inefficacia del contratto di affidamento, se stipulato nelle more, e per l’adozione dei provvedimenti di cui agli artt. 121, 122 e 123 c.p.a. PER LA CONDANNA al risarcimento dei danni ingiusti patiti dalla ricorrente. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di Melito di Napoli e di Municipia S.p.A.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 aprile 2020 la dott.ssa Maria Laura Maddalena e trattenuta la causa in decisione ai sensi dell’art. 84, comma 5, c.p.a. del d.l. n. 18/2020; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con il ricorso in epigrafe, ritualmente notificato in data 14 gennaio 2020, parte ricorrente impugna il provvedimento di esclusione, disposto nei suoi confronti, dalla gara avente ad oggetto l' “appalto del servizio di supporto alla riscossione ordinaria dell’IMU, della TARI e della TASI, di ricerca dell’evasione erariale, di accertamento, verifica e riscossione coattiva di IMU, TIA, TARES, TARI, TASI e del servizio di accertamento e riscossione volontaria e coattiva delle entrate minori (affissioni pubblicità TOSAP) - CIG: 7834339D0D”. L’impugnata esclusione è stata disposta per l’assenza, in capo alla ricorrente, del requisito di iscrizione all’“Albo dei soggetti privati abilitati ad effettuare attività di liquidazione e di accertamento dei tributi e quelle di riscossione dei tributi e di altre entrate delle province e dei comuni”, di cui all’art. 53, comma 1, D.Lgs, 15 dicembre 1997, n. 446. La stazione appaltante ha quindi ritenuto di dover procedere alla segnalazione al Casellario informatico dell’ANAC per dichiarazione non veritiera. 2. Espone, in punto di fatto, parte ricorrente che con Determinazione a contrarre n. 788 del 3 dicembre 2018, il Responsabile del I Settore del Comune di Melito di Napoli (NA) approvava gli elaborati tecnici e indiceva la suddetta gara, mediante procedura aperta, ai sensi dell’art. 60 del D. Lgs n.50/2016, con applicazione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. 2.1. Il paragrafo VI.2) del bando/disciplinare, nel prevedere i requisiti soggettivi di partecipazione, prevedeva, oltre alla iscrizione al registro delle imprese della C.C.I.A.A. (lett. A.1), anche il possesso dell’ “Iscrizione all’Albo dei soggetti privati abilitati ad effettuare attività di liquidazione e di accertamento dei tributi e quelle di riscossione dei tributi e di altre entrate delle province e dei comuni (art. 53 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 e s.m.i.)” (lett. A.2). Analoga previsione era contenuta nell’art 5.1.2, del Capitolato Speciale d’Oneri. 2.2. La A. e G. RISCOSSIONI S.p.A. - società conferitaria giusto atto pubblico del 11 dicembre 2018, Rep. 81525 dell’intero complesso aziendale della società A. e G. S.r.l., già iscritta all’Albo di cui all’art. 53 del D.Lgs. 446/97 sub n 93 di iscrizione -, in data 26 aprile 2019, partecipava alla gara e dichiarava: “l’iscrizione al n. 93 dell’Albo dei soggetti privati abilitati ad effettuare attività di liquidazione, di accertamento dei tributi e quelle di riscossione dei tributi e delle altre entrate delle Province e dei Comuni istituito presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze ai sensi dell’art. 53 del D. Lgs. 15/12/1997 n°446 e relativo Regolamento approvato con D.M. 11/09/2000, n.289, ed ha capitale sociale interamente versato pari ad € 10.000.0000,00…”. 2.3. Essa rendeva, inoltre, dichiarazione aggiuntiva che “la società A.EG. Riscossioni S.r.l. è subentrata nella titolarità del complesso aziendale già di proprietà della società “A.EG. S.r.l.”. Secondo la prospettazione di parte ricorrente, in conseguenza del suddetto conferimento, essa avrebbe ricevuto, con il complesso aziendale, tutte le dotazioni materiali, immateriali e di risorse umane, nonché i requisiti di idoneità professionale, capacità economica e finanziaria e di capacità tecnica già in capo alla società conferente, senza alcuna modificazione soggettiva ed oggettiva, poiché la società conferitaria aveva anche il medesimo organo amministrativo della società conferente. 3. In occasione della seduta del 13 dicembre 2019, come da Verbale di gara n 2, la Commissione di gara disponeva l’esclusione della A. e G. RISCOSSIONI S.p.A. in quanto, effettuate le verifiche sulla iscrizione all’Albo dei concorrenti, era apparso che “al n 93 risulta iscritta la società AeG S.r.l. e non la società AeG Riscossioni con partita Iva differente e la società risulta addirittura cancellata come fatto rilevare in sede di gara”. La S.A. adottava quindi la Determinazione Dirigenziale n. 585 del 16 dicembre 2019, in questa sede impugnata con il ricorso originario. 4. La ricorrente riferisce anche che già un anno prima, in data 18 dicembre 2018, aveva presentato istanza di iscrizione all’Albo, costituito presso il MEF, ai sensi dell’art. 53, comma 1, D.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, al fine di recuperare l’iscrizione a suddetto Albo già posseduta dalla conferente AeG S.r.l., iscritta al numero 93. Il MEF chiedeva che, ai fini del recupero della iscrizione all’Albo, la AeG presentasse a sua volta una domanda di cancellazione dall’Albo, proprio perché l’azienda era conferita nella AeG RISCOSSIONI. 4.1. Pertanto, la A.eG. S.r.l., in data 16 gennaio 2019, presentava richiesta di cancellazione “volontaria” dal predetto Albo, al fine di consentire il recupero dell’iscrizione e dunque la iscrizione all’Albo della conferitaria A.eG. RISCOSSIONI, precisando che l’istanza di cancellazione era condizionata alla contestuale iscrizione della nuova società, frutto dell’operazione di conferimento. 4.2. Nella seduta del 26 giugno 2019, la Commissione dell’Albo negava l’iscrizione della società AeG Riscossioni e al contempo accoglieva la istanza volontaria di cancellazione dall’Albo della AeG S.r.l. 4.3. La AeG Riscossioni e la AeG impugnavano avanti il TAR Lazio i suddetti atti. In sede cautelare, l’istanza veniva in primo grado respinta e in appello accolta ai fini di una sollecita fissazione del merito. La causa non risulta ancora fissata per il merito. 5. Tanto premesso, parte ricorrente deduce, nell’atto di ricorso, le seguenti doglianze: 1. VIOLAZIONE ED ERRATA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 52 E 53 DEL D. LGS. N. 446 DEL 1997 CON RIGUARDO ALLA VIOLAZIONE DEI PRINCIPI DI LIBERA CONCORRENZA. ECCESSO E SVIAMENTO DI POTERE. ILLEGITTIMITA’ DELLA LEX SPECIALIS PER SPROPORZIONE ED IRRAGIONEVOLEZZA. NULLITA’ DELLA LEX SPECIALIS PER VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI TASSATIVITA’ DELLE CAUSE DI ESCLUSIONE E VIOLAZIONE DELL’ART 83, COMMA 8, D.LGS. N 50/2016. VIOLAZIONE DELL’ART 180 DEL D.LGS. N. 267/2000. TRAVISAMENTO DEI FATTI, ERRATA MOTIVAZIONE E DIFETTO DI ISTRUTTORIA. VIOLAZIONE DELL’ART 3 DELLA LEGGE N 241/1990. 5.1. La clausola in base alla quale è stata disposta l’esclusione impugnata sarebbe nulla per violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione, in quanto la pretesa della lex specialis della iscrizione all’Albo di cui all’art. 53 citato costituirebbe una violazione dei principi di libera concorrenza, essendo sproporzionata, irragionevole e discriminatoria rispetto all’oggetto dell’attività posta in gara. Sul punto il Consiglio di Stato ha chiarito che, mancando l’attribuzione del maneggio del denaro pubblico, il requisito in questione non solo non sarebbe necessario, ma la sua eventuale previsione da parte del bando, risulterebbe illegittima, perché irragionevole e sproporzionata (sentenza del 31/01/2017, n. 380 v. inoltre T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 10/05/2016, n. 5470). In termini analoghi si è espressa anche l'ANAC. . 5.2. L’oggetto dell’appalto indetto dal Comune di Melito sarebbe un’attività di supporto alla gestione, accertamento e riscossione delle entrate tributarie e, comunque, un rapporto di appalto di servizi e non un affidamento di concessione, dovendosi ribadire che la giurisprudenza sopra citata ha chiarito che, in caso di appalto di servizi di supporto e/o in generale di rapporto non costituente una concessione, la S.A. non possa imporre ai concorrenti il requisito della iscrizione all’Albo di cui al D.lgs. n 446/97 (prescrivibile solo in caso di concessione). A riprova di ciò, la ricorrente sottolinea che dal Capitolato d’Oneri si evince che non vi è alcuna attribuzione all’aggiudicatario di funzioni che comportino maneggio di denaro pubblico. Il servizio posto a gara richiederebbe all’appaltatore adempimenti meramente prodromici e strumentali rispetto all’attività di riscossione (intesa ai sensi dell’art 180 Tuel quale materiale incasso), che nel caso di specie resta in capo al Comune, a mezzo di conti dedicati intestati direttamente alla stessa Amministrazione. 5.3. La clausola, inoltre, sarebbe illegittima per sproporzione del requisito richiesto e non congruenza dello stesso con l’oggetto del contratto posto a gara, anche alla luce del fatto che il bando/disciplinare prevede anche ulteriori requisiti di “capacità economico finanziaria” e tecnico organizzativa”. 5.4. Sottolinea infine la ricorrente, a proposito della mancata tempestiva impugnazione del bando, che la clausola è da ritenersi nulla e che comunque essa ha potuto ritenere di non essere iscritta solo nel luglio 2019 e, quindi, solo da quel momento la clausola di bando oggi impugnata si sarebbe rivelata concretamente ed attualmente lesiva. 2. VIOLAZIONE ED ERRATA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 52 E 53 DEL D. LGS. N. 446 DEL 1997. VIOLAZIONE DELLA LEX SPECIALIS E DEL D.LGS. N 50/2016 IN TEMA DI SOCCORSO ISTRUTTORIO E DI TASSATIVITA’ DELLE CAUSE DI ESCLUSIONE. VIOLAZIONE DEL “PRINCIPIO DI CONTINUITA’ TRA AVENTE CAUSA E DANTE CAUSA IN IPOTESI DI CONFERIMENTO DI AZIENDA”. ECCESSO E SVIAMENTO DI POTERE. TRAVISAMENTO DEI FATTI. ERRATA MOTIVAZIONE E DIFETTO DI ISTRUTTORIA. VIOLAZIONE DELL’ART 3 DELLA LEGGE N 241/1990. 5.5. Il conferimento di azienda avrebbe comportato il trasferimento dei requisiti per partecipare alle gare di appalto, oltre la titolarità di quelle posizioni soggettive di titolarità di autorizzazioni amministrative e/o iscrizioni. Nelle more della conclusione del procedimento di recupero di una iscrizione ad un Albo (che implica l'iscrizione della nuova impresa e la contestuale cancellazione del precedente soggetto), il soggetto che può intervenire alle gare di appalto è il conferitario destinatario della nuova iscrizione, nonostante la perdurante esistenza di tale iscrizione in capo al soggetto in via di cancellazione. La ricorrente dunque non avrebbe reso alcuna falsa dichiarazione, atteso che quando ha reso la domanda di partecipazione ha reso dichiarazioni fedeli e corrispondenti al vero. Pertanto, il provvedimento di esclusione motivato in punto di falsa dichiarazione sarebbe illegittimo. 5.6. Infine, il provvedimento di esclusione sarebbe illegittimo anche per carenza di istruttoria, carente e mancata motivazione. Infatti, se il Comune avesse correttamente operato l’istruttoria, acquisendo tutti gli elementi necessari alla corretta decisione, avrebbe preso atto delle circostanze sopra descritte con riguardo: alla illegittimità (rectius nullità) della clausola in questione; alla pendenza del procedimento presso il MEF di recupero della iscrizione e all’accoglimento della tutela cautelare, in appello, in relazione al provvedimento di diniego adottato successivamente dal MEF; alla circostanza che la ricorrente era comunque in possesso di tutti gli altri requisiti richiesti dal bando, riferibili alla “Capacità economico finanziaria” e alla “Capacità tecnica professionale”. In sostanza, dunque, l’amministrazione avrebbe violato il principio del soccorso istruttorio. 5.7. La ricorrente chiede a questo giudice anche il risarcimento del danno in forma specifica, mediante riammissione alla gara e/o per equivalente (danno emergente, lucro cessante, danno da perdita di occasioni contrattuali, danno curricolare). 6. Con il ricorso per motivi aggiunti, la ricorrente ha impugnato il provvedimento di aggiudicazione alla controinteressata, Municipia s.p.a. e ha chiesto il subentro nel servizio, deducendo in via derivata le medesime censure di cui al ricorso. Nel ribadire e specificare la richiesta di risarcimento del danno, qualificandolo come danno da perdita di chance e curricolare, ha provveduto a fornire elementi per la sua quantificazione. Il comune si è costituito e ha depositato una memoria chiedendo il rigetto del ricorso perché infondato. All’udienza camerale del 28.1.2020, l’istanza cautelare è stata respinta. 6.1. La controinteressata, aggiudicataria, ha depositato, in data 30.1.2020, una memoria nella quale ha sottolineato che la previsione nel capitolato di un aggio per i soli importi effettivamente incassati (o accertati) comporta che l’attività oggetto di gara non sia di mero supporto – come vorrebbe sostenere parte ricorrente – ma si tratti di un vero e proprio servizio di riscossione e/o accertamento dei tributi e che pertanto la previsione, tra i requisiti speciali, di iscrizione all’Albo di cui art. 53, comma 1, D.Lgs. n. 446/1997, non solo non si rileva illegittima, sproporzionata o irragionevole, ma sia del tutto doverosa e giustificata. Sostiene inoltre la controinteressata che il Bando che il Capitolato nel definire l’oggetto dell’appalto parlano (anche!) di “servizio di supporto alla riscossione” ma non solo. Il paragrafo che descrive l’oggetto dell’appalto recita per intero “Servizio di supporto alla riscossione ordinaria dell’IMU, della TARI e della TASI, di ricerca dell’evasione erariale, di accertamento, verifica e riscossione coattiva di IMU, TIA, TARES, TARI, TASI e del servizio di accertamento e riscossione volontaria e coattiva delle entrate minori”. Oggetto della concessione è quindi un complesso di servizi tra cui figura anche, (ma non solo), quello di supporto all’attività di riscossione. Inoltre, la controinteressata ha sottolineato che la normativa comunitaria, secondo quanto affermato dalla Corte id giustizia, in effetti, si pone in contrasto solamente con l’aver previsto per le società l’obbligo di un capitale minimo per poter essere iscritte all’Albo di cui all’art. 53 del D.Lgs. n. 446/1997 (in quanto la normativa italiana esige già una serie di requisiti di capacità tecnica e finanziaria nel Bando di gara) e non con la richiesta del requisito di iscrizione stessa, come vorrebbe far credere parte ricorrente. Infine, l’attività di accertamento e riscossione può essere affidata sia mediante una concessione che mediante un appalto. (cfr. Comunicato del Presidente ANAC del 22 dicembre 2015). 6.2. Quanto al secondo motivo, secondo la controinteressata, ai fini della legittimità dell’esclusione sarebbe irrilevante la buona fede o meno della ricorrente; ciò che interessa è verificare la presenza in capo agli operatori economici di tutti i requisiti richiesti nel Bando e nel Disciplinare, per tutta la durata della procedura. Del resto, anche a voler ritenere che la società ricorrente fosse in buona fede e abbia appreso di non essere iscritta all’Albo solo con il provvedimento di rigetto del MEF di giiugno 2019, vige il principio di continuità del possesso dei requisiti, per tutta la durata della procedura di gara. 7. Con memoria, depositata in data 3 aprile 2020, parte ricorrente ha insistito ad affermare che, nel caso di specie, al di là del nomen iuris utilizzato a pagina 4 e 5 del CSA, l’oggetto dell’appalto indetto dal Comune di Melito è nella sostanza un contratto di appalto di servizi e non un affidamento di concessione, non essendo ravvisabile quella attribuzione della funzione pubblica tipica della riscossione (come definita dall’art 180 del TUEL) e cioè il maneggio del pubblico danaro, che, nel settore che ci occupa, consente di richieder la iscrizione all’Albo in parola. 7.1. Il comune di Melito ha depositato una memoria di replica in data 14 aprile 2020, eccependo l’inammissibilità del ricorso per mancata impugnazione di causa immediatamente escludente del bando. 7.2. Parte ricorrente ha depositato brevi note ai sensi dell’art. 84, comma 5, d.l. 18/2020, per contestare la tardività della memoria di replica depositata dal comune, senza aver precedentemente depositato alcuna memoria conclusionale, atteso che il deposito avrebbe dovuto essere effettuato entro il 10 aprile 2020, chiedendone lo stralcio. Secondo parte ricorrente, inoltre, la tardiva memoria di replica depositata dal comune non si limita a sviluppare considerazioni di risposta alle deduzioni contenute nella memoria conclusionale della AEG del 3 aprile 2020, ma si è tradotta in una elusione del termine per il deposito delle memorie conclusionali. Anche sotto questo profilo essa dovrebbe essere stralciata. Inoltre, in tal modo il comune avrebbe impedito alla ricorrente di replicare a sua volta in modo compiuto ed esauriente nel rispetto del contraddittorio. Anche della memoria di replica depositata dalla controinteressata il 3 aprile 2020, parte ricorrente eccepisce l’inammissibilità, sottolineando che il contenuto della suddetta memoria avrebbe dovuto trovare posto nella memoria conclusionale, non tempestivamente depositata. La ricorrente ha inoltre controdedotto circa le eccezioni di tardività della impugnazione della clausola escludente, sottolineando di aver chiesto dichiararsi la nullità di detta clausola e sostenendo che comunque essa doveva ritenersi effettivamente lesiva solo con l’adozione del provvedimento applicativo o comunque con la comunicazione da parte del MEF del rigetto della domanda di iscrizione. Nel merito, ha insistito per l’accoglimento del ricorso. 8. La causa, all’odierna udienza, è stata trattenuta in decisione. 8.1. Il ricorso ed i relativi motivi aggiunti sono infondati e pertanto essi devono essere respinti, così come le conseguenti domande risarcitorie. 8.2. La questione oggetto del presente giudizio è, in sintesi, stabilire se l’“appalto del servizio di supporto alla riscossione ordinaria dell’IMU, della TARI e della TASI, di ricerca dell’evasione erariale, di accertamento, verifica e riscossione coattiva di IMU, TIA, TARES, TARI, TASI e del servizio di accertamento e riscossione volontaria e coattiva delle entrate minori (affissioni pubblicità TOSAP)”, bandito dal comune resistente, sia qualificabile come avente ad oggetto una prestazione di servizi di mero supporto alla gestione, accertamento e riscossione delle entrate tributarie e, comunque, un rapporto di appalto di servizi, ovvero configuri anche un affidamento di concessione per lo svolgimento delle funzioni di accertamento e riscossione. Infatti, secondo la prospettazione di parte ricorrente, che richiama sul punto recente giurisprudenza amministrativa, nel caso si trattasse di appalto di servizi di mero supporto, la previsione a pena di esclusione del requisito della iscrizione all’ “Albo dei soggetti privati abilitati ad effettuare attività di liquidazione e di accertamento dei tributi e quelle di riscossione dei tributi e di altre entrate delle province e dei comuni”, di cui all’art. 53, comma 1, D.lgs., 15 dicembre 1997, n. 446, sarebbe da ritenersi una clausola nulla e pertanto l’ esclusione disposta nei suoi confronti sarebbe da ritenersi illegittima. La prospettazione di parte ricorrente, che muove dalla asserita nullità ex art. 83, comma 8, d.lgs. n 50/2016, e l’infondatezza nel merito delle doglienze dedotte, rendono superflua ogni valutazione circa le eccezioni di inammissibilità per tardiva impugnazione del bando, prospettate dalle parti resistente e controinteressata, e circa la loro ritualità, contestata dalla ricorrente nell’ultima memoria. 8.3. Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente pone a fondamento della sua tesi, della natura di mero appalto di servizi di supporto alle attività di accertamento e riscossione, l’assenza in capo all’impresa affidataria dell’appalto del requisito del maneggio di danaro pubblico, in quanto, ai sensi dell’art. 9 del capitolato “Canali di incasso”, “L’impresa affidataria per tutte le attività di accertamento a qualsiasi titolo e di riscossione coattiva dovrà avvalersi di distinti conti correnti intestati al Comune di Melito di Napoli per ogni singolo tributo”. Sostiene sul punto al ricorrente che l’art 180 del D.lgs. n 267/2000, di contro, chiarisce in modo inequivoco che la “riscossione” in senso tecnico “.. consiste nel materiale introito da parte del tesoriere o di altri eventuali incaricati della riscossione delle somme dovute all'ente..”, riscossione che andrebbe esclusa nel caso di specie, atteso che sarà il Comune a ricevere il materiale introito della entrata senza alcun maneggio di denaro pubblico da parte dell’appaltatore. Pertanto, mancando il requisito del maneggio di pubblico denaro, l’attività oggetto della gara dovrebbe qualificarsi come mera attività di supporto alla gestione dei servizi di accertamento e riscossione. 8.4. La tesi di parte ricorrente non può essere condivisa. Occorre premettere che, a differenza di quanto previsto per le entrate statale che hanno come unico concessionario l’Agenzia della riscossione, gli enti locali, ai sensi dell'art. 52 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 hanno piena autonomia in materia della gestione delle proprie entrate. Infatti, l'accertamento dei tributi può essere effettuato dall'ente locale (anche nelle forme associate) ovvero possono essere affidati a terzi, anche disgiuntamente, l'accertamento e la riscossione dei tributi e di tutte le entrate. In questo caso, le relative attività sono affidate, nel rispetto della normativa dell'Unione europea e delle procedure vigenti in materia di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali, ai soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53, comma 1, oppure a società in house, a totale capitale pubblico, mediante convenzione, oppure a società a capitale misto pubblico privato, iscritte all’albo di cui all’art. 53, con procedura di evidenza pubblica. Venendo al caso in esame, va, in primo luogo rilevato, che la giurisprudenza ha chiarito che la distinzione tra "l'affidamento delle attività di riscossione in senso stretto delle entrate (tributarie e non) degli enti locali (per la quale è richiesta l'iscrizione al suddetto albo) e l'affidamento delle attività di supporto alla gestione, accertamento e riscossione delle predette entrate, poggia sulla circostanza che nell'affidamento di meri servizi di supporto "non viene in rilievo l'attribuzione di funzioni pubbliche", e inoltre "il controllo e la responsabilità su tutte le attività di accertamento e riscossione rimane in capo alla stazione appaltante, attraverso l'utilizzo di modelli da questa predisposti, nonché attraverso il controllo e l'assunzione di responsabilità da parte del funzionario responsabile del Comune su tutte le attività svolte dall'aggiudicataria" (cfr. tra le altre, T.A.R. Puglia Bari, sez. I, 24 marzo 2016, n. 424; Tar Lazio Roma, sez. II, 21 aprile 2016, n. 4649). Venendo al caso in esame, va subito evidenziato che il Capitolato, all’art. 1, descrive l’oggetto dell’appalto in esame con riferimento a varie attività: “l’ accertamento, verifica e riscossione di IMU, TIA, TARES, TARI, TASI, e di tutte le entrate accertabili e non prescritte fino alla scadenza contrattuale”; “ il servizio di ricerca dell’evasione erariale”; “il servizio di supporto alla riscossione ordinaria dell’ IMU, della TASI e della TASI; il servizio di accertamento e riscossione volontaria e coattiva delle entrate minori. Dunque, come rilevato dalla controinteressata, solo una delle varie attività oggetto dell’appalto costituisce “il servizio di supporto alla riscossione ordinaria dell’IMU, della TARI e della TASI”. Negli altri casi cui il Capitolato fa riferimento, ad eccezione della attività di ricerca dell’evasione erariale, si tratta invece di vera e propria attività di accertamento e riscossione coattiva. Va infatti rilevato, ad esempio, che nel Capitolato si menziona, per le attività di riscossione coattiva, come attività minima, la “produzione e notifica delle ingiunzioni fiscali ex regio decreto n. 636/1910; cura delle procedure coattive successive alla ingiunzione fiscale e/o ad altro titolo esecutivo (fermi amministrativi, trascrizioni ipotecarie, pignoramento presso terzi, ecc.), fino a discarico delle partite inesigibili. Postalizzazione dei provvedimenti connessi e consequenziali ala adozione delle procedure coattive. Rendicontazione degli incassi. Gestione del contenzioso e costituzione in giudizio, innanzi alla competenti sedi giurisdizionali, con obbligo di presenza in fase di dibattimento.” Si tratta evidentemente di un’attività di riscossione coattiva vera e propria, posta in essere mediante il ricorso alla produzione e notifica delle ingiunzioni fiscali ed RD 339/1910, in vece del comune, e con obbligo di rendiconto. Anche per quanto riguarda l’attività di accertamento, il Capitolato menziona tre i compiti dell’appaltatore quello di emissione e invio degli avvisi di accertamento con relativi bollettini postali e di rendicontazione dei pagamenti pervenuti sul c/c del comune. Si tratta quindi della integrale attività di accertamento, non solo del supporto ad essa. Dunque, dalla disamina dei compiti affidati dal Capitolato all’appaltatore emerge l’affidamento di attività caratterizzate dall’esercizio di funzioni pubbliche (il potere di ingiunzione fiscale) svolte in autonomia rispetto ai funzionari del comune, tenuti solo ed effettuare i necessari controlli, dovendo l’appaltatore adempiere solo ad un obbligo di rendiconto nei confronti del comune. 8.5. In questo quadro, la circostanza che i versamenti dei contribuenti debbano essere effettuati su conti correnti del comune e non della società affidataria del servizio, non appare una circostanza dirimente al fine di escludere la natura concessoria del rapporto. Il carattere del maneggio del denaro pubblico, infatti, per le ragioni che si diranno, non può ritenersi elemento imprescindibile dell’attività di accertamento e riscossione tributi, in presenza di altri elementi che depongono per la sussistenza dell’esercizio di funzioni pubbliche, come avviene nel caso di specie. Nei paragrafi che seguono, si illustreranno dunque le ragioni perché il Collegio ritiene di non aderire all’orientamento giurisprudenziale invocato da parte ricorrente. 8.6. La sentenza del Consiglio di Stato n. 380/ 2017, richiamata da parte ricorrente, unitamente alla ulteriore giurisprudenza richiamata dalla stessa pronuncia (Cons. Stato, sez. V, 24 marzo 2014, n. 1421) sostiene invero che “il requisito di cui agli artt. 52 e 53 d.lgs. n. 446 del 1997 (e la inerente garanzia di affidabilità patrimoniale che esso sottende), in tanto si giustifica, in quanto oggetto dell'affidamento sia il maneggio del denaro di pertinenza dell'ente pubblico che contraddistingue la posizione dell’agente (o concessionario) della riscossione delle entrate. La sentenza citata ha chiarito che, mancando l’attribuzione del maneggio del denaro pubblico, il requisito in questione non solo non è necessario, ma la sua eventuale previsione da parte del bando, risulterebbe illegittima, perché irragionevole e sproporzionata.” Tali approdi giurisprudenziali, tuttavia, vanno in primo luogo considerati alla luce delle specifiche caratteristiche dei bandi di gara nelle diverse fattispecie oggetto delle suddette pronunce e in secondo luogo deve tersi conto –a fini ermeneutici - delle recenti novità normative, che hanno introdotto significativi mutamenti nella disciplina della riscossione delle entrate da parte dei soggetti concessionari. 8.7. Quanto al primo profilo, non può non sottolinearsi che, nel caso deciso dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 380/2017, gli elementi posti a sostegno della natura di appalto di servizi di mero supporto e non di affidamento di concessione di riscossione risiedevano non solo nella previsione di conti dedicati intestati direttamente alla stessa Amministrazione, ma anche nella previsione di un compenso fisso e nella circostanza che “ il controllo e la responsabilità su tutte le attività di accertamento e riscossione rimane in capo alla stazione appaltante”. Inoltre, nel caso della sentenza del Consiglio di Stato n. 1421/2014, avente ad oggetto una controversia concernete l’affidamento di un “servizio gestionale degli atti sanzionatori amministrativi relativi al codice della strada e alle rimanenti violazioni amministrative di competenza del comando di polizia municipale”, il bando in esame prevedeva che compito dell’appaltatore era in sostanza quello “di provvedere all’attività preparatoria inerente la formazione dei ruoli dei trasgressori, sgravando conseguentemente la polizia municipale” ma senza che questi risultassero giuridicamente imputabili all’appaltatore. Al contrario, il ruolo predisposto dall’appaltatore doveva essere controllato dalla polizia municipale, alla quale competeva anche l’apposizione del visto di esecutorietà, ed inviato “al soggetto preposto per legge su indicazione del Comando di Polizia Municipale”. Inoltre, l’appaltatore non era tenuto a curare i pagamenti volontari, ed in particolare a ricevere questi ultimi direttamente dai privati nei cui confronti siano stati emessi atti di accertamento di violazioni del codice della strada. Non vi era pertanto il “materiale introito (…) delle somme dovute all'ente”, ai sensi dell’art. 180 t.u.e.l.. 8.8. Alla luce di quanto sopra esposto, appaiono evidenti, in fatto, le differenze tra le due fattispecie decise nei precedenti del Consiglio di Stato sopra richiamati e il caso oggetto del presente giudizio, in cui l’appaltatore risulta tenuto – come si è rilevato nel punto 8. 4. – per la riscossione coattiva, alla “produzione e notifica delle ingiunzioni fiscali ex regio decreto n. 636/1910; cura delle procedure coattive successive alla ingiunzione fiscale e/o ad altro titolo esecutivo (fermi amministrativi, trascrizioni ipotecarie, pignoramento presso terzi, ecc.), fino a discarico delle partite inesigibili.” e in cui è previsto in capo all’affidatario un obbligo di rendiconto e la percezione di un aggio sugli introiti. Inoltre, l’appaltatore è tenuto, per la riscossione volontaria all’emissione e invio degli avvisi di accertamento con relativi bollettini postali e di rendicontazione dei pagamenti pervenuti sul c/c del comune. In sostanza, nel caso oggetto del presente giudizio, le attività di accertamento e riscossione sono tutte effettuate dall’appaltatore, salvo che i versamenti devono essere effettuati su conti intestati al comune. In definitiva, l’unico elemento che accomuna le fattispecie sopra menzionate e quella in esame è la circostanza dell’assenza del materiale introito delle somme dovute all’ente in capo all’appaltatore. 8.9. La giurisprudenza sopra richiamata (T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 10 maggio 2016, n. 5470; T.A.R. Lazio Roma, Sez. II, 4 giugno 2015, n. 7863; Consiglio di Stato, Sez. V, 20 aprile 2015, n. 1999; Consiglio di Stato 24 marzo 2014, n. 1421) precisa invero che l'iscrizione all'albo di cui all'articolo 53, comma 1, del decreto legislativo n. 446 del 1997 "trova la propria ratio nel maneggio del denaro di pertinenza dell'ente pubblico che contraddistingue la posizione dell'agente o concessionario della riscossione delle entrate". Questa ricostruzione fa leva sulla lettera dell’art. 180, comma 1, del Testo unico degli enti locali, secondo cui: “1. La riscossione costituisce la successiva fase del procedimento dell'entrata, che consiste nel materiale introito da parte del tesoriere o di altri eventuali incaricati della riscossione delle somme dovute all'ente.” Senonché l’evoluzione normativa ha portato sempre più a limitare il materiale introito del denaro da parte dei concessionari, favorendo invece i versamenti direttamente nelle casse del comune. Infatti, per quanto riguarda la riscossione spontanea, l'articolo 2-bis del Dl n. 193/2016, nell'intento di tutelare gli enti locali dai fenomeni di distrazione di somme da parte di soggetti privati, ha stabilito che, a decorrere dal 1° ottobre 2017 (come previsto dal Dl n. 244/2016), il versamento spontaneo delle entrate tributarie dei Comuni e degli altri enti locali deve essere effettuato direttamente sul conto corrente di tesoreria dell'ente impositore, o mediante il sistema dei versamenti unitari di cui all'articolo 17 del D.lgs. n. 241/1997, o attraverso gli strumenti di pagamento elettronici resi disponibili dagli enti impositori. Inoltre, il comma 788, dell’art.1, della legge di Bilancio 2020, ha integrato l’articolo 53 del d.lgs. n. 446 del 1997, prevedendo espressamente che tutte le somme a qualsiasi titolo riscosse appartenenti agli enti locali affluiscano direttamente alla tesoreria dell’ente. Dunque, anche per la riscossione coattiva, come già per la riscossione spontanea, i versamenti devono confluire direttamente su un conto intestato al comune e non possono più essere oggetto di materiale introito da parte dei concessionari della riscossione (ad eccezione delle società pubbliche, in house, affidatarie della concessione). Pertanto, secondo la disciplina vigente, entrata in vigore a decorrere dal 1.1.2020, i concessionari privati non possono più maneggiare denaro pubblico e riscuotere le entrate degli enti territoriali, non solo quelle derivanti da versamenti spontanei o volontari, ma anche quelle recuperate in seguito alle attività di accertamento e riscossione coattiva. Gli enti locali, ai soli fini di consentire ai soggetti affidatari dei servizi di riscossione la verifica e la rendicontazione dei versamenti dei contribuenti, devono garantire ai concessionari l’accesso ai conti correnti intestati ad essi e dedicati alla riscossione dei tributi degli enti locali oggetto degli affidamenti, nonché l’accesso agli ulteriori canali di pagamento disponibili. Di conseguenza, si prevede che i contratti in corso alla data del 1° gennaio 2020, stipulati con i predetti affidatari dei servizi di riscossione dei tributi degli enti locali, devono essere adeguati entro il 31 dicembre 2020 alle disposizioni concernenti la riforma della riscossione in commento. 8.10. Nonostante la riforma della riscossione degli enti locali introdotta dalla legge di bilancio 2020 non sia evidentemente applicabile ratione temporis alla procedura in esame, essendo il bando stato pubblicato prima della sua entrata in vigore, gli spunti derivanti, a livello ermeneutico, da essa e dalla disciplina del 2016, relativa alla riscossione spontanea, inducono ad una rimeditazione del tradizionale orientamento secondo cui elemento essenziale del rapporto concessorio di riscossione sarebbe il maneggio del pubblico denaro. Tale profilo, infatti, non appare più dirimente nell’attualità e anzi deve riconoscersi che nell’ordinamento giuridico si è recentemente consolidata una opposta prospettiva, secondo cui i versamenti debbono essere sempre effettuati direttamente presso la tesoreria dell’ente locale, su conti intestati all’ente creditore, fermo restando che deve essere garantita al concessionario la possibilità, al fine di verificare e rendicontare i versamenti, di accedere ai conti correnti dedicati alla riscossione delle entrate che formano oggetto degli affidamenti o, comunque, agli altri canali di pagamento istituiti dall' amministrazione pubblica. In questo quadro, dunque, il Collegio ritiene che la nozione di riscossione non richieda più che vi sia il materiale introito delle somme dovute all’ente e che pertanto tale dato non possa più essere considerato come elemento discriminante per stabilire se vi sia un affidamento di servizi di supporto di gestione o un affidamento di concessione di accertamento e riscossione, dovendosi invece valorizzare altri elementi distintivi. Peraltro, si aggiunge per completezza, che la stessa riforma della legge di bilancio 2020 ha previsto l’istituzione di una sezione speciale nell’albo dei concessionari della riscossione, cui dovranno obbligatoriamente iscriversi i soggetti che svolgono le funzioni e le attività di supporto propedeutiche all’accertamento e alla riscossione delle entrate locali. Dunque, in prospettiva, anche per i servizi di mero supporto occorrerà una apposita iscrizione ad una sezione speciale dell’Albo. In definitiva, dunque, l’appalto in esame appare perfettamente coerente con le novità normative sopra descritte, dal momento che esso prevede che i pagamenti dei contribuenti debbano essere effettuati unicamente su conti dedicati dell’ente pubblico, riservando tuttavia tutta la restante attività di accertamento e riscossione, anche coattiva, mediante lo strumento della ingiunzione fiscale, comportante spendita dei poteri pubblici, al concessionario privato, il quale poi dovrà rendere conto al comune dei versamenti che siano stati effettuati e otterrà come remunerazione per la propria attività un aggio sulle somme riscosse. 8.11. In conclusione, alla luce di quanto detto, il primo motivo di ricorso deve essere disatteso, anche con riferimento al profilo di illegittimità per sproporzione del requisito richiesto, dedotto alla luce del fatto che il bando/disciplinare prevede anche ulteriori requisiti di “capacità economico finanziaria” e tecnico organizzativa”. Infatti, come si è detto in precedenza, in caso di affidamento a terzi, la natura concessoria del rapporto comporta, proprio in base all’art. 52, comma 5, del D. Lgs. 446/97, l’obbligo di iscrizione all’albo ai sensi dell’art. 53 del D. Lgs. n. 446/97. 8.12. Anche l’ulteriore profilo di doglianza di cui al primo motivo di ricorso, concernente l’asserita carenza di istruttoria e motivazione e violazione del principio del soccorso istruttorio, deve essere respinto. L’amministrazione ha infatti compiutamente verificato l’insussistenza del requisito richiesto dal bando in capo alla ricorrente, tenendo conto del provvedimento adottato dal MEF nel giugno 2019. Inoltre, tale provvedimento non risulta cautelarmente sospeso dal Consiglio di Stato, in quanto in sede di appello cautelare è stata unicamente disposta la sollecita fissazione del merito. Gli ulteriori aspetti di presunta carenza di istruttoria non paiono infine rilevanti, non essendovi, per quanto detto sopra, l’asserita nullità della clausola in questione. 9. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato. A prescindere da ogni altra considerazione, è infatti indubbio che nella seduta del 26 giugno 2019, la Commissione dell’Albo abbia negato l’iscrizione della società AeG Riscossioni e al contempo abbia accolto la istanza volontaria di cancellazione dall’Albo della AeG S.r.l.. In questo quadro, tenuto conto del principio della necessaria continuità nel possesso dei requisiti di gara, l’esclusione della ricorrente è comunque correttamente motivata sulla base della insussistenza del requisito posto a pena di esclusione. La circostanza che la ricorrente sia società conferitaria, giusto atto pubblico del 11 dicembre 2018, Rep. 81525, dell’intero complesso aziendale della società A. e G. S.r.l., già iscritta all’Albo di cui all’art. 53 del D.lgs. 446/97 sub n 93 di iscrizione, non appare quindi in alcun modo dirimente. 10. Il ricorso, in conclusione, deve essere respinto. Ne consegue anche l’infondatezza del ricorso per motivi aggiunti, avente ad oggetto doglianze di illegittimità in via derivata, nonché della consequenziale domanda risarcitoria. Le spese possono essere compensate, sussistendo giusti motivi, in considerazione dei precedenti giurisprudenziali di segno contrario. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, con i relativi motivi aggiunti, li respinge entrambi e respinge la domanda risarcitoria. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 21 aprile 2020, tenutasi in modalità di collegamento da remoto ai sensi dell’art. 84, comma 6, del d.l. n. 18/2020 con l'intervento dei magistrati: Paolo Corciulo, Presidente Maria Laura Maddalena, Consigliere, Estensore Germana Lo Sapio, Primo Referendario Paolo Corciulo, Presidente Maria Laura Maddalena, Consigliere, Estensore Germana Lo Sapio, Primo Referendario IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi - Servizi di riscossione e accertamento tributi degli enti locali – Iscrizione all’Albo – Necessità.   Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi - Servizi di riscossione e accertamento tributi degli enti locali – Natura.               Per l’affidamento dei servizi di riscossione e accertamento tributi degli enti locali, è necessaria l’iscrizione all’albo dei soggetti privati abilitati ad effettuare attività di liquidazione e di accertamento dei tributi e quelle di riscossione dei tributi e di altre entrate delle province e dei comuni”, di cui all’art. 53, comma 1, d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 (1).               La circostanza che l’appaltatore del servizio di riscossione e accertamento tributi degli enti locali non riceva il materiale introito delle somme dovute all’ente, essendo i versamenti effettuati su conti dedicati del comune, non comporta la qualificazione della sua attività come servizio di gestione di mero supporto all’attività di accertamento e riscossione tributi, in presenza di altri elementi che depongono per la sussistenza dell’esercizio di funzioni pubbliche (1).   (1) La pronuncia in esame si discosta, alla luce delle recenti riforme in tema di riscossione delle entrate degli enti locali, dall’orientamento giurisprudenziale (Tar Lazio, sez. II, 10 maggio 2016, n. 5470; id. 4 giugno 2015, n. 7863; Cons. Stato, sez. V, 20 aprile 2015, n. 1999; id. 24 marzo 2014, n. 1421) secondo il quale elemento essenziale del rapporto concessorio di riscossione sarebbe il maneggio del pubblico denaro cosicché  l'iscrizione all'albo di cui all'articolo 53, comma 1, del decreto legislativo n. 446 del 1997 troverebbe “ la propria ratio nel maneggio del denaro di pertinenza dell'ente pubblico che contraddistingue la posizione dell'agente o concessionario della riscossione delle entrate". Rileva infatti la sentenza che l’evoluzione normativa ha portato sempre più a limitare il materiale introito del denaro da parte dei concessionari, favorendo invece i versamenti direttamente nelle casse del comune, dapprima unicamente per la riscossione spontanea (cfr. l'art. 2 bis, d.l. n. 193/2016 convertito con modificazioni dalla l. 1 dicembre 2016, n. 225) e poi anche per la riscossione coattiva (cfr. il comma 788 dell’art.1, della legge di Bilancio 2020, ha integrato l’art. 53, d.lgs. n. 446 del 1997, prevedendo espressamente che tutte le somme a qualsiasi titolo riscosse appartenenti agli enti locali affluiscano direttamente alla tesoreria dell’ente). In questo quadro, dunque, il Collegio ritiene che la nozione di “riscossione” non richieda più che vi sia il materiale introito delle somme dovute all’ente e che pertanto tale dato non possa più essere considerato come elemento discriminante per stabilire se vi sia un affidamento di servizi di supporto di gestione o un affidamento di concessione di accertamento e riscossione, dovendosi invece valorizzare altri elementi distintivi, quali, in particolare, il ricorso allo strumento della ingiunzione fiscale, comportante spendita dei poteri pubblici, da parte del concessionario privato, l’obbligo di rendiconto al comune dei versamenti effettuati e  la remunerazione di tale attività con un aggio sulle somme riscosse.
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/nuove-misure-covid-19-in-sicilia-dettate-dall-ordinanza-contingibile-e-urgente-del-presidente-della-regione-siciliana-n-21-del-17-maggio-2020
Nuove misure Covid-19 in Sicilia dettate dall’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione Siciliana n. 21 del 17 maggio 2020
N. 00632/2020 REG.PROV.CAU. N. 00722/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Prima) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 722 del 2020, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Pasquale Cristiano, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Presidente Regione Siciliana non costituito in giudizio; nei confronti -OMISSIS-, Presidenza del Consiglio dei Ministri, non costituiti in giudizio; per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia ed adozione di misure cautelari monocratiche ex art. 56 c.p.a. - dell’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione Siciliana n. 21 del 17 maggio 2020; - nonché per il risarcimento dei danni subiti per effetto delle ordinanze contingibili e urgenti del Presidente della Regione Siciliana n. 18 del 30 aprile 2020 e n. 21 del 17 maggio 2020. VISTI il ricorso e i relativi allegati; VISTA l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm.; PREMESSO che, ai fini dell’adozione della misura cautelare monocratica ex art. 56 c.p.a., parte ricorrente [“residente in -OMISSIS- ma, attualmente, domiciliato in -OMISSIS- per motivi di lavoro”] evidenzia che le “… abnormi illegittimità che affliggono il provvedimento gravato, non consentono di attendere la prima udienza di camera di consiglio utile. Ed invero, l’ordinanza impugnata ha efficacia fino al 07.06.2020. Il conseguimento del bene della vita dell’odierno ricorrente finirebbe per essere frustrato dalla naturale perdita di efficacia dell’ordinanza gravata, allorquando, la stessa non venisse sospesa nelle more della fissazione della prima camera di consiglio utile”; CONSIDERATO che, in applicazione dei termini dilatori previsti dall’art. 55, comma 5, c.p.a., la prima Camera di consiglio utile per l’esame collegiale dell’istanza cautelare è quella del 18 giugno 2020, come da calendario; RITENUTO che, in relazione all’attuale complesso e variegato quadro epidemiologico-territoriale, cui si richiama la motivazione dell’ordinanza impugnata, la valutazione di tutte le circostanze addotte in ricorso, sia in fatto che in diritto, richiede un adeguato esame in sede collegiale; - che la durata del periodo di quarantena – contrariamente a quanto si assume in ricorso - è da intendersi pari a quattordici giorni, secondo quanto prefissato dall’ordinanza del Ministero della Salute del 21 febbraio 2020 recante “Ulteriori misure profilattiche contro la diffusione della malattia infettiva COVID-19” (pubblicata in G.U. n. 44/2020); - che, comunque, stante la scadenza dell’efficacia del provvedimento impugnato il 7 giugno 2020, la misura cautelare monocratica, ove concessa, finirebbe per rendere vano, non tanto il futuro esame del merito del ricorso (nel quale è comunque presente istanza risarcitoria), quanto piuttosto la stessa delibazione della misura cautelare in sede collegiale, nella predetta camera di consiglio; - che, pertanto, non sussistono i presupposti per l’accoglimento della chiesta misura cautelare; RITENUTO, infine, che in accoglimento della specifica istanza depositata in atti dal ricorrente ex art. 52 commi 1, 2 e 5 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, va disposto l’oscuramento delle relative generalità e di ogni altro dato idoneo ad identificarlo; P.Q.M. Rigetta l’istanza cautelare di cui in motivazione e fissa per l’ulteriore trattazione la camera di consiglio del 18 giugno 2020. Dispone ex art. 52 commi 1, 2 e 5 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 l’oscuramento delle generalità del ricorrente e di ogni altro dato idoneo ad identificarlo. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Palermo il giorno 19 maggio 2020. IL SEGRETARIO
Covid-19 – Sicilia - Ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione Siciliana n. 21 del 17 maggio 2020 – Non va sospesa monocraticamente.   Non deve essere sospesa monocraticamente l’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione Siciliana n. 21 del 17 maggio 2020 atteso che - stante la scadenza dell’efficacia del provvedimento impugnato il 7 giugno 2020 e la prima camera di consiglio utile per la delibazione collegiale successiva a tale data - la misura cautelare monocratica, ove concessa, finirebbe per rendere vano non tanto il futuro esame del merito del ricorso (nel quale è comunque presente istanza risarcitoria), quanto piuttosto la stessa delibazione della misura cautelare in sede collegiale, nella predetta camera di consiglio (1),   (1) Ha ancora chiarito il decreto che la durata del periodo di quarantena – contrariamente a quanto si assume in ricorso - è da intendersi pari a quattordici giorni, secondo quanto prefissato dall’ordinanza del Ministero della Salute del 21 febbraio 2020 recante “Ulteriori misure profilattiche contro la diffusione della malattia infettiva COVID-19” (pubblicata in G.U. n. 44 del 2020)
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/pianificazione-delle-attivit-c3-a0-scolastiche-e-prescrizioni-nel-periodo-emergenziale-covid-19-dell-attivit-c3-a0-didattica
Pianificazione delle attività scolastiche e prescrizioni nel periodo emergenziale Covid-19 dell’attività didattica
N. 06832/2020 REG.PROV.CAU. N. 08723/2020 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 8723 del 2020, proposto da Emanuela Cangini, Maurizio Cantone, Luca Chiesi, Paolo Genta, Margherita D'Andria, Tiziano Giardini, Nicoletta Protti, Valeria Tosi, Andrea Tretter, rappresentati e difesi dagli avvocati Mauro Sandri, Nino Filippo Moriggia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Istruzione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; nei confronti Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; per la riforma per la riforma dell'ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) n. 6569/2020, resa tra le parti, concernente la pianificazione delle attività scolastiche, educative e formative in tutte le istituzioni del sistema nazionale di istruzione per l’anno scolastico 2020/2021 - protocollo d’intesa per garantire l’avvio dell’anno scolastico nel rispetto delle regole di sicurezza; Visto l'art. 62 cod. proc. amm; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell'Istruzione e di Presidenza del Consiglio dei Ministri; Vista la impugnata ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo regionale di accoglimento/reiezione della domanda cautelare presentata dalla parte ricorrente in primo grado; Relatore nella camera di consiglio del giorno 26 novembre 2020 il Cons. Giulio Veltri e udito per gli appellanti, l’avvocato Mauro Sandri; Rilevato che il ricorso oggetto dell’odierno gravame cautelare ha ad oggetto il decreto ministeriale n. 39 del 26 giugno 2020, recante "Adozione del Documento per la Pianificazione delle attività scolastiche, educative e formative in bitte le Istituzioni del Sistema nazionale di Istruzione per l'anno scolastico 2020/2021", il Decreto Ministeriale 6 agosto 2020, n. 87 "Protocollo d'intesa per garantire l'avvio dell'anno scolastico nel rispetto delle regole di sicurezza per il contenimento della diffusione di Covid 19”, il DPCM del 7 agosto 2020 con tutti i relativi allegati, il Decreto Ministeriale n. 80 dell’8 agosto 2020 relativo all'adozione del "Documento di indirizzo per l'orientamento per la ripresa delle attività in Presenza dei servizi educativi e delle scuole dell’Infanzia", nelle parti in cui hanno previsto (tra l’altro): - il possibile e consistente ricorso alla didattica a distanza; - la disciplina delle modalità di accesso e uscita da scuola, uscite a orari scaglionati; - l’obbligo di rimanere a casa in presenza di temperatura oltre i 37,5°; - il divieto di accedere o permanere nei locali scolastici ove si manifestino, anche dopo l'ingresso, condizioni di pericolo (sintomi simil-influenzali, temperatura oltre 37.5°, provenienza da zone a rischio o contatto con persone positive al virus nei 14 giorni precedenti etc); - obbligo di mascherina per gli studenti che si muovano all’interno dei locali scolastici; - altre prescrizioni di carattere limitativo e cautelativo. Considerato che L’assunto sul quale fondamentalmente basa l’appello si compendia: a) nella contestazione, in radice, dell’esistenza di presupposti epidemiologici di una gravità e diffusività tale da poter creare allarme nella popolazione scolastica, nella quale, del resto, non si sarebbero – queste le allegazioni dei ricorrenti – registrati casi di decesso o di ricovero in terapia intensiva; b) nella stigmatizzazione della sproporzione degli interventi di prevenzione imposti, rispetto alla reale diffusività e pericolosità del virus, soprattutto se confrontati con le misure adottate in altri Stati dell’Unione Europea; c) nell’asserita violazione di una serie di precetti costituzionali in materia di diritti fondamentali della persona e dei fanciulli. Ritenuto che Il Collegio non ravvisa i presupposti per sospendere gli atti impugnati. Innanzitutto, la fase di attuale recrudescenza della diffusione epidemiologica, depone oggettivamente in senso opposto rispetto a quanto prospettato dagli appellanti, e verosimilmente il contenimento del contagio entro una certa soglia è causalmente da ricollegare proprio alle misure di prevenzione adottate, ivi comprese quelle applicate in ambito scolastico; Non è poi conducente né significativa l’allegazione della mancanza di casi di decesso tra la popolazione scolastica, posto che i discenti devono essere monitorati non solo quali potenziali vittime, ma anche e soprattutto quale possibile veicolo di diffusione nelle famiglie; Quanto all’asserita violazione dei precetti costituzionali in materia di libertà personale e di diritto all’istruzione, non possono che richiamarsi, in questa sede cautelare, i principi affermati dalla Sezione in ordine alla doverosa applicazione del principio di precauzione, nonché di prevalenza del diritto alla salute, ove gli interventi di prevenzione siano scientificamente supportati e limitati allo stretto indispensabili per il raggiungimento dell’obiettivo (ex plurimis, Consiglio di Stato decreto n. 3769 del 26 giugno 2020). Aggiungesi, sul piano del periculum in mora, che, rispetto all’epoca di introduzione del ricorso, la situazione epidemiologica si è nettamente aggravata, sì che la richiesta di “radicale” rimozione delle misure di prevenzione invocata dagli appellanti appare ictu oculi impraticabile. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), respinge l'appello cautelare (Ricorso numero: 8723/2020). Condanna gli appellanti, in solido, alla refusione delle spese di lite sostenute per la presente fase cautelare dall’amministrazione, forfattariamente liquidate in €. 2.000, oltre oneri di legge. La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 26 novembre 2020 con l'intervento dei magistrati: Michele Corradino, Presidente Giulio Veltri, Consigliere, Estensore Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere Michele Corradino, Presidente Giulio Veltri, Consigliere, Estensore Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere IL SEGRETARIO
Covid-19 – Scuola – Prescrizioni – DD.MM. n. 39 del 2020, n. 80 del 2020 e n. 87 del 2020 – Non vanno sospese.              In considerazione della situazione epidemiologica, non deve essere sospesa la pianificazione delle attività scolastiche, educative e formative in tutte le istituzioni del sistema nazionale di istruzione per l’anno scolastico 2020/2021, prevista dai decreti ministeriali 26 giugno 2020, n. 39, 3 agosto 2020, n. 80 e 6 agosto 2020, n. 87, quali: il possibile e consistente ricorso alla didattica a distanza; la disciplina delle modalità di accesso e uscita da scuola, uscite a orari scaglionati; l’obbligo di rimanere a casa in presenza di temperatura oltre i 37,5°; il divieto di accedere o permanere nei locali scolastici ove si manifestino, anche dopo l'ingresso, condizioni di pericolo (sintomi simil-influenzali, temperatura oltre 37.5°, provenienza da zone a rischio o contatto con persone positive al virus nei 14 giorni precedenti, etc.); l’obbligo di mascherina per gli studenti che si muovano all’interno dei locali scolastici (1).    (1) La Sezione ritiene non condivisibile l’assunto della mancanza di presupposti epidemiologici di una gravità e diffusività tale da poter creare allarme nella popolazione scolastica.  La fase di attuale recrudescenza della diffusione epidemiologica depone oggettivamente in senso opposto rispetto a quanto prospettato dagli appellanti e verosimilmente il contenimento del contagio entro una certa soglia è causalmente da ricollegare proprio alle misure di prevenzione adottate, comprese quelle applicate in ambito scolastico.  Né è ravvisabile, ad avviso della Sezione, la violazione dei precetti costituzionali in materia di libertà personale e di diritto all’istruzione, stante la doverosa applicazione del principio di precauzione, nonché di prevalenza del diritto alla salute, ove gli interventi di prevenzione siano scientificamente supportati e limitati allo stretto indispensabili per il raggiungimento dell’obiettivo (dec., 26 giugno 2020, n. 3769).
Covid-19
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Invarianza della soglia di anomalia dell'offerta
N. 02980/2019 REG.PROV.COLL. N. 01400/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1400 del 2019, proposto da Automazioni Lo Verso S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Rosalia Sissi Gagliardo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Azienda Sanitaria Provinciale di Siracusa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Massimiliano Mangano, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Catania, piazza Trento, 2; nei confronti Ingegneria Costruzioni Colombrita S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Andrea Scuderi, Fabrizio Belfiore, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Andrea Scuderi in Catania, via Giuffrida 37; per l'annullamento - dell'aggiudicazione dell'appalto dei lavori di ristrutturazione del Pronto Soccorso del P.O. “G. Di Maria” di Avola (SR), CIG 7878836D23, CUP J69J19000070007, disposta con deliberazione del Direttore Generale n. 329/2019 in favore della controinteressata e del relativo avviso pubblicato il 22.07.2019; - del verbale di gara n. 1 del 04.06.2019 nella parte in cui la Stazione appaltante dispone la verifica dei requisiti su un campione di concorrenti; - del verbale di gara n. 2 del 26.06.2019 nella parte in cui opera la suddetta verifica; - delle note del 27.06.2019 con cui la stazione appaltante ha attivato il soccorso istruttorio nei confronti di cinque partecipanti; - del verbale di gara n. 3 dell'08.07.2019 con cui la Stazione appaltante ha escluso cinque concorrenti, ricalcolato la soglia di anomalia e individuato quale miglior offerente la controinteressata; - della comunicazione del 10.07.2019 di esclusione dei cinque partecipanti; - della nota prot. TEC-2975 del 07.08.2019 di diniego di autotutela; - per quanto occorrer possa, della lex specialis di gara; - nonché di ogni altro atto e provvedimento comunque presupposto, connesso e/o conseguente, anche non noto; per la declaratoria ex art. 121 e ss. c.p.a. di inefficacia dell'eventuale contratto sottoscritto con la controinteressata; nonché per la condanna ex art.124 c.p.a. al risarcimento in forma specifica merce´ il subentro della ricorrente nel contratto, ovvero, solo in subordine, al risarcimento del danno per equivalente dalla medesima subito. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Siracusa e della Ingegneria Costruzioni Colombrita S.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 novembre 2019 la dott.ssa Giuseppina Alessandra Sidoti e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Il costituendo RTI Automazioni Lo Verso s.r.l.- Fervi s.r.l. ha partecipato alla procedura aperta, indetta dall’ASP di Siracusa con bando pubblicato il 3 maggio 2019, per l’affidamento dei lavori di ristrutturazione della U. O. Pronto Soccorso del P.O. “G. Di Maria” di Avola (SR), mediante il criterio del prezzo più basso, con un importo a base d’asta di € 1.900.428,39. Detto raggruppamento ha indicato quale mandataria e capogruppo la ricorrente. Quest’ultima con il ricorso in epigrafe ha esposto che: - nel disciplinare di gara la stazione appaltante ha optato per la c.d. inversione procedimentale, cioè per l’esame delle offerte economiche prima della verifica della documentazione amministrativa; - alla seduta pubblica del 4 giugno 2019 la commissione ha proceduto alla totale ammissione delle imprese partecipanti, ha aperto i plichi contenenti l’offerta economica, ha effettuato il calcolo della soglia di anomalia, determinandola nel 25,1300% ed ha individuato quale miglior offerente il costituendo RTI Automazioni Lo Verso – Fervi s.r.l.; ha quindi sorteggiato 14 imprese (10% dei partecipanti) da sottoporre a verifica ed ha riconvocato la commissione a conclusione delle operazioni di verifica; - alla successiva seduta del 26 giugno 2019 ha rilevato la presunta necessità di richiedere il soccorso istruttorio nei confronti di cinque concorrenti tra quelli del campione previamente sorteggiato, ritenendo che non si evincesse la qualificazione delle mandatarie di alcune ATI come richiesto dal disciplinare di gara (alla seduta del 4 giugno 2019 aveva ritenuto conformi le attestazioni SOA delle imprese); inoltre, all’ATI Imprefar la stazione appaltante ha comunicato la medesima presunta carenza di cui sopra, nonché l’asserita assenza dell’istanza di ammissione della mandataria e la mancanza della firma digitale del socio di maggioranza nella dichiarazione ex art. 80 d.lgs. n.50/2016; - la richiesta di regolarizzazione della documentazione è stata riscontrata solo dall’ATI Pampalone con comunicazione dell’1 luglio 2019, nella quale tale concorrente chiariva la qualificazione della mandataria; - alla seduta dell’08 luglio 2019 la Commissione ha disposto l’esclusione dei cinque concorrenti nei confronti dei quali era stato attivato il soccorso istruttorio; ha ricalcolato la soglia di anomalia alla luce delle disposte esclusioni, determinandola nel 26,5258% ed individuando la controinteressata quale miglior offerente; - con avviso pubblicato il 22 luglio 2019 la stazione appaltante ha reso nota l’aggiudicazione dell’appalto in favore della controinteressata; - la ricorrente ha presentato istanza di accesso agli atti (in data 1 agosto 2019) ed ha sollecitato l’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione (in data 6 agosto 2019). Avverso gli atti impugnati, la ricorrente ha dedotto i seguenti motivi: I. Sulle verifiche, sul soccorso istruttorio e sulle esclusioni dei cinque concorrenti: violazione principio di continuità della gara - eccesso di potere per contraddittorietà, difetto di istruttoria, erroneità dei presupposti, travisamento dei fatti e carenza motivazionale - violazione art. 10 l. 241/1990 - falsa applicazione art. 83 cod. contr. pub. - violazione artt. 48 e 89 cod. contr. pub., art. 61 co. 2 dpr 207/2010, art. 58, par. 2, co. 2, direttiva 2014/24/UE e lex specialis - illegittimità derivata degli atti successivi: a) non sussisteva alcuna carenza nella documentazione amministrativa dei cinque concorrenti (ATI Arcas, ATI Gresy Appalti, Ati Imprefar, ATI Pampalone e ATI Pitagora) che giustificasse il ricorso al soccorso istruttorio e l’esclusione degli stessi; b) i requisiti di qualificazione della mandatarie delle ATI debbono essere riferiti non all’importo dell’intero appalto, ma alla categoria da eseguire e al relativo importo in applicazione dell’art. 48, comma 6, cod. contr. pub., secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza e dell’ANAC in materia, nonché dell’art.58, par. 2, comma 2 della direttiva europea n. 24 del 2014; c) la stazione appaltante ha probabilmente omesso di considerare l’avvalimento cui sono ricorse alcune delle imprese (Arcas si è avvalsa di Cogemat e Pitagora è ricorsa ad avvalimento infragruppo di Inchingolo), violando così anche l’art. 89 cod. contr. pubb.; d) pare altresì che l’amministrazione resistente non abbia considerato la possibilità di incremento di un quinto della qualifica posseduta ex art. 61 DPR 207/2010; e) quanto alle ulteriori richieste avanzate nei confronti dell’Ati Imprefar, quest’ultima e l’associata mandante C.I.C.A.I. SOC. COOP. CONS. P.A. hanno presentato un’istanza congiunta di ammissione, firmata digitalmente da tutti i legali rappresentanti, in conformità a quanto previsto dal Disciplinare a pag. 14; f) in relazione alla dichiarazione ex art. 80 del socio di maggioranza di Imprefar, essa sarebbe stata predisposta ai sensi di quanto previsto a pag. 10 del Disciplinare; infatti, risulta correttamente sottoscritta in forma autografa, vi è allegata copia del documento di identità del firmatario e, in più, è sottoscritta digitalmente dal legale rappresentante di Imprefar per renderla immodificabile e darvi data certa; II. Violazione principio di invarianza ex art. 95, co. 15 e lex specialis - violazione art. 97 e principio di imprevedibilità del calcolo della soglia - violazione principi di semplificazione del procedimento, stabilizzazione della graduatoria, parità di trattamento e libera concorrenza. Ove occorrendo, illegittimità comunitaria e incostituzionalità degli art. 36 co. 5 e 95 co. 15 cod. Contr. Pub. e illegittimità degli atti impugnati e della lex specialis ove ne fanno applicazione: a) per evitare interferenze doveva intendersi cristallizzata la soglia di anomalia calcolata per prima (da cui derivava la prima posizione in graduatoria della ricorrente), al momento della “fase amministrativa di prima ammissione” avvenuta nella seduta del 4 giugno 2019, in applicazione dell’art.95, co.15 del codice, come riformato dal decreto sblocca cantieri, nonché dal principio di imprevedibilità del calcolo della soglia ex art.97, comma 2, del codice; b) un’interpretazione conforme al diritto dell’Unione Europea e costituzionalmente orientata del combinato disposto degli artt. 36 comma 5, 95 comma 15 e 97 del codice impedirebbe il ricalcolo della soglia di anomalia una volta note le offerte economiche e in presenza di possibili interferenze; c) ove si ritenesse di non poter pervenire a tale approdo interpretativo, la ricorrente chiede disporsi il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea e/o rimettere agli atti alla Corte Costituzionale in ragione dell’illegittimità comunitaria e/o dell’incostituzionalità dell’art.36, co.5, terzo periodo seconda parte e quarto periodo (cioè nella parte in cui prevede la verifica a campione e del ricalcolo della soglia di anomalia quado le offerte sono già note) e dell’art.95, co. 15, ove non prevede per il caso di inversione procedimentale che la soglia di anomalia delle offerte si cristallizzi già con la presentazione delle offerte; d) sotto il profilo della rilevanza, il fatto che l’art.36, comma 5, sia stato medio tempore abrogato non determinerebbe la carenza di rilevanza del rinvio pregiudiziale o della questione di legittimità costituzionale in quanto l’abrogazione opera solo per l’avvenire e la norma abrogata continua ad applicarsi alla gara (Cons. St. sez. VI, n. 4624/2014). La ricorrente ha quindi impugnato gli atti indicati in epigrafe chiedendone, previa sospensione degli effetti o idonea misura cautelare, l’annullamento nonché la condanna al risarcimento in forma specifica con subentro della stessa nel contratto o, in subordine, il risarcimento del danno per equivalente. 2. Si sono costituite l’amministrazione e la controinteressata. La controinteressata ha intanto eccepito l’inammissibilità del ricorso per il principio dell’invariabilità della soglia a seguito dell’intervenuta aggiudicazione definitiva in suo favore. Ha controdedotto alle censure del ricorso. L’Azienda ha sottolineato come il ricorso – per trovare accoglimento – debba essere ritenuto fondato su tutte le censure sollevate, difettando altrimenti l’interesse a ricorrere. Ha resistito alle censure di merito. 3. All’esito della camera di consiglio del 12 settembre 2019 il Collegio con ordinanza n. 590 del 2019 ha fissato la pubblica udienza “in considerazione della complessità e novità delle questioni dedotte ed in assenza della “estrema gravità ed urgenza” di cui all’art.119, co. 4, del cod. proc. amm.;”. 4. In vista della pubblica udienza tutte le parti hanno prodotto memoria e memoria di replica. La controinteressata, in particolare, ha eccepito l’omessa impugnazione della lettera K pagg. 19 e 20 del disciplinare, laddove stabilisce la determinazione definitiva di anomalia solo all’esito delle verifiche sui requisiti e delle eventuali esclusioni. Parte ricorrente ha insistito nella proprie argomentazioni, chiedendo l’accoglimento del ricorso. 5. Alla pubblica udienza del 21 novembre 2019 il ricorso è stato posto in decisione. DIRITTO 1. Parte ricorrente impugna l’aggiudicazione in favore della controinteressata e gli altri atti presupposti indicati, ritenendo gli stessi illegittimi per due motivi: a) la stazione appaltante avrebbe illegittimamente attivato il soccorso istruttorio nei confronti di cinque operatori economici, non sussistendone i presupposti, e poi avrebbe illegittimamente escluso gli stessi; b) illegittimamente la stazione appaltante avrebbe rideterminato la soglia dopo tali esclusioni anziché mantenere invariata la prima soglia determinata, in base alla quale la ricorrente sarebbe risultata aggiudicataria. Le altre parti hanno sollevato preliminarmente eccezioni di inammissibilità del ricorso: a) in relazione alla carenza di interesse, attesa l’invarianza della soglia di anomalia a seguito dell’aggiudicazione; b) per mancata impugnazione delle norme specifiche del disciplinare, che prevedevano il ricalcolo della soglia a seguito della eventuale esclusione dei soggetti sottoposti a verifica; c) in relazione al primo motivo (illegittima attivazione del soccorso istruttorio ed illegittima esclusione di cinque operatori economici), con riferimento al quale l’interesse è collegato all’accoglimento delle censure per tutte e cinque le imprese escluse, pena la non aggiudicazione alla ricorrente. 2. In via preliminare, va esaminata l’eccezione con cui il controinteressato sostiene che il ricorso è inammissibile, in quanto con esso la ricorrente mira a conseguire l’aggiudicazione dei lavori attraverso la preliminare riammissione delle cinque concorrenti escluse e la modifica postuma della soglia di anomalia; in tale modo, sarebbero obliterante le previsioni in tema d’invarianza di tale soglia contenute all’articolo 36, quinto comma, del decreto legislativo 50/2016, nel testo applicabile ratione temporis, ed al punto K, pagine 19 e 20 del Disciplinare, nella parte in cui consentono e rendono anzi doverosa la modifica della media all’esito della verifica dei requisiti e ne cristallizzano poi i risultati in termini d’invariabilità. Parte ricorrente sostiene che nella fattispecie la soglia si sia cristallizzata al momento di “prima ammissione” e quindi in favore della stessa, ai sensi dell’art.95, co. 15, del d.lgs. cit. nella versione vigente al momento della gara (ossia sotto la vigenza del D.L. n. 32/2019, prima della conversione in legge con modificazioni). 2.1. Ritiene il Collegio che l’eccezione debba essere disattesa nei termini che seguono. 2.1.1. Innanzitutto, va ritenuto che l’articolo 95, comma 15 cit. - laddove fa riferimento alla controversa “fase amministrativa di prima ammissione” (nella versione temporaneamente vigente al momento della gara ed eliminata dal testo attuale con la conversione del d.l. 32/2019 in legge) -, nel caso di specie, va coordinato con le previsioni speciali dell’articolo 36 citato (allora vigente) e delle norme di gara, le quali prevedono espressamente il ricalcolo della media all’esito della verifica dei requisiti. Pertanto, nella fattispecie, il momento a cui ancorare l’invarianza della soglia è quello successivo alla verifica con la rideterminazione della soglia. Tuttavia, la tesi della controinteressata secondo cui la cristallizzazione della soglia definitiva renderebbe inammissibile la domanda di parte ricorrente finalizzata all’aggiudicazione dell’appalto, nel caso non convince e ciò per varie ragioni. 2.1.2. Va ricordato, conformemente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza di appello, che il principio di invarianza della soglia di anomalia ha la funzione di assicurare stabilità agli esiti finali della procedura di gara. Con tale norma la legge intende evitare che, nel caso di esclusione dell’aggiudicatario o di un concorrente dalla procedura di gara per mancata dimostrazione dei requisiti dichiarati, la stazione appaltante debba retrocedere la procedura fino alla determinazione della soglia di anomalia delle offerte, con l'inconveniente del conseguente prolungamento dei tempi della gara e del dispendio di risorse umane ed economiche (Cons. St., sez. V, 22 gennaio 2019, n. 572; C.G.A. n. 604/2019). Orbene, nel caso in questione, parte ricorrente non mira alla rideterminazione della soglia di anomalia (adducendo un “nuovo” motivo di esclusione o di illegittima ammissione), ma ritiene che la cristallizzazione vada riferita alla prima soglia, in base alla quale la stessa sarebbe risultata aggiudicataria; ritiene in particolare, con il primo motivo, che il soccorso istruttorio non sia stato legittimamente attivato e che la mancata integrazione documentale da parte delle imprese (quantomeno non più interessate alla integrazione una volta noti i ribassi) non poteva condurre all’esclusione, non venendo in considerazione carenze essenziali previste dalla legge a pena di esclusione. Va poi notato che l’invarianza della soglia, portata alle sue estreme conseguenze, impedirebbe di fatto, specie in una procedura quale quella in questione caratterizzata dall’inversione procedimentale e dal ricalcolo della soglia successivamente al soccorso istruttorio, la valutazione delle censure relative a “variazioni” intervenute nella fase che precede l’aggiudicazione aventi ad oggetto proprio le stesse, quasi che il legislatore abbia inteso cristallizzare (e quindi rendere insindacabile) ogni attività della stazione appaltante, comprese la contestata attivazione del soccorso istruttorio e la conseguente esclusione, che incidono, nella procedura in questione, sul “ricalcolo” della soglia. La ratio della disposizione legislativa è, però, come sopra chiarito, del tutto diversa, essendo essa rivolta esclusivamente ad evitare che i procedimenti per gli affidamenti si protraggano eccessivamente e che i provvedimenti di aggiudicazione possano venire ‘ribaltati’ più volte - finanche dopo l’esaurimento della fase preordinata al raggiungimento di un assetto definitivo - generando incertezza ed inefficienza, con conseguenti effetti pregiudizievoli per le ditte, per il mercato e per la stessa collettività (così CGARS, 11 gennaio 2017 n.14 e CGARS N. 230/2018). Il principio dell’invarianza in questione, insomma, non può essere invocato per cristallizzare soluzioni incoerenti (per non dire illegittime) laddove venga censurata la sussistenza dei presupposti per l’attivazione del soccorso, il cui mancato riscontro sia stato determinante ai fini della rideterminazione della soglia di anomalia, senza che ciò risulti di oggettivo presidio ad altri e di pari rango valori giuridici, rispetto al diritto di difesa e al “diritto alla giusta aggiudicazione” (C.G.A.R.S. n. 230/2018). Precludere il chiesto controllo sulla legittimità (o meno) dell’attivazione del soccorso istruttorio in nome dell’invarianza della soglia di anomalia significherebbe, specie nella ipotesi di inversione procedimentale in esame (caratterizzata dall’esame delle offerte economiche prima della verifica della documentazione amministrativa) sottrarre al sindacato del giudice l’azione dell’Amministrazione e la sua conformità (o meno) all’intero complesso delle norme concernenti i requisiti di ordine generale per la partecipazione alle gare d’appalto; significherebbe precludere ogni forma di tutela ripristinatoria e/o reintegratoria a chi ritenga di essere stato leso da tale attività amministrativa, asseritamente illegittima, che ha portato al ricalcolo della soglia e, secondo un orientamento giurisdizionale, financo a precludere, in tali ipotesi, l’esercizio dell’azione risarcitoria (C.S., sez. V, n.2609/2015): il che non appare conforme ai principi costituzionali ed eurounitari, oltre che alla stessa ratio del detto principio di invarianza, per come sopra esposto. Ne consegue che una lettura della norma in esame (art. 95, co.15, cit., coordinata nel caso con l’art.36, co. 5, cit) orientata ai suddetti principi non può condurre a ritenere inammissibile il ricorso laddove esso, come nel caso, non miri a “variare” la soglia di anomalia e a procedere ad una sua nuova “determinazione”, quanto piuttosto a dimostrare che, nella procedura in esame, non sussistevano i presupposti per il “ricalcolo” della soglia (previsto dall’art.36 quinto comma del d.lgs. n. 50/2016 illo tempore vigente e dalla lex specialis), che pertanto doveva rimanere quella iniziale, con conseguente aggiudicazione in favore della ricorrente. 3. Viene sollevata ulteriore eccezione di inammissibilità in quanto parte ricorrente non avrebbe impugnato specificamente la norma del disciplinare che prevedeva il meccanismo del ricalcolo della soglia solo all’esito delle verifiche sui requisiti e delle eventuali esclusioni nel procedimento in questione caratterizzato dall’inversione procedimentale (lettera K, pagine 19 e 20, numeri 6 e 7 del disciplinare). 3.1. L’eccezione non merita accoglimento. Infatti, come osservato dalla ricorrente, sia nell’elenco degli atti impugnati, sia nell’epigrafe del secondo motivo (ove si impugna la lex specialis ove fa applicazione degli artt. 36, comma 5 e 95, comma 15, d.lgs. n.50/2016), sia nel corpo del secondo motivo di ricorso, la stessa ha censurato la lex specialis. Comunque, dal tenore complessivo del ricorso e dal contenuto delle censure dedotte appare chiara la volontà della ricorrente di censurare il meccanismo di cui alla normativa in questione, recepito nel disciplinare, con riferimento a cui prospetta anche possibili questioni di illegittimità costituzionale e comunitaria; la mancata specifica indicazione della lett. k del disciplinare, a fronte del chiaro tenore della censura e della circostanza che, come dimostrato dagli atti difensivi delle altre parti, ciò non ha apportato alcuna lesione concreta all’altrui diritto di difesa, rende l’eccezione priva di consistenza sostanziale (T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, n. 930/2018; T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. III, n. 2650/2016). 4. Con riferimento al primo motivo, parte ricorrente si duole delle seguenti circostanze: a) è stato attivato il soccorso istruttorio nei confronti delle cinque imprese indicate sull’erroneo presupposto che le stesse non avessero i requisiti di partecipazione e in particolare che le mandatarie non avessero il 60% dei requisiti con riferimento all’intero importo dell’appalto, piuttosto che alla categoria prevalente, come richiesto dalla legge e dalla giurisprudenza; b) il raggruppamento facente capo ad Intrafer ha prodotto tutta la documentazione richiesta dal disciplinare (non integrabile con allegati); c) l’Ati Pampalone (una delle Ati interessate) ha risposto al soccorso istruttorio, senza che di ciò abbia tenuto conto la stazione appaltante. Come osservato dalle altre parti, l’interesse al motivo per la ricorrente sussiste solo se tutte le censure con esso mosse sono fondate, altrimenti la ricorrente non sarebbe l’aggiudicataria e pertanto non avrebbe interesse al motivo di ricorso. 4.1. Il motivo è fondato. 4.2. Va dato atto che il soccorso istruttorio è stato attivato intanto perché i cinque raggruppamenti in questione non avevano specificato che la mandataria aveva il possesso del 60% dei requisiti, come richiesto dal disciplinare, ai sensi del quale “ai sensi dell’art.83, comma 8, del D. Lgs. n. 50/2016 (e smi) per i soggetti di cui all’articolo 45, comma 2, lettere d) e) f) e g), la mandataria deve possedere i requisiti nella misura del 60% mentre le mandanti devono possedere ciascuna almeno il 20% dei requisiti, la mandataria in ogni caso deve possedere i requisiti ed eseguire le prestazioni in misura maggioritaria”; con riferimento al raggruppamento Intrafer, è stato altresì attivato per ragioni concernenti la mancata presentazione della dichiarazione di ammissione della Intrafer e la mancata sottoscrizione digitale del socio di maggioranza della società nella dichiarazione ex art.80 d.lgs. n. 50/2016. 4.3. La prima questione verte sui requisiti che deve possedere il raggruppamento verticale. La stazione appaltante, nell’attivare il soccorso istruttorio nei confronti delle cinque imprese, ha indicato che “non si evince la qualificazione della mandataria richiesta dal disciplinare … che recita … la mandataria deve possedere i requisiti nella misura del 60% mentre le mandanti devono possedere ciascuna almeno il 20 % dei requisiti. La mandataria in ogni caso deve possedere i requisiti ed eseguire le prestazioni in misura maggioritaria”. Orbene, dalla normativa vigente, dalla giurisprudenza prevalente e dalle indicazioni ANAC al riguardo emerge che: - l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 13 giugno 2012 n. 22) ha chiarito che “La distinzione tra a.t.i. orizzontali e a.t.i. verticali .... poggia sul contenuto delle competenze portate da ciascuna impresa raggruppata ai fini della qualificazione a una determinata gara: in linea generale, l’a.t.i. orizzontale è caratterizzata dal fatto che le imprese associate (o associande) sono portatrici delle medesime competenze per l'esecuzione delle prestazioni costituenti l’oggetto dell’appalto, mentre l’a.t.i. verticale è connotata dalla circostanza che l’impresa mandataria apporta competenze incentrate sulla prestazione prevalente, diverse da quelle delle mandanti, le quali possono avere competenze differenziate anche tra di loro, sicché nell’a.t.i. di tipo verticale un'impresa, ordinariamente capace per la prestazione prevalente, si associa ad altre imprese provviste della capacità per le prestazioni secondarie scorporabili”; - nel raggruppamento verticale, i requisiti devono essere posseduti da mandataria e mandanti in relazione alle attività di competenza ai sensi dell’art. 48, comma 6, del d.lgs. n. 50/2016 (6. Nel caso di lavori, per i raggruppamenti temporanei di tipo verticale, i requisiti di cui all'articolo 84, sempre che siano frazionabili, devono essere posseduti dal mandatario per i lavori della categoria prevalente e per il relativo importo; per i lavori scorporati ciascun mandante deve possedere i requisiti previsti per l'importo della categoria dei lavori che intende assumere e nella misura indicata per il concorrente singolo. I lavori riconducibili alla categoria prevalente ovvero alle categorie scorporate possono essere assunti anche da imprenditori riuniti in raggruppamento temporaneo di tipo orizzontale); - la mandataria del raggruppamento di tipo verticale deve svolgere i servizi della categoria prevalente, ai sensi dell’art. 48, comma 1 (“nel caso di lavori, per raggruppamento temporaneo di tipo verticale si intende una riunione di operatori economici nell’ambito della quale uno di essi realizza i lavori della categoria prevalente; per lavori scorporabili si intendono i lavori come definiti all’articolo 3, comma 1m lettera oo-ter), assumibili da uno dei mandanti; per raggruppamento di tipo orizzontale si intende una riunione di operatori economici finalizzata a realizzare i lavori della stessa categoria”); - l’Anac ha chiarito che “il possesso dei requisiti in misura maggioritaria in capo alla mandataria si applica solo nel caso di raggruppamento di tipo orizzontale o misto (per la subassociazione orizzontale), mentre, nel caso di raggruppamento verticale puro è sufficiente che ogni concorrente possieda i requisiti per la parte della progettazione [o dei lavori] che intende eseguire” (parere Anac n. 12/2016; determinazione 10 ottobre 2012 n. 49); - le imprese partecipanti alla gara in A.T.I. hanno l’obbligo di indicare in sede di presentazione dell’offerta le parti dei lavori imputate a ciascun operatore raggruppato, e ciò persegue, in primo luogo, la finalità di consentire alla stazione appaltante l’accertamento dell’impegno e dell’idoneità delle imprese, indicate quali esecutrici delle prestazioni di servizio/lavori in caso di aggiudicazione, a svolgere effettivamente le parti indicate, in particolare consentendo la verifica della coerenza dell’offerta con i requisiti di qualificazione, e dunque della serietà e dell’affidabilità dell’offerta stessa (ex multis, T.A.R. Puglia Lecce, sez. III, 09 agosto 2017, n. 1384; Consiglio di Stato, sez. V, 07 dicembre 2017, n. 5772; Consiglio di Stato, sez. VI, 22 luglio 2014, n. 3900). Tanto premesso, la clausola del bando, ove interpretata nel senso di riferirsi anche ai raggruppamenti verticali, oltre che a quelli orizzontali, come rilevato dalla ricorrente, impediva (o comunque ostacolava) la partecipazione alla gara dei raggruppamenti verticali (che infatti sono stati esclusi insieme a quelli misti); i raggruppamenti verticali peraltro erano ammissibili nel caso di specie, in quanto il disciplinare distingueva tra attività principale e attività secondaria (prevalente OG1 classifica III [1.064.886,29] e scorporabile subappaltabile OG11 classifica III [865.564,47]), consentendone così la partecipazione. Ne consegue che non era legittimo escludere le Ati in questione in quanto le mandatarie erano in possesso dei requisiti al 100% per le lavorazioni della categoria prevalente; la norma della lex specialis doveva intendersi riferita solo ai raggruppamenti orizzontali, conformemente alla normativa vigente ed al principio secondo cui i requisiti vanno interpretati nel senso di favorire la maggiore partecipazione possibile. In caso contrario, la disposizione del bando è da considerarsi affetta da nullità; infatti, tale clausola – ove intesa nel senso di applicarsi anche ai raggruppamenti verticali – contiene una limitazione alla partecipazione dei raggruppamenti verticali non prevista dalla legge, in quanto tale nulla, ai sensi del comma 8 dell’art.83 del d.lgs. n.50/2016. 4.4. Occorre, inoltre, dare atto, come evidenziato dalla ricorrente in memoria, che sono rimasti incontestati il possesso da parte delle cinque ATI delle attestazioni SOA indicate in ricorso, il fatto che Arcas e Pitagora siano ricorse ad avvalimento, nonché il fatto che alcune delle imprese delle ATI sottoposte a soccorso istruttorio abbiano beneficiato dell’incremento della propria classifica di un quinto, fermo restando che la nota inviata ai raggruppamenti interessati relativa all’attivazione del soccorso istruttorio faceva genericamente riferimento alla circostanza che dalla documentazione non si evinceva “la qualificazione dell’impresa mandataria richiesta dal disciplinare di gara …”. 4.5. L’amministrazione resistente e la controinteressata ritengono che, comunque, il soccorso istruttorio andava attivato per il raggruppamento Imprefar/CICAI in quanto: - il file allegato dalla Imprefar, anziché contenere l’istanza di partecipazione, conteneva il PASSOE; mancava quindi l’istanza di partecipazione della mandataria (è stata presentata istanza dalla mandante, con i dati di quest’ultima, ed essa non potrebbe intendersi come istanza congiunta, anche se sottoscritta digitalmente dalla mandante e dalla mandataria); - la dichiarazione ex art.80 d.lgs. n.50/2016 del socio di maggioranza della Imprefar sui requisiti reca la sua sottoscrizione autografa con documento di identità e non quella digitale, che era richiesta dall’allegato (la firma in digitale è quella del legale rappresentante). Sostiene invece parte ricorrente che, con riferimento alla Imprefar/Cicai, non sussistevano i presupposti per l’attivazione del soccorso istruttorio in quanto: - la detta ATI ha presentato un’istanza unica di ammissione proprio come previsto dal Disciplinare di gara a pag. 14; - in ordine alla dichiarazione ex art. 80 del socio di maggioranza di Imprefar, detta dichiarazione è stata correttamente predisposta e presentata secondo quanto previsto a pag. 10 del Disciplinare; - irrilevanti sarebbero i modelli allegati alla lex specialis, in quanto non integrativi della stessa. 4.6. Ritiene il Collegio che entrambe le questioni su cui si fonda il detto soccorso istruttorio non pertengono a irregolarità essenziali. Dalla documentazione prodotta si evince la volontà della mandataria di partecipare alla gara e di costituire il raggruppamento verticale con la qualifica di mandataria; si evince altresì che, in caso di aggiudicazione, la stessa avrà una percentuale di partecipazione all’appalto nella categoria prevalente pari al 100%. In particolare, risulta presentata la dichiarazione di impegno a costituire associazione temporanea di imprese e contestuale dichiarazione congiunta di subappalto, la dichiarazione della Imprefar circa il possesso di attestazione di qualificazione e circa il possesso dei requisiti e tutte le dichiarazioni richieste debitamente sottoscritte; è vero che il modello 1 (“Istanza di ammissione – dichiarazione unica e integrazione DGUE”) reca le indicazioni della C.I.C.A.I., ma è pur vero che esso è sottoscritto digitalmente anche dal legale rappresentante della Imprefar e che reca l’indicazione che, in caso di aggiudicazione, sarà conferito mandato con funzioni di capogruppo alla Imprefar, dimodoché non è dato sapere perché, a fronte della previsione del disciplinare di un’istanza congiunta, nel caso sottoscritta digitalmente da entrambe le imprese, la Imprefar avrebbe dovuto produrre ulteriore dichiarazione di ammissione, a pena di esclusione; né ancora è chiarito quali siano gli elementi carenti in tale dichiarazione con riferimento alla Imprefar, che non siano contenuti negli ulteriori documenti prodotti. Quanto alla dichiarazione ex art.80 del socio di maggioranza Imprefar, essa è conforme alle previsioni del disciplinare (“dichiarazione resa e sottoscritta ai sensi del d.p.r. n. 445/3000 (e smi), dal legale rappresentante dell’operatore economico, corredata dal documento di identità del dichiarante”); è vero che il modello 2 prevedeva la firma digitale, ma l’esclusione per mancata sottoscrizione digitale non era prevista per la gara in questione dalla lex specialis, a fronte di sottoscrizione autografa del dichiarante corredata da documento di identità e di dichiarazione inoltre sottoscritta digitalmente dal legale rappresentante della Imprefar; i modelli allegati alla lex specialis, comunque, non possono “prevedere altro” rispetto ad essa a pena di esclusione. 4.6.1. Insomma, con riferimento al raggruppamento Imprefar/CICAI, le finalità della contestata documentazione – ossia dell’istanza di ammissione (unica in base al disciplinare e sottoscritta da entrambe le imprese) e della sottoscrizione autografa corredata da copia del documento d’identità per la dichiarazione ex art.80 cit. del socio di maggioranza - risultano in concreto conseguite, con salvaguardia del sotteso interesse dell’amministrazione; ne consegue che non vi è spazio per interpretazioni formali delle prescrizioni di gara e non può essere disposta, per esse, l’esclusione dalla gara del raggruppamento interessato (Cons. St., sez. V, n. 1687/2016; Cons. St. Sez. VI, n. 8933/2010; T.A.R. Calabria Catanzaro sez. I n. 1903/2019). 4.7. Conclusivamente, ritiene il Collegio che non sussistevano i presupposti per l’attivazione del soccorso istruttorio e per l’esclusione dei cinque raggruppamenti in questione e ciò in quanto: - con riferimento ai raggruppamenti verticali, la normativa vigente non richiede il possesso in capo alla mandataria dei requisiti di qualificazione sull’intero appalto, ma in relazione alla prestazione principale da eseguire; nel caso, le mandatarie erano in possesso dei requisiti al 100% per le prestazioni di competenza; - il raggruppamento Imprefar non poteva essere escluso per questioni meramente formali, a fronte della chiara volontà di partecipare alla gara e della sottoscrizione autografa (e non digitale) del socio di maggioranza, ove quella digitale non era richiesta dal disciplinare a pena di esclusione. 4.8. L’amministrazione resistente e la controinteressata sostengono però che, comunque, l’esclusione sarebbe stata necessaria in conseguenza del mancato riscontro al soccorso istruttorio, piuttosto che per la carenza dei requisiti. La ricorrente replica che il soccorso istruttorio si può disporre solo se l’informazione richiesta sia davvero mancante o poco chiara e la sua assenza sia davvero essenziale e prevista a pena di esclusione. 4.9. Le deduzioni al riguardo di parte ricorrente sono condivisibili. Va premesso che l’eccezione dell’amministrazione e della controinteressata - secondo cui l’esclusione degli operatori economici è conseguenza del mancato riscontro al soccorso istruttorio indipendentemente dal possesso o meno del requisito - viene meno sol che si consideri che parte ricorrente ha sostenuto l’illegittimità del ricorso al soccorso istruttorio, di guisa che, ove tale censura risulti fondata (così come è nel caso di specie), la procedura deve essere cristallizzata alla fase antecedente; in altri termini, non è concepibile l’esclusione di una partecipante alla gara per il solo fatto del mancato riscontro al soccorso istruttorio, laddove parte ricorrente abbia censurato (fondatamente) la legittimità del ricorso a tale strumento procedimentale. Ciò posto, nel merito va riaffermato che il soccorso istruttorio può essere attivato solo se si riscontra un’effettiva carenza e non può trasformarsi in un modo per esigere, a pena di esclusione, requisiti non previsti dalla lex specialis o comunque previsti da disposizioni della lex specialis nulle, in quanto non conformi alle previsioni di legge. Come premesso, ove ciò avvenga, va annullato il provvedimento che ponga a suo presupposto un esercizio illegittimo del soccorso istruttorio. La violazione di adempimenti non previsti (né sanzionati con l’esclusione) dal bando non è sanzionabile con l’esclusione (C.G.A.R.S. 24.03.2015, n. 305). Né peraltro può comportare l’esclusione il mancato rispetto di formalità che non incidano sulla conoscenza dei fatti da parte dell’amministrazione e che non facciano sorgere dubbi sulla paternità, veridicità e consistenza dell’offerta (Cons. Stato, V, 04.04.2002, n. 1857 e Cons. Stato, V, 04.11.1996, n. 1312). Nel caso di specie, non vi erano carenze da sanare nella documentazione delle cinque ATI (poi escluse) e pertanto non poteva disporsi il soccorso istruttorio e, in assenza di riscontro - a cui dette ATI, con la conoscenza dei ribassi, potevano non avere interesse -, l’esclusione delle stesse. 5. Va quindi accolto il ricorso per la fondatezza del primo motivo, con assorbimento delle ulteriori questioni dedotte con il secondo motivo. Ne consegue l’illegittimità dell’aggiudicazione a favore della controinteressata e la declaratoria di inefficacia dell’eventuale contratto concluso tra quest’ultima e la stazione appaltante. Ne consegue, altresì, come chiarito, che la procedura regredisce alla fase antecedente a quella illegittima e quindi alla determinazione della prima soglia di anomalia, con conseguente aggiudicazione e affidamento dell’appalto in favore della ricorrente, previo espletamento dei dovuti accertamenti di pertinenza dell’amministrazione e salve le valutazioni consequenziali. 6. Le spese, in considerazione della novità e complessità delle questioni esaminate, possono essere, in via d’eccezione, compensate tra le parti. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei modi e termini di cui in parte motiva. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Catania nella camera di consiglio del giorno 21 novembre 2019 con l'intervento dei magistrati: Pancrazio Maria Savasta, Presidente Maria Stella Boscarino, Consigliere Giuseppina Alessandra Sidoti, Primo Referendario, Estensore Pancrazio Maria Savasta, Presidente Maria Stella Boscarino, Consigliere Giuseppina Alessandra Sidoti, Primo Referendario, Estensore IL SEGRETARIO
Contratti della pubblica amministrazione - Principio di invarianza - Art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016 – Ratio.   Il principio di invarianza della soglia di anomalia (art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016) ha la funzione di assicurare stabilità agli esiti finali della procedura di gara; con tale norma la legge intende evitare che, nel caso di esclusione dell’aggiudicatario o di un concorrente dalla procedura di gara per mancata dimostrazione dei requisiti dichiarati, la stazione appaltante debba retrocedere la procedura fino alla determinazione della soglia di anomalia delle offerte, con l'inconveniente del conseguente prolungamento dei tempi della gara e del dispendio di risorse umane ed economiche (1).   (1) Cons. St., sez. V, 22 gennaio 2019, n. 572.  Ha chiarito il Tar che l’invarianza della soglia, portata alle sue estreme conseguenze, impedirebbe di fatto, specie in una procedura quale quella in questione caratterizzata dall’inversione procedimentale e dal ricalcolo della soglia successivamente al soccorso istruttorio, la valutazione delle censure relative a “variazioni” intervenute nella fase che precede l’aggiudicazione aventi ad oggetto proprio le stesse, quasi che il legislatore abbia inteso cristallizzare (e quindi rendere insindacabile) ogni attività della stazione appaltante, comprese la contestata attivazione del soccorso istruttorio e la conseguente esclusione, che incidono, nella procedura in questione, sul “ricalcolo” della soglia. La ratio della disposizione legislativa è, però, come sopra chiarito, del tutto diversa, essendo essa rivolta esclusivamente ad evitare che i procedimenti per gli affidamenti si protraggano eccessivamente e che i provvedimenti di aggiudicazione possano venire ‘ribaltati’ più volte - finanche dopo l’esaurimento della fase preordinata al raggiungimento di un assetto definitivo - generando incertezza ed inefficienza, con conseguenti effetti pregiudizievoli per le ditte, per il mercato e per la stessa collettività. Il principio dell’invarianza in questione, insomma, non può essere invocato per cristallizzare soluzioni incoerenti (per non dire illegittime) laddove venga censurata la sussistenza dei presupposti per l’attivazione del soccorso, il cui mancato riscontro sia stato determinante ai fini della rideterminazione della soglia di anomalia, senza che ciò risulti di oggettivo presidio ad altri e di pari rango valori giuridici, rispetto al diritto di difesa e al “diritto alla giusta aggiudicazione”. Precludere il chiesto controllo sulla legittimità (o meno) dell’attivazione del soccorso istruttorio in nome dell’invarianza della soglia di anomalia significherebbe, specie nella ipotesi di inversione procedimentale in esame (caratterizzata dall’esame delle offerte economiche prima della verifica della documentazione amministrativa) sottrarre al sindacato del giudice l’azione dell’Amministrazione e la sua conformità (o meno) all’intero complesso delle norme concernenti i requisiti di ordine generale per la partecipazione alle gare d’appalto; significherebbe precludere ogni forma di tutela ripristinatoria e/o reintegratoria a chi ritenga di essere stato leso da tale attività amministrativa, asseritamente illegittima, che ha portato al ricalcolo della soglia e, secondo un orientamento giurisdizionale, financo a precludere, in tali ipotesi, l’esercizio dell’azione risarcitoria: il che non appare conforme ai principi costituzionali ed eurounitari, oltre che alla stessa ratio del detto principio di invarianza, per come sopra esposto. Ne consegue che una lettura della norma in esame (art. 95, comma 15, cit., coordinata nel caso con l’art. 36, comma 5, cit) orientata ai suddetti principi non può condurre a ritenere inammissibile il ricorso laddove esso, come nel caso, non miri a “variare” la soglia di anomalia e a procedere ad una sua nuova “determinazione”, quanto piuttosto a dimostrare che, nella procedura in esame, non sussistevano i presupposti per il “ricalcolo” della soglia (previsto dall’art.36 quinto comma del d.lgs. n. 50 del 2016 illo tempore vigente e dalla lex specialis), che pertanto doveva rimanere quella iniziale, con conseguente aggiudicazione in favore della ricorrente. Ha aggiunto il Tar che in una procedura di gara soggetta alla disciplina dell’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 nella vigenza del d.l. n. 32 del 2019, la previsione dell’art. 95, comma 15 cit., laddove fa riferimento alla controversa “fase amministrativa di prima ammissione” (nella versione temporaneamente vigente al momento della gara, eliminata dal testo attuale con la conversione del d.l. n. 32 del 2019 in legge) va coordinata con la speciale disciplina dell’art. 36 citato e delle norme di gara, le quali prevedono espressamente il ricalcolo della media all’esito della verifica dei requisiti. Pertanto, nella fattispecie, il momento a cui ancorare l’invarianza della soglia è quello successivo alla verifica con la rideterminazione della soglia.  
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/accertamento-di-fatti-penali-in-sede-di-rilascio-dell-autorizzazione-amministrativa
Accertamento di fatti penali in sede di rilascio dell’autorizzazione amministrativa
N. 01242/2022REG.PROV.COLL. N. 05535/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5535 del 2021, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Aldo Valentini e Gianluca Saccomandi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; Questura Pesaro Urbino, Ufficio Territoriale del Governo Pesaro Urbino, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 gennaio 2022 il Cons. Giovanni Tulumello e nessuno presente per le parti; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con sentenza n. -OMISSIS-, pubblicata il -OMISSIS-, il T.A.R. per le Marche ha rigettato il ricorso introduttivo e i due ricorsi per motivi aggiunti proposti dal sig. -OMISSIS- per l’annullamento del Provvedimento del Prefetto di Pesaro-Urbino in data -OMISSIS-di revoca dei propri provvedimenti -OMISSIS- con i quali il ricorrente era stato autorizzato a gestire l'Istituto di investigazioni private denominato -OMISSIS-nonché di una serie di atti a questo connessi, inclusi i provvedimenti di riesame adottati con esito negativo. Con ricorso in appello notificato e depositato il 16 giugno 2021 il ricorrente in primo grado ha impugnato l’indicata sentenza. Si è costituito in giudizio, per resistere al ricorso, il Ministero dell’Interno. Il ricorso è stato trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 27 gennaio 2022. 2. Il provvedimento di revoca impugnato in primo grado è stato emesso a seguito di alcune vicende penali che hanno riguardato la persona dell’odierno appellante. Si tratta, in particolare, della sentenza di assoluzione ex art. 530, secondo comma, cod. proc. pen. del Tribunale de L’Aquila n. -OMISSIS-, e di un procedimento penale all’epoca del primo provvedimento in corso presso il Tribunale di Urbino, poi esitato nella sentenza del Tribunale di Urbino -OMISSIS-(parzialmente assolutoria: riformata in appello con la declaratoria di estinzione per prescrizione dei reati oggetto di entrambi i capi di imputazione). Contro la sentenza del T.A.R. che ha ritenuto legittimi i provvedimenti impugnati sulla base di tali risultanze, l’appellante ha formulato un unico motivo di gravame, articolato nelle seguenti censure: “Violazione dell’art. 1-3-88 CPA per difetto di motivazione ed autonoma valutazione da parte del Collegio di primo grado. Violazione di legge in relazione agli artt. 192 e 530 cpp. Violazione di legge, in relazione agli artt. 1,4,35,41,42 Costituzione; artt. In relazione all’art. 10 T.U. 773/1931, 10, 11, 134 T.U.L.P.S., 1, 3, 7 L.241/90. Violazione dell’art. 6 c. II L. 4.8.1955 n. 848 e degli artt. 11-23 Dich. Univ. Dir. Uomo 10.12.1948. Violazione di legge in relazione ai principi di proporzionalità ed adeguatezza, rispetto agli artt. 649 e 654 cpp, agli artt. 4 CEDU e Art. 50 CDFUE, in tema di ne bis in idem. Eccesso di potere per difetto di motivazione e presupposti, contraddittorietà, perplessità. Illegittimità derivata”. 3. Osserva preliminarmente il Collegio che, in materia di revoca di autorizzazione allo svolgimento di attività di investigazioni private, la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato è pacifica nel ritenere che “ai fini dell’impugnata revoca del titolo non è necessario un giudizio penale di colpevolezza, e cioè un accertamento definito con sentenza, stante l’ampia discrezionalità dell’Amministrazione in materia e la rilevanza delle esigenze di tutela dei potenziali clienti anche in vicende concernenti la loro libertà personale ed altri diritti inviolabili della persona come la riservatezza, con il solo limite di una valutazione che sia ragionevolmente fondata su parametri logici e non travisati” (sentenza n. 3406/2021). Date la superiore premessa metodologica, la sua applicazione al caso di specie denota l’infondatezza delle censure contenute nei ricorsi proposti in primo grado ed altresì nei motivi di appello, non potendosi ravvisare nell’operato dell’amministrazione alcun superamento dell’indicata soglia del travisamento o dell’illogicità. 4. Per quanto riguarda la sentenza del Tribunale de L’Aquila sopra richiamata, dagli atti acquisiti al fascicolo di primo grado (e in particolare dalla nota 10 aprile 2006 della Questura di Pesaro e Urbino) emerge come il -OMISSIS-sia stato assolto dall’accusa di falso in atto pubblico e concorso in corruzione sol perché le dichiarazioni accusatorie del chiamante in correità, appuntato dell’Arma in servizio presso la Sezione di P.G. della Procura della Repubblica di Urbino che avrebbe agito in concorso con l’odierno appellante, pur ritenute plausibili non sono state supportate da riscontri estrinseci. La sentenza evidenzia infatti come le dichiarazioni del -OMISSIS-fossero credibili, e come non sussistessero motivi né per una calunnia, e neppure per un’autocalunnia. Nondimeno, la soluzione assolutoria si è imposta in virtù del divieto legale – ex art. 192, comma 3, cod. proc. pen. - di fondare un’affermazione di penale responsabilità su dichiarazioni del concorrente nel reato in assenza di riscontri oggettivi ed estrinseci (“altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità”). La stessa sentenza espressamente definisce “soluzione imposta” normativamente quella dell’assoluzione ex art. 530, secondo comma, cod. proc. pen.: si tratta pertanto di un esito processuale che nulla toglie alla ricostruzione – almeno in termini di plausibilità delle dichiarazioni accusatorie - dei fatti storici, e che è risultato condizionato unicamente da una regola di valutazione della prova propria (esclusivamente) del processo penale. D’altra parte, l’assoluzione ai sensi del combinato disposto degli artt. 192, terzo comma e 530, secondo comma, cod. proc. pen., tanto più se in concreto motivata nei termini che si sono richiamati, consegue all’accertamento dell’insufficienza della prova che l’imputato abbia commesso il fatto: e non già dell’accertamento della sua estraneità al fatto. 5. Per quanto riguarda invece il procedimento penale presso il Tribunale di Urbino, dalle stesse produzioni documentali della difesa ricorrente nel giudizio di primo grado emerge che al -OMISSIS-erano ascritte le seguenti imputazioni: - corruzione continuata per atto contrario ai doveri d’ufficio; - rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio in concorso. Per entrambi tali capi di imputazione è stata dichiarato non doversi procedere per prescrizione: nel primo caso, da parte della stessa sentenza del Tribunale di Urbino sopra richiamata; nel secondo caso, con sentenza 18 aprile 2013 della Corte di Appello di Ancona. 6. Osserva il Collegio che, contrariamente a quanto ritenuto nel ricorso in appello, in entrambi i casi appena esaminati i provvedimenti definitivi resi all’esito dei rispettivi giudizi penali contengono plurimi e significativi elementi tali da fondare più che legittimamente la prognosi negativa posta dall’amministrazione a fondamento dei provvedimenti impugnati in primo grado. 6.1. Per quanto riguarda il primo procedimento penale, l’assoluzione con formula dubitativa ha fatto comunque salvo – come accennato - l’accertamento del fatto e la plausibilità delle dichiarazioni accusatorie nei confronti del -OMISSIS-: solo per una regola di valutazione probatoria endoprocessuale, il cui campo d’applicazione è limitato al giudizio penale, le stesse non hanno potuto fondare una sentenza di condanna. Nondimeno è pacifico che, una volta accertato il fatto storico, l’amministrazione non è vincolata alle conclusioni processuali penali, non foss’altro perché la regola di (in)utilizzabilità posta nell’ordinamento processuale penale ha una funzione (l’accertamento della penale responsabilità dell’imputato) ben diversa da quella sottesa all’esercizio del potere amministrativo di cui si tratta, che è invece ancorata alla formulazione di una valutazione in merito alla idoneità alla titolarità di autorizzazioni di pubblica sicurezza a tutela degl’interessi antagonisti (rispetto ai quali assume evidentemente un valore recessivo e comunque condizionato la pure invocata tutela “del diritto al lavoro e della iniziativa economica del singolo”, oppure “del diritto del singolo a mantenere l’occupazione in atto”: essendo la specifica occupazione in questione subordinata alla preliminare verifica di presupposti funzionali alla protezione di interessi superindividuali). Il fatto che il -OMISSIS-non sia stato condannato per un fatto pur plausibilmente accertato come tale non privava dunque l’amministrazione del potere di valutare quel fatto, al di là della rilevanza penale dello stesso (preclusa da una regola di utilizzabilità confinata in quell’ambito disciplinare), come elemento dal quale inferire l’idoneità del soggetto ad ambire al titolo richiesto. 6.2. Quanto agli esiti del secondo procedimento penale, non vale evidentemente invocare, per inferirne l’irrilevanza ai fini del giudizio prognostico in esame, l’intervenuta prescrizione di tali fatti di reato, dal momento che essa non esclude, ma anzi presuppone, l’accertamento del fatto storico, ed il suo rilievo inferenziale: come già chiarito dalla giurisprudenza della Sezione (sentenze n. 4837/2020, 844/2021 e 4052/2021), “Il fatto storico, pertanto, si è cristallizzato nel giudicato penale: mentre la pronuncia assolutoria implica un accertamento della mancanza di una penale responsabilità dell’imputato, invece la declaratoria della estinzione del reato per prescrizione suppone, al contrario, che non risulti evidenza di tale assenza di responsabilità, giacché questa, ove sussistente, imporrebbe una formula assolutoria prevalente sulla pronuncia di estinzione per prescrizione, come chiaramente espresso dall’art. 129, secondo comma, cod. proc. pen.”. Come nella fattispecie precedente, pertanto, anche in questo caso – pur se in forme processuali diverse - l’esito del giudizio penale non può valere ad escludere l’insussistenza degli elementi fattuali assunti dall’amministrazione come espressivi dell’inesistenza dei requisiti per il rilascio del titolo, giacchè la mancata irrogazione della sanzione penale non consegue all’accertamento della estraneità dell’imputato ai fatti a lui ascritti: al contrario, il giudice penale ha potuto dichiarare la prescrizione dei reati solo a seguito dell’accertamento della inesistenza di fattori tali da poter affermare con evidenza l’assenza di penale responsabilità dell’imputato. 7. Sulla base dei superiori elementi, ricostruiti nella loro esatta dimensione fattuale e in relazione alla loro rilevanza giuridica nell’ambito dell’esercizio del potere in questione, emerge come all’atto dell’adozione dei provvedimenti impugnati in primo grado (l’originaria revoca, e gli atti ed essa connessi, incluso il diniego di autotutela) il -OMISSIS-correttamente fosse stato ritenuto dall’amministrazione persona fortemente controindicata rispetto alla titolarità dell’autorizzazione in questione, essendo stato accertato – nei termini riferiti - il plurimo ricorso a pratiche corruttive allo scopo di ottenere notizie e documenti di interesse professionale. Dal che discende che, nei sopra ricordati limiti della sindacabilità giurisdizionale del margine di discrezionalità rimesso in materia all’autorità di P.S., tali provvedimenti appaiono del tutto esenti dai vizi denunciati in primo grado. L’Amministrazione ha, dunque, valutato i fatti accaduti ai fini della valutazione della sussistenza dei presupposti per il rilascio di un’autorizzazione di pubblica sicurezza, indipendentemente dagli effetti del giudicato penale (ma sulla base di fatti storici in quella sede accertati nei termini sopra precisati) e motivando le proprie valutazioni in maniera puntuale, con esplicito riferimento alla possibilità di un abuso della licenza di polizia. Né risultano violati i principi di proporzionalità ed adeguatezza, invocati nel ricorso in appello, posto che a fonte della gravità e pluralità di episodi, alla pur ampia discrezionalità dell’amministrazione non poteva che imporsi come unica soluzione provvedimentale quella in concreto adottata. Di tale percorso valutativo si ha piena contezza nella motivazione della revoca, nonché del successivo diniego di autotutela. La sentenza del T.A.R. resiste, pertanto, alle censure proposte con il ricorso in appello. 8. In ragione dell’autonomia della valutazione amministrativa rispetto alle formule dei giudicati penali, appaiono inoltre del tutto fuori fuoco sia i motivi di appello fondati sul fatto che il provvedimento originariamente impugnato fosse correlato ad un procedimento penale all’epoca meramente pendente e non anche concluso con una dichiarazione di penale responsabilità; sia le argomentazioni in cui si fa riferimento alla pretesa violazione del principio di presunzione di innocenza in relazione alla circostanza che l’amministrazione avrebbe utilizzato ai fini della valutazione circa la perdurante sussistenza o meno dei requisiti per la titolarità dell’autorizzazione (i fatti inerenti) due procedimenti penali non sfociati in sentenze di condanna. Come correttamente affermato dal T.A.R., “il Prefetto con il suo provvedimento non anticipa le decisioni giudiziarie circa la commissione o meno del reato da parte del ricorrente, ma si limita ad esaminare gli elementi delle vicende sub iudice portati alla sua attenzione per verificare se da essi possano trarsi elementi da porre a fondamento delle sue decisioni”. L’appellante lamenta in contrario che “Se gli argomenti a favore della assoluzione del ricorrente sono stati valutati come fondanti in sede penale, gli stessi non possono in questa sede essere invece valutati efficienti a tale contrario scopo, sia pure in sede amministrativa e non penale”. In realtà, come specificato al punto precedente, l’amministrazione ha correttamente considerato il rilievo dei fatti emersi nell’ambito dei ridetti procedimenti penali, quali elementi su cui fondare la verifica della insussistenza dei presupposti per il mantenimento del titolo autorizzativo, secondo criteri valutativi normativamente distinti rispetto a quelli propri del processo penale (peraltro considerando sempre che anche nel giudizio penale erano emersi, come ricordato, significativi elementi sul piano dell’accertamento fattuale). 9. Sempre in materia di rapporti fra giudicato penale e valutazione amministrativa, l’appellante assume che “il giudicato penale e il processo amministrativo, che nella specie hanno tra loro in comune quantomeno l’obbiettivo di perseguire obbiettivi diversi ma complementari ed entrambi afflittivi (sia pure su piani diversi), non hanno assolutamente soddisfatto, nella specie, il dovere di interrogarsi e coordinarsi tra loro, in modo da evitare la duplicazione della ricerca delle prove e la valutazione delle medesime secondo criteri differenti”. Anche tale profilo di censura è privo di fondamento. Va anzitutto ribadito che l’utilizzazione dei medesimi fatti storici in sede penale e in sede amministrativa risponde a finalità differenti ed opera su piani ordinamentali diversi: sicché nessuno degli invocati parametri normativi consente di affermare una violazione del divieto del ne bis in idem (pag. 19 del ricorso in appello). Ogni riferimento al concorso fra sanzioni penali e sanzioni amministrative è del tutto improprio: nel caso di specie il -OMISSIS-è stato sottoposto a procedimento penale in relazione a determinati fatti, ed ha successivamente visto revocata la propria autorizzazione in ragione della rilevanza di quei fatti in punto di valutazione della perdurante (in)sussistenza dei presupposti per il rilascio di tale autorizzazione. In ogni caso, la tematica del divieto del c.d. ne bis in idem fra sanzioni penali e sanzioni amministrative, posta a fondamento della censura, nel caso di specie è invocata senza fondamento per almeno due dirimenti ragioni. 9.1. In primo luogo, mette conto rilevare che il provvedimento impugnato con il ricorso di primo grado non ha affatto natura sanzionatoria. Il mezzo in esame sovrappone infatti categorie e piani disomogenei. Allorchè si ricolleghino all’accertamento dei fatti in sede penale effetti sul piano della insussistenza dei requisiti per l’accesso a settori di attività soggetti a regime amministrativo, non si versa per ciò solo in campo di sanzioni. Sul piano concettuale questa opportuna distinzione è stata messa in evidenza dalle numerose pronunce della Corte costituzionale relative alle ipotesi di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive previste dal decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, recante «Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190» (sentenze nn. 236/2015, 276/2016, 35/2021, 230/2021, 214/2017, 36/2019, 230/2021; ordinanza n 46/2020). Nella sentenza n. 236/2015, in particolare, la Corte costituzionale ha chiarito che “tali misure non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento”. Tale orientamento è stato condiviso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 17 giugno 2021, Miniscalco contro Italia; e con la decisione 18 maggio 2021, Galan contro Italia. 9.2. Un secondo, ancor più dirimente, motivo che impedisce di applicare alla fattispecie dedotta lo schema concettuale che è alla base dell’invocato divieto del ne bis in idem, è il rilievo che l’odierno appellante nei due procedimenti penali in questione non ha visto irrogata alcuna sanzione, essendo stati dichiarati prescritti i reati a lui ascritti. Quand’anche il provvedimento amministrativo impugnato con il ricorso di primo grado avesse - in via di mera ipotesi - natura sanzionatoria (il che si è escluso al punto precedente), esso non si cumulerebbe con altra sanzione. Come chiarito molto efficacemente dalla sentenza n. 43/2018 della Corte costituzionale, “Con la sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, la grande camera della Corte di Strasburgo ha impresso un nuovo sviluppo alla materia di cui si discute. (….) la Corte EDU ha enunciato il principio di diritto secondo cui il ne bis in idem non opera quando i procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto («sufficiently closely connected in substance and in time»), attribuendo a questo requisito tratti del tutto nuovi rispetto a quelli che emergevano dalla precedente giurisprudenza. In particolare la Corte di Strasburgo ha precisato (paragrafo 132 della sentenza A e B contro Norvegia) che legame temporale e materiale sono requisiti congiunti; che il legame temporale non esige la pendenza contemporanea dei procedimenti, ma ne consente la consecutività, a condizione che essa sia tanto più stringente, quanto più si protrae la durata dell’accertamento; che il legame materiale dipende dal perseguimento di finalità complementari connesse ad aspetti differenti della condotta, dalla prevedibilità della duplicazione dei procedimenti, dal grado di coordinamento probatorio tra di essi, e soprattutto dalla circostanza che nel commisurare la seconda sanzione si possa tenere conto della prima, al fine di evitare l’imposizione di un eccessivo fardello per lo stesso fatto illecito. (….) neppure si può continuare a sostenere che il divieto di bis in idem convenzionale ha carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale è proprio quello relativo all’entità della sanzione complessivamente irrogata. Se pertanto la prima sanzione fosse modesta, sarebbe in linea di massima consentito, in presenza del legame temporale, procedere nuovamente al fine di giungere all’applicazione di una sanzione che nella sua totalità non risultasse sproporzionata”. Come ricordato dalla Corte costituzionale nella sentenza da ultimo richiamata, la sentenza della Corte E.D.U. del 15 novembre 2016 ha spostato il baricentro della fattispecie considerata, superando sia la rigida inderogabilità del divieto di ne bis in idem, sia la sua natura esclusivamente processuale. In conseguenza, come osserva la Corte costituzionale nella sentenza n. 43/2018, l’attuale fisionomia dell’istituto implica un “controllo di proporzionalità sulla misura della sanzione complessivamente irrogata”: e poiché – come ricorda la stessa sentenza - “Le disposizioni della CEDU e dei suoi protocolli addizionali vivono nel significato loro attribuito dalla giurisprudenza della Corte EDU (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007), che introduce un vincolo conformativo a carico dei poteri interpretativi del giudice nazionale quando può considerarsi consolidata (sentenza n. 49 del 2015)”, ne consegue che rispetto all’attuale configurazione dell’istituto, come ridefinito dalla sentenza della Corte E.D.U. del 15 novembre 2016, rimane del tutto estranea la fattispecie dedotta nel presente giudizio, connotata dall’assenza dell’irrogazione di una sanzione penale. Per tale ragione il richiamo, contenuto nel ricorso in appello, alla sentenza della Corte E.D.U. Sez. V, 6 giugno 2019, Nodet c. Francia, è inconferente, giacchè la decisione in questione si riferisce al cumulo – per i medesimi fatti - di una sanzione amministrativa pecuniaria e di una pena detentiva 10. Per le assorbenti ragioni fin qui esposte, l’istanza istruttoria reiterata in questo grado di giudizio deve ritenersi non necessaria ai fini della decisione, in quanto le risultanze documentali in atti appaiono sufficienti ed anzi univoche per la decisione delle questioni dedotte in primo grado e riproposte in appello, senza necessità di alcun ulteriore accertamento. 11. La manifesta infondatezza delle censure proposte con il ricorso in appello ne comporta il rigetto. Sussistono, infine, motivate ragioni, anche in considerazione del tempo trascorso fra l’introduzione del giudizio di primo grado e la sua decisione, per disporre la compensazione fra le parti delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le persone menzionate nel presente provvedimento. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 gennaio 2022 con l'intervento dei magistrati: Francesca Quadri, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore Francesca Quadri, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
 Autorizzazione amministrativa – Rilascio – Accertamento fatti penali – Rilevanza -  Limiti.      Allorchè si ricolleghino all’accertamento dei fatti in sede penale effetti sul piano della insussistenza dei requisiti per l’accesso a settori di attività soggetti a regime amministrativo, non si versa per ciò solo in campo di sanzioni (1).    (1) Sul piano concettuale questa opportuna distinzione è stata messa in evidenza dalle numerose pronunce della Corte costituzionale relative alle ipotesi di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive previste dal d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235, recante «Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190» (sentenze nn. 236/2015, 276/2016, 35/2021, 230/2021, 214/2017, 36/2019, 230/2021; ordinanza n 46/2020). Nella sentenza n. 236/2015, in particolare, la Corte costituzionale ha chiarito che “tali misure non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento”. Tale orientamento è stato condiviso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 17 giugno 2021, Miniscalco contro Italia; e con la decisione 18 maggio 2021, Galan contro Italia. Un secondo, ancor più dirimente, motivo che impedisce di applicare alla fattispecie dedotta lo schema concettuale che è alla base dell’invocato divieto del ne bis in idem, è il rilievo che l’odierno appellante nei due procedimenti penali in questione non ha visto irrogata alcuna sanzione, essendo stati dichiarati prescritti i reati a lui ascritti. Quand’anche il provvedimento amministrativo impugnato con il ricorso di primo grado avesse - in via di mera ipotesi - natura sanzionatoria (il che si è escluso al punto precedente), esso non si cumulerebbe con altra sanzione. Come chiarito molto efficacemente dalla sentenza n. 43/2018 della Corte costituzionale, “Con la sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, la grande camera della Corte di Strasburgo ha impresso un nuovo sviluppo alla materia di cui si discute. (….) la Corte EDU ha enunciato il principio di diritto secondo cui il ne bis in idem non opera quando i procedimenti sono avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto («sufficiently closely connected in substance and in time»), attribuendo a questo requisito tratti del tutto nuovi rispetto a quelli che emergevano dalla precedente giurisprudenza. In particolare la Corte di Strasburgo ha precisato (paragrafo 132 della sentenza A e B contro Norvegia) che legame temporale e materiale sono requisiti congiunti; che il legame temporale non esige la pendenza contemporanea dei procedimenti, ma ne consente la consecutività, a condizione che essa sia tanto più stringente, quanto più si protrae la durata dell’accertamento; che il legame materiale dipende dal perseguimento di finalità complementari connesse ad aspetti differenti della condotta, dalla prevedibilità della duplicazione dei procedimenti, dal grado di coordinamento probatorio tra di essi, e soprattutto dalla circostanza che nel commisurare la seconda sanzione si possa tenere conto della prima, al fine di evitare l’imposizione di un eccessivo fardello per lo stesso fatto illecito. (….) neppure si può continuare a sostenere che il divieto di bis in idem convenzionale ha carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale è proprio quello relativo all’entità della sanzione complessivamente irrogata. Se pertanto la prima sanzione fosse modesta, sarebbe in linea di massima consentito, in presenza del legame temporale, procedere nuovamente al fine di giungere all’applicazione di una sanzione che nella sua totalità non risultasse sproporzionata”. Come ricordato dalla Corte costituzionale nella sentenza da ultimo richiamata, la sentenza della Corte E.D.U. del 15 novembre 2016 ha spostato il baricentro della fattispecie considerata, superando sia la rigida inderogabilità del divieto di ne bis in idem, sia la sua natura esclusivamente processuale. ​​​​​​​In conseguenza, come osserva la Corte costituzionale nella sentenza n. 43/2018, l’attuale fisionomia dell’istituto implica un “controllo di proporzionalità sulla misura della sanzione complessivamente irrogata”: e poiché – come ricorda la stessa sentenza - “Le disposizioni della CEDU e dei suoi protocolli addizionali vivono nel significato loro attribuito dalla giurisprudenza della Corte EDU (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007), che introduce un vincolo conformativo a carico dei poteri interpretativi del giudice nazionale quando può considerarsi consolidata (sentenza n. 49 del 2015)”, ne consegue che rispetto all’attuale configurazione dell’istituto, come ridefinito dalla sentenza della Corte E.D.U. del 15 novembre 2016, rimane del tutto estranea la fattispecie dedotta nel presente giudizio, connotata dall’assenza dell’irrogazione di una sanzione penale. 
Autorizzazione amministrativa
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/riconoscimento-della-infermit-c3-a0-del-militare-da-uranio-impoverito-come-dipendente-da-causa-di-servizio
Riconoscimento della infermità del militare da uranio impoverito come dipendente da causa di servizio
Numero 00435/2021 e data 17/03/2021 Spedizione REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato Sezione Prima Adunanza di Sezione del 10 febbraio 2021 NUMERO AFFARE 01138/2020 OGGETTO: Ministero della difesa-Direzione generale della previdenza militare e della leva Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da -OMISSIS- -OMISSIS-, -OMISSIS- -OMISSIS-, avverso decreto 3192/n di diniego riconoscimento dipendenza da causa di servizio; LA SEZIONE Vista la relazione prot. 132036 in data 29.11.2019, trasmessa il 29/09/2020, con la quale il Ministero della difesa-Direzione generale della previdenza militare e della leva, ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto; Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Antonella De Miro; Premesso: La sig.ra -OMISSIS- -OMISSIS-, n.q. di amministratore di sostegno del sig. -OMISSIS- -OMISSIS-, propone ricorso straordinario contro il Ministero della difesa per l’annullamento del decreto n. 3I92/N dell'8.11.2017, notificato in data 15.05.2019, con il quale è stato denegato il richiesto riconoscimento della causa di servizio. Riferisce che il ricorrente: -in servizio nell'Esercito Italiano a Rivoli (TO), presso il -OMISSIS-, come primo Maresciallo con l'incarico di “marconista” e, in seguito, come “addetto di branca”, è stato impiegato in scenari operativi all’estero anche caratterizzati da inquinamento ambientale. In particolare, in un lungo arco temporale dal 1993 al 10.9.2014, è stato comandato in missione in Mozambico, Bosnia Herzegovina, Albania, Iraq, Kosovo, Afghanistan, Libano, venendo sottoposto prima di ogni partenza a plurime vaccinazioni, come da libretto sanitario; -nei primi mesi del 2015 cominciò a manifestare deficit nell’eloquio e, a seguito di accertamenti neurologici, gli è stata diagnosticata la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA); -ritenendo trattarsi di patologia riconosciuta in militari operanti in scenari esteri, con istanza in data 13.10.2015, ha chiesto l'accertamento della dipendenza da causa di servizio per l'infermità "sclerosi laterale amiotrofica", con contestuale istanza di un equo indennizzo. L’istanza è stata respinta con il decreto ministeriale, oggetto del ricorso in esame, che fonda la sua motivazione sul giudizio del Comitato di valutazione per le cause di servizio. Il ricorrente contesta la legittimità del giudizio espresso dall’organo tecnico di valutazione perché ritiene che la grave, sopravvenuta infermità accertata sia conseguenza della sua esposizione a fattori di inquinamento ambientale nelle attività all’estero, e precisamente in aree come i Balcani in cui è stata ormai conclamata la presenza di uranio impoverito, oltre che delle molteplici vaccinazioni cui è stato sottoposto prima di ogni missione. Allega, a riprova della sua pretesa, documentazione già unita alla istanza di riconoscimento della causa di servizio. E, in particolare, la relazione rilasciata il 20.9.2015 dall’ “Azienda Ospedaliera Città della salute e delle scienze” di Torino, che certifica la patologia di cui soffre il militare, specificando che “come riportato dalla letteratura scientifica, tra i veterani della Prima Guerra del Golfo si è verificato un aumento dell'incidenza di suddetta patologia, suggerendo l'esistenza di un fattore ambientale scatenante correlato alla guerra. A seguito di tale osservazione, la SLA è stata riconosciuta dall'U.S. Depertement of veterans Affairs come malattia dei veterani americani.” Sottolinea che la sua condizione di salute, stante l’esposizione ai fattori ambientali inquinanti in zone di guerra, rientra nelle ipotesi prese in considerazione dal legislatore ai fini del riconoscimento dello status di vittima del dovere ai sensi dell'art. 1, comma 563 della legge 266 del 2005 o, in alternativa, ai sensi del comma 564. Afferma che, essendo stato esposto a fattori nocivi in attività di interesse pubblico (per la tutela dell'odine pubblico e della pubblica incolumità, nella protezione e per l'assistenza delle popolazioni in scenari operativi esteri interessati da conflitti), anche nel suo caso deve valere l’asserito “evidente collegamento causale tra la patologia sofferta e gli elementi nocivi assorbiti tramite prolungata esposizione in contesti operativi così difficili, la riconduzione della lesione neurologica venutasi sempre più ad aggravare, alla tutela fornita dalla norma in questione”, perché la letteratura scientifica citata nella relazione specialistica allegata e l’esperienza stessa delle forze armate americane, che hanno già catalogato espressamente la patologia in questione come conseguenza di scenari bellici (praticati anche dall'odierno ricorrente che era in servizio nei medesimi contesti), devono a suo giudizio “condurre a considerare sussistente il legame tra le attività "sensibili" del comma 563 e la patologia”. A conforto della sua tesi, richiama la Corte di Appello dell’Aquila che, con sentenza in data 25.3.2015, ha accolto il ricorso dei familiari di un vigile del fuoco, morto per patologia tumorale, cui l’Amministrazione aveva negato la qualifica di vittima del dovere. Cita diffusamente i lavori della Commissione Ministeriale che ha esaminato la situazione del personale impiegato in missioni estere, da cui discende la invocata normativa, volta a poter prendere in considerazione quelle situazioni di pericolo in cui i nostri militari si siano trovati esposti alle particolari condizioni ambientali e operative che caratterizzano gli scenari bellici. Richiama le conclusioni della Commissione d’inchiesta che, avuto riguardo in particolare al rapporto tra l’insorgere di tumori e l’esposizione ad uranio impoverito, a suo giudizio “ha operato un mutamento di prospettiva nell'impostazione del problema, invertendo l'onere della prova atteso che le ricerche e i dati disponibili non consentivano di confermare ma neanche di escludere un possibile legame tra le patologie oggetto dell’inchiesta e l'esposizione all'uranio impoverito o ad altri agenti nocivi, e sostituendo il nesso di causalità con il criterio di probabilità utilizzando strumenti statistico-probabilistici nella valutazione delle possibili patologie e sganciando, in un certo senso, l'effetto dalla causa”. …. non potendosi affermare - ma neanche escludere - la relazione tra evento morboso e la causa scatenante, il fatto stesso che l'evento si sa verificato costituisce di per sé, a prescindere cioè dalla dimostrazione del nesso diretto, motivo sufficiente per il ricorso agli strumenti risarcitori”. Afferma che siffatta considerazione ha portato la Commissione a ritenere “consentito l'accesso alle forme di assistenza e risarcimento previste dalle disposizioni vigenti (compreso il riconoscimento della causa di servizio e della speciale elargizione) in base ad un dato obiettivo ed inconfutabile rappresentato, appunto, dal verificarsi dell'evento morboso a prescindere dall'accertamento scientifico e medico della causa scatenante”. E sottolinea pure che l’impostazione proposta dalla Commissione ha trovato accoglimento anche in sede normativa, con appositi stanziamenti a favore delle vittime e dei loro familiari, nel testo del decreto Legge 1.10.2007 n. 159 (convertito con modificazioni, dalla legge 29.11.2007, n. 222).” Richiama, altresì, la giurisprudenza che riconosce le condizioni ambientali del militare nelle missioni all’estero quali causa di servizio (sentenza della Corte di Appello Brescia, sez. lav., n. 64/2014 e Corte di Cassazione, Sez. Un. 23300/2016 punto 14, e Cass. 18.12.2007 n. 26626 e 29.08.2008 n. 21927 che ha affermato il principio secondo cui i soggetti "vittime del dovere", o i loro familiari superstiti, hanno una posizione giuridica soggettiva nei confronti di un'amministrazione pubblica priva di discrezionalità in ordine alla decisione di erogare o meno le provvidenze ed in ordine alla misura stessa). Ritiene violato l’articolo 1904 dell’Ordinamento militare, in virtù del quale sono equiparati ai soggetti di cui al comma 563 coloro che abbiano contratto infermità permanentemente invalidanti o alle quali consegua il decesso, in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, effettuate dentro e fuori dai confini nazionali e che siano riconosciute dipendenti da causa di servizio per le particolari condizioni ambientali od operative. Ed, infine, contesta la violazione degli artt. 1079 e ss del DPR. 90/2010 (codice dell'ordinamento militare) che affidano al Comitato di verifica il compito di formulare un parere medico legale in ordine al riconoscimento della dipendenza delle infermità invalidanti o del decesso da causa di servizio, perché il Comitato, nell’esercizio della discrezionalità tecnica volta ad accertare la dipendenza da causa di servizio, deve comunque “applicare criteri e modalità per la determinazione dell'invalidità permanente” e “disporre di dati più completi ed accurati, oltre che di tempi adeguati per poter ipotizzare conclusioni attendibili e non contestabili”. Dichiara che il decreto impugnato non ha tenuto conto del parere della Commissione medica ospedaliera, perché la norma stessa prevede che “ l'amministrazione in conformità al giudizio espresso dalle commissioni mediche ospedaliera nonché al parere del comitato di verifica" adotta il provvedimento di attribuzione del beneficio e ne cura la liquidazione, senza introdurre elementi di discrezionalità, facendo con ciò intendere che il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio dovrebbe, a suo giudizio, discendere direttamente dallo stesso accertamento della sofferta patologia, considerando il fattore di rischio ambientale quale fonte della malattia secondo un orientamento probabilistico. L’Amministrazione ritiene il ricorso infondato deducendo che: 1) la Commissione Medica Ospedaliera (C.M.O.) di Milano, con verbale mod. BL/B n. 2391 del 03/11/2015, ha giudicato il militare affetto dall'infermità "sclerosi laterale amiotrofica (sla) ad andamento ingravescente" ritenendola ascrivibile alla 1" Categoria; 2) il Comitato di verifica per le cause di servizio (C.V.C.S.), con parere n. 960452017 reso nell'adunanza n. 668 del 23/10/2017, ha giudicato la suddetta patologia non dipendente da causa di servizio; 3) l’Amministrazione, uniformandosi al predetto parere, con decreto n. 3192/N del 08/11/2017, ha respinto l'istanza di concessione del beneficio indennitario, in quanto l'infermità non poteva ritenersi riconducibile a fatti di servizio; 4) al fine di accertare la riconducibilità della patologia sofferta ai fatti di servizio addotti dal sottufficiale, l’Amministrazione ha considerato: a) i numerosi rapporti informativi acquisiti dai Comandanti che hanno avuto alle loro dipendenze il ricorrente, che hanno documentato che durante le missioni fuori area a cui ha partecipato, il militare ha svolto prevalentemente attività di amministrazione con incarichi svolti all'interno dei moduli adibiti ad ufficio; b) che il ricorrente non si è mai trovato nelle vicinanze di quelle fonti che la controparte assume come fattori di rischio; c) all'esito della approfondita istruttoria l'Organo tecnico ha escluso che il sottufficiale durante la permanenza presso i TT.00. sia stato esposto ad inquinanti ambientali derivanti dall'attività svolta presso tali siti, ritenendo in conseguenza che sull'insorgenza e decorso della patologia dallo stesso sofferta non abbiano nocivamente influito gli invocati eventi del servizio anche solo sotto il profilo concausale efficiente e determinante; 5) il decreto si fonda sul giudizio del Comitato di verifica che ha giudicato la patologia "Sclerosi laterale amiotrofica (SLA) ad andamento ingravescente", ai sensi del DPR 461/2001, non dipendente da causa di servizio: "...trattandosi di affezione del sistema nervoso centrale, caratterizzata da processo atrofico degenerativo del primo e del secondo motoneurone con conseguente sclerosi del tessuto nervoso, celebrale e/o midollare, sull'insorgenza e decorso della quale è da escludere che abbiano nocivamente influito gli invocati eventi del servizio...". A tal fine il Comitato ha tenuto conto che: a) il ricorrente è risultato affetto da SLA a 48 anni (nei primi mesi del 2015) e la sua condizione appare in linea con gli studi statistici ed epidemiologici della patologia; b) al momento, la causa della SLA non è ancora completamente compresa, ritenendosi che la maggior parte dei casi di SLA sia causata da una serie di fattori che insieme contribuiscono alla sua insorgenza, come predisposizione genetica, fattori ambientali e stile di vita; c) per quanto attiene la somministrazione di vaccini in ambito militare, non vi è alcuna evidenza né scientifica, né di tipo probabilistico che possa condurre a ritenere che la patologia in argomento sia eziologicamente ricollegabile ai vaccini cui è stato sottoposto il nominato militare; e) stante le attuali conoscenze scientifiche, non è possibile riconoscere nel servizio prestato dal ricorrente alcuni fattori di rischio noto o ipotizzati per lo sviluppo della SLA la quale, pertanto, nel caso in esame, non può riconoscersi dipendente da causa di servizio. In conclusione, l’Amministrazione afferma che il provvedimento contestato è un atto plurimotivato e adeguatamente sostenuto dal risolutivo riferimento - "per relationem" - alla circostanza che sulla insorgenza ed evoluzione della patologia sofferta dal sottufficiale, il servizio prestato non ha potuto influire neppure sotto il profilo concausale efficiente e determinante, come risulta dalle sopra menzionate affermazioni del Comitato di Verifica per le Cause di Servizio; è pretestuosa la lamentata carenza istruttoria perché il Comitato ha valutato approfonditamente anche e soprattutto i periodi di servizio svolti dall'interessato in operazioni fuori area. Considerato: 1.In via generale il Collegio intende riaffermare i principi enunciati da una consolidata giurisprudenza, secondo cui, l. a) la valutazione del Comitato di verifica delle cause di servizio, cui è riconosciuta ampia discrezionalità tecnica, è sindacabile in sede giurisdizionale solo per assenza di motivazione, travisamento dei fatti, illogicità manifesta, violazione delle regole procedurali (Cons. St. sez. III, 20 maggio 2019, n.3223), allorquando non siano state adeguatamente considerate le peculiari condizioni di lavoro del dipendente ( ex multis Cons. St., sez. VI, 1 9 ottobre 2009, n. 6366); 1. b) il positivo riconoscimento della dipendenza di una patologia da causa di servizio può conseguire solo all’accertamento di una effettiva e comprovata riconducibilità ad attività lavorativa delle cause produttive di infermità o lesione, in relazione a fatti di servizio ed al rapporto causale tra i fatti e l’infermità o lesione, ai sensi dell’art. 11, comma 1, DPR n. 461/2011 (ex multis: Cons. Stato, sez. I, n. 1642/2020): - in proposito non è sufficiente la mera “possibile” valenza patogenetica del servizio prestato, ma occorre la puntuale verifica, connotata da certezza o almeno da alto grado di credibilità logica e razionale, della valenza del servizio prestato quale fattore eziologicamente assorbente o, quanto meno, preponderante nella genesi della patologia; -è necessario che l’attività lavorativa possa con certezza ritenersi concausa efficiente e determinante della patologia lamentata, non potendo farsi ricorso a presunzioni di sorta e non trovando applicazione, diversamente dalla materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, la regola, contenuta nell’art. 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni; -il principio della causalità adeguata richiede sempre la riconoscibilità dell’esistenza di fattori riconducibili al servizio, che rivestano un ruolo di “adeguata efficiente incidenza” nell’insorgenza e nello sviluppo del processo morboso, mentre devono ritenersi totalmente escluse tutte le altre condizioni che un tale grado di concausale ingerenza non presentino, le quali – benché parimenti verificatesi in servizio – restano tuttavia riguardabili unicamente quali “mere occasioni rivelatrici” di una infermità non avente alcun nesso di causalità o concausalità con le condizioni di servizio; -nella nozione di concausa efficiente e determinante di servizio possono farsi rientrare soltanto fatti ed eventi eccedenti le ordinarie condizioni di lavoro, gravosi per intensità e durata, che vanno necessariamente documentati, con esclusione, quindi, delle circostanze e condizioni del tutto generiche, quali inevitabili disagi, fatiche e momenti di stress che costituiscono fattori di rischio ordinario in relazione alla singola tipologia di prestazione lavorativa. 2. Sennonché, questa Sezione, con parere n. 536/2020, ha anche avuto modo di considerare: - che l'esposizione dei militari ad agenti patogeni, in specie uranio impoverito, e i correlati rischi per la loro salute, è da tempo al centro dell’attenzione istituzionale. Basti pensare alle seguenti iniziative: Commissione di indagine istituita con decreto del Ministro della difesa del 22 dicembre 2000; Commissione Parlamentare d'inchiesta istituita con delibera del Senato del 17 novembre 2004; Commissione Parlamentare d'inchiesta istituita con delibera del Senato dell'11 ottobre 2006; Commissione Parlamentare d'inchiesta istituita con delibera del Senato del 16 marzo 2010 e, infine, Commissione parlamentare di inchiesta istituita con delibera della Camera dei deputati del 30 giugno 2015. Nella relazione di tale ultima Commissione, tra l’altro, si legge che “la Commissione d'inchiesta, grazie alle penetranti metodologie investigative adottate, ha scoperto - dietro le rassicuranti dichiarazioni rese dai vertici dell'Amministrazione della Difesa e malgrado gli assordanti silenzi generalmente mantenuti dalle Autorità di Governo pur esplicitamente sollecitate - le sconvolgenti criticità che in Italia e nelle missioni all'estero hanno contribuito a seminare morti e malattie tra i lavoratori militari del nostro Paese” (v. relazione approvata dalla Commissione nella seduta del 7 febbraio 2018 e trasmessa alla Presidenza della Camera dei deputati il 7 febbraio 2018); - quanto alla esistenza di un rapporto di causalità tra l’esposizione all’uranio impoverito e la malattia, la Commissione istituita dal Ministero e le prime due Commissioni parlamentari erano orientate nel senso di ritenere ignota e comunque non accertata la sussistenza di un nesso causale fra l'esposizione all'uranio impoverito e le patologie riscontrate fra i militari; anche la terza Commissione parlamentare ha ritenuto che “le attuali conoscenze scientifiche non consentono di affermare con certezza il ruolo causale dei fattori di malattia esaminati rispetto agli effetti denunciati ma, allo stesso tempo, non consentono di escludere che una concomitante e interagente azione dei fattori potenzialmente nocivi possa essere alla base delle patologie e dei decessi osservati.”. Infine la quarta Commissione parlamentare ha ritenuto che “la patogenicità dell'uranio impoverito è stata altresì riconosciuta sul piano scientifico, dal momento che la tabella delle malattie professionali, approvata con decreto ministeriale del 9 aprile 2008, su proposta dell'apposita commissione scientifica, elenca al numero 15 le malattie causate da effetti non radioattivi dell'uranio e suoi composti. Vero è che l'unica patologia nosologicamente definita è la nefropatia tubulare, ma altrettanto vero è che la voce 15 della tabella contiene anche una dizione aperta, così formulata: "altre malattie causate dall'esposizione ...". Ciò dimostra che gli effetti patogenetici dell'uranio impoverito sono multiformi e che a dieci anni di distanza dall'emanazione della predetta tabella, i progressi della scienza medica e i risultati delle indagini epidemiologiche imporrebbero un aggiornamento della tabella stessa, con l'inclusione di altre patologie nosologicamente definite, con particolare riguardo a talune forme tumorali del sistema emolinfopoietico”. 3. In tale situazione il Collegio condivide e fa proprio il principio – già affermatosi presso i Tribunali amministrativi – secondo cui la mancanza di una legge scientifica universalmente valida che stabilisca un nesso diretto fra l’operatività nei contesti caratterizzati dalla presenza di uranio impoverito e l’insorgenza di specifiche patologie tumorali non impedisce il riconoscimento del rapporto causale, posto che la correlazione eziologica, ai fini amministrativi e giudiziari, può basarsi anche su una dimostrazione in termini probabilistico-statistici. In presenza di elementi statistici rilevanti (come accade allorché il militare abbia prestato servizio in uno dei sopra indicati teatri operativi) la dipendenza da causa di servizio deve considerarsi accertata salvo che la P.A. non riesca a dimostrare la sussistenza di fattori esogeni, dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica e determinanti per l'insorgere dell'infermità (TAR FI n. 156/2021). In sostanza è proprio per l'impossibilità di stabilire, sulla base delle attuali conoscenze scientifiche, un nesso diretto di causa-effetto e per il riconoscimento del concorso di altri fattori collegati ai contesti fortemente degradati ed inquinati dei teatri operativi che il legislatore non richiede la dimostrazione dell'esistenza del nesso causale con un grado di certezza assoluta, essendo sufficiente la dimostrazione in termini probabilistico-statistici. In tale prospettiva è stato ritenuto che il verificarsi dell'evento costituisca di per sé elemento sufficiente (criterio di probabilità) a determinare il diritto per le vittime delle patologie e per i loro familiari al ricorso agli strumenti indennitari previsti dalla legislazione vigente (compreso il riconoscimento della causa di servizio e della speciale elargizione) in tutti quei casi in cui l'Amministrazione militare non sia in grado di escludere un nesso di causalità. Quindi la normativa in materia prevede un'inversione dell'onere della prova per cui una volta accertata l'esposizione del militare all'inquinante in parola è la PA che deve dimostrare che tale inquinante non abbia determinato l'insorgere della patologia e che essa dipenda invece da altri fattori (esogeni) dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica e determinanti per l'insorgere dell'infermità (TAR Lazio-Roma, Sezione Prima Bis, n. 4345/2015). 4. Tali principi, a giudizio del Collegio, devono essere estesi anche alla specifica infermità di cui è affetto il ricorrente. Al riguardo si vedano gli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta istituita con delibera della Camera dei deputati del 30 giugno 2015, citata, che nella relazione finale approvata il 19 luglio 2017, tra l’altro, scrive: “è stato rilevato come negli Stati Uniti, tra i veterani della Guerra del Golfo, si sia riscontrata un’incidenza di SLA che ha indotto le Autorità di quel Paese a riconoscere la SLA come malattia connessa al servizio militare, e dunque come malattia indennizzabile, per tutti i veterani che anno prestato servizio per più di 90 giorni. Analogo provvedimento è stato adottato in Canada. Spontaneo è chiedersi se in Italia l’Amministrazione della difesa abbia svolto indagini e condotto studi sulla SLA tra i militari……”. Ed, ancora, toccando il tema delle vaccinazioni, dichiara: “E’, altresì, accertato che la causa dell’incremento della patologia oncologica del personale dell’Amministrazione della Difesa nell’ultimo ventennio non possa qualificarsi in termini di univocità, ma piuttosto di multifattorialità, che, come già appurato dalla Commissione d’inchiesta nel corso della XVI legislatura, comprende la vaccinazione e le sue modalità. Come già evidenziato nella relazione intermedia di luglio, la vaccinazione comporta dei rischi in termine di problemi di immunosoppressione, iperimmunizzazione, autoimmunità e di ipersensibilità. Questa affermazione ha trovato conferma dall’analisi dei documenti pubblici dei vaccini, quali fogli illustrativi e schede tecniche”. 5. In ogni caso – anche per l’infermità da cui è affetto il ricorrente – vale il principio secondo cui, nell’accertare i presupposti sostanziali della dipendenza della patologia da causa di servizio, la P.A. procedente ed i suoi organi tecnici sono gravati da un onere d’istruttoria e di motivazione assai stringente, circa la sussistenza, in concreto, delle circostanze straordinarie e dei fatti di servizio che hanno esposto il militare ad un maggior rischio rispetto alle condizioni ordinarie d’attività; nei casi delicati, qual è quello in esame, all’interessato basta dimostrare l’insorgenza della malattia in termini probabilistico–statistici, non essendo sempre possibile stabilire un nesso diretto di causalità tra l’insorgenza della infermità ed i contesti operativi complessi o degradati sotto il profilo bellico o ambientale in cui questi è chiamato ad operare. Viceversa, la P.A. procedente, che ha disposizione dati aggiornati e più precisi e le professionalità più acconce per effettuare la verifica della concreta posizione del militare, pure in ordine alla ricostruzione dell’attività da lui svolta con riguardo alla di lui qualifica e profilo d’impiego operativo, ben più facilmente può tratteggiare, partendo da questi ultimi dati, una seria probabilità d’insorgenza, o meno, della malattia denunciata; l’efficacia del parere del Comitato di verifica (obbligatorio e vincolante in ordine ai dati così accertati) non può esser confuso con i diversi profili, per un verso, della congruità fattuale e scientifica dell’accertamento svolto e, per altro verso, dell’esatta rappresentazione di esso in forma intelligibile a qualunque terzo (Cons. Stato, sez. IV, n. 837/2016). Tale orientamento è stato ribadito recentemente da questo Consiglio di Stato: deve escludersi la necessità della dimostrazione dell’esistenza del nesso causale con un grado di certezza assoluta essendo sufficiente tale dimostrazione, in termini probabilistico-statistici, con riferimento ai teatri operativi principali, tra cui quelli in cui ha operato il ricorrente (Cons. Stato, sez. IV, n. 1661/2021). 6. Occorre inoltre considerare che questo Consiglio di Stato, in una fattispecie in cui si discuteva del diritto al risarcimento dei danni conseguenti alla malattia ed al successivo decesso di un militare, dopo una missione nei territori dell’ex Jugoslavia, ha ritenuto che (Cons. Stato, sez. IV, n. 7578/2020): - allorché, su disposizione dei competenti Organi della Repubblica, invia uomini in missione all’estero, l’Amministrazione della difesa versa in una condizione di responsabilità lato sensu di posizione, cui fa eccezione il solo rischio oggettivamente imprevedibile - giuridicamente qualificabile alla stessa stregua del caso fortuito - ma in cui, viceversa, rientra il rischio da esposizione ad elementi che, benché non ancora scientificamente acclarati come sicuro fattore eziopatogenetico, ciononostante lo possano essere, secondo un giudizio di non implausibilità logico-razionale. La diligentia cui è tenuta l’Amministrazione si situa dunque, in tali casi, ad un livello massimo. In sostanza, nel caso delle missioni all’estero, il militare ha il dovere di esporsi al rischio bellico (sempre latente in tali contesti), ma l’Amministrazione ha il dovere di circoscrivere al massimo, in un’ottica di precauzione, i diversi ed ulteriori rischi concretamente prevedibili (in quanto non implausibili) ed oggettivamente prevenibili. Mentre, dunque, il rischio bellico grava sul militare, il rischio non stricto sensu bellico, ove non implausibile, può e deve essere previsto, circoscritto e prevenuto, nei limiti del possibile, dall’Amministrazione; - era dovere istituzionale dell’Amministrazione, prima del materiale invio degli uomini in missione, accertarsi presso le parallele strutture della difesa degli Alleati della NATO, fra l’altro, circa il tipo di munizionamento utilizzato durante i pregressi eventi bellici, al fine di individuare l’equipaggiamento più opportuno e predisporre le migliori procedure per l’assolvimento della missione ordinata dalle massime Autorità dello Stato. L’amministrazione della difesa, quale Ente datoriale, è sottoposta agli obblighi di protezione stabiliti dall’art. 2087 c.c., che impone a quanti ricorrano, nell’esercizio di attività imprenditoriale, ad energie lavorative di terzi di adottare, nell’esercizio di tali attività, “misure” idonee, secondo un criterio di precauzione e di prevenzione, a “tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Nel caso di invio di militari all’estero, l’Amministrazione è tenuta, prima di procedere all’esecuzione materiale della missione, ad una rigorosa analisi delle condizioni del contesto ambientale, ad una puntuale enucleazione dei possibili fattori di rischio e, quindi, ad una conseguente individuazione delle “misure” tecnico-operative concretamente disponibili, ragionevolmente implementabili e potenzialmente idonee ad eliminare o, comunque, ad attenuare il più possibile i rischi non stricto sensu bellici connessi all’impiego di militari nel teatro de quo. Ciò è tanto più vero allorché la missione debba svolgersi in contesti operativi interessati da previ eventi bellici, come tali connotati da una poliedrica, imponderabile e multifattoriale pericolosità: nell’ex Jugoslavia, in particolare, era stata condotta una campagna di bombardamenti con uso anche di munizionamento pesante, con conseguente presenza, inter alia, di un potenziale e non implausibile rischio chimico/radiologico da inalazione/ingestione umana di particelle finissime di metalli pesanti, rimaste sospese nell’aria a seguito di esplosioni di obiettivi attinti da proiettili DU; - la questione della natura rischiosa delle condizioni operative nel teatro ex jugoslavo era così evidente ab origine, che è confluita in iniziative istituzionali sia del Legislatore (cfr. art. 4-bis d.l. n. 393 del 2000, introdotto dalla legge di conversione n. 27 del 2001, nonché le numerose Commissioni parlamentari d’inchiesta disposte nel corso del tempo), sia della stessa Amministrazione (si ponga mente alla campagna di monitoraggio eseguita in loco dal CISAM). Può, quindi, affermarsi che l’assenza di una piena dimostrazione scientifica circa la valenza oncogenetica dell’esposizione a DU o, comunque, a residui di combustione di metalli pesanti non osta, nel particolare caso di specie, a riconoscere comunque integrato l’elemento eziologico dell’illecito civile. Può, anzi, sostenersi che, alla luce della peculiarità del contesto operativo, del carattere contrattuale della responsabilità dell’Amministrazione, dei valori primari in gioco, della mancata adozione degli accorgimenti pur apprestati dagli Alleati a beneficio del proprio personale, della specifica missione affidata al ricorrente gravasse sull’Amministrazione l’onere di fornire, a contrario, un principio di prova circa l’intervento di un fattore oncogenetico alternativo e diverso rispetto all’esposizione al DU ed ai metalli pesanti. 7. Traslando ora tali principi nella fattispecie in esame appare palese che la decisione non possa quindi prescindere dall’analisi della possibile correlazione tra il vissuto professionale del militare impiegato in teatri operativi all’estero - che, prima dell’arrivo del contingente italiano quale forza di pace, erano stati teatro di guerra con uso di armi e esplosioni di bombe con rilascio di uranio impoverito - ed una patologia, la SLA, che colpisce il sistema neurologico, e, quindi, dall’analisi se l’ambiente fortemente inquinato in cui è stato mandato ad operare il militare - peraltro sottoposto per anni a molteplici vaccini che possono aver minato le sue difese immunitarie - possa essere inteso quale “ fonte” causante o concausante la patologia legata a lesioni neurologiche. Né, a fronte di condizioni di particolare rischio di esposizione ambientale, astrattamente configurabile anche come causa o concausa efficiente, può apoditticamente essere opposta al ricorrente la sintetica motivazione che la natura stessa della patologia è tale da far escludere la dipendenza da causa di servizio. Né può condividersi nella sua assolutezza l’affermazione dell’Amministrazione, secondo cui, al momento, la causa della SLA non è ancora completamente compresa, ritenendosi che la maggior parte dei casi di SLA sia causata da una serie di fattori che insieme contribuiscono alla sua insorgenza, come predisposizione genetica, fattori ambientali e stile di vita. 8. Alla luce della documentazione allegata e delle acquisizioni conoscitive sul pericolo che l’esposizione a fonti di inquinamento, come l’uranio impoverito, ha rappresentato per la salute dei nostri militari, e non solo, impiegati in teatri operativi all’estero come i Balcani, è indubitabile che la motivata istanza per il riconoscimento della causa di servizio ed equo indennizzo presentata dal militare avrebbe meritato un’approfondita istruttoria da parte del Comitato di verifica - di cui in ogni caso non c’è menzione nell’atto impugnato - volta a valutare le effettive condizioni di criticità ambientale cui è stato esposto il militare nei diversi periodi temporali e le misure di protezione che i Comandi di volta in volta hanno approntato sul posto a salvaguardia della salute dei militari presenti in sede. E ciò alla luce dei principi che – nello specifico caso in esame – governano l’onere della prova in tema di riconoscimento della causa di servizio così come delineati al punto 3 del presente parere. Invero, il Comitato, senza alcun riferimento alle motivazioni poste a base della istanza del militare, così sinteticamente si esprime: “l’infermità sclerosi laterale amiotrofica (sla) ad andamento ingravescente non puo' riconoscersi dipendente da fatti di servizio, “perché trattandosi di affezione del sistema nervoso centrale, caratterizzata da processo atrofico degenerativo del primo e secondo motoneurone con conseguente sclerosi del tessuto nervoso, cerebrale e/o midollare, sull'insorgenza e decorso della quale è da escludere che abbiano nocivamente influito gli invocati eventi del servizio, anche sotto il profilo concausale efficiente e determinante. Quanto sopra dopo aver esaminato e valutato tutti gli elementi connessi con lo svolgimento del servizio da parte del dipendente e tutti i precedenti di servizio risultanti dagli atti”. Questa determinazione, non ancorata ad evidenze istruttorie di cui si dia conto nello stesso provvedimento, si presta a far considerare la motivazione come apodittica, volta ad escludere tout court ogni possibile connessione della patologia con il servizio prestato dal militare, quindi stereotipata ed per ciò stessa inidonea a rendere possibile la comprensione delle ragioni in base alle quali l’organo tecnico ha ritenuto di dover categoricamente escludere ogni nesso tra la insorgenza della grave patologia e l’oggettiva esposizione ai fattori di rischio come tali ormai riconosciuti anche in ambito scientifico internazionale. Né si può sottovalutare che, se anche il militare - come dichiarato dall’Amministrazione - ha svolto attività prevalentemente in ufficio, nessuna attività di servizio può essere considerata “ordinaria’ allorché un militare operi in aree che sono state teatro di guerra; ed ancora, in disparte l’ovvia considerazione che le stesse basi in cui è stato impiegato il ricorrente insistevano in aree esposte a fattori inquinanti dal momento che l’uranio impoverito si disperde in nano particelle nell’aria e nell’acqua, è pure comprovato dalle note informative trasmesse dalla stessa Amministrazione che il militare operava anche all’esterno delle sedi in autoveicolo e a piedi. Talune attestazioni dei superiori comandanti riportano, infatti, che il Sottufficiale “ ..ha sempre partecipato allo svolgimento delle attività addestrative interne ed esterne alla Caserma (CAGSM, marce, poligoni etc.)”; “.. le mansioni svolte nell'ambito del Reparto alla sede hanno fatto sì che il SU abbia trascorso diverso tempo all'aria aperta, a prescindere dalle condizioni climatiche”;.. ha partecipato a tutti gli ammaestramenti calendarizzati nel lasso di tempo qui circostanziato classificati quali propedeutici al raggiungimento dello specifico livello di approntamento richiesto per la decretazione del pronti all'impiego. Tali attività si riassumono in attività addestrative fuori sede, marce zavorrate, poligoni sempre conclusisi con esito positivo”. Proprio la circostanza - ben illustrata dal ricorrente nella sua domanda per il riconoscimento della causa di servizio e dell’equo indennizzo - di avere operato per oltre 20 anni all’estero in condizioni di esposizione a fattori inquinanti, avrebbe richiesto una circostanziata valutazione dei luoghi e della reale sussistenza delle indicate situazioni di criticità ambientale e dell’effettivo loro livello di rischio, un’anamnesi completa e approfondita della persona, in grado di escludere con assoluta certezza la causa o la concausa delle condizioni del servizio quale evento patogeno. E ciò alla luce dei principi secondo cui – nel particolare caso in esame – l’Amministrazione è gravata da oneri d’istruttoria e di motivazione assai stringenti, come indicato al punto 5 del presente parere. E, comunque sia, una argomentata risposta, anche se in termini negativi, sarebbe stata più rispettosa di un militare che per oltre vent’anni ha servito le Forze Armate in difficili e delicati contesti operativi; un servitore dello Stato che, come si evince dalle note informative, ha svolto incarichi di particolare riservatezza, garantendo la rete dei sistemi informativi, operando anche all’esterno delle basi e, se necessario, pure in attività ricognitive per la sicurezza e di supporto a squadra NBC, riscuotendo la fiducia di tutti gli ufficiali comandanti dei diversi reparti di appartenenza, che su di lui hanno espresso concordi positivi giudizi. 9. Infine, è appena il caso di ricordare che - secondo la giurisprudenza costante - se è vero che il Giudice amministrativo (o il Consiglio di Stato in sede straordinaria) non può sostituire le proprie valutazioni a quelle effettuate dalle competenti autorità in sede di riconoscimento della dipendenza di un'infermità da causa di servizio, è anche vero che tale sindacato è ammesso nell'ipotesi di vizi logici desumibili dalla motivazione degli atti impugnati, dai quali si evidenzi l'inattendibilità metodologica delle conclusioni cui è pervenuta l'Amministrazione stessa, ovvero nelle ipotesi di irragionevolezza manifesta, palese travisamento dei fatti, omessa considerazione di circostanze di fatto, tali da poter incidere sulla valutazione finale, nonché di non correttezza dei criteri tecnici e del procedimento seguito. Orbene la decisione del Comitato di verifica - fatta propria acriticamente dal Ministero della difesa nel provvedimento impugnato - che ha ritenuto la SLA non dipendente da causa di servizio, appare incongrua e non sufficientemente motivata, illogica e viziata da un falso apprezzamento e da un travisamento dei fatti. Il ricorso, pertanto, deve essere accolto. P.Q.M. Esprime il parere che il ricorso debba essere accolto. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art.22, comma 8 D.lg.s. 196/2003, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate. IL SEGRETARIO Maria Grazia Salamone In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Militari, forze armate e di polizia - Infermità – Da uranio impoverito - Riconoscimento causa di servizio – Nesso di causalità – Mancanza di legge scientifica certa – Conseguenza.              In sede di riconoscimento della infermità come dipendente da causa di servizio, la mancanza di una legge scientifica universalmente valida che stabilisca un nesso diretto fra l’operatività nei contesti caratterizzati dalla presenza di uranio impoverito e l’insorgenza di specifiche patologie tumorali non impedisce il riconoscimento del rapporto causale, posto che la correlazione eziologica, ai fini amministrativi e giudiziari, può basarsi anche su una dimostrazione in termini probabilistico-statistici (1).   (1) Ha chiarito il parere che in presenza di elementi statistici rilevanti (come accade allorché il militare abbia prestato servizio in uno dei sopra indicati teatri operativi) la dipendenza da causa di servizio deve considerarsi accertata salvo che la P.A. non riesca a dimostrare la sussistenza di fattori esogeni, dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica e determinanti per l'insorgere dell'infermità.  In sostanza, è proprio per l'impossibilità di stabilire, sulla base delle attuali conoscenze scientifiche, un nesso diretto di causa-effetto e per il riconoscimento del concorso di altri fattori collegati ai contesti fortemente degradati ed inquinati dei teatri operativi che il legislatore non richiede la dimostrazione dell'esistenza del nesso causale con un grado di certezza assoluta, essendo sufficiente la dimostrazione in termini probabilistico-statistici.   In tale prospettiva è stato ritenuto che il verificarsi dell'evento costituisca di per sé elemento sufficiente (criterio di probabilità) a determinare il diritto per le vittime delle patologie e per i loro familiari al ricorso agli strumenti indennitari previsti dalla legislazione vigente (compreso il riconoscimento della causa di servizio e della speciale elargizione) in tutti quei casi in cui l'Amministrazione militare non sia in grado di escludere un nesso di causalità.   Quindi la normativa in materia prevede un'inversione dell'onere della prova per cui una volta accertata l'esposizione del militare all'inquinante in parola è la PA che deve dimostrare che tale inquinante non abbia determinato l'insorgere della patologia e che essa dipenda invece da altri fattori (esogeni) dotati di autonoma ed esclusiva portata eziologica e determinanti per l'insorgere dell'infermità.  Ha aggiunto il parere che nell’accertare i presupposti sostanziali della dipendenza della patologia da causa di servizio, la P.A. procedente ed i suoi organi tecnici sono gravati da un onere d’istruttoria e di motivazione assai stringente, circa la sussistenza, in concreto, delle circostanze straordinarie e dei fatti di servizio che hanno esposto il militare ad un maggior rischio rispetto alle condizioni ordinarie d’attività; nei casi delicati, qual è quello in esame, all’interessato basta dimostrare l’insorgenza della malattia in termini probabilistico–statistici, non essendo sempre possibile stabilire un nesso diretto di causalità tra l’insorgenza della infermità ed i contesti operativi complessi o degradati sotto il profilo bellico o ambientale in cui questi è chiamato ad operare. Viceversa, la P.A. procedente, che ha disposizione dati aggiornati e più precisi e le professionalità più acconce per effettuare la verifica della concreta posizione del militare, pure in ordine alla ricostruzione dell’attività da lui svolta con riguardo alla di lui qualifica e profilo d’impiego operativo, ben più facilmente può tratteggiare, partendo da questi ultimi dati, una seria probabilità d’insorgenza, o meno, della malattia denunciata; l’efficacia del parere del Comitato di verifica (obbligatorio e vincolante in ordine ai dati così accertati) non può esser confuso con i diversi profili, per un verso, della congruità fattuale e scientifica dell’accertamento svolto e, per altro verso, dell’esatta rappresentazione di esso in forma intelligibile a qualunque terzo (Cons. Stato, sez. IV, n. 837 del 2016). Tale orientamento è stato ribadito recentemente da questo Consiglio di Stato, che ha chiarito che deve escludersi la necessità della dimostrazione dell’esistenza del nesso causale con un grado di certezza assoluta essendo sufficiente tale dimostrazione, in termini probabilistico-statistici, con riferimento ai teatri operativi principali, tra cui quelli in cui ha operato il ricorrente (Cons. Stato, sez. IV, n. 1661 del 2021).
Militari, forze armate e di polizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/alla-corte-costituzionale-l-ambito-temporale-di-applicazione-della-disciplina-pi-c3-b9-favorevole-sulla-escussione-della-cauzione-provvisoria-prestata
Alla Corte costituzionale l’ambito temporale di applicazione della disciplina più favorevole sulla escussione della cauzione provvisoria prestata dagli operatori economici che partecipino ad una gara pubblica
N. 03299/2021 REG.PROV.COLL. N. 06490/2020 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 6490 del 2020, proposto da Consorzio Leonardo Servizi e Lavori “Società Cooperativa Consortile Stabile” in proprio e quale capogruppo mandataria di costituendo Rti, in persona del legale rappresentante pro tempore, nonché PH Facility s.r.l., in proprio e quale mandante del medesimo raggruppamento costituendo, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Maria Vittoria Ferroni, Eugenio Picozza e Marco Orlando, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Sistina, 48; contro Consip s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, 12, è elettivamente domiciliata; nei confronti Gemmo s.p.a., Nagest Global Service s.r.l., Pulitori e Affini s.p.a., Consorzio Servizi Globali Centro Nord Est, Dussmann Service s.r.l., Siram s.p.a., Engie Servizi s.p.a., Consorzio Stabile Energie Locali, Co.L.Ser Servizi s.c.a.r.l., Consorzio Nazionale Cooperativa Pluriservizi, Consorzio Stabile G.I.S.A. ed Elba Assicurazioni s.p.a., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 4315/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Consip s.p.a.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 marzo 2021, tenuta da remoto ai sensi dell’art. 25 d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176, il Cons. Valerio Perotti e uditi per le parti gli avvocati Picozza e Ferroni; FATTO E DIRITTO Con bando pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea n. S-58 del 22 marzo 2014 e sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana n. 33 del 21 marzo 2014, Consip s.p.a. indiceva una procedura aperta di gara articolata complessivamente in diciotto lotti geografici, di cui quattordici “ordinari” e quattro “accessori”, avente ad oggetto “l’affidamento di servizi integrati, gestionali ed operativi, da eseguirsi negli immobili, adibiti prevalentemente ad uso ufficio, in uso a qualsiasi titolo alle Pubbliche Amministrazioni, nonché negli immobili in uso a qualsiasi titolo alle Istituzioni Universitarie Pubbliche ed agli Enti ed Istituti di Ricerca – ID 1299” (c.d. Facility Management 4 o FM4). Criterio di aggiudicazione previsto era quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, con l’attribuzione di un massimo di 60 punti per l’offerta tecnica e di un massimo di 40 punti per quella economica. Il Rti facente capo al Consorzio Leonardo concorreva per i lotti 1, 6, 7 e 10, classificandosi al primo posto della graduatoria relativa al lotto 6. All’esito della conseguente verifica del possesso dei requisiti da parte del concorrente, però, Consip s.p.a. si determinava ad adottare, in data 21 marzo 2019, un provvedimento di esclusione dalla gara relativamente a tutti lotti per i quali il detto raggruppamento aveva presentato offerte, in attuazione del combinato disposto degli artt. 49, comma 2, lett. c) e 38, comma primo, lett. g), del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, applicabili ratione temporis. Tale conclusione era dovuta al riscontro di una serie di irregolarità fiscali a carico della società Iprams s.r.l. – originaria impresa esecutrice del Consorzio Leonardo – e della Comal Impianti s.r.l., ausiliaria della mandante SOF s.p.a. Con il medesimo provvedimento, Consip disponeva altresì l’escussione della cauzione provvisoria prestata per la partecipazione al lotto 6. Il provvedimento di esclusione veniva fatto oggetto di due distinte impugnazioni da parte del Rti Consorzio Leonardo: - con il ricorso iscritto al r.g. n. 4217 del 2019 del Tribunale amministrativo del Lazio, veniva gravata l’esclusione dal lotto 6, unitamente all’escussione della relativa cauzione provvisoria ed alla conseguente segnalazione all’Anac; - con il ricorso iscritto al r.g.n. 4996 del 2019 del medesimo Tribunale veniva invece domandato l’annullamento dell’esclusione relativamente ai lotti 1, 7 e 10, non aggiudicati al raggruppamento. La causa iscritta a r.g.n. 4217 del 2019 veniva definita con sentenza n. 9854 del 23 luglio 2019, con la quale il ricorso veniva in parte respinto, in parte dichiarato inammissibile. A sua volta, la causa iscritta a r.g.n. 4996 del 2019 veniva definita con la sentenza n. 12329 del 25 ottobre 2019, che altresì in parte respingeva il ricorso, in parte lo dichiarava improcedibile. Dopo il passaggio in decisione del secondo ricorso – relativo, come già detto, ai lotti 1, 7 e 10 – ma prima del deposito della relativa sentenza, Consip s.p.a. adottava un ulteriore provvedimento, con il quale disponeva l’escussione della cauzione provvisoria anche relativamente ai lotti 1, 7 e 10, precisando tuttavia che “l’obbligo di pagamento degli importi sopra indicati è da ritenersi sospeso sino alla definizione del giudizio pendente dinanzi al TAR Lazio con numero di R.G. 4996/2019”. Avverso tale nuovo provvedimento, il Consorzio Leonardo e PH Facility s.r.l. proponevano un ulteriore ed autonomo ricorso al Tribunale amministrativo del Lazio, articolando le seguenti censure: A) In relazione al comportamento di Consip: I) La stazione appaltante avrebbe illegittimamente integrato, a distanza di sei mesi, il provvedimento di esclusione dai lotti 1, 7 e 10, disponendo l’escussione della cauzione provvisoria. Il Rti Consorzio Leonardo aveva però impostato le sue scelte imprenditoriali e difensive proprio sul presupposto che, per quei lotti, in cui non risultava aggiudicatario, la cauzione non sarebbe stata escussa. Per questa ragione avrebbe proposto un autonomo ricorso per i lotti 1, 7 e 10 – distinto rispetto all’impugnazione relativa al lotto 6 – e non avrebbe formulato in quel giudizio domanda di sospensione cautelare. Con il proprio comportamento, Consip avrebbe pertanto leso l’affidamento ingenerato nel concorrente in ordine al fatto che la cauzione provvisoria mai sarebbe stata escussa. La determinazione di escussione della cauzione anche per i lotti 1, 7 e 10 sarebbe dunque venuta ad integrare la motivazione del provvedimento di esclusione senza tuttavia preventivamente disporne l’annullamento, come sarebbe stato necessario e, comunque, senza rispettare i presupposti di legge prescritti per l’esercizio del potere di autotutela. II) Il comportamento di Consip avrebbe altresì violato, in danno del Rti ricorrente, il principio del contradditorio, della parità delle armi e del giusto processo: adottando il provvedimento di escussione della cauzione per i lotti 1, 7 e 10 solo dopo il passaggio in decisione del ricorso contro il provvedimento di esclusione dalla gara, si sarebbe infatti precluso al Rti ricorrente di limitarsi a presentare motivi aggiunti nel predetto giudizio (nonché una apposita domanda cautelare), costringendolo ad una nuova (ed onerosa) vertenza giudiziaria. III. Poiché la procedura di gara si era protratta, complessivamente, per circa cinque anni, nelle more l’amministrazione era stata costretta a consentire il protrarsi dell’esecuzione in proroga dei contratti aggiudicati nell’ambito della precedente gara FM3 – a prezzi risultati più alti rispetto a quelli ottenuti in esito alla procedura FM4 – con conseguente danno erariale, sub specie di danno alla concorrenza. In questo quadro, Consip s.p.a. avrebbe dapprima sospeso la gara FM4, motivando tale decisione con riferimento alle indagini dell’autorità giudiziaria e dell’autorità garante della concorrenza a del mercato, salvo poi ad un certo punto decidere di riprendere le operazioni prima della definizione dei medesimi procedimenti. In ogni caso, per l’ipotesi in cui il provvedimento di escussione della cauzione avesse dovuto ritenersi legittimo, Consip sarebbe stata comunque tenuta a rispondere nei confronti del raggruppamento a titolo di responsabilità precontrattuale. B) Vizi del provvedimento impugnato. IV) L’escussione della cauzione provvisoria non avrebbe potuto essere disposta nei confronti del Rti appellante in relazione alla partecipazione ai lotti 1, 7 e 10, in quanto: (i) in forza della previsione dell’articolo 38, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 163 del 2006, la carenza dei requisiti di ordine generale comporterebbe bensì l’esclusione dalla gara, ma consentirebbe l’escussione della cauzione solo nei confronti del concorrente primo graduato, atteso che l’escussione nei confronti degli altri concorrenti sarebbe consentita soltanto ove prevista dalla lex specialis di gara, secondo quanto chiarito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 34 del 2014; siffatta previsione non sarebbe tuttavia riscontrabile nel caso in esame; (ii) anche volendo ricondurre l’escussione della cauzione provvisoria alla fattispecie disciplinata dall’art. 48 del d.lgs. n. 163 del 2006, la dimostrazione dei requisiti ai sensi della predetta norma sarebbe stata avviata da Consip soltanto per il lotto 6 (ove il Rti Consorzio Leonardo era primo graduato) e per il lotto 10 (ove il medesimo Rti era risultato provvisoriamente primo graduato a seguito dell’esclusione del concorrente che aveva ottenuto il maggior punteggio, poi tuttavia riammesso a seguito dell’annullamento dell’esclusione in sede giurisdizionale). Una tale verifica non sarebbe stata invece mai disposta in relazione alla partecipazione ai lotti 1 e 7, in quanto il Rti ricorrente non era risultato né aggiudicatario provvisorio, né secondo graduato, per cui in relazione a questi ultimi lotti l’escussione della cauzione sarebbe stata adottata in carenza dei presupposti. In definitiva, per i lotti 1 e 7 l’escussione della cauzione sarebbe stata priva di base giuridica, mentre per il lotto 10 la dedotta illegittimità della stessa sarebbe derivata dalla tardività della richiesta, che avrebbe leso l’affidamento del concorrente. Sotto altro profilo, la ricorrente deduceva che l’escussione della cauzione provvisoria avrebbe anche natura sanzionatoria, ragion per cui l’art. 93, comma 6, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 correttamente ne circoscriverebbe l’operatività alla sola ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto da parte dell’aggiudicatario, escludendo per contro gli altri partecipanti alla gara. Tale disposizione, seppur in presenza di una gara bandita antecedentemente alla sua entrata in vigore, avrebbe purtuttavia dovuto essere applicata da Consip anche nel caso di specie, in forza del principio di retroattività della legge più favorevole. Diversamente argomentando, avrebbe dovuto sollevarsi questione di legittimità costituzionale dell’articolo 93, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016, in relazione agli artt. 3 e 117, primo comma Cost. e dell’art. 7 della CEDU, nei termini in cui detta norma consentisse l’applicazione di previsioni preesistenti più afflittive nei riguardi dei partecipanti alla gara. V) La richiesta di escussione della cauzione provvisoria del 25 settembre 2019 contraddirebbe inoltre il precedente provvedimento di esclusione dalla gara del 21 marzo 2019: dalla lettura di quest’ultimo non emergerebbe infatti alcun elemento idoneo a far supporre che Consip si fosse riservata di escutere successivamente la cauzione anche per i lotti 1, 7 e 10. Al contrario, ad avviso della ricorrente, tale provvedimento avrebbe – sia pure implicitamente – (auto)vincolato la stazione appaltante ad escutere la cauzione solo per il lotto 6, salvo poi venire contra factum proprium senza però preventivamente agire in autotutela. Non sarebbe pertinente, inoltre, il richiamo – operato da Consip – al termine di sei mesi per l’escussione della fideiussione, ai sensi dell’articolo 1957 Cod. civ., poiché tale norma avrebbe dovuto essere letta alla luce della disciplina pubblicistica, la quale richiederebbe l’escussione della cauzione contestualmente all’esclusione. L’escussione della cauzione sarebbe stata inoltre ricollegata dalla lex specialis di gara unicamente all’ipotesi della mancata sottoscrizione del contratto per fatto del concorrente, situazione verificatasi solo in relazione al lotto 6 e non anche per i lotti 1, 7 e 10. In ogni caso, anche a voler tener conto del termine decadenziale di sei mesi stabilito dall’articolo 1957 Cod. civ., la richiesta di escussione della cauzione sarebbe stata comunque tardiva, dovendo detto termine essere computato con decorrenza dalla data del provvedimento di escussione (21 marzo 2019), dunque già scaduto al momento della richiesta di escussione (25 settembre 2019). Il Rti ricorrente proponeva inoltre una domanda di risarcimento del danno a titolo di responsabilità precontrattuale per il caso in cui il provvedimento di escussione della cauzione fosse stato ritenuto comunque legittimo. Costituitasi in giudizio, Consip s.p.a., concludeva per il rigetto del ricorso, in quanto infondato. Si costituiva inoltre la società Gemmo s.p.a., con atto di mera forma. Con sentenza 28 aprile 2020, n. 4315, il giudice adito respingeva il ricorso, ritenendolo infondato. Avverso la detta pronuncia, il Consorzio Leonardo Servizi interponeva appello, deducendo i seguenti motivi di impugnazione: 1) Error in iudicando. Difetto di giurisdizione del giudice ordinario. Violazione di legge. Violazione dell’art. 133, comma 1, lettera e) n. 1 c.p.a. 1.2) Error in iudicando. Contraddittorietà ed illogicità della motivazione; sproporzionalità; eccesso di potere; ingiustizia manifesta. Omessa pronuncia. Eccesso di potere per contraddittorietà con un precedente provvedimento. Errore nei fatti. Difetto di motivazione. Violazione dell’art. 3 l. n. 241/1990. Difetto nei presupposti, arbitrarietà, illogicità. Violazione dell’art. 48 del d.lgs. n. 163/2006. Violazione del principio di autolimitazione dell’amministrazione. Violazione della ragionevolezza e proporzionalità dell’azione amministrativa. Violazione dell’art. 1957 Cod. civ. 2) Illegittimità della sentenza per error in iudicando. 2.1) Error in iudicando per omessa pronuncia – Violazione degli artt. 38, 48. 49 e 75 del d.lgs. n. 163/2006 – Difetto dei presupposti di legge. Violazione dell’obbligo di motivazione – Eccesso di potere per contraddittorietà, manifesta illogicità e travisamento dei fatti. 3) Error in iudicando. Contraddittorietà ed illogicità della motivazione; sproporzionalità; eccesso di potere; ingiustizia manifesta. 3.1) Violazione del principio del contraddittorio, della parità delle armi, del giusto processo e di economicità processuale. Violazione dei principi di buona fede e legittimo affidamento. Violazione del principio di autolimitazione, di ragionevolezza e proporzionalità dell’azione amministrativa. 4) Error in iudicando. Contraddittorietà ed illogicità della motivazione; sproporzionalità; eccesso di potere; ingiustizia manifesta. 4.1) Abuso di diritto. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 163/2006. Violazione dei principi di concentrazione e continuità delle operazioni di gara. Violazione degli artt. 1 e 2 della legge n. 241 del 1990. Violazione del principio di correttezza e buona fede, della leale e responsabile collaborazione e di buon andamento dell’azione amministrativa. 5) Illegittimità della sentenza per error in iudicando. 5.1) Violazione del principio del legittimo affidamento e della buona fede, di imparzialità e buon andamento. Violazione del principio di autolimitazione dell’amministrazione. Omessa pronuncia sulla violazione dell’art. 48 del d.lgs. n. 163/2006 – Contraddittorietà manifesta con altra parte della sentenza – Violazione della ragionevolezza e proporzionalità dell’azione amministrativa. 6) Illegittimità della sentenza per error in iudicando. 6.1) Violazione di legge – Violazione degli artt. 3 e 97 Cost. – Violazione dell’obbligo di motivazione – Violazione dell’art. 21 nonies della legge n. 241/1990 – Violazione degli artt. 1 e 3 della legge n. 241/1990 – Eccesso d potere per travisamento dei fatti. 7) Illegittimità della sentenza per error in iudicando. 7.1) Error in iudicando per apoditticità e carenza di motivazione – Violazione dell’art. 93 comma 6 del d.lgs. n. 50 del 2016 in relazione all’art. 117, co. 1 Cost. e all’art. 7 Cedu. Violazione dell’art. 3 Cost. – Violazione dell’art. 49 Carta ei diritti fondamentali dell’Unione europea e dell’art. 11 Cost. Omessa applicazione del principio della lex mitior in relazione all’art. 93 comma 6 del d.lgs. n. 50 del 2016. 7.2) In subordine, questione di legittimità costituzionale dell’art. 93 comma 6 del d.lgs. n. 50 del 2016 per violazione degli artt. 3 e 117 primo comma della Costituzione in combinato disposto con l’art. 7 Cedu. Costituitasi in giudizio, Consip s.p.a. concludeva per l’infondatezza del gravame, chiedendo che fosse respinto. Contestava, in particolar modo, la dedotta natura di sanzione amministrativa dell’escussione della cauzione provvisoria anche ai concorrenti non aggiudicatari, presupposto indefettibile per potersi applicare, al caso in esame, il principio di retroattività della lex mitior (ossia, nella specie, l’art. 93 comma 6 del d.lgs. n.50 del 2016). Nell’imminenza dell’udienza di trattazione le parti hanno depositato memorie illustrative delle proprie tesi difensive ed hanno replicato a quelle avversarie. All’udienza dell’11 marzo 2021 la causa è stata riservata per la decisione. Il Collegio, a fronte delle risultanze di causa, ritiene sussistere i presupposti di rilevanza e non manifesta infondatezza per rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 93, comma 6 (Garanzie per la partecipazione alla procedura), nel combinato disposto con l’art. 216 (Disposizioni transitorie e di coordinamento) del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) per contrasto con gli artt. 3 e 117 comma primo (quest’ultimo in relazione all’art. 49, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) della Costituzione. In base all’art. 93, comma 6 citato, la cd. “garanzia provvisoria” prestata dagli operatori economici che partecipino ad una gara “[…] copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l'aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all'affidatario o all'adozione di informazione antimafia interdittiva emessa ai sensi degli articoli 84 e 91 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159; la garanzia è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto”. Tale garanzia viene obbligatoriamente posta a corredo dell’offerta e – come precisa il primo comma della medesima disposizione – è “pari al 2 per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione”. La norma è dunque chiara nel circoscrivere la possibilità, per la stazione appaltante, di escutere detta garanzia nei soli confronti dell’aggiudicatario (recte, “affidatario”), nei casi specifici ivi contemplati. Ai sensi dell’art. 216 del medesimo d.lgs. n. 50 del 2016, peraltro, le disposizioni contemplate nel vigente Codice dei contratti pubblici si applicano “alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte”. Non consta al Collegio che nel predetto corpo normativo vi sia una disposizione espressa che, in particolare, estenda l’applicazione della disciplina di cui al comma sesto dell’art. 93 cit. anche alle procedure di gara i cui bandi o avvisi siano stati sì pubblicati in epoca antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016, ma relativamente alle quali l’amministrazione si sia determinata ad escutere la cauzione prestata da uno dei partecipanti alla gara non aggiudicatario in un momento successivo all’entrata in vigore dello stesso. Nel caso di specie, come già anticipato, la procedura di gara era soggetta alla disciplina di cui al d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, in particolare – per quanto riguarda la questione qui controversa – agli artt. 48 e 75. Ai sensi della prima norma (comma primo), “Le stazioni appaltanti prima di procedere all'apertura delle buste delle offerte presentate, richiedono ad un numero di offerenti non inferiore al 10 per cento delle offerte presentate, arrotondato all'unità superiore, scelti con sorteggio pubblico, di comprovare, entro dieci giorni dalla data della richiesta medesima, il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, eventualmente richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione indicata in detto bando o nella lettera di invito. Le stazioni appaltanti, in sede di controllo, verificano il possesso del requisito di qualificazione per eseguire lavori attraverso il casellario informatico di cui all'articolo 7, comma 10, ovvero attraverso il sito del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti per i contratti affidati a contraente generale; per i fornitori e per i prestatori di servizi la verifica del possesso del requisito di cui all'articolo 42, comma 1, lettera a), del presente codice è effettuata tramite la Banca dati nazionale dei contratti pubblici di cui all'articolo 6-bis del presente Codice. Quando tale prova non sia fornita, ovvero non confermi le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell'offerta, le stazioni appaltanti procedono all'esclusione del concorrente dalla gara, all'escussione della relativa cauzione provvisoria e alla segnalazione del fatto all'Autorità per i provvedimenti di cui all'articolo 6 comma 11. L'Autorità dispone altresì la sospensione da uno a dodici mesi dalla partecipazione alle procedure di affidamento”. A sua volta l’art. 75 al comma primo prevede che “L’offerta è corredata da una garanzia, pari al due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell’invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell’offerente […]”, di seguito precisando, al comma 6, che “La garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell’affidatario, ed è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto medesimo”. La prima disposizione (art. 48) si riferisce all’ipotesi di un controllo a campione che abbia sortito esito negativo circa il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa (ossia dei c.d. “requisiti speciali”) dichiarati dal concorrente all’atto dell’offerta. La seconda previsione (art. 75) concerne invece il caso del contratto che non venga sottoscritto per fatto dell’aggiudicatario. Come esposto in precedenza, dopo aver escluso il raggruppamento facente capo al Consorzio Leonardo Servizi e Lavori da una gara per l’affidamento di servizi integrati, gestionali ed operativi, Consip s.p.a. provvedeva altresì ad escutere la cauzione provvisoria da questi prestata non solo per l’unico Lotto (il n. 6) nel quale il detto operatore economico era risultato primo in graduatoria e quindi aggiudicatario, ma anche – in un secondo momento – per tutti quelli per i quali lo stesso aveva presentato un’offerta (ossia i Lotti 1, 7 e 10), nonostante il detto Rti non fosse risultato, in relazione a questi ultimi, né aggiudicatario né – in ipotesi – secondo graduato. Ciò in pacifica applicazione dell’art. 48 d.lgs. n. 163 del 2006, che non distingue a tal fine tra aggiudicatari e semplici partecipanti alla gara come invece fa il sopravvenuto art. 93, comma 6 del d.lgs. n. 50 del 2016. Ritiene il Collegio, alla luce delle risultanze di causa, di dover confermare la natura anche sanzionatoria dell’istituto dell’escussione della garanzia provvisoria, per come disciplinato dal d.lgs. n. 163 del 2006, applicabile alla concreta vicenda controversa, in coerenza con i propri precedenti arresti dai quali non vi è evidente ragione di discostarsi, nel caso di specie. Va in primo luogo richiamata la decisione dell’Adunanza plenaria 4 ottobre 2005, n. 8 di questo Consiglio, che ha tra l’altro affermato che la cauzione provvisoria, oltre ad indennizzare la stazione appaltante dall’eventuale mancata sottoscrizione del contratto da parte dell’aggiudicatario (funzione indennitaria), può svolgere altresì una funzione sanzionatoria verso altri possibili inadempimenti contrattuali dei concorrenti. La successiva decisione 10 dicembre 2014, n. 34 dell’Adunanza plenaria faceva salvo tale presupposto, nel dichiarare che “E’ legittima la clausola, contenuta in atti di indizione di procedure di affidamento di appalti pubblici, che preveda l’escussione della cauzione provvisoria anche nei confronti di imprese non risultate aggiudicatarie, ma solo concorrenti, in caso di riscontrata assenza del possesso dei requisiti di carattere generale di cui all’art. 38 del codice dei contratti pubblici”. In termini più generali (ex multis, Cons. Stato, V, 27 giugno 2017, n. 3701; V, 19 aprile 2017, n. 1818; IV, 19 novembre 2015, n. 5280; IV, 9 giugno 2015, n. 2829; V, 10 settembre 2012, n. 4778), l’incameramento della cauzione va considerata una misura a carattere latamente sanzionatorio, che costituisce conseguenza ex lege dell’esclusione per riscontrato difetto dei requisiti da dichiarare ai sensi dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006. Sempre secondo Cons. Stato, Ad. plen. n. 34 del 2014, la cauzione provvisoria, oltre ad indennizzare la stazione appaltante dall’eventuale mancata sottoscrizione del contratto da parte dell’aggiudicatario (funzione indennitaria, ipotesi che nel caso di specie non rileva), svolge altresì una funzione sanzionatoria verso altri possibili inadempimenti contrattuali dei concorrenti. L’escussione della cauzione provvisoria assumerebbe quindi anche la funzione di una sanzione amministrativa, seppure non in senso proprio. Tale conclusione è stata poi ribadita da Cons. Stato, V, 10 aprile 2018, n. 2181, “in considerazione della natura sanzionatoria e afflittiva della determinazione relativa all’incameramento della cauzione”. Come ancora di recente evidenziato da Corte Cost. 21 marzo 2019, n. 63, il principio della retroattività della lex mitior in “materia penale” è fondato tanto sull’art. 3 Cost., quanto sull’art. 117, primo comma, Cost., eventuali deroghe a tale principio dovendo superare un vaglio positivo di ragionevolezza in relazione alla necessità di tutelare controinteressi di rango costituzionale. Il principio in questione deve ritenersi applicabile anche alle sanzioni di carattere amministrativo che abbiano natura “punitiva”. Secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze n. 236 del 2011, n. 215 del 2008 e n. 393 del 2006), la regola della retroattività della lex mitior in materia penale non è riconducibile alla sfera di tutela dell’art. 25, secondo comma, Cost., che sancisce piuttosto il principio – apparentemente antinomico – secondo cui “[n]essuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Tale principio deve, invero, essere interpretato nel senso di vietare l’applicazione retroattiva delle sole leggi penali che stabiliscano nuove incriminazioni, ovvero che aggravino il trattamento sanzionatorio già previsto per un reato, non ostando così a una possibile applicazione retroattiva di leggi che, all’opposto, aboliscano precedenti incriminazioni ovvero attenuino il trattamento sanzionatorio già previsto per un reato. Cionondimeno, la regola dell’applicazione retroattiva della lex mitior in materia penale – sancita, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2, secondo, terzo e quarto comma, del Codice penale – non è sprovvista di fondamento costituzionale: fondamento che la costante giurisprudenza della Corte ravvisa anzitutto nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., “che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice” (sentenza n. 394 del 2006). Ciò in quanto, in via generale, “[n]on sarebbe ragionevole punire (o continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo la legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è prevista una pena più lieve)” (sentenza n. 236 del 2011). La riconduzione della retroattività della lex mitior in materia penale all’alveo dell’art. 3 Cost. anziché a quello dell’art. 25, secondo comma, Cost., segna però anche il limite della garanzia costituzionale della quale la regola in parola costituisce espressione. Mentre, infatti, l’irretroattività in peius della legge penale costituisce un valore assoluto e inderogabile, la regola della retroattività in mitius della delle disposizioni sanzionatorie “è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli” (sentenza n. 236 del 2011). Il criterio di valutazione della legittimità di eventuali deroghe legislative alla retroattività della lex mitior in materia sanzionatoria, alla stregua dell’art. 3 Cost., è stato in particolare analizzato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 393 del 2006, ove si osserva, tra l’altro, che “la retroattività in mitius della legge penale è ormai affermata non solo, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2 cod. pen., ma trova ampi riconoscimenti nel diritto internazionale e nel diritto dell’Unione europea. La retroattività della lex mitior in materia penale è in particolare enunciata tanto dall’art. 15, comma 1, terzo periodo, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, concluso a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881; quanto dall’art. 49, paragrafo 1, terzo periodo, CDFUE”. Ne consegue che il valore tutelato dal principio in parola “può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo”, con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma più favorevole deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole (sentenza n. 393 del 2006). La giurisprudenza costituzionale è giunta ad assegnare al principio della retroattività della lex mitior in “materia penale” un duplice, e concorrente, fondamento: da un lato, il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., nel cui alveo peraltro la sentenza n. 393 del 2006, in epoca immediatamente precedente alle sentenze “gemelle” n. 348 e n. 349 del 2007, aveva già fatto confluire gli obblighi internazionali derivanti dall’art. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e dall’art. 49, paragrafo 1, CDFUE, considerati in quell’occasione come criteri interpretativi (sentenza n. 15 del 1996) delle stesse garanzie costituzionali; dall’altro quello – di origine internazionale, ma avente ora ingresso nel nostro ordinamento attraverso l’art. 117, primo comma, Cost. – riconducibile all’art. 7 CEDU, nella lettura offertane dalla giurisprudenza di Strasburgo, nonché alle altre norme del diritto internazionale dei diritti umani vincolanti per l’Italia che enunciano il medesimo principio, tra cui gli artt. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e 49, paragrafo 1, CDFUE, quest’ultimo rilevante nel nostro ordinamento anche ai sensi dell’art. 11 Cost. Ratio della garanzia in questione è, sostanzialmente, il diritto dell’autore del comportamento sanzionato ad essere giudicato in base all’apprezzamento attuale dell’ordinamento relativo al disvalore del fatto da lui realizzato, anziché in base all’apprezzamento sotteso alla legge in vigore al momento della sua commissione. L’eventualità ed il limite in cui il principio della retroattività della lex mitior sia applicabile anche alle misure sanzionatorie di carattere amministrativo è questione esaminata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 193 del 2016. In tale occasione è stato rilevato come la giurisprudenza CEDU non abbia “mai avuto ad oggetto il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì singole e specifiche discipline sanzionatorie, ed in particolare quelle che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche “punitive” alla luce dell’ordinamento convenzionale”. Rispetto però a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità “punitiva”, il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della “materia penale” – ivi compreso quello di retroattività della lex mitior – non potrà che estendersi anche a tali sanzioni. L’estensione del principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni di carattere amministrativo aventi natura e funzione “punitiva” è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali: “laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura “punitiva”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare nei confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento. E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo «vaglio positivo di ragionevolezza», al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale” (Corte cost. sentenza n. 63 del 2019). Nel caso di specie, ritiene il Collegio che il regime di escussione della garanzia provvisoria previsto a suo tempo dall’art. 48 del d.lgs. n. 163 del 2006 possa integrare, alla luce del richiamato consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa, una forma di sanzione di carattere punitivo a carico dell’operatore economico che abbia fornito dichiarazioni rimaste poi senza riscontro, sanzione peraltro abbandonata dalla normativa sopravvenuta. Non sembra revocabile in dubbio che la misura sanzionatoria amministrativa prevista dall’art. 48 del d.lgs. n. 163 del 2006 abbia natura punitiva e soggiaccia pertanto alle garanzie che la Costituzione ed il diritto internazionale assicurano alla materia, ivi compresa la garanzia della retroattività della lex mitior. L’escussione della garanzia in parola, infatti, non può essere considerata una misura meramente ripristinatoria dello status quo ante, né ha natura risarcitoria (o anche solo indennitaria), né mira semplicemente alla prevenzione di nuove irregolarità da parte dell’operatore economico. Si tratta, piuttosto, di una sanzione dall’elevata carica afflittiva (nel caso di specie, all’incirca due milioni di euro), che in assenza di una specifica finalità indennitaria (propria della sola ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto da parte dell’aggiudicatario) o risarcitoria, “si spiega soltanto in chiave di punizione dell’autore dell’illecito in questione, in funzione di una finalità di deterrenza, o prevenzione generale negativa, che è certamente comune anche alle pene in senso stretto” (Corte cost., n. 63 del 2019). In ragione dei rilievi che precedono dovrebbe quindi concludere per l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che precludono l’applicabilità, al caso di specie, della più favorevole disciplina sanzionatoria sopravvenuta – la quale prevede l’escussione della cauzione provvisoria solo a valle dell’aggiudicazione (definitiva) e, dunque, solo nei confronti dell’aggiudicatario di una procedura ad evidenza pubblica – in quanto già in vigore al momento dell’adozione, da parte di Consip s.p.a., del provvedimento di escussione della garanzia provvisoria. Pertanto, poiché la presente controversia non può essere definita indipendentemente dalla risoluzione delle delineate questioni di legittimità costituzionale, ostando ad una diretta applicazione giudiziale dello ius superveniens la previsione espressa di cui all’art. 216 del d.lgs. n. 50 del 2016, il giudizio va sospeso e vanno rimesse alla Corte costituzionale, ai sensi dell’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e dell’art. 23 l. 11 marzo 1953, n. 87, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 93, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016, nel combinato disposto dell’art. 216 del medesimo decreto, per contrasto con agli artt. 3 e 117 Cost. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), visti gli artt. 134 della Costituzione, 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3 e 117 comma primo della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale, nei termini di cui in motivazione, dell’art. 93, comma 6, nel combinato disposto con il successivo art. 216, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50. Sospende il giudizio in corso e ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che a cura della Segreteria la presente ordinanza sia notificata alle parti e sia comunicata al Presidente del Consiglio dei Ministri. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 marzo 2021, tenuta da remoto ai sensi dell’art. 25 d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176, con l'intervento dei magistrati: Giuseppe Severini, Presidente Fabio Franconiero, Consigliere Valerio Perotti, Consigliere, Estensore Stefano Fantini, Consigliere Alberto Urso, Consigliere Giuseppe Severini, Presidente Fabio Franconiero, Consigliere Valerio Perotti, Consigliere, Estensore Stefano Fantini, Consigliere Alberto Urso, Consigliere IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Cauzione – Cauzione provvisoria - Disciplina ex artt. 93, comma 6, e 216, d.lgs. n. 50 del 2016 – Escussione – Ambito temporale di applicazione – Violazione artt. 3 e 117, comma primo, Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.     ​​​​​       E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 93, comma 6, che disciplina la cauzione provvisoria prestata dagli operatori economici che partecipino ad una gara, nel combinato disposto con l’art. 216, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, per contrasto con gli artt. 3 e 117, comma primo, (quest’ultimo in relazione all’art. 49, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) Cost., che precludono l’applicabilità della più favorevole disciplina sanzionatoria sopravvenuta - introdotta dal nuovo Codice dei contratti, rispetto alla disciplina previgente del Codice approvato con d.lgs. n. 163 del 2016 - che prevede l’escussione della cauzione provvisoria solo a valle dell’aggiudicazione (definitiva) e, dunque, solo nei confronti dell’aggiudicatario di una procedura ad evidenza pubblica – in quanto già in vigore al momento dell’adozione del provvedimento di escussione della garanzia provvisoria (1).      (1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016 circoscrive la possibilità, per la stazione appaltante, di escutere la garanzia nei soli confronti dell’aggiudicatario (recte, “affidatario”), nei casi specifici ivi contemplati. L’escussione della garanzia provvisoria ha carattere latamente sanzionatorio, che costituisce conseguenza ex lege dell’esclusione per riscontrato difetto dei requisiti da dichiarare.  Ai sensi dell’art. 216 del medesimo d.lgs. n. 50 del 2016 le disposizioni contemplate nel Codice si applicano “alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte”. Manca, invece, una disposizione espressa che, in particolare, estenda l’applicazione della disciplina di cui al comma 6 dell’art. 93 cit. anche alle procedure di gara i cui bandi o avvisi siano stati sì pubblicati in epoca antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016, ma relativamente alle quali l’amministrazione si sia determinata ad escutere la cauzione prestata da uno dei partecipanti alla gara non aggiudicatario in un momento successivo all’entrata in vigore dello stesso.  Ha ancora ricordato la Sezione che come ancora di recente evidenziato da Corte Cost. 21 marzo 2019, n. 63, il principio della retroattività della lex mitior in “materia penale” è fondato tanto sull’art. 3 Cost., quanto sull’art. 117, primo comma, Cost., eventuali deroghe a tale principio dovendo superare un vaglio positivo di ragionevolezza in relazione alla necessità di tutelare controinteressi di rango costituzionale.  Il principio in questione deve ritenersi applicabile anche alle sanzioni di carattere amministrativo che abbiano natura “punitiva”.  Secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenze n. 236 del 2011, n. 215 del 2008 e n. 393 del 2006), la regola della retroattività della lex mitior in materia penale non è riconducibile alla sfera di tutela dell’art. 25, secondo comma, Cost., che sancisce piuttosto il principio – apparentemente antinomico – secondo cui “[n]essuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.  Tale principio deve, invero, essere interpretato nel senso di vietare l’applicazione retroattiva delle sole leggi penali che stabiliscano nuove incriminazioni, ovvero che aggravino il trattamento sanzionatorio già previsto per un reato, non ostando così a una possibile applicazione retroattiva di leggi che, all’opposto, aboliscano precedenti incriminazioni ovvero attenuino il trattamento sanzionatorio già previsto per un reato. Cionondimeno, la regola dell’applicazione retroattiva della lex mitior in materia penale – sancita, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2, secondo, terzo e quarto comma, del Codice penale – non è sprovvista di fondamento costituzionale: fondamento che la costante giurisprudenza della Corte ravvisa anzitutto nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., “che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice” (sentenza n. 394 del 2006). Ciò in quanto, in via generale, “[n]on sarebbe ragionevole punire (o continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo la legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è prevista una pena più lieve)” (sentenza n. 236 del 2011).  La riconduzione della retroattività della lex mitior in materia penale all’alveo dell’art. 3 Cost. anziché a quello dell’art. 25, secondo comma, Cost., segna però anche il limite della garanzia costituzionale della quale la regola in parola costituisce espressione. Mentre, infatti, l’irretroattività in peius della legge penale costituisce un valore assoluto e inderogabile, la regola della retroattività in mitius della delle disposizioni sanzionatorie “è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli” (sentenza n. 236 del 2011).  Il criterio di valutazione della legittimità di eventuali deroghe legislative alla retroattività della lex mitior in materia sanzionatoria, alla stregua dell’art. 3 Cost., è stato in particolare analizzato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 393 del 2006, ove si osserva, tra l’altro, che “la retroattività in mitius della legge penale è ormai affermata non solo, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2 cod. pen., ma trova ampi riconoscimenti nel diritto internazionale e nel diritto dell’Unione europea. La retroattività della lex mitior in materia penale è in particolare enunciata tanto dall’art. 15, comma 1, terzo periodo, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, concluso a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881; quanto dall’art. 49, paragrafo 1, terzo periodo, CDFUE”.  Ne consegue che il valore tutelato dal principio in parola “può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo”, con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma più favorevole deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole (sentenza n. 393 del 2006).    Ha ancora affermato la Sezione che l’escussione della garanzia in parola non può essere considerata una misura meramente ripristinatoria dello status quo ante, né ha natura risarcitoria (o anche solo indennitaria), né mira semplicemente alla prevenzione di nuove irregolarità da parte dell’operatore economico. Si tratta, piuttosto, di una sanzione dall’elevata carica afflittiva che, in assenza di una specifica finalità indennitaria (propria della sola ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto da parte dell’aggiudicatario) o risarcitoria, “si spiega soltanto in chiave di punizione dell’autore dell’illecito in questione, in funzione di una finalità di deterrenza, o prevenzione generale negativa, che è certamente comune anche alle pene in senso stretto” (Corte cost., n. 63 del 2019).  In ragione dei rilievi che precedono dovrebbe quindi concludere per l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che precludono l’applicabilità della più favorevole disciplina sanzionatoria sopravvenuta – la quale prevede l’escussione della cauzione provvisoria solo a valle dell’aggiudicazione (definitiva) e, dunque, solo nei confronti dell’aggiudicatario di una procedura ad evidenza pubblica – se già in vigore al momento dell’adozione del provvedimento di escussione della garanzia provvisoria. 
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/l-adunanza-plenaria-interpreta-il-d.m.-4-maggio-2012-sui-moduli-transattivi-per-indennizzo-conseguente-a-trasfusione-con-sangue-infetto
L’Adunanza plenaria interpreta il d.m. 4 maggio 2012 sui moduli transattivi per indennizzo conseguente a trasfusione con sangue infetto
N. 00016/2021REG.PROV.COLL. N. 00015/2021 REG.RIC.A.P. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 15 di A.P. del 2021, proposto da -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, rappresentati e difesi dall'avvocato Simone Lazzarini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero della Salute, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) n. 3504/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Salute; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 ottobre 2021 il Cons. Giulio Veltri e uditi per le parti gli avvocati come da verbale di udienza; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Gli appellanti, eredi del sig. -OMISSIS-, deceduto il -OMISSIS-a causa di patologie conseguenti a emotrasfusioni con sangue infetto, dapprima, nel 2005, citavano il Ministero della Salute dinanzi al Tribunale civile di Roma per ottenerne la condanna a risarcire il danno subito iure hereditatis e iure proprio, e poi, nelle more della definizione del giudizio civile, nel 2010, entrato in vigore il regolamento n. 132 del 28.4.2009, manifestavano al Ministero della salute il loro interesse ad una definizione transattiva della lite. 2. Il Ministero della salute il -OMISSIS-negava l’ammissione alla speciale procedura transattiva prevista dal dPR 132/2009 a cagione del riscontrato “decorso del termine di cui all’art.5 comma 1, lettera a) del D.M. 4 maggio 2012, trattandosi di danno iure hereditatis”. 3. Gli eredi -OMISSIS- proponevano ricorso dinanzi al TAR Lazio. 4. Il TAR del Lazio, con la sentenza n. 3504/2020 respingeva il ricorso. Premesso che “il Ministero della salute non è tenuto a concludere transazioni, ai sensi delle leggi n. 222 e n. 244 del 2007, in presenza di richieste risarcitorie avanzate iure proprio dagli eredi del deceduto”, il primo giudice riteneva, quanto al danno iure hereditatis che “non avendo gli odierni ricorrenti documentato che il giudizio davanti al Tribunale ordinario di Roma sia stato instaurato entro il termine prescrizionale di cui all’art. 5, comma 1, lett. a) del d.m. 4 maggio 2012 (e cioè entro cinque anni dalla data di presentazione della domanda per l'indennizzo di cui alla legge n. 210 del 1992 ovvero dalla data di piena conoscenza della patologia da parte del danneggiato), il ricorso deve essere respinto, avendo il Ministero della salute legittimamente ritenuto applicabile alla fattispecie de qua il termine di cui alla predetta disposizione normativa”. 5. Avverso la sentenza gli eredi -OMISSIS- hanno interposto appello al Consiglio di Stato. I medesimi hanno sostenuto, a supporto del gravame, che il riferimento alla lett. a) del d.m. 4 maggio 2012, contenuto nel provvedimento impugnato, e valorizzato dalla sentenza di primo grado, sarebbe inconferente, atteso che il regolamento n.132/2009 impone, per la stipulazione delle transazioni, di tener conto dei principi generali in materia di decorrenza dei termini di prescrizione del diritto. Nel caso di specie la prescrizione sarebbe certamente da escludersi posto che nel giudizio civile sarebbe addirittura intervenuta una sentenza di condanna dal Tribunale civile di Roma sull’an debeautur. In ogni caso: a) la sentenza avrebbe falsamente applicato la disposizione di cui all’art. 5, comma 1, lett. a) del d.m. 4 maggio 2012, la quale non opererebbe alcuna distinzione collegata al tipo di domanda giudiziale (iure proprio o iure hereditatis) proposta; b) nell’ipotesi in esame dovrebbe aversi piuttosto riguardo alla disciplina di cui alla lett. b) all’art. 5, comma 1 del citato D.M. (e non già alla lett. a) del medesimo decreto, come invece sostenuto in prime cure). Tale previsione richiede che non siano decorsi più di dieci anni tra la data del decesso e la data di notifica dell'atto di citazione da parte degli eredi dei danneggiati deceduti. Condizione, quest’ultima, pienamente rispettata dagli appellanti, i quali hanno introdotto il giudizio civile dinanzi al Tribunale di Roma nel 2005, a fronte del decesso del loro dante causa avvenuto il 2003. 6. La Sezione III, presso la quale è stato incardinato il giudizio, discussa la causa all’udienza del 13 maggio 2021, ha ritenuto che ai fini del decidere fosse necessario adire preliminarmente l’Adunanza Plenaria, allo scopo di definire la corretta interpretazione della normativa applicabile in giudizio, tenuto conto della rilevanza quantitativa del contenzioso, degli interessi in gioco e delle incertezze derivanti dalla non univoca formulazione della disciplina della materia. A conclusione di un’ampia ricostruzione del quadro normativo e delle opzioni esegetiche percorribili, la III Sezione ha in particolare rimesso all'Adunanza Plenaria, ex art. 99 c.p.a. la soluzione delle seguenti questioni: a) se la previsione dell’art. 5, comma 1, lettera b), del D.M. 4 maggio 2012 comprenda, o meno, nel proprio ambito applicativo, l’ipotesi della richiesta di adesione alla transazione formulata dall’erede del danneggiato da emotrasfusioni, il quale abbia fatto valere in giudizio la propria pretesa al risarcimento del danno iure hereditario; b) se il termine decennale contemplato dal citato. 5, comma 1, lettera b), prevalga, o meno sulle regole generali in materia di decorrenza e computo della prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno extracontrattuale o se detto termine decennale individui l’ambito temporale entro il quale la pendenza del giudizio costituisce il necessario presupposto per l’ammissione alla transazione; c) se, in presenza di una norma sostanzialmente regolamentare statale ritenuta in contrasto con la norma legislativa primaria, il giudice amministrativo abbia il potere - dovere di disapplicare la disposizione regolamentare, anche ai fini del rigetto della domanda. Le parti, con proprie memorie, hanno approfondito le rispettive tesi alla luce dei quesiti posti dalla Sezione a questa Adunanza. La causa è stata discussa all’udienza del 20 ottobre 2021. DIRITTO 1. E’ utile, per una migliore comprensione della vicenda, fornire, sulla scia di quanto già fatto dalla Sezione rimettente, una breve sinossi del contesto normativo e fattuale in cui si inserisce la vicenda contenziosa oggetto del presente giudizio, concernente la speciale procedura transattiva messa a disposizione dallo Stato a favore dei “soggetti talassemici, affetti da altre emoglobinopatie o affetti da anemie ereditarie, emofilici ed emotrasfusi occasionali danneggiati da trasfusione con sangue infetto o da somministrazione di emoderivati infetti…”, che abbiano instaurato azioni di risarcimento danni. 1.1. Com’è noto la vicenda in questione si è sviluppata dagli anni settanta agli anni novanta a causa della somministrazione di sangue e plasma infetto da virus delle epatiti virali (HBV e HCV) e dell'HIV. La maggioranza dei contagi è avvenuta tra i malati talassemici ed emofilici, costretti al tempo a effettuare periodiche trasfusioni. Inoltre, molti contagi si sono verificati in trasfusi occasionali nel corso di interventi chirurgici o nel caso di emorragie. Si tratta di un numero assai considerevole di persone, le quali hanno subito gravi lesioni e talvolta, come nel caso di specie, la morte, a causa del mancato controllo sul sangue trasfuso e sugli emoderivati. 1.2. La legge 25/2/1992 n. 210 ha riconosciuto un indennizzo ai soggetti danneggiati. Le successive leggi 29.11.2007 n. 222 e 31 dicembre 2007, n. 244 hanno inoltre previsto la possibilità per il Ministero della Salute di stipulare transazioni con soggetti talassemici, affetti da altre emoglobinopatie o da anemie ereditarie, emofilici ed emotrasfusi occasionali danneggiati da trasfusione con sangue infetto o da somministrazione di emoderivati infetti e con soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, che abbiano instaurato azioni di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. 1.3. Tali disposizioni sono state attuate con DM 28 aprile 2009, n. 132, che ha fissato i criteri in base ai quali definire le suddette transazioni. Segnatamente, la citata fonte regolamentare all'art. 2, comma 1 ha individuato come presupposti per la stipula delle transazioni: a) l’avere avviato anteriormente al 1° gennaio 2008 azioni di risarcimento danni che siano ancora pendenti alla data di entrata in vigore del decreto stesso; b) l’esistenza di un danno ascrivibile alle categorie di cui alla tabella A annessa al decreto del Presidente della Repubblica 30 dicembre 1981 n. 834, accertato dalla competente Commissione Medico Ospedaliera o dall'Ufficio medico legale del Ministero della salute, o da una sentenza; c) l’esistenza del nesso causale tra il danno e la trasfusione con sangue infetto o la somministrazione di emoderivati infetti o la vaccinazione obbligatoria, accertata dalla competente Commissione o dall'Ufficio Medico Legale o da una sentenza. La medesima fonte, all’art. 2, comma 2, ha precisato che per la stipula delle transazioni si tiene conto dei principi generali in materia di decorrenza dei termini di prescrizione del diritto. 1.4. Sul punto giova sin d’ora precisare che il quadro dei termini prescrizionali era, già al tempo dell’emanazione del regolamento in parola, assolutamente chiaro e definito: la Corte di Cassazione ha infatti chiarito sin dal 2008 (cfr. Cass. civ., n. 581/2008 e tutte le successive decisioni, tra cui Cass. civ., nn. 5964/2016 e 7254/2018) che il regime della prescrizione del diritto al risarcimento del danno spettante ai familiari della persona deceduta a causa di emotrasfusione va correlato al titolo della responsabilità fatto valere, in correlazione con la qualificazione penalistica della vicenda. Si è così affermato che “in caso di decesso del danneggiato a causa del contagio, la prescrizione rimane quinquennale per il danno subito da quel soggetto in vita, del quale il congiunto chieda il risarcimento iure hereditatis, trattandosi pur sempre di un danno da lesione colposa, reato a prescrizione quinquennale”; viceversa, “la prescrizione è decennale per il danno subito dai congiunti della vittima iure proprio in quanto, per tale aspetto, il decesso del congiunto emotrasfuso integra omicidio colposo, reato a prescrizione decennale”. In altri termini, “ciò che qualifica la fattispecie ai fini del calcolo della prescrizione è, da un lato, il reato che viene invocato come presupposto (lesioni colpose ovvero omicidio colposo) e, dall’altro, il titolo che sta a fondamento della domanda”. 1.5. In sintesi, i congiunti, se agiscono iure hereditatis, non possono far valere altro che il reato di lesioni, perché quello è il solo reato rispetto al quale il defunto avrebbe potuto avanzare una pretesa risarcitoria diretta, e conseguentemente la prescrizione è quinquennale; viceversa, qualora essi agiscano iure proprio, cioè chiedendo il risarcimento di un danno diretto da loro patito per la morte del congiunto, allora è invocabile il delitto di omicidio colposo, con il corollario della prescrizione decennale (Cass. civ., n. 5964/2016 e n. 7254/2018 cit.). 1.6. Riprendendo il filo della vicenda normativa, il DM 28 aprile 2009, n. 132, pur avendo fissato stringenti criteri, ha ritenuto opportuno demandare la definizione dei “moduli” transattivi, id est la determinazione degli importi da riconoscere secondo un piano di rateizzazione, a un successivo decreto espressamente definito “di natura non regolamentare” del Ministro della Salute, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, adottato sulla scorta del lavoro istruttorio della Commissione tecnica interministeriale e sentita l’Avvocatura Generale dello Stato (art. 5). 1.7. E’ stato quindi emanato il decreto ministeriale del 4 maggio 2012 (cd. “Decreto moduli”), con cui sono stati definiti i moduli transattivi, cioè gli importi da applicare a ciascuna delle categorie di soggetti individuati dalle leggi n. 222 e n. 244 del 2007, tenuto conto anche dei pareri resi dall’Avvocatura Generale dello Stato. 1.8. Il “DM moduli”, peraltro, non si è limitato a quantificare le somme spettanti ai titolari del diritto al risarcimento, ma ha introdotto ulteriori prescrizioni e condizioni. In tal senso, l’art. 5, comma 1, ha previsto che i moduli transattivi sono applicabili ai soggetti che abbiano presentato istanza di adesione alla procedura transattiva, per i quali: “a) non siano decorsi più di cinque anni tra la data di presentazione della domanda per l’indennizzo di cui alla legge 25.02.1992, n. 210 e la data di notifica dell'atto di citazione, da parte dei danneggiati viventi; b) non siano decorsi più di dieci anni tra la data del decesso e la data di notifica dell'atto di citazione da parte degli eredi dei danneggiati deceduti; c) non sia già intervenuta una sentenza dichiarativa della prescrizione”. 2. E’ proprio sulle lettere a) e b) del “decreto moduli” che si appunta la quaestio iuris sollevata dalla Sezione III, atteso che la domanda proposta dagli appellanti, non rientra, secondo le valutazioni operate dall’amministrazione e confermate in prime cure, nell’ipotesi di cui alla lett. a (essendo pacificamente decorso più di un quinquennio tra la data di presentazione della domanda per l’indennizzo di cui alla legge 25.02.1992, n. 210 e la data di notifica dell'atto di citazione). Tuttavia – segnala la Sezione sulla base delle sollecitazioni provenienti dall’appellante – essa potrebbe rientrare nella lett. b), e in tal caso il termine sarebbe da ritenersi ampiamente rispettato, se non fosse che il tenore letterale della lett. b) sembrerebbe porsi in frontale contrasto con il termine prescrizionale, individuato dal diritto vivente, in caso di danni iure hereditatis, in un quinquennio e non già in un decennio. 3. La Sezione rimettente non nutre dubbio alcuno che la lett. b), nel tracciare il perimetro di applicabilità della speciale procedura transattiva, si riferisca al danno iure hereditatis, con esclusione del danno eventualmente subito dalle vittime secondarie iure proprio (si rinvia sul punto all’ampia argomentazione contenuta nell’ordinanza di rinvio, paragrafo 17) e dunque si limita a interrogare questa Adunanza sul significato utile da dare alla previsione ivi riportata con riferimento al solo danno iure hereditatis, non mancando di prospettare un range di opzioni esegetiche di natura conservativa che si basano, in tesi, su una possibile rinuncia alla prescrizione fondata sulla pietas dell’ordinamento verso le ipotesi più gravi (opzione tuttavia ritenuta impraticabile stante il disposto dell’art. 2937, comma 2, c.c., secondo il quale “si può rinunziare alla prescrizione solo quando questa è compiuta”) o, secondo altra tesi, di natura demolitiva, fondata, per converso, sull’esistenza di un’irriducibile aporia in ordine ai termini prescrizionali applicabili, da risolvere attraverso gli strumenti della disapplicazione (se e in quanto si possa ritenere la fonte di natura “sostanzialmente” regolamentare) oppure della declaratoria di nullità del “DM moduli”. 3.1. Tra le opzioni esegetiche passate in rassegna dalla Sezione ve n’è infine una che, senza sottacere l’equivocità della formulazione normativa, ha il pregio di stemperare il problematico rapporto delle previsioni del “DM moduli” con i principi generali in tema di prescrizione, assegnando al citato DM il ruolo meramente applicativo di definizione temporale delle condizioni di accessibilità degli eredi al modulo transattivo, fermo il regime sostanziale della prescrizione fissato dalla legge. 4. Ritiene la Sezione che questa ultima sia l’opzione ermeneutica da seguire. 5. Né il regolamento di cui al DM 28 aprile 2009, n. 132, né il “DM moduli” a cui il primo ha demandato la fissazione di alcuni profili meramente attuativi della fattispecie avrebbero potuto prevedere alcunché di innovativo in materia di prescrizione, non avendo forza di legge (cfr. art. 2946 cc e seguenti). Trattasi di fonti e atti generali applicativi, il cui unico compito è piuttosto quello di dettare criteri e modalità operative per la definizione transattiva delle liti pendenti, alla luce dei principi generali in materia di decorrenza dei termini di prescrizione del diritto fissati dal codice civile. 6. L’amministrazione, nell’adempiere a tale compito a mezzo del “DM moduli”, ha ritenuto di individuare quale criterio primario, idoneo a scremare l’area della materia contenziosa suscettibile di speciale transazione, quello dell’insussistenza di una sentenza dichiarativa della prescrizione (lett. c). Questa è invero l’unica previsione che deve ritenersi direttamente collegata all’effettivo decorso dei termini prescrizionali: essa è declinata nel senso che se la prescrizione è stata oggetto di accertamento giurisdizionale, seppur non coperto da giudicato, l’accesso al modulo transattivo è da ritenersi precluso. 6.1. Le altre due coordinate selettive, riferite rispettivamente ai “danneggiati viventi” (lett. a) e agli “eredi dei danneggiati deceduti” (lett. b) si limitano, ferma la condizione del mancato intervento di una sentenza accertativa della prescrizione, a definire un arco temporale entro il quale la domanda di adesione alla procedura transattiva può essere presentata. Ciò fanno, è da ritenere, sulla base di motivazioni che non attengono al presunto maturarsi della prescrizione alla luce delle previsioni codicistiche, ma a ragioni di carattere gestionale correlate alla limitatezza delle risorse messe a disposizione, e, probabilmente, al grado di interesse e bisogno del danneggiato presuntivamente evincibile dai tempi di attivazione del giudizio. Del resto, se così non fosse, e se viceversa si ritenesse che il quinquennio indicato in seno alla lett. a) nonché il decennio di cui alla lett b) fossero in qualche modo correlati al decorso del termine prescrizionale, sarebbe agevole osservare che tali termini sono suscettibili di interruzione anche a mezzo di atto stragiudiziale, e sarebbe pertanto errato presumere il maturarsi della prescrizione senza estendere l’indagine e le valutazioni anche al rapporto preprocessuale. 6.2. L’indicata soluzione esegetica, che sgancia il disposto applicativo dalle disposizioni codicistiche in tema di prescrizione, deriva, oltre che dal tenore testuale delle disposizioni, anche dai criteri ermeneutici di carattere sistematico e teleologico. Il procedimento transattivo del quale si discorre è certamente procedimento di carattere speciale che non esclude la percorribilità della transazione ordinaria fra le parti ove ne ricorrano i presupposti generali di cui all’art. 1965 c.c.. Esso ha la duplice finalità di incidere sul vasto contenzioso che la vicenda ha generato nonché di offrire in tempi rapidi (purtroppo solo auspicati) ai danneggiati o ai loro eredi un ristoro, sì da evitare che, specialmente nelle fasce di popolazione a basso reddito, al danno si associno ulteriori disagi sociali ed economici. 6.3. La soluzione interpretativa è anche l’unica coerente con il topos ermeneutico dell’interpretazione “conforme”, atteso che è l’unica, alla luce della formulazione testuale della disposizione, ad assicurare la conformità dell’impianto attuativo con le superiori regole in materia di prescrizione, così come chiarite dalla Corte di Cassazione, a mente delle quali in caso di decesso del danneggiato a causa del contagio, la prescrizione rimane quinquennale per il danno subito da quel soggetto in vita, del quale il congiunto chieda il risarcimento iure hereditatis “trattandosi pur sempre di un danno da lesione colposa, e dunque di un reato a prescrizione quinquennale” (da ultimo, Cass. civ., n. 5964/2016 cit.). 7. Può dunque rispondersi ai quesiti posti dalla Sezione III nel modo che segue: a) la previsione di cui all’art. 5, comma 1, lettera b), del D.M. 4 maggio 2012 comprende nel proprio ambito applicativo l’ipotesi della richiesta di adesione alla transazione formulata dall’erede del danneggiato da emotrasfusioni, il quale abbia fatto valere in giudizio la propria pretesa al risarcimento del danno iure hereditario; b) il termine decennale contemplato dal citato art. 5, comma 1, lettera b), non è riferibile alla presunta prescrizione ma si limita a segnare l’ambito temporale entro il quale la pendenza del giudizio costituisce il necessario presupposto per l’ammissione alla transazione. 8. Non occorre prendere posizione sul quesito di cui alla lettera c) dell’ordinanza di rimessione, ossia quello della plausibilità di una disapplicazione in malam partem di un atto la cui valenza di assume “sostanzialmente” regolamentare, posto che, come si è innanzi chiarito, è possibile, nel caso di specie, fornire una interpretazione “conforme” dell’atto de quo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, afferma i principî di diritto di cui al § 7 della parte motiva e, quanto al resto, rimette la causa alla III Sezione di questo Consiglio di Stato per tutte le conseguenti definitive determinazioni, anche in ordine alle spese del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità degli appellanti e delle altre persone menzionate nella decisione. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 ottobre 2021 con l'intervento dei magistrati: Filippo Patroni Griffi, Presidente Franco Frattini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Carmine Volpe, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Marco Lipari, Presidente Francesco Caringella, Presidente Hadrian Simonetti, Consigliere Andrea Pannone, Consigliere Giulio Veltri, Consigliere, Estensore Fabio Franconiero, Consigliere Giancarlo Luttazi, Consigliere Daniela Di Carlo, Consigliere Filippo Patroni Griffi, Presidente Franco Frattini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Carmine Volpe, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Marco Lipari, Presidente Francesco Caringella, Presidente Hadrian Simonetti, Consigliere Andrea Pannone, Consigliere Giulio Veltri, Consigliere, Estensore Fabio Franconiero, Consigliere Giancarlo Luttazi, Consigliere Daniela Di Carlo, Consigliere In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Sanità pubblica – Sangue infetto – Indennizzo – Transazioni – Art. 5, comma 1, lett. b), d.m. 4 maggio 2012 – Interpretazione.               In tema di moduli transattivi per indennizzo conseguente a trasfusione con sangue infetto la previsione di cui all’art. 5, comma 1, lettera b), d.m. 4 maggio 2012 comprende nel proprio ambito applicativo l’ipotesi della richiesta di adesione alla transazione formulata dall’erede del danneggiato da emotrasfusioni, il quale abbia fatto valere in giudizio la propria pretesa al risarcimento del danno iure hereditario;   il termine decennale contemplato dal citato art. 5, comma 1, lettera b), non è riferibile alla presunta prescrizione ma si limita a segnare l’ambito temporale entro il quale la pendenza del giudizio costituisce il necessario presupposto per l’ammissione alla transazione (1).    (1) Le questioni erano state rimesse dalla sez. III, con ord. 2 luglio 2021, n. 5052​​​​​​​   Ha chiarito l’Alto Consesso che la quaestio iuris sollevata dalla Sezione III si appunta sulle lettere a) e b) dell’art. 5 del decreto ministeriale del 4 maggio 2012 (cd. “Decreto moduli”), con il quale sono stati definiti i moduli transattivi, cioè gli importi da applicare a ciascuna delle categorie di soggetti individuati dalle leggi n. 222 e n. 244 del 2007, atteso che la domanda proposta dagli appellanti non rientra, secondo le valutazioni operate dall’amministrazione e confermate in prime cure, nell’ipotesi di cui alla lett. a (essendo pacificamente decorso più di un quinquennio tra la data di presentazione della domanda per l’indennizzo di cui alla l. 25 febbraio 1992, n. 210 e la data di notifica dell'atto di citazione).   Tuttavia essa potrebbe rientrare non nella lett. a) [a) non siano decorsi più di cinque anni tra la data di presentazione della domanda per l’indennizzo di cui alla legge 25.02.1992, n. 210 e la data di notifica dell'atto di citazione, da parte dei danneggiati viventi] ma nella lett. b) [b) non siano decorsi più di dieci anni tra la data del decesso e la data di notifica dell'atto di citazione da parte degli eredi dei danneggiati deceduti], e in tal caso il termine sarebbe da ritenersi ampiamente rispettato, se non fosse che il tenore letterale della lett. b) sembrerebbe porsi in frontale contrasto con il termine prescrizionale, individuato dal diritto vivente, in caso di danni iure hereditatis, in un quinquennio e non già in un decennio.  ​​​​​​​Ad avviso dell’Alto Consesso, la soluzione esegetica, che sgancia il disposto applicativo dalle disposizioni codicistiche in tema di prescrizione, deriva, oltre che dal tenore testuale delle disposizioni, anche dai criteri ermeneutici di carattere sistematico e teleologico. Il procedimento transattivo del quale si discorre è certamente procedimento di carattere speciale che non esclude la percorribilità della transazione ordinaria fra le parti ove ne ricorrano i presupposti generali di cui all’art. 1965 c.c..   ​​​​​​​Esso ha la duplice finalità di incidere sul vasto contenzioso che la vicenda ha generato nonché di offrire in tempi rapidi (purtroppo solo auspicati) ai danneggiati o ai loro eredi un ristoro, sì da evitare che, specialmente nelle fasce di popolazione a basso reddito, al danno si associno ulteriori disagi sociali ed economici.  La soluzione interpretativa è anche l’unica coerente con il topos ermeneutico dell’interpretazione “conforme”, atteso che è l’unica, alla luce della formulazione testuale della disposizione, ad assicurare la conformità dell’impianto attuativo con le superiori regole in materia di prescrizione, così come chiarite dalla Corte di Cassazione, a mente delle quali in caso di decesso del danneggiato a causa del contagio, la prescrizione rimane quinquennale per il danno subito da quel soggetto in vita, del quale il congiunto chieda il risarcimento iure hereditatis “trattandosi pur sempre di un danno da lesione colposa, e dunque di un reato a prescrizione quinquennale” (da ultimo, Cass. civ., n. 5964 del 2016).  
Sanità pubblica
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/delibera-consob-che-ha-qualificato-il-rapporto-partecipativo-di-vivendi-s.a.-in-telecom-italia-s.p.a.-in-termini-di-controllo-di-fatto-ai-sensi-dell-a
Delibera Consob che ha qualificato il rapporto partecipativo di Vivendi S.A. in Telecom Italia s.p.a. in termini di controllo di fatto ai sensi dell’art. 2359 cod. civ..
N. 07972/2020REG.PROV.COLL. N. 06507/2019 REG.RIC. N. 06678/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6507 del 2019, proposto da Telecom Italia s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Luca Raffaello Perfetti, Andrea Zoppini e Giorgio Vercillo, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Andrea Zoppini in Roma, piazza di Spagna, n. 15; contro Commissione nazionale per le società e a Borsa (Consob), in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Stefania Lopatriello e Gianfranco Randisi, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; nei confronti Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; Vivendi Société Anonyme, non costituita in giudizio; sul ricorso numero di registro generale 6678 del 2019, proposto da Vivendi Société Anonyme, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Giuseppe Guizzi, Francesco Scanzano, Giulio Napolitano e Marco Maugeri, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Francesco Scanzano in Roma, via XXIX Maggio, n. 43; contro Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Stefania Lopatriello e Gianfranco Randisi, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; nei confronti Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; Telecom Italia s.p.a., non costituita in giudizio; per la riforma quanto ad entrambi i ricorsi n. 6507 del 2019 e n. 4990 del 2019: della sentenza 17 aprile 2019, n. 4990 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 ottobre 2020 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti gli avvocati Giorgio Vercillo, per sé e in sostituzione dell'avv. Perfetti, Andrea Zoppini, Stefania Lopatriello e Elisabetta Cappariello in sostituzione dell'avv. Randisi, Giuseppe Guizzi, Giulio Napolitano. FATTO 1.˗ La Commissione nazionale per le Società e la Borsa (Consob), con determinazione 13 settembre 2017, n. 106341 ha qualificato il rapporto partecipativo di Vivendi S.A., in Telecom Italia s.p.a. (d’ora innanzi Tim) in termini di controllo di fatto ai sensi dell’art. 2359 cod. civ., dell’art. 93 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nonché della disciplina in materia di operazioni con parti correlate di cui al Regolamento Consob adottato con delibera 12 marzo 2010, n. 17221 (“Regolamento o.p.c. ”). 2.˗ Vivendi, società francese quotata alla Borsa di Parigi, è entrata nel capitale sociale di Telecom nel giugno del 2015, con la titolarità di una partecipazione iniziale pari al 6,66 per cento, che poi si è progressivamente incrementata fino a raggiungere il 23,925 per cento del capitale sociale di Telecom. 3.˗ In data 15 dicembre 2015 l’assemblea dei soci di Tim è stata chiamata a deliberare: a) la nomina di quattro amministratori; b) l’autorizzazione dei predetti amministratori al proseguimento delle attività indicate nei rispettivi curricula vitae, con svincolo del divieto di concorrenza rispetto a questa attività ai sensi dell’art. 2390 cod. civ. La prima proposta è stata approvata. La seconda proposta di Vivendi, che era titolare del 20,53 per cento del capitale sociale, è stata respinta. 4.˗ In data 25 maggio 2016, l’assemblea dei soci di Tim ha approvato il bilancio di esercizio chiuso al 31 dicembre 2015, con il voto favorevole di una percentuale rappresentativa del 59,13 per cento del capitale sociale ordinario di Tim. Vivendi era titolare del 24,68 per cento del capitale sociale, e, dunque, di una percentuale inferiore a quella necessaria per il raggiungimento della maggioranza. 5.˗ Nel periodo successivo si sono verificate le seguenti vicende, riportate nel provvedimento impugnato e negli atti difensivi delle parti, che hanno assunto rilevanza ai fini della determinazione finale adottata da Consob: - nel mese di novembre 2016, il collegio sindacale di Tim rendeva noto alla Consob di avere avviato taluni approfondimenti relativi alla qualificabilità di Vivendi come socio di controllo di fatto della medesima società; - in data 15 dicembre 2016, la competente divisione corporate governance della Consob inviava una nota al collegio sindacale al fine di acquisire maggiori informazioni sullo stato di detti approfondimenti; - con lettera del 20 gennaio 2017, il collegio sindacale, da un lato, faceva presente che non sussistevano le condizioni per qualificare Vivendi come controllante di Tim ai sensi dell’art. 2359, commi 1 e 2, cod. civ. e dell’art. 93 del d.lgs. n. 58 del 1998 mentre sussistevano i presupposti per qualificarla come socio di controllo ai fini della disciplina relativa alle operazioni con parti correlate, dall’altro lato, chiedeva alla Consob di esprimere, nell’esercizio dei suoi poteri di vigilanza, il proprio orientamento in ordine a quest’ultimo aspetto; - con lettera del 21 febbraio 2017, Telecom informava la Consob, su richiesta di quest’ultima, di avere avviato approfondimenti in ordine alla qualificazione giuridica del rapporto con Vivendi; - all’esito della riunione del 23 marzo 2017, il consiglio di amministrazione di Tim dichiarava che Vivendi non potesse essere qualificata come socio di controllo di Tim; - in data 20 aprile 2017, la Consob comunicava a Tim che il suo assetto proprietario e la governance «nonché le circostanze fattuali segnalate dal collegio sindacale a più riprese, assumevano particolare rilievo come indici di una crescente influenza da parte del socio Vivendi sulla gestione del gruppo Telecom», aggiungendo che «qualora a seguito dell’assemblea dei soci di Telecom - convocata per il 4 maggio 2017 e avente ad oggetto il rinnovo del consiglio di amministrazione mediante voto di lista - Vivendi dovesse venire a detenere il potere di esercitare la maggioranza dei diritti di voto nelle sedute del predetto consiglio, la Società dovrà obbligatoriamente procedere ad una rivalutazione della posizione della stessa Vivendi»; - nell’assemblea del 4 maggio 2017, veniva rinnovato il consiglio di amministrazione di Tim e dalla lista presentata da Vivendi, in data 9 aprile 2017, veniva tratta la maggioranza dei consiglieri, pari a dieci, di cui cinque indipendenti, ed i restanti cinque, tutti indipendenti, dalla lista presentata da un gruppo di Sgr e di investitori internazionali; - con comunicato stampa del 1° giugno 2017, Tim rendeva noto che il consiglio di amministrazione della società i) aveva proceduto a nominare “a maggioranza” Arnaud Roy de Puyfontaine (amministratore delegato di Vivendi) Presidente esecutivo, e Giuseppe Recchi (nominato Presidente “a maggioranza” il 5 maggio 2017) a vice-Presidente; ii) aveva escluso che Vivendi potesse essere qualificata come socio di controllo di Tim ai sensi dell’art. 2359 cod. civ., dell’art. 93 del d.lgs. n. 58 del 1998, della disciplina relativa alle operazioni con parti correlate; iii) aveva in ogni caso «rivisto e ampliato su base volontaria, acquisito il parere favorevole dei consiglieri indipendenti, l’ambito di applicazione della Procedura per l’effettuazione di operazioni con parti correlate in vigore, sostituendo la clausola con cui in data 3 maggio 2017 aveva proceduto a un primo ampliamento, e decidendo di equiparare totalmente il socio di riferimento Vivendi a una società controllante, ai fini dell’individuazione del perimetro delle parti correlate di Tim»; - con due comunicati stampa rispettivamente del 27 luglio 2017 e del 4 agosto 2017, Tim rendeva dapprima noto che «il consiglio di amministrazione della Società aveva preso atto dell’inizio dell’attività di direzione e coordinamento da parte di Vivendi», specificando poi che, in tale presa d’atto, lo stesso consiglio «non aveva trattato il profilo della sussistenza o meno del controllo ex art. 2359 cod. civ.»; - in data 1° agosto 2017, la Consob chiedeva a Vivendi in relazione alla partecipazione rilevante detenuta da Tim nella società quotata Inwit S.p.A. (“Inwit”) e agli obblighi di trasparenza stabiliti dal combinato disposto degli articoli 120 e ss. del d.lgs. n. 58 del 1998 e degli articoli 117 e ss. del Regolamento Emittenti, «di fornire indicazione in ordine ai termini entro cui» avrebbe proceduto «ad ottemperare agli obblighi derivanti dalla partecipazione indirettamente detenuta in Inwit»; - con nota del 2 agosto 2017, Vivendi rappresentava di non ritenere di dover adempiere agli obblighi di trasparenza di cui alle norme richiamate, non considerandosi controllante, in quanto l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento non avrebbe implicato l’esercizio del controllo di fatto su Tim; - con un comunicato stampa in data 7 agosto 2017, Vivendi rilevava i) di non esercitare alcun controllo di fatto su Tim ai sensi dell’art. 93 del d.lgs. n. 58 del 1998 e dell’art. 2359 del codice civile; ii) che non sussisteva una posizione di controllo nelle assemblee ordinarie dei soci di Tim a decorrere dal 22 giugno 2015; iii) che la partecipazione detenuta in Tim non sarebbe stata sufficiente a determinare alcuno stabile esercizio di una influenza dominante sulle assemblee dei soci di Tim; - con nota del 5 settembre 2017, il collegio sindacale di Tim, in risposta alla specifica richiesta di informazioni della Consob, trasmetteva gli «esiti dell’istruttoria riguardante la sussistenza del controllo di Vivendi su Telecom Italia», rappresentando di ritenere «che allo stato ricorrano le condizioni per qualificare Vivendi come controllante di Telecom Italia, ai sensi dell’art. 93, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998 e dell’art. 2359, comma 1, n. 2, del codice civile, nonché dell’IFRS n. 10», essendo Vivendi titolare di un «pacchetto azionario» idoneo ad «orientare la volontà dell’assemblea ordinaria di Telecom Italia», integrando così «una fattispecie di controllo cd. di fatto codicistico» riconducibile al periodo precedente l’assemblea del 4 maggio 2017, agli esiti della stessa e alla situazione esistente in quel momento storico; - la Commissione Consob, nella riunione del 13 settembre 2017, dopo avere esaminato le relazioni istruttorie dei propri uffici sulla vicenda, ha deliberato che, a seguito dell’assemblea del 4 maggio 2017 con la quale Vivendi aveva nominato la maggioranza dei consiglieri di amministrazione di Tim, la medesima Vivendi esercitava il controllo su Tim ai sensi degli artt. 2359, comma 1, n. 2, del codice civile e 93 del d.lgs. n. 58 del 1998, nonché, autonomamente, ai sensi del Regolamento Consob o.p.c. , e di darne pubblicità mediante un comunicato stampa al fine di informare il mercato della decisione assunta. 6.˗ Telecom e Vivendi hanno impugnato tale determinazione innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, deducendo la sua illegittimità per: i) violazione del principio di legalità, per mancanza della norma che attribuisce il potere a Consob; ii) mancato rispetto delle norme sulla partecipazione procedimentale; iii) assenza di un esame collegiale delle argomentazioni svolte dalla divisione corporate governance da parte della Commissione; iv) insussistenza dei presupposti integranti la situazione di controllo di fatto civilistico, con lesione del principio dell’affidamento e carenza di istruttoria, nonché la situazione di controllo ai sensi della normativa sulle parti correlate; v) mutamento di orientamento da parte della Consob in ordine all’identificazione dei tratti salienti della situazione di controllo. 7.˗ Il Tribunale amministrativo, con sentenza 17 aprile 2019, n. 4990, ha ritenuto infondate tutte le censure. In particolare, si è affermato, da un lato, che il fondamento legale del potere sia rinvenibile negli artt. artt. 2359, comma 1, n. 2, del codice civile e 93 del d.lgs. n. 58 del 1998, dall’altro, che non sarebbe stato necessario comunicare l’avvio del procedimento amministrativo, in quanto ci sarebbe stata una ampia interlocuzione tra le parti, pubbliche e private, e, in ogni caso, si tratterebbe di un vizio formale non invalidante ai sensi dell’art. 21-octies della legge 7 agosto 1990 n. 241. Nel merito, il Tribunale ha ritenuto legittimo l’accertamento svolto dalla Consob in ordine alla sussistenza di un controllo societario di Vivendi nei confronti di Tim. 8.˗ Le ricorrenti di primo grado hanno proposto appello, chiedendo la riforma della sentenza impugnata. 9.˗ Si è costituita in giudizio la Consob, chiedendo il rigetto dell’appello. 10.˗ La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 15 ottobre 2020 e della camera di consiglio del 7 dicembre 2020. DIRITTO 1.˗ La questione all’esame della Sezione attiene alla legittimità della determinazione settembre 2017, n. 106341 della Consob, che ha qualificato il rapporto partecipativo di Vivendi in Telecom in termini di controllo di fatto ai sensi dell’art. 2359 cod. civ., dell’art. 93 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nonché della disciplina in materia di operazioni con parti correlate di cui al Regolamento Consob adottato con delibera 12 marzo 2010, n. 17221 (“Regolamento o.p.c. ”). 2.˗ Con un primo motivo le appellanti hanno dedotto l’erroneità della sentenza e l’illegittimità della determinazione impugnata per violazione del principio di legalità dell’azione amministrativa. In particolare, si è affermato che: i) non esisterebbe «alcuna norma (né di fonte primaria né di fonte secondaria) che conferisca a Consob il potere di accertare unilateralmente la sussistenza di una fattispecie di controllo civilistico nei rapporti intercorrenti tra i soci»; ii) il fondamento legale non potrebbe ricondursi, come rilevato dal primo giudice, al potere che la legge attribuisce alla Consob in materia di parti correlate, in quanto, oltre al fatto che, nella specie, sarebbe stato esercitato un potere di qualificazione del rapporto di controllo anche ai sensi del codice civile, si tratterebbe di «poteri tipici di cui la Consob» è titolare ma che «non ha esercitato nel caso di specie»; ii) il fondamento del suddetto potere non potrebbe neanche rinvenirsi nelle altre disposizioni di cui al decreto legislativo n. 58 del 1998 (in particolare, art. 120), all’art. 2391-bis cod. civ. e al “Regolamento operazione parti correlate (o.p.c.) , in quanto ciascuna norma contempla una nozione differente di controllo a seconda dei settori di riferimento; iii) non sarebbe consentito dal sistema che la Consob eserciti un potere di qualificazione astratto e fine a sé stesso, non potendosi ammettere un “dovere di accertamento” nell’ambito della funzione di vigilanza. Con un secondo motivo è stata dedotta l’erroneità della sentenza e della determinazione impugnata per la violazione delle regole sulla partecipazione al procedimento, non essendo stati coinvolti non solo le parti interessate ma anche, ai sensi dell’art. 23 della legge 28 dicembre 2005, n. 262 e dell’art. 5 del Regolamento concernente i procedimenti per l’adozione di atti di regolazione generale ai sensi del suddetto art. 23, gli organismi rappresentativi dei soggetti vigilanti. Tale coinvolgimento sarebbe stato necessario anche perché la Consob avrebbe fornito, in precedenti determinazioni, una nozione di controllo civilistico diversa da quella fatta propria con il provvedimento impugnato. Si sostiene, inoltre, che non sarebbe sufficiente, come erroneamente sostenuto dal primo giudice, l’avvenuto coinvolgimento nelle attività continue di monitoraggio, non essendosi trattato di strumenti di partecipazione consapevoli e finalizzati all’adozione di specifici provvedimenti. 3.˗ I motivi, nei sensi e limiti di seguito indicati, sono fondati. 3.1.˗ Su un piano generale, il principio di legalità dell’azione amministrativa implica che la legge indichi lo scopo di interesse pubblico che la pubblica amministrazione deve perseguire (cd. legalità-indirizzo) e stabilisca le condizioni e le modalità di esercizio del potere (cd. legalità garanzia). Sul piano dello scopo da perseguire, la legalità ha un fondamento costituzionale nel principio democratico (art. 1 Cost.), il quale impone che sia il Parlamento a determinare le finalità di interesse pubblico che fanno capo alla comunità di cittadini e che devono essere perseguiti dalla pubblica amministrazione. Sul piano delle garanzie, la legalità ha un fondamento costituzionale in diversi principi (artt. 1, 23, 42, 97 Cost.) e una connotazione differente a seconda della tipologia di potere che viene posto in essere. Nel diritto amministrativo mancano norme che definiscano quelli che, mutuando una espressione penalistica, sono i cosiddetti corollari della legalità. La dottrina e la giurisprudenza li identificano, per i provvedimenti amministrativi, nella nominatività e tipicità. Il significato della nominatività è agevole, in quanto esso implica che il provvedimento sia “nominato” e, dunque, contemplato dalla norma. Il significato della tipicità è più complesso e impone un livello, più o meno intenso a seconda del potere esercitato, di previsione delle condizioni e delle modalità di esercizio del potere stesso. Si passa da una predeterminazione completa per i provvedimenti che hanno natura vincolata ad una predeterminazione minima per gli atti politici in senso lato che devono rispettare soltanto i principi e le regole generali posti dalle norme attributive del potere. In presenza di provvedimenti restrittivi o sfavorevoli, che sono quelli che rilevano in questa sede, la tipicità deve assolvere pienamente alla funzione di garanzia della sfera giuridica del destinatario dell’attività amministrativa, in quanto è necessario che la legge stabilisca condizioni e modalità di esercizio del potere al fine di assicurare che l’incidenza negativa nella sfera giuridica del privato sia il risultato di una scelta anche legislativa e non solo amministrativa. Su impulso del diritto europeo e, in particolare, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 7), richiede, quando il provvedimento ha natura sanzionatoria o anche soltanto restrittiva, quali corollari della legalità, che la base giuridica sia accessibile e soprattutto prevedibile. La prevedibilità, secondo l’opzione interpretativa preferibile, deve essere intesa in senso oggettivo, implicando che i destinatari dell’attività amministrativa possano prevedere le conseguenze derivanti dalla eventuale violazione del precetto che vieti determinati comportamenti o che prescriva le modalità di svolgimento di una determinata attività. La tendenza, pertanto, è a richiedere un maggiore livello di sviluppo delle previsioni di legge che regolano i settori interessati da tali tipologie di provvedimenti amministrativi. 3.1.1.˗ La giurisprudenza amministrativa ritiene che il suddetto principio di legalità possa subire adattamenti nella fase applicativa, riconoscendo l’ammissibilità della categoria dei poteri impliciti. Si tratta di poteri che non sono espressamente contemplati dalla legge ma che si desumono, all’esito di una interpretazione sistematica, dal complesso della disciplina della materia, perché strumentali all’esercizio di altri poteri. La ragione di questa elaborazione risiede nel fatto che, in alcuni ambiti, è oggettivamente complesso per il legislatore predeterminare quale possa essere, secondo quanto sopra indicato, il contenuto del provvedimento amministrativo. Nei settori di competenza delle Autorità amministrative indipendenti, la suddetta esigenza si manifesta in presenza di poteri di regolazione, che vengono normalmente esercitati nei settori dei servizi di pubblica utilità e dei mercati finanziari in senso ampio. Sul piano strutturale essi hanno, in base al loro contenuto, natura normativa o amministrativa generale, nonché, per alcune parti, anche individuale. La regolazione indipendente, normalmente, ha valenza tecnica ed attiene ad ambiti in costante evoluzione per dinamiche di mercato differenti. E’ dibattuta la questione relativa alla effettiva natura del potere di regolazione e cioè se sussista o meno un “vincolo di tecnicità” con preclusione di svolgere valutazioni di natura discrezionale ovvero se, in ragione della necessità di perseguire l’interesse pubblico relativo allo specifico ambito di competenza, l’Autorità possa effettuare anche tali valutazioni. La suddetta valenza tecnica impedisce la piena operatività del principio di legalità-garanzia, che assume una valenza debole, non essendo, spesso, possibile assicurare la predeterminazione legislativa delle modalità e del contenuto del potere pubblico. Sul piano funzionale, gli scopi della previsione di tali poteri dipendono dal settore che viene in rilievo e, in ogni caso, sono riconducibili in senso ampio ai processi di privatizzazione e liberalizzazione delle attività economiche. La giurisprudenza amministrativa ha ritenuto necessario rafforzare la legalità procedimentale, la quale assume una valenza forte per “compensare” le mancanze della legalità sostanziale (si v., tra gli altri, Cons. Stato, sesta sezione, 24 maggio 2016, n. 2182). Il principio della partecipazione procedimentale è un principio generale dell’azione amministrativa che non ha un fondamento costituzionale ma lo acquisisce in taluni ambiti quando esiste una esigenza di rafforzare le forme di protezione delle posizioni soggettive coinvolte dall’esercizio del potere pubblico. Se, come nel caso in esame, la legalità sostanziale non riesce ad assolvere, per le ragioni indicate, la sua funzione di garanzia, si trasferisce questo compito alla legalità procedimentale. La partecipazione deve avvenire secondo due differenti modalità. In primo luogo, in ragione della natura generale del potere, mediante la consultazione pubblica degli organismi rappresentativi degli operatori economici interessati, al fine di contribuire alla migliore definizione delle regole e del loro impatto sulle attività disciplinate. In secondo luogo, nei soli casi di possibile incidenza nella sfera giuridica specifica di taluni operatori, mediante la comunicazione di avvio del procedimento amministrativo ai sensi degli artt. 7 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, al fine sia di consentire alle parti interessate di svolgere le proprie difese nel procedimento e prevedere gli assetti finali della determinazione amministrativa sia di contribuire alla definizione del contenuto del provvedimento. In questo caso, il fondamento della legalità procedimentale risiede nelle medesime norme della Costituzione che proteggono la sfera giuridica del privato mediante l’imposizione di una base legale tipica. La stessa Corte costituzionale ha affermato che in presenza di potere di regolazione delle Autorità indipendenti occorre «valorizzare le forme di legalità procedurale»: in questi casi, «la difficoltà di predeterminare con legge in modo rigoroso i presupposti delle funzioni amministrative attribuite alle Autorità comporterebbe un inevitabile pregiudizio alle esigenze sottese alla riserva di legge, se non fossero quantomeno previste forme di partecipazione degli operatori di settore al procedimento di formazione degli atti». In definitiva, la «declinazione procedurale del principio di legalità», rappresenta «un utile, ancorché parziale, complemento delle garanzie sostanziali» (Corte cost. 7 aprile 2017, n. 69). Si tenga conto che il rafforzamento delle forme di partecipazione procedimentale evita, inoltre, le aporie di un sistema che, da un lato, richiede una base legale sostanziale forte per i poteri sanzionatori e, dall’altro, in alcuni casi, consente una base legale sostanziale debole per i poteri regolatori impliciti che costituiscono il presupposto della stessa sanzione poi concretamente irrogata. Il rispetto delle regole di partecipazione serve, pertanto, a restituire, almeno in parte, coerenza al sistema, assicurando il recupero delle garanzie e la prevedibilità oggettiva dei possibili sviluppi provvedimentali, nonostante l’opacità della legge sostanziale di disciplina dei poteri regolatori. E’ bene precisare che la descritta funzione di “compensazione” non comporta un pieno recupero del fondamento democratico della legalità, in ragione della non omogeneità tra predeterminazione legislativa sostanziale delle regole e partecipazione procedimentale, ma assicura un maggiore livello di garanzie per il privato. La Sezione rileva come sarebbe, invero, opportuno che il legislatore intervenisse a disciplinare, con misure più pregnanti, modulate alla luce della materia regolata, anche i settori di competenza delle Autorità indipendenti per ridurre l’ambito di operatività dei poteri impliciti e assicurare una più certa compatibilità costituzionale. Nel caso di specie, l’applicazione, come si esporrà oltre, della teoria dei poteri impliciti assume connotati peculiari in quanto viene in rilievo un potere della Consob che non è del tutto riconducibile alle categorie tradizionali. 3.2.˗ Su un piano specifico, le norme di disciplina della materia sono le seguenti. In relazione alla natura dei poteri, la Consob è titolare, in particolare, di poteri di regolazione, di vigilanza, sanzionatori e di risoluzione alternativa delle controversie. In relazione al fondamento legale sostanziale dei poteri, occorre richiamare la disciplina dei controlli societari. L’art. 2359 cod. civ. prevede che sono considerate società controllate: 1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria; 2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria; 3) le società che sono sotto l’influenza di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa. Le prime due forme di controllo definiscono un “controllo interno” attuabile mediante l’esercizio di voti nell’assemblea ordinaria. Si distingue: i) un “controllo interno-di diritto”, che presuppone la disponibilità di voti pari alla maggioranza di quelli esercitabili nell’assemblea ordinaria; ii) un “controllo interno-di fatto”, che presuppone la disponibilità di una quantità di voti sufficiente ad esercitare una influenza dominante. La terza forma di controllo definisce un “controllo esterno”, che prescinde dal possesso di una partecipazione azionaria ed è determinato da “particolari vincoli contrattuali” che pongono una società nella condizione di subire l’influenza dominante di altra società. L’art. 2391-bis cod. civ., la cui rubrica reca «operazioni con parti correlate», dispone che «gli organi di amministrazione delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio adottano, secondo princìpi generali indicati dalla Consob, regole che assicurano la trasparenza e la correttezza sostanziale e procedurale delle operazioni con parti correlate e li rendono noti nella relazione sulla gestione; a tali fini possono farsi assistere da esperti indipendenti, in ragione della natura, del valore o delle caratteristiche dell'operazione». Il decreto legislativo n. 58 del 1998 contiene norme di disciplina degli specifici poteri di regolazione dei mercati finanziari nel caso in cui si accerti la sussistenza di una posizione di controllo. Non è possibile, in questa sede, riportare tutte le specifiche competenze. In particolare, con riguardo alla Parte IV, l’art. 91 dispone che «La Consob esercita i poteri previsti dalla presente parte avendo riguardo alla tutela degli investitori nonché all'efficienza e alla trasparenza del mercato del controllo societario e del mercato dei capitali». L’art. 93 prevede che, ai fini dell’applicazione delle norme della Parte IV relativa alla disciplina degli emittenti, sono considerate imprese controllate, oltre a quelle indicate nel riportato art. 2359, numeri 1 e 2, codice civile, anche: «a) le imprese, italiane o estere, su cui un soggetto ha il diritto, in virtù di un contratto o di una clausola statutaria, di esercitare un'influenza dominante, quando la legge applicabile consenta tali contratti o clausole; b) le imprese, italiane o estere, su cui un socio, in base ad accordi con altri soci, dispone da solo di voti sufficienti a esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria». Il Regolamento Consob, parti correlate, di cui all’Allegato 1, dispone, tra l’altro, che un soggetto è parte correlata ad una società se ricorrono determinati requisiti, specificamente previsti (ad esempio: «controlla la società o ne è controllato o è sottoposto a comune controllo»; «detiene una partecipazione nella società tale da poter esercitare un’influenza notevole su quest’ultima»; «esercita il controllo sulla società congiuntamente con altri soggetti»; «è una società collegata della società, è una joint venture di cui la società è una partecipante»). Viene, inoltre, in rilievo la disciplina relativa a: i) appello al pubblico risparmio (art. 95); ii) comunicazioni al pubblico (art. 115); informativa sui piani di compensi basati su strumenti finanziari (art. 114-bis); trasparenza delle partecipazioni rilevanti (art. 121); informazione nella relazione sul governo societario e gli assetti proprietari (art. 123-bis); informativa sui compensi corrisposti contenuta nella relazione sulla remunerazione (art. 123-ter); definizione di indipendenza dei componenti del collegio sindacale rilevante per eventuali incompatibilità a ricoprire tale carica (art. 148); obblighi di informativa dei consiglieri delegati all’organo di controllo (art. 150); poteri dell’organo di controllo (art. 151). In relazione al fondamento legale procedimentale del potere, la Consob deve rispettare le norme sulla consultazione pubblica e sulla partecipazione procedimentale, in modo da assicurare il rispetto delle regole del contraddittorio. Per quanto attiene alla consultazione pubblica, l’art. 23 della legge 28 dicembre 2005, n. 262 dispone che, tra gli altri: i) i poteri della Consob, «aventi natura regolamentare o di contenuto generale, esclusi quelli attinenti all'organizzazione interna, devono essere motivati con riferimento alle scelte di regolazione e di vigilanza del settore ovvero della materia su cui vertono» (comma 1); ii) tali atti «sono accompagnati da una relazione che ne illustra le conseguenze sulla regolamentazione, sull'attività delle imprese e degli operatori e sugli interessi degli investitori e dei risparmiatori»; «nella definizione del contenuto degli atti di regolazione generale», la Consob tiene conto «in ogni caso del principio di proporzionalità, inteso come criterio di esercizio del potere adeguato al raggiungimento del fine, con il minore sacrificio degli interessi dei destinatari»; a questo fine, la Consob consulta «gli organismi rappresentativi dei soggetti vigilati, dei prestatori di servizi finanziari e dei consumatori» (comma 2); iii) l’attuazione di tali principi è demandanta a regolamenti dell’Autorità (comma 4). La Consob ha adottato la delibera 5 luglio 2016, n. 19654, la quale, all’art. 5, ha disciplinato le modalità di svolgimento di una consultazione in forma pubblica. Per quanto attiene alla partecipazione, l’art. 7 della legge n. 241 del 1990 prevede che deve essere data comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti finali. 4.˗ Nella fattispecie concreta in esame, occorre accertare la natura del potere esercitato e il suo fondamento sostanziale e procedimentale. 4.1.˗ In relazione alla natura del potere, deve preliminarmente rilevarsi come la Consob, in primo luogo, ha fornito una interpretazione del concetto di controllo interno di fatto, affermando che l’influenza dominante consiste nella concreta capacità di determinare gli esiti assembleari mediante la concomitanza di una serie di elementi fattuali, quali la frammentazione dell’azionariato, il meccanismo di voti di lista, la prassi degli investitori istituzionali di presentare liste corte di minoranza. In secondo luogo, la Consob ha ritenuto che il controllo, così come sopra definito, è stato in concreto esercitato da Vivendi nei confronti di Telecom, come risulta dalla circostanza che Vivendi, nella riunione del 13 settembre 2017, è riuscita a nominare la maggioranza dei consiglieri di amministrazione di Telecom (si v. parte in fatto della presente sentenza per maggiori dettagli). Si è trattato, pertanto, di un potere di accertamento del rapporto di controllo tra le due società, che occorre qualificare giuridicamente. Nel diritto privato, si ritiene che l’autonomia negoziale giustifichi la configurabilità di negozi di regolazione individuale con funzione dichiarativa. Le parti di un rapporto giuridico possono stipulare, infatti, un negozio di accertamento che, sul piano strutturale, produce efficacia non costitutiva ma meramente dichiarativa. Tale efficacia si risolve in una astrazione processuale, con inversione dell’onere della prova in capo a chi intenda dimostrare che il contenuto del rapporto sia diverso da quello accertato. Sul piano funzionale, lo scopo è di eliminare una situazione giuridica di incertezza nella configurazione del rapporto stesso anche al fine di auto-composizione dei conflitti, evitando, nell’immediato, il ricorso al giudice. Nel diritto processuale, si può ricorrere all’autorità giudiziaria perché adotti una sentenza di accertamento finalizzata ad eliminare la situazione di incertezza relativa alla effettiva consistenza del rapporto dedotto in giudizio. Nel diritto amministrativo, la funzione di regolazione del mercato risponde tradizionalmente al modello già esaminato che si caratterizza per avere ad oggetto profili di natura tecnica. La funzione dichiarativa è ritenuta ammissibile ma ad essa la dottrina che ha analizzato tale fenomeno ha ricondotto, sul piano strutturale, taluni specifici atti (in particolare, acclaramenti, accertamenti, certazioni), assegnando ad essi, sul piano funzionale, lo scopo di dare certezza a fatti o a rapporti giuridici. Nel caso in esame, dal punto di vista della parte pubblica, la Consob ha esercitato un potere peculiare rispetto alla suddetta configurazione tradizionale. Sul piano strutturale, l’attività può essere qualificata di regolazione avente ad oggetto la definizione e le modalità applicative di un concetto giuridico, quale è quello relativo al controllo di fatto societario, che non è stata prodromica all’esercizio di altri specifici poteri. Sul piano funzionale, la finalità è, sulla falsariga del negozio di accertamento civilistico, quella di eliminare una situazione giuridica di incertezza che, però, in ragione della natura pubblica del soggetto, ha una rilevanza sia individuale sia generale. Con riguardo al profilo individuale, si tratta di un potere di regolazione con funzione di accertamento degli specifici rapporti societari tra Telecom e Vivendi che elimina una incertezza giuridica che aveva dato anche luogo a conflitti di posizione tra gli stessi organi interni a Telecom. Tale potere, in ragione soprattutto dell’incidenza su rapporti di durata, sottoposti, per natura, a modifiche per cambiamenti interni alla compagine societaria, fermo quanto si esporrà oltre (punto 4.3), può essere oggetto sia di una successiva revisione da parte della stessa Autorità sia di una successiva contestazione da parte delle società stesse, con onere di queste ultime di dimostrare gli eventuali cambiamenti dei rapporti sottostanti. In questa prospettiva, l’esercizio di tale potere assolve anche ad una funzione di etero-composizione di una possibile lite e, quindi, presenta, in parte, caratteristiche analoghe a quelle proprie degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie. Con riguardo al profilo generale, si tratta di un potere di regolazione con funzione di accertamento della nozione di controllo societario rilevante anche per gli altri operatori economici del mercato finanziario. Viene in rilievo, infatti, una nozione idonea a fornire indirizzi generali ai suddetti operatori in ordine al modo in cui l’Autorità intende tale nozione nel settore in cui essi svolgono attività di impresa. Nel complesso, entrambe tali finalità sono strumentali al perseguimento dello scopo finale dell’esercizio del potere che è quello di assicurare il corretto funzionamento del mercato finanziario e l’interesse generale degli investitori e dei risparmiatori. Dal punto di vista dei privati, le società coinvolte sono titolari di plurime situazioni giuridiche afferenti al rapporto societario, che sono state, nell’ambito del perimetro del potere esercitato, conformate dal potere amministrativo di regolazione dichiarativa. Tali soggetti hanno un interesse legittimo oppositivo al mantenimento nella originaria configurazione di tali rapporti che è cedevole rispetto all’interesse pubblico se il potere è stato correttamente esercitato. L’interesse a ricorrere, pur a fronte di un potere dichiarativo, sussiste in quanto la suddetta qualificazione incide con immediatezza sul alcune regole organizzative e di attività delle società coinvolte anche in ragione del fatto che l’accertamento effettuato potrebbe essere posto a base di successivi eventuali poteri di vigilanza, regolazione specifica e sanzionatori. 4.2.˗ In relazione al fondamento legale sostanziale del potere in esame, non può ritenersi che le norme richiamate dal provvedimento impugnato di disciplina del controllo societario costituiscano la base legale espressa, in quanto, da un lato, l’art. 2359 cod. civ. è una disposizione generale di mera definizione della nozione di controllo, dall’altro, l’art. 2391-bis e il Regolamento Consob “o.p.c.”, pur avendo un contenuto puntuale, presuppongono, per la loro concreta applicazione, non solo che vi sia il requisito di controllo da essi definito ma anche che ricorra una specifica operazione con una parte correlata, da intendersi come qualunque trasferimento di risorse, servizi o obbligazioni. La Sezione ritiene che il potere, in sé considerato, rinvenga, comunque, mediante l’applicazione di criteri di interpretazione sistematica, una base legale alla luce della natura del potere esercitato. Si può richiamare la teoria dei poteri impliciti con la puntualizzazione che, nella specie, non si è trattato, come già sottolineato, di un potere strumentale ad altro potere ma di una funzione di accertamento desumibile dall’intero impianto normativo e dalla stessa funzione generale che il legislatore ha inteso assegnare alla Consob. La circostanza che si sia trattato di un potere con mera valenza di regolazione dichiarativa induce ad esprimere un giudizio di minore rigore rispetto alla necessità che sussista una adeguata base legale sostanziale. Nondimeno, tale base rimane debole, in quanto, nella specie, non risultano espressi né il corollario della nominatività né quello della tipicità. 4.3.˗ In relazione al fondamento legale procedimentale del potere in esame, la suddetta debolezza sostanziale impone, ai fini del giudizio di validità del potere, il rafforzamento delle regole di garanzia della partecipazione degli operatori economici, secondo lo schema, già illustrato, proprio dei poteri impliciti. Nella specie tali regole sono state violate. La Consob, come risulta dalla ricostruzione della vicenda amministrativa, ha sempre avuto, come affermato anche dal primo giudice, una interlocuzione con le parti del rapporto giuridico, ma non risulta che siano state rispettate le regole di partecipazione come sopra riportate. La natura, al contempo, individuale e generale del potere esercitato avrebbe dovuto imporre il rispetto delle norme relative alla consultazione pubblica e alla partecipazione al procedimento (cfr. art. 23 legge n. 262 del 2005 e art. 5 della deliberazione n. 19654 del 2016 della Consob, cit). Con riguardo alla consultazione pubblica, la Consob avrebbe dovuto prevedere il coinvolgimento degli organismi rappresentativi soltanto relativamente agli aspetti di regolazione che attengono alla interpretazione della nozione di controllo societario in quanto essa è idonea, come sottolineato, a fornire indirizzi generali agli operatori economici del mercato finanziario. In questa fase le modalità procedurali devono essere tali da escludere atti e documenti contenenti dati coperti da riservatezza commerciale relativi agli specifici rapporti tra Vivendi e Telecom. Con riguardo alla partecipazione procedimentale delle società appellanti, che è quella che più rileva in questa sede, la Consob avrebbe dovuto dare formale avvio a un procedimento specificamente finalizzato all’esercizio della funzione di regolazione dichiarativa del rapporto controverso per assicurare l’esercizio dei diritti di partecipazione. Si tratta di un coinvolgimento delle parti necessario per garantire un contraddittorio procedimentale in funzione collaborativa e difensiva che, nella specie, dovendo colmare le lacune sostanziali della legge, assume valenza ancora più accentuata. La non necessità della partecipazione non potrebbe desumersi, come rilevato dal primo giudice, dall’applicazione dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, il quale dispone che «il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto esercitato». Si tratta di una norma che ha previsto in generale una “dequotazione della legalità procedimentale” ma, come esposto, in questo caso, si deve realizzare un rafforzamento di tale legalità per compensare la “dequotazione della legalità sostanziale”. L’attribuzione, nella fattispecie in esame, di un fondamento costituzionale al diritto di partecipazione impone di interpretare l’art. 21-octies nel senso che esso non possa trovare applicazione. Anche a volere prescindere dall’effettivo perimetro applicativo di tale norma, in ogni caso, è la stessa natura del potere esercitato che impedisce di svolgere un giudizio prognostico favorevole alla pubblica amministrazione in ordine alla irrilevanza di una eventuale partecipazione. Vengono, infatti, in rilievo ampi profili decisori di contenuto giuridico che implicano valutazioni le quali rinvengono proprio nel procedimento la loro sede naturale. In particolare, l’oggetto del confronto dialettico nel procedimento avrebbe dovuto essere duplice. Sul piano formale, tale confronto avrebbe dovuto investire la stessa nozione di controllo di fatto civilistico in quanto dall’analisi degli atti del processo risultano versioni non coincidenti. Nella prospettiva pubblica, come già sottolineato, l’influenza dominante consiste nella concreta capacità di determinare gli esiti assembleari mediante la concomitanza di una serie di elementi fattuali. Nella prospettiva privata, l’influenza dominante presuppone una posizione di prevalenza in assemblea, esclusiva, unilaterale, stabile, in quanto la differenza tra controllo di diritto e di fatto sarebbe solo di natura qualitativa. Tale confronto è rilevante anche al fine di analizzare in contraddittorio quali siano stati in precedenza gli orientamenti seguiti dalla Consob e consentire, in caso di mutamento di indirizzo interpretativo, una partecipazione difensiva effettiva. Sul piano sostanziale (collegato al primo), il contraddittorio procedimentale dovrebbe essere finalizzato ad acquisire tutti gli elementi e le circostanze di fatto che devono essere posti alla base della valutazione finale e che sono anche nella disponibilità degli operatori economici. Non avendo la Consob assicurato le suddette garanzie partecipative, il provvedimento impugnato deve essere annullato. Il che non esclude che la Consob, titolare, per le ragioni indicate, anche di una funzione di regolazione dichiarativa, possa riesercitare il potere ma nel rispetto delle prescrizioni conformative della presente sentenza, con conseguente necessità di rispettare, secondo le modalità e i limiti indicati, le regole di consultazione e di partecipazione. 5.˗ L’accoglimento degli appelli per le ragioni sopra esposte, esime il Collegio dall’esaminare le ulteriori censure prospettate dalle parti appellanti. 5.1.˗ La Sezione ritiene soltanto di dovere richiamare le argomentazioni difensive delle parti sviluppate nelle ultime memorie in cui si è fatto riferimento ai poteri speciali che la Presidenza del Consiglio possiede ai sensi del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21 (Norme in materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 11 maggio 2012, n. 56. Si tratta di poteri speciali che attengono al controllo sugli investimenti esteri in settori nevralgici per l’economia, quale è il settore delle comunicazioni, che hanno natura diversa da quelli che sono stati esercitati dalla Consob, i quali si fondano su specifici criteri e presupposti che impediscono qualunque possibile assimilazione. Allo stesso modo differente è la questione decisa dalla Corte di Giustizia, con sentenza 3 settembre 2020, causa C-719/18. Tale sentenza ha riguardato, infatti, una controversia tra, da un lato, Vivendi e, dall’altro, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e Mediaset s.p.a., in relazione ad una norma nazionale che vieta ad una impresa di conseguire ricavi superiori al dieci per cento dei ricavi complessivi del sistema integrato delle comunicazioni, qualora tale impresa detenga una quota superiore al quaranta per cento dei ricavi complessivi del settore delle comunicazioni elettroniche. Non può avere rilevanza, pertanto, in questo giudizio, per la diversità del suo oggetto, la descrizione, contenuta nella descrizione del procedimento principale e delle connesse questioni pregiudiziali, di Vivendi come società che «detiene una partecipazione del 23,9% nel capitale di Telecom Italia s.p.a.». 6.˗ La novità delle questioni trattate e l’esito della controversia giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando, riuniti i ricorsi: a) accoglie, nei sensi di cui in motivazione, gli appelli proposti con i ricorsi indicati in epigrafe e, per l’effetto, in riforma della sentenza 17 aprile 2019, n. 4990 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sez. seconda-quater, annulla la determinazione 13 settembre 2017, n. 106341 adottata dalla Commissione nazionale per le società e la borsa; b) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nelle camera di consiglio dei giorni 15 ottobre e 7 dicembre 2020 con l'intervento dei magistrati: Sergio Santoro, Presidente Bernhard Lageder, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore Giordano Lamberti, Consigliere Stefano Toschei, Consigliere Sergio Santoro, Presidente Bernhard Lageder, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore Giordano Lamberti, Consigliere Stefano Toschei, Consigliere IL SEGRETARIO
Autorità amministrative indipendenti – Consob - Rapporto partecipativo di Vivendi S.A. in Telecom Italia s.p.a. – Qualificato come controllo di fatto ai sensi dell’art. 2359 cod. civ. – Mancanza di fase partecipativa – Illegittimità.         E’ illegittima la deliberazione con la quale Consob ha qualificato il rapporto partecipativo di Vivendi S.A. in C in termini di controllo di fatto ai sensi dell’art. 2359 cod. civ.. adottata, con riguardo alla partecipazione procedimentale di Telecom e Vivendi, senza dare formale avvio a un procedimento specificamente finalizzato all’esercizio della funzione di regolazione dichiarativa del rapporto controverso per assicurare l’esercizio dei diritti di partecipazione (1).    (1) La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza 14 dicembre 2020, n. 7972 ha accolto l’appello proposto da Telecom s.p.a. e Vivendi nei confronti della sentenza del Tar Lazio 17 aprile 2019, n. 4990 ed ha annullato, in riforma della citata sentenza, la deliberazione 13 settembre 2917, n. 196341, con la quale Consob aveva qualificato il rapporto partecipativo di Vivendi S.A. in Telecom Italia s.p.a. in termini di controllo di fatto ai sensi dell’art. 2359 cod. civ., dell’art. 93 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nonché della disciplina in materia di operazioni con parti correlate di cui al Regolamento Consob adottato con delibera 12 marzo 2010, n. 17221 (“Regolamento o.p.c. ”). La questione nasce dal fatto che Vivendi, società francese quotata alla Borsa di Parigi, è entrata nel capitale sociale di Telecom nel giugno del 2015, con la titolarità di una partecipazione iniziale pari al 6,66 per cento, che poi si è progressivamente incrementata fino a raggiungere il 23,925 per cento del capitale sociale di Telecom. La Consob aveva qualificato tale rapporto partecipativo di Vivendi in Telecom in termini di controllo societario di fatto a seguito della constatazione che Vivendi, nella riunione del 13 settembre 2017, era riuscita a nominare la maggioranza dei consiglieri di amministrazione di Telecom. Il Consiglio di Stato, pur riconoscendo che la Consob ha poteri di regolazione dichiarativa finalizzati ad eliminare incertezze giuridiche in ordine alle situazioni di controllo societario nel settore delle comunicazioni, implicitamente previsti dall’impianto normativo, ha ritenuto che la Consob non avesse rispettato le regole del contraddittorio procedimentale, particolarmente importanti e rilevanti – a giudizio della Sezione – quando vengono esercitati poteri cd “impliciti”. In particolare, nella sentenza si è affermato che Consob avrebbe dovuto, con riguardo alla consultazione pubblica, “prevedere il coinvolgimento degli organismi rappresentativi soltanto relativamente agli aspetti di regolazione che attengono alla interpretazione della nozione di controllo societario in quanto essa è idonea a fornire indirizzi generali agli operatori economici del mercato finanziario”; con riguardo alla partecipazione procedimentale di Telecom e Vivendi “dare formale avvio a un procedimento specificamente finalizzato all’esercizio della funzione di regolazione dichiarativa del rapporto controverso per assicurare l’esercizio dei diritti di partecipazione”. Si tratta di un coinvolgimento delle parti necessario per garantire un contraddittorio procedimentale in funzione collaborativa e difensiva che, nella specie, dovendo colmare le lacune sostanziali della legge, assume valenza ancora più accentuata. La non necessità della partecipazione non potrebbe desumersi, come rilevato dal primo giudice, dall’applicazione dell’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, il quale dispone che «il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto esercitato».  Si tratta di una norma che ha previsto in generale una “dequotazione della legalità procedimentale” ma, come esposto, in questo caso, si deve realizzare un rafforzamento di tale legalità per compensare la “dequotazione della legalità sostanziale”. L’attribuzione, nella fattispecie in esame, di un fondamento costituzionale al diritto di partecipazione impone di interpretare l’art. 21-octies nel senso che esso non possa trovare applicazione.  Anche a volere prescindere dall’effettivo perimetro applicativo di tale norma, in ogni caso, è la stessa natura del potere esercitato che impedisce di svolgere un giudizio prognostico favorevole alla pubblica amministrazione in ordine alla irrilevanza di una eventuale partecipazione. Vengono, infatti, in rilievo ampi profili decisori di contenuto giuridico che implicano valutazioni le quali rinvengono proprio nel procedimento la loro sede naturale. In particolare, l’oggetto del confronto dialettico nel procedimento avrebbe dovuto essere duplice. Sul piano formale, tale confronto avrebbe dovuto investire la stessa nozione di controllo di fatto civilistico in quanto dall’analisi degli atti del processo risultano versioni non coincidenti.  Nella prospettiva pubblica, come già sottolineato, l’influenza dominante consiste nella concreta capacità di determinare gli esiti assembleari mediante la concomitanza di una serie di elementi fattuali.  Nella prospettiva privata, l’influenza dominante presuppone una posizione di prevalenza in assemblea, esclusiva, unilaterale, stabile, in quanto la differenza tra controllo di diritto e di fatto sarebbe solo di natura qualitativa.  Tale confronto è rilevante anche al fine di analizzare in contraddittorio quali siano stati in precedenza gli orientamenti seguiti dalla Consob e consentire, in caso di mutamento di indirizzo interpretativo, una partecipazione difensiva effettiva. Sul piano sostanziale (collegato al primo), il contraddittorio procedimentale dovrebbe essere finalizzato ad acquisire tutti gli elementi e le circostanze di fatto che devono essere posti alla base della valutazione finale e che sono anche nella disponibilità degli operatori economici.  ​​​​​​​Non avendo la Consob assicurato le suddette garanzie partecipative, il provvedimento impugnato deve essere annullato. 
Autorità amministrative indipendenti
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Criterio di applicazione dell’art. 21 octies, l. n. 241 del 1990 nel caso di omissione del preavviso di rigetto con riferimento all’adozione di provvedimenti discrezionali
N. 01790/2022REG.PROV.COLL. N. 02896/2017 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2896 del 2017, proposto dal signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Gherardo Maria Marenghi, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, piazza di Pietra 63; contro Ministero della Difesa, non costituito in giudizio; Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per la -OMISSIS- n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente l’impugnativa del provvedimento del 25 novembre 2016 di diniego della istanza di reintegrazione in servizio Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 1 febbraio 2022 il Cons. Cecilia Altavista e udito per la parte appellante l’avvocato Gherardo Maria Marenghi; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue FATTO Il carabiniere -OMISSIS- è stato condannato a tre anni di reclusione e alla pena accessoria della interdizione temporanea dei pubblici uffici per cinque anni con sentenza della Corte d’appello di -OMISSIS- del 23 aprile 2003, divenuta irrevocabile il 23 gennaio 2008 con la conferma da parte della Corte di Cassazione, per il reato di detenzione e spaccio di sostanza stupefacente commesso nel 1994. Seguiva il procedimento disciplinare, che si concludeva con il provvedimento del 9 settembre 2008, di irrogazione della sanzione disciplinare di stato della perdita del grado per rimozione, poi annullato dal Tribunale amministrativo regionale della -OMISSIS- con la sentenza n. -OMISSIS- del 28 luglio 2011 per difetto di motivazione. In esecuzione della sentenza, con determinazione del Direttore Generale del personale militare del 18 ottobre 2011 è stato reintegrato in servizio, mentre con provvedimento del 19 ottobre 2011 del Capo del III Reparto della Direzione generale per il Personale Militare è stata disposta la perdita del grado, ai sensi dell’art. 866 del d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66, codice dell’ordinamento militare, per la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per anni cinque. Anche tale provvedimento è stato annullato dal Tribunale amministrativo regionale della -OMISSIS- con la sentenza n. -OMISSIS- del 14 febbraio 2013 per la mancata comunicazione di avvio del procedimento. Il decreto di perdita del grado, ai sensi dell’art. 866, veniva, dunque, nuovamente adottato in data 18 ottobre 2013 e ritenuto legittimo dal T.A.R. -OMISSIS- con la sentenza n. -OMISSIS- del 18 novembre 2015. Successivamente, essendo stata pronunciata la riabilitazione, con ordinanza del Tribunale di sorveglianza di -OMISSIS- del 21 gennaio 2015, il signor -OMISSIS-, con istanza del 26 novembre 2015, ha chiesto di essere reintegrato in servizio. In mancanza di risposta da parte dell’Amministrazione, con atto depositato il 29 dicembre 2015, proponeva ricorso al T.A.R. -OMISSIS- per l’accertamento dell’obbligo di provvedere ai sensi degli artt. 31 e 177 c.p.a.. Nelle more della definizione del giudizio avverso il silenzio, con provvedimento del 25 novembre 2016, notificato al ricorrente 1'11 gennaio 2016, l'istanza di reintegrazione in servizio è stata respinta sulla base dei parere contrari espressi dal Comando generale dell'Arma dei Carabinieri del 13 settembre 2016, dal Comando Interregionale Carabinieri Ogaden dell'11 luglio 2016, dal Comando Legione Carabinieri Sicilia, per la gravità dei fatti di cui si era reso responsabile e il pregiudizio arrecato all’Arma dei Carabinieri; richiamando, altresì, le informazioni della Compagnia Carabinieri “Piazza Dante” di -OMISSIS-, da cui risultava una buona condotta e non un’ottima condotta, come richiesto dall’art. 871 c.o.m., e non essendo stati allegati particolari meriti civili e sociali. Avverso tale provvedimento e avverso i pareri presupposti sono stati proposti motivi aggiunti nel giudizio pendente avverso il silenzio dell’Amministrazione, formulando le seguenti censure: “violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, in combinato disposto con l’art. 872 del d.lgs. 66 del 2010”, con cui è stata contestato il provvedimento deducendo che il parere del Comando Legione Sicilia era positivo, che i fatti erano risalenti addirittura al 1994 e tale circostanza non sarebbe stata valutata dall’Amministrazione, che non sarebbe stata valutata la riabilitazione intervenuta in sede penale né è stato chiesto il parere alla Corte militare d’appello previsto dall’art. 872 c.o.m.; “violazione e falsa applicazione dell’art. 872 del d.lgs. 66 del 2010”, in quanto tale norma non prevederebbe una discrezionalità dell’Amministrazione in sede di rientegrazione, che dovrebbe derivare come conseguenza della riabilitazione, mentre l’Amministrazione avrebbe erroneamente richiamato la norma dell’art. 871 c.o.m.; violazione e falsa applicazione dell’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 per la mancata comunicazione del preavviso di rigetto. Con la sentenza n. -OMISSIS- del 29 marzo 2017 il ricorso avverso il silenzio è stato dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, essendo sopravvenuto il provvedimento espresso; sono stati respinti i motivi aggiunti richiamando gli orientamenti giurisprudenziali relativi all’ampia discrezionalità dell’amministrazione in sede di reintegrazione applicabili anche in caso di intervenuta riabilitazione; il giudice di primo grado ha ritenuto irrilevante l’apporto partecipativo dell’interessato e l’indicazione formale degli articoli del c.o.m. ( art. 871 o art. 872) su cui è basato il provvedimento; ha poi affermato che il parere della Corte d'Appello Militare dovrebbe essere acquisito solo nel caso in cui l'Autorità amministrativa si determini all'esito dell'istruttoria nel senso di accogliere l'istanza e non, come nel caso di specie, in cui si disponga il rigetto dell’istanza. Avverso tale sentenza è stato proposto il presente appello riproponendo le censure del ricorso di primo grado e lamentando il difetto di motivazione della sentenza, in quanto non sarebbe stata adeguatamente valutata la circostanza che il reato di detenzione di stupefacenti era stato commesso nel 1994 e che, da allora, è sempre stata tenuta una buona condotta; è stata contestata l’argomentazione del giudice di primo grado relativa alla necessità del parere della Corte d’appello militare solo in caso di provvedimento favorevole alla reintegrazione, non essendo prevista tale distinzione nella norma; è stata contestata altresì la reiezione della censura relativa alla violazione dell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, trattandosi di attività non vincolata. Si è costituito il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri con atto di stile. All’udienza pubblica del 1 febbraio 2022 l’appello è stato trattenuto in decisione. DIRITTO L’appello è solo in parte fondato. L’odierno appellante, a seguito delle varie vicende giudiziarie sopra indicate, con il provvedimento del 18 ottobre 2013 è stato destinatario della perdita del grado, ai sensi dell’art. 866 del d.lgs. 66 del 2010, che, nel testo allora vigente, prevedeva “la perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue a condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all'articolo 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale”. Pur non essendo tale provvedimento oggetto del presente giudizio, ritiene il Collegio di precisare che, trattandosi di vicenda esaurita - essendo stata ritenuta legittima la perdita del grado con sentenza del T.A.R. -OMISSIS- n. -OMISSIS- del 18 novembre 2015, passata in giudicato - non rileva la sentenza della Corte costituzionale n. 268 del 2016, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1, lettera i), c.o.m. “nella parte in cui non prevedono l'instaurarsi del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici”. Il codice dell’ordinamento militare prevede, poi, che il militare rimosso per la perdita del grado possa essere reintegrato in servizio. In particolare, in base all’art.871 c.o.m., “la reintegrazione nel grado per il militare che ne è stato rimosso per motivi disciplinari è disposta a domanda dell'interessato, previo parere favorevole della Corte militare d'appello. La reintegrazione è disposta se il militare conserva ottima condotta morale e civile per almeno cinque anni dalla data della rimozione. Tale periodo è ridotto alla metà per il militare che, per atti di valore personale compiuti dopo la rimozione dal grado, ha conseguito una promozione per merito di guerra o altra ricompensa al valor militare. Il militare che ha conseguito più di una di dette promozioni o ricompense può ottenere la reintegrazione nel grado in qualsiasi tempo. Se la perdita del grado è stata disposta in via disciplinare in conseguenza di una condanna penale che non comporta di diritto la perdita del grado, la reintegrazione non può aver luogo se non è prima intervenuta sentenza di riabilitazione”. Ai sensi dell’art. 872, “La reintegrazione nel grado per il militare che lo ha perso per condanna penale è disposta a domanda dell'interessato, previo parere favorevole della Corte militare d'appello. La reintegrazione è disposta se il militare ottiene la riabilitazione a norma della legge penale comune e, nel caso di applicazione della pena militare accessoria della rimozione, anche a norma della legge penale militare. Se la reintegrazione richiesta a seguito di perdita del grado per condanna è respinta nel merito, l'esame di una nuova domanda è ammesso dopo cinque anni dalla data di decisione di rigetto o, in ogni tempo, se sono sopravvenuti o si scoprono nuovi elementi di giudizio particolarmente rilevanti ovvero se il militare consegue una ricompensa al valor militare”. Nel caso di specie, la fattispecie di riferimento è, come sostenuto dalla difesa appellante, quella dell’art. 872 c.o.m., essendo derivato il provvedimento di rimozione, non da un autonomo procedimento disciplinare, ma direttamente dalla condanna ovvero dalla pena accessoria della interdizione temporanea dei pubblici uffici disposta con la sentenza di condanna. In base alla norma dell’art. 872 c.o.m., la reintegrazione è possibile quando sia intervenuta la riabilitazione in sede penale. Peraltro, come risulta dalla previsione testuale del terzo comma dell’art. 872, che fa riferimento alla reiezione “nel merito” della istanza di reintegrazione, la riabilitazione in sede penale costituisce solo uno dei presupposti del provvedimento di reintegrazione in servizio, il quale resta attribuito ad una scelta di carattere discrezionale dell’Amministrazione. La giurisprudenza del Consiglio di Stato, con riferimento a fattispecie differenti regolate dalla disciplina previgente, ha ritenuto sussistente una discrezionalità valutativa dell'Amministrazione militare, anche nelle ipotesi di perdita del grado a seguito di condanna senza procedimento disciplinare, affermando che spetta all’Amministrazione valutare, anche in tali casi, se la concessione della reintegra risponda effettivamente non soltanto alle aspirazioni del militare riabilitato in sede penale, ma anche all'interesse pubblico di settore, in particolare con un apprezzamento in ordine alla riacquisizione da parte dell'interessato di quelle spiccate qualità morali che sono richieste per ogni appartenente al Corpo ( Cons. Stato Sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 44, con riferimento, all’art. 62 comma 1 n. 4 della legge 31 luglio 1954 n. 599, “Stato dei sottufficiali dell'Esercito, della Marina e dell'Aeronautica”). Inoltre, la previsione dell'intervento nel procedimento amministrativo addirittura dell'Autorità giudiziaria militare di vertice indica chiaramente che nell’ottica del legislatore l’accoglimento della istanza di reintegrazione costituisca ipotesi del tutto speciale e derogatoria (Cons. Stato Sez. IV, 15 settembre 2010, n. 6922, con riferimento all’art. 62 comma 1 n. 3 della legge 31 luglio 1954 n. 599, ma con argomenti applicabili anche alla disposizione vigente dell’art. 872 c.o.m., che prevede analogo intervento della Corte d’Appello militare). Il riconoscimento di un ampio potere discrezionale in capo all’Amministrazione, come affermato anche dal giudice di primo grado, non può non comportare la rilevanza della mancanza di partecipazione procedimentale dell’interessato, nel caso di specie, con la omissione della comunicazione del preavviso di rigetto, con la conseguenza che la relativa censura si palesa fondata ed idonea a definire il giudizio. Ai sensi dell’art. 10 bis della legge 241 del 1990, nel testo vigente al momento di emanazione del provvedimento impugnato in primo grado “nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo. Dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale. Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali. Non possono essere addotti tra i motivi che ostano all'accoglimento della domanda inadempienze o ritardi attribuibili”. La comunicazione del preavviso di rigetto come gli altri apporti partecipativi procedimentali sono esclusi per le attività vincolate, in base alla previsione dell’art. 21 octies comma 2 della legge 241 del 1990, per cui “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Nel caso di specie, l’ampia discrezionalità dell’Amministrazione nel valutare vari aspetti della vicenda, tra cui anche la condotta morale dell’istante, comportava la necessità del preavviso di rigetto. La norma del comma 2 dell’art. 21 octies prevede altresì che “il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Tale disposizione, in base alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, è stata ritenuta applicabile anche al difetto del preavviso di rigetto (Cons. Stato, sez. IV, 27 settembre 2016, n. 3948; Sez. VI, 27 luglio 2015, n. 3667), condividendo con la comunicazione di avvio procedimentale del procedimento la stessa funzione di garantire il contraddittorio endoprocedimentale. Il c.d. preavviso di rigetto ha lo scopo di far conoscere all'amministrazione procedente le ragioni fattuali e giuridiche dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere una diversa determinazione finale, derivante dalla ponderazione di tutti gli interessi in gioco; sicché tale scopo viene meno ed è di per sé inidoneo a giustificare l'annullamento del provvedimento nei casi in cui il contenuto di quest'ultimo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sia in quanto vincolato, sia in quanto, sebbene discrezionale, sia raggiunta la prova della sua concreta e sostanziale non modificabilità. L'art. 10-bis, L. n. 241 del 1990, così come le altre norme in materia di partecipazione procedimentale, va infatti interpretato ed applicato non in senso formalistico, ma avendo riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio che la sua inosservanza abbia causato alle ragioni del soggetto privato nello specifico rapporto con la pubblica amministrazione, sicché il mancato o l'incompleto preavviso di rigetto, al pari della non esplicita confutazione delle argomentazioni addotte dal privato in risposta al ricevuto avviso, non comporta l'automatica illegittimità del provvedimento finale, quando possa trova applicazione l'art. 21-octies della stessa L. n. 241 del 1990, secondo cui il giudice non può annullare il provvedimento per vizi formali, che non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale di un provvedimento, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; poiché l’ art. 21 octies, secondo comma, attraverso la dequotazione dei vizi formali dell'atto, mira a garantire una maggiore efficienza all'azione amministrativa, risparmiando antieconomiche ed inutili duplicazioni di attività, laddove il riesercizio del potere non potrebbe comunque portare all'attribuzione del bene della vita richiesto dall'interessato, l'atto amministrativo non può essere annullato (cfr. Cons. Stato, sezione II, 17 settembre 2019, n. 6209; id, Sez. II , 9 giugno 2020, n. 3675; Consiglio di Stato sez. III, 19 febbraio 2019, n.1156; Cons. Stato Sez. V, 8 febbraio 2021, n. 1126). Il fondamento giustificativo del riportato orientamento viene ravvisato nella evidente ratio della disposizione del secondo comma seconda parte dell’art. 21 octies, volta a far prevalere gli aspetti sostanziali su quelli formali, nelle ipotesi in cui le garanzie procedimentali non produrrebbero comunque alcun vantaggio a causa della mancanza di un potere concreto di scelta da parte dell'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 18 febbraio 2011, n. 1040; Sez. II, 12 marzo 2020, n. 1800). Si deve però considerare che tale orientamento si è formato prima della modifica della seconda parte dell’art. 21 octies intervenuta con l'art. 12, comma 1, lett. i), D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, con l’aggiunta della previsione, per cui “La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell'articolo 10-bis”. Con tale aggiunta è stata realizzata una distinzione tra il regime della comunicazione di avvio del procedimento e quello del preavviso di rigetto per i procedimenti ad istanza di parte, la cui omissione non è superabile nel caso di provvedimento discrezionali, tramite l’intervento dell’effetto “processuale” della seconda parte del secondo comma dell’art. 21 octies, con la conseguenza che per i provvedimenti discrezionali, come quello oggetto del presente giudizio, rimane rilevante anche la sola omissione formale della mancata comunicazione del preavviso di rigetto. L'attuale formulazione della norma sottrae, infatti, il modello procedimentale correlato all'esercizio di un potere discrezionale, ai meccanismi di possibile “sanatoria processuale” previsti in via generale per la violazione di norme sul procedimento, in caso di omissione del preavviso di rigetto (Cons. Stato Sez. III, 22 ottobre 2020, n. 6378). Ritiene il Collegio che la nuova disposizione sia applicabile anche ai procedimenti in corso, in quanto la consolidata giurisprudenza ha attribuito all’ art. 21 octies comma 2 seconda parte la natura di norma di carattere processuale, come tale applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge di riferimento (Cons. Stato, Sez. II, 12 marzo 2020, n. 1800; sez. II, 09 gennaio 2020, n. 165; sez. V, 15 luglio 2019, n. 4964; Sez. VI, 20 gennaio 2022, n. 359), con la conseguenza che si deve ritenere immediatamente applicabile alle fattispecie oggetto di giudizi pendenti, per i quali in caso di omissione del preavviso di rigetto resta inibita all’Amministrazione la possibilità di dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 22 ottobre 2020, n. 6378). Pertanto, la norma si deve applicare nel testo vigente al momento del giudizio e non può dunque, allo stato, farsi alcun riferimento alla circostanza che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato, circostanze, peraltro, neppure risultanti dagli atti di causa né dalla costituzione - meramente di stile - dell’Amministrazione. L’appello è, quindi, fondato limitatamente al motivo relativo alla violazione dell’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 e in tali limiti deve essere accolto con annullamento del provvedimento impugnato, salve le ulteriori determinazioni dell’Amministrazione. In considerazione della particolarità della vicenda e dell’accoglimento per un profilo formale le spese del doppio grado di giudizio possono essere compensate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado, con annullamento del provvedimento impugnato, salve le ulteriori determinazioni dell’Amministrazione. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte appellante. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1 febbraio 2022 con l'intervento dei magistrati: Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Italo Volpe, Consigliere Francesco Frigida, Consigliere Cecilia Altavista, Consigliere, Estensore Carmelina Addesso, Consigliere Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Italo Volpe, Consigliere Francesco Frigida, Consigliere Cecilia Altavista, Consigliere, Estensore Carmelina Addesso, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Procedimento amministrativo – Preavviso di rigetto – Omissione - Provvedimenti discrezionali – Art. 21 octies, l. n. 241 del 1990 – Criterio di applicazione.     L'art. 21 octies, l. n. 241 del 1990, a seguito della modifica operata con l'art. 12, comma 1, lett. i), d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, comporta che  l'omissione del preavviso di rigetto, in caso di provvedimenti discrezionali, non è superabile con una valutazione ex post del possibile apporto del privato; la modifica legislativa, incidendo su una norma ritenuta di carattere processuale, si applica anche ai provvedimenti già emanati (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che la norma del comma 2 dell’art. 21 octies prevede altresì che “il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.  Tale disposizione, in base alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, è stata ritenuta applicabile anche al difetto del preavviso di rigetto (Cons. Stato, sez. IV, 27 settembre 2016, n. 3948; id., sez. VI, 27 luglio 2015, n. 3667), condividendo con la comunicazione di avvio procedimentale del procedimento la stessa funzione di garantire il contraddittorio endoprocedimentale. Il c.d. preavviso di rigetto ha lo scopo di far conoscere all'amministrazione procedente le ragioni fattuali e giuridiche dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere una diversa determinazione finale, derivante dalla ponderazione di tutti gli interessi in gioco; sicché tale scopo viene meno ed è di per sé inidoneo a giustificare l'annullamento del provvedimento nei casi in cui il contenuto di quest'ultimo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sia in quanto vincolato, sia in quanto, sebbene discrezionale, sia raggiunta la prova della sua concreta e sostanziale non modificabilità. L'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, così come le altre norme in materia di partecipazione procedimentale, va infatti interpretato ed applicato non in senso formalistico, ma avendo riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio che la sua inosservanza abbia causato alle ragioni del soggetto privato nello specifico rapporto con la pubblica amministrazione, sicché il mancato o l'incompleto preavviso di rigetto, al pari della non esplicita confutazione delle argomentazioni addotte dal privato in risposta al ricevuto avviso, non comporta l'automatica illegittimità del provvedimento finale, quando possa trova applicazione l'art. 21-octies della stessa L. n. 241 del 1990, secondo cui il giudice non può annullare il provvedimento per vizi formali, che non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale di un provvedimento, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; poiché l’ art. 21 octies, secondo comma, attraverso la dequotazione dei vizi formali dell'atto, mira a garantire una maggiore efficienza all'azione amministrativa, risparmiando antieconomiche ed inutili duplicazioni di attività, laddove il riesercizio del potere non potrebbe comunque portare all'attribuzione del bene della vita richiesto dall'interessato, l'atto amministrativo non può essere annullato (cfr. Cons. Stato, sez. II, 17 settembre 2019, n. 6209; id. 9 giugno 2020, n. 3675; id., sez. III, 19 febbraio 2019, n. 1156; id., sez. V, 8 febbraio 2021, n. 1126). Il fondamento giustificativo del riportato orientamento viene ravvisato nella evidente ratio della disposizione del secondo comma seconda parte dell’art. 21 octies, volta a far prevalere gli aspetti sostanziali su quelli formali, nelle ipotesi in cui le garanzie procedimentali non produrrebbero comunque alcun vantaggio a causa della mancanza di un potere concreto di scelta da parte dell'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18 febbraio 2011, n. 1040; sez. II, 12 marzo 2020, n. 1800). Si deve però considerare che tale orientamento si è formato prima della modifica della seconda parte dell’art. 21 octies intervenuta con l'art. 12, comma 1, lett. i), d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, con l’aggiunta della previsione, per cui “La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell'articolo 10-bis”.  Con tale aggiunta è stata realizzata una distinzione tra il regime della comunicazione di avvio del procedimento e quello del preavviso di rigetto per i procedimenti ad istanza di parte, la cui omissione non è superabile nel caso di provvedimento discrezionali, tramite l’intervento dell’effetto “processuale” della seconda parte del secondo comma dell’art. 21 octies, con la conseguenza che per i provvedimenti discrezionali, come quello oggetto del presente giudizio, rimane rilevante anche la sola omissione formale della mancata comunicazione del preavviso di rigetto.  L'attuale formulazione della norma sottrae, infatti, il modello procedimentale correlato all'esercizio di un potere discrezionale, ai meccanismi di possibile “sanatoria processuale” previsti in via generale per la violazione di norme sul procedimento, in caso di omissione del preavviso di rigetto (Cons. Stato, sez. III, 22 ottobre 2020, n. 6378). Ritiene il Collegio che la nuova disposizione sia applicabile anche ai procedimenti in corso, in quanto la consolidata giurisprudenza ha attribuito all’ art. 21 octies comma 2 seconda parte la natura di norma di carattere processuale, come tale applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge di riferimento (Cons. Stato, sez. II, 12 marzo 2020, n. 1800; id. 9 gennaio 2020, n. 165; id., sez. V, 15 luglio 2019, n. 4964; id., sez. VI, 20 gennaio 2022, n. 359), con la conseguenza che si deve ritenere immediatamente applicabile alle fattispecie oggetto di giudizi pendenti, per i quali in caso di omissione del preavviso di rigetto resta inibita all’Amministrazione la possibilità di dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. Cons. Stato, sez. III, 22 ottobre 2020, n. 6378). Pertanto, la norma si deve applicare nel testo vigente al momento del giudizio e non può dunque, allo stato, farsi alcun riferimento alla circostanza che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato, circostanze, peraltro, neppure risultanti dagli atti di causa né dalla costituzione - meramente di stile - dell’Amministrazione. ​​​​​​​
Procedimento amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/disciplina-della-cassa-integrazione-salariale-ordinaria-successiva-al-c.d.-jobs-act
Disciplina della Cassa integrazione salariale ordinaria successiva al c.d. jobs act
N. 00157/2021 REG.PROV.COLL. N. 00534/2017 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 534 del 2017, proposto dalla Sud Montaggi s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Francesco Paolo Bello, con domicilio eletto presso il suo studio in Bari alla via Arcivescovo Vaccaro 45 e con domicilio digitale come da P.E.C. iscritta al registro generale degli indirizzi elettronici (ReGIndE); contro I.N.P.S. - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Cosimo Nicola Punzi, Chiara Contursi e Raffaele Tedone, con ufficio presso l’Avvocatura regionale I.N.P.S. in Bari alla via Putignani n. 108 e con domicili digitali come da P.E.C. iscritte al registro generale degli indirizzi elettronici (ReGIndE); per l'annullamento - della nota del 28.3.2017, trasmessa in pari data, della Direzione Provinciale dell'I.N.P.S. di Bari di rigetto della domanda di proroga della concessione dell’integrazione salariale ordinaria (C.I.G.O.) presentata dalla società ricorrente in data 26.1.2017 (per le settimane ricomprese nel periodo dal 16.1.2017 al 15.4.2017); - di ogni altro atto ad essa comunque connesso, presupposto e/o conseguenziale; nonché per la declaratoria della concessione della proroga della richiesta integrazione salariale ordinaria per il suddetto periodo, con ammissione al pagamento diretto delle spettanze rivenienti dalla predetta proroga a carico dell'I.N.P.S. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’I.N.P.S.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 novembre 2020 il dott. Lorenzo Ieva; Dato atto che l’udienza si tiene mediante collegamento da remoto in videoconferenza, secondo quanto disposto dall’art. 25 del decreto legge 28 ottobre 2020 n. 137 e dall’art. 4, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020 n. 28, convertito con modificazioni dalla legge 25 giugno 2020 n. 70, mediante la piattaforma in uso presso la Giustizia amministrativa, di cui all’allegato 3 al decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 22 maggio 2020 n. 134; Dato atto che alcun atto è stato depositato dalle parti ai fini della presenza a verbale, ai sensi dell’art. 4 del decreto-legge 30 aprile 2020 n. 28, convertito con modificazioni dalla legge 25 giugno 2020 n. 70; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.- Con ricorso depositato come previsto in rito, l’istante impresa, che svolge la propria attività nel settore dell’impiantistica civile e industriale e delle costruzioni in acciaio, impugnava il diniego di proroga della concessione della C.I.G.O. richiesta il 26 gennaio 2017 per l’ulteriore periodo dal 16 gennaio 2017 al 15 aprile 2017, pari a 13 settimane (in relazione a 33 lavoratori, di cui 29 operai e 4 impiegati). In precedenza, in conseguenza della crisi del mercato di riferimento, in data 20 ottobre 2016, la società ricorrente aveva presentato istanza, accolta dall’I.N.P.S. di Bari, per la concessione della C.I.G.O., per il periodo dal 17 ottobre 2016 al 14 gennaio 2017, sempre pari a 13 settimane, indicando quale causale la mancanza di ordini, commesse e lavoro riguardante 25 lavoratori (di cui 23 operai e 2 impiegati), con prevista ripresa dell’attività in data 16 gennaio 2017 in vista della partecipazione a numerose gare di appalto. Inoltre, veniva richiesto il pagamento diretto delle integrazioni salariali, ai sensi dell’art. 7, comma 4, d.lgs. 14 settembre 2015 n. 148, motivando in ragione di una momentanea crisi di liquidità, stante la difficoltà di recuperare crediti vantati nei confronti di imprese sottoposte a procedure concorsuali per un complessivo importo di € 1.027.232,00. 2.- Si costituiva l’I.N.P.S., deducendo la legittimità del diniego di proroga della concessione della C.I.G.O, basata sull’insussistenza dei presupposti e sulla carenza di prova circa la temporaneità della crisi, ritenendo la stessa aver natura strutturale immanente all'organizzazione produttiva. Ribadiva, inoltre, che il fatturato indicava un incremento e che la difficoltà derivante dal recupero crediti non è prevista come “causa integrabile” per la corresponsione diretta delle somme da C.I.G.O., possibile invece solo nelle diverse previste ipotesi eccezionali. 3.- Sulla base alla sommaria cognizione tipica della fase cautelare, veniva respinta l’istanza di misure idonee a salvaguardare la posizione della ricorrente; in vista dell’udienza pubblica venivano scambiati ulteriori documenti, memorie e repliche, indi il ricorso veniva trattenuto in decisione. 4.- Il ricorso è fondato. 4.1.- Con i primi due motivi, considerabili unitariamente, viene censurata la violazione di legge, segnatamente dell’art. 11 del d.lgs. 14 settembre 2015 n. 148, nonché l’eccesso di potere per difetto di istruttoria e carente motivazione, per illogicità e irragionevolezza, inoltre l’eccesso di potere per contraddittorietà manifesta rispetto a precedente atto. Ritiene il Collegio che il gravato provvedimento di diniego contrasti con la censurata nuova disciplina della C.I.G.O. (Cassa integrazione e guadagni ordinaria), che di seguito si riassume. In primis, va considerato che il d.lgs. 14 settembre 2015 n. 148 recante “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro”, al capo II, ha disciplinato le nuove modalità di concessione della C.I.G.O. Il d.lgs. 14 settembre 2015 n. 148 è uno dei decreti legislativi di attuazione della legge delega del 10 dicembre 2014 n. 183 (c.d. Jobs Act). Il decreto ha semplificato i procedimenti di concessione delle integrazioni salariali e meglio definito i requisiti di accesso e la documentazione da produrre, ai fini della valutazione che l’Istituto di previdenza è tenuto in merito ad esprimere. L’integrazione salariale è un ammortizzatore sociale che permette al prestatore di lavoro, parte contrattuale debole nel rapporto lavorativo, di fruire della continuità del salario, pur a fronte di eventi che ostacolino il normale dispiegarsi dell’obbligazione negoziale da lavoro. Alla funzione originaria di salvaguardia della continuità del salario, assicurata dalla C.I.G.O. (Cassa integrazione e guadagni ordinaria), si è poi aggiunta la funzione di tutela dei livelli occupazionali, tramite la C.I.G.S. (Cassa integrazione e guadagni straordinaria). Nella fattispecie concreta, viene in evidenza un caso di istanza di C.I.G.O., comportante l’erogazione di un’indennità da parte dell’Istituto preposto e integrato dallo Stato (art. 38 Cost.), ossia dall’I.N.P.S, che permette al prestatore di lavoro di non perdere il proprio sostentamento, mentre il datore di lavoro è sollevato dal costo correlato al versamento (totale o parziale) della retribuzione. Più specificamente, è stata richiesta una proroga di ammissione alla C.I.G.O. pari ad ulteriori 13 settimane, con istanza presentata, in via telematica, entro i quindici giorni dall’inizio del periodo di sospensione o di riduzione dell’orario di lavoro, come stabilito dall’art. 15, commi 1 e 2, del d.lgs. 14 settembre 2015 n. 148. L’art. 11 del d.lgs. 14 settembre 2015 n. 148 specifica che ai dipendenti delle imprese indicate all’art. 10 – tra le quali rientra la Sud Montaggi s.r.l. – che siano sospesi dal lavoro o effettuino prestazioni di lavoro a orario ridotto è corrisposta l’integrazione salariale ordinaria in caso di “situazioni aziendali dovute a eventi transitori e non imputabili all’impresa o ai dipendenti, incluse le intemperie stagionali” oppure di “situazioni temporanee di mercato”. Il Collegio non può che rilevare come l’evento dedotto nella presentazione della domanda di proroga, ossia la “carenza di commesse”, si appalesi come transitorio, legato ad una situazione temporanea del mercato, peraltro avendo l’istante espressamente indicato la data della ripresa dell’attività aziendale, in vista della consegna dei lavori, prevista per fine aprile 2017, di un appalto aggiudicato. Tale circostanza non è stata considerata dall’Istituto previdenziale, il quale, prendendo spunto dalla domanda accessoria del “pagamento diretto” (presentata per “la difficoltà derivante dal recupero crediti”) ha denegato la proroga, assumendo che, dai riscontri effettuati, v’è un incremento di fatturato e che la difficoltà di recupero di crediti non costituisca comunque “causa integrabile”. La società ricorrente infatti appunta la propria censura di violazione di legge e di eccesso di potere per difetto di istruttoria e carente motivazione, proprio su detto punto. Peraltro, circa la natura transitoria della situazione di mercato, la ricorrente ha dimostrato il proprio impegno nella partecipazione a numerose procedure di appalto, tant’è che ha nelle more conseguito l’aggiudicazione di un appalto di lavori, la cui consegna, stimata a partire dalla fine di aprile 2017, coincide proprio con il periodo finale indicato nella richiesta di proroga C.I.G.O. Va poi considerato che la domanda presentata dalla Sud montaggi s.r.l. in data 26 gennaio 2017 costituisce un’istanza di mera proroga circostanziata, rispetto alla C.I.G.O. già richiesta per il periodo compreso tra il 17 ottobre 2016 e il 14 gennaio 2017, invece considerata favorevolmente dall’Istituto di previdenza, per cui v’è contraddittorietà nell’attività amministrativa. La stessa non costituisce una immotivata o ennesima istanza di proroga priva di sostegno giustificativo. Infatti, i periodi complessivamente richiesti rientrano nel limite massimo stabilito di 13 settimane continuative, prorogabile trimestralmente fino a un massimo complessivo di 52 settimane, ai sensi dell’art. 12, comma 1, del d.lgs. 14 settembre 2015 n. 148, salvo l’ipotesi di parziale deroga pure in astratto contemplata, sussistendo talune condizioni, dal successivo comma 4. In merito, va precisato che il d.lgs. 14 settembre 2015 n. 148 ha dettato una nuova disciplina della materia, maggiormente organica rispetto alla precedente, che peraltro ha trovato nel decreto n. 95442 del 15 aprile 2016 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali la propria disciplina attuativa. Parimenti l’I.N.P.S., prima nel messaggio n. 2908 del 1° luglio 2016, poi con la più ampia circolare n. 139 del 1° agosto 2016, ha inteso completare il quadro normativo di riferimento, dettando la prassi dell’istituto da seguire nell’istruzione delle domande di concessione della nuova C.I.G.O. La C.I.G.O. è riconosciuta in presenza della ricorrenza di uno dei due presupposti: a) situazioni aziendali dovute a eventi transitori e non imputabili all’impresa o ai dipendenti, incluse le intemperie stagionali; b) situazioni temporanee di mercato (art. 11 d.lgs. 14 settembre 2015 n. 148; art. 1, comma 1, d.m. 15 aprile 2016). Il d.m. 15 aprile 2016 n. 95442 ha anche precisato i requisiti di “transitorietà” e “non imputabilità” della situazione oggettiva aziendale di crisi, che legittima l’intervento di G.I.G.O. La “transitorietà” di crisi della situazione aziendale o della situazione di mercato sussistono quando è prevedibile, al momento della presentazione della domanda di C.I.G.O., che l’impresa riprenda la normale attività lavorativa. Inoltre, la “non imputabilità” all’impresa o ai lavoratori della situazione di crisi consiste nella involontarietà e nella non riconducibilità a imperizia o negligenza delle parti della stessa (art. 1, commi 2 e 3, d.m. 15 aprile 2016). Alla domanda, è acclusa, ai fini della concessione della C.I.G.O., una relazione tecnica dettagliata, elaborata dall’impresa (ai sensi dell’art. 47 d.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445), con l’indicazione delle ragioni che hanno determinato la sospensione o la riduzione dell’attività lavorativa, a dimostrazione, sulla base di elementi oggettivi, che l’impresa continua a operare sul mercato (art. 2, comma 1, prima parte, d.m. 15 aprile 2016). Detti elementi possono essere supportati da documentazione sulla solidità finanziaria dell’impresa o da documentazione tecnica concernente la situazione temporanea di crisi del settore, le nuove acquisizioni di ordini o la partecipazione qualificata a gare di appalto, l’analisi delle ciclicità delle crisi e l’indicazione della C.I.G.O. già concessa (art. 2, comma 1, seconda parte, d.m. 15 aprile 2016). Integra la fattispecie «mancanza di lavoro o di commesse» la sospensione o riduzione dell’attività lavorativa derivante dalla significativa riduzione di ordini e commesse. Integra la fattispecie «crisi di mercato» la sospensione o riduzione dell’attività lavorativa per mancanza di lavoro o di commesse derivante dall'andamento del mercato o del settore merceologico a cui appartiene l’impresa, di cui costituiscono indici il contesto economico produttivo del settore o la congiuntura negativa che interessa il mercato di riferimento (art. 3, commi 1 e 3, d.m. 15 aprile 2016). Quanto al profilo concernente le domande di mera proroga, l’I.N.P.S. ha chiarito, fin dal messaggio n. 2908 del 1° luglio 2016, recante prime indicazioni operative della nuova disciplina, che anche le richieste di proroga della domanda originaria devono essere accompagnata da apposita “relazione tecnica”, in quanto domande distinte, tal da manifestare “il perdurare delle ragioni di integrazione presentate nella prima istanza”. Ergo, si ammette la presentazione di domande di proroga – possibile in quanto vengono in evidenza nell’ambito della C.I.G.O. mere stime di ripresa dell’attività – purché suffragate da nuova relazione tecnica apposita (anche integrativa della precedente) e valide motivazioni, che non dissimulino invece immotivati intenti dilatori volti a procrastinare in modo indeterminato lo stato di crisi; talché appaiono incompatibili con detto istituto le sole proroghe immotivate e reiterate senza soluzione di continuità. Nella fattispecie concreta, v’è una sola domanda di proroga, accompagnata dalla documentazione richiesta dalla normativa di attuazione e dalla prassi amministrativa dell’Istituto. I due periodi, le prime 13 settimane, seguite dalle altre 13 settimane, si collocano nell’ambito del limite massimo ordinario delle 52 settimane. L’impresa istante ha prodotto ampia documentazione a supporto dell’istanza di proroga, richiesta per una sola volta, per tre mesi (dal 16 gennaio 2017 al 15 aprile 2017), indicando con sufficiente accuratezza l’incipit della “ripresa” economica e dell’attività, coincidente con l’affidamento di appalti a seguito di gare. Va inoltre considerato che il provvedimento di concessione o di rigetto, totale o parziale, della domanda di C.I.G.O. (anche se riferita a domanda di mera proroga) deve contenere una “motivazione adeguata”, che dia conto degli elementi documentali e di fatto presi in considerazione, anche con riferimento alla prevedibilità della ripresa della normale attività lavorativa (art. 11, comma 1, d.m. 15 aprile 2016). La motivazione opposta dall’I.N.P.S. è invece stereotipata e risulta la seguente: “Dall’analisi degli indicatori economico-finanziari non si rileva un calo significativo del fatturato, risulta invece un forte incremento dello stesso. Inoltre la difficoltà derivante dal recupero crediti non è causa integrabile”. L’istanza di proroga di C.I.G.O. è stata invece richiesta sulla base della persistenza di “un periodo di contrattura” del mercato di riferimento, stante la “mancanza di ordini e di commesse”, affermandosi che “La necessità di ricorrere a una proroga dell’integrazione salariale esula dalla politiche di gestione aziendale e risulta necessaria in un momento di mancanza di commesse”. La relazione tecnica allegata alla domanda dà atto della ripresa della piena attività in correlazione della avvenuta aggiudicazione di un appalto presso il nuovo stabilimento Freud s.p.a. (gruppo Bosch) con decorrenza fine aprile 2017. Indi, è addirittura specificato l’appalto che contrassegna la ripresa dell’attività. Al contrario, l’I.N.P.S., come lamentato dalla società ricorrente, non ha motivato in modo puntuale sulla dedotta e circostanziata “ripresa” dell’attività, dando per assodato – stando alla difesa – un invece insussistente quadro di perdurante difficoltà generale del mercato di riferimento dell’impresa, frutto della parziale lettura degli atti, pur essendo le due domande (la prima ammessa e la seconda di proroga invece rigettata), in base agli atti prodotti dalla parti, collocate nel limite ordinario massimo delle 52 settimane. Parimenti inconferenti sono altri profili delle difese dell’Istituto, non attinenti al caso di specie. Pertanto, il provvedimento gravato si appalesa in violazione dell’art. 11 del d.lgs. 14 settembre 2015 n. 148, nonché viziato per eccesso di potere per irragionevolezza e carente motivazione e istruttoria, essendo pur previsto dalla richiamata normativa l’integrazione degli elementi acquisiti, qualora non sufficientemente eloquenti per l’Istituto (art. 11, comma 2, d.m. 15 aprile 2016 n. 95442 e punto 3, 11^ alinea, circolare I.N.P.S. 1° agosto 2016 n. 139). In definitiva, i primi due motivi di ricorso vanno accolti. 4.2.- Con riferimento al terzo motivo concernente la domanda accessoria di pagamento diretto della C.I.G.O., il ricorrente censura invece la violazione di legge e segnatamente dell’art. 7, comma 4, d.lgs. 14 settembre 2015 n. 148, nonché l’eccesso di potere per contraddittorietà manifesta, illogicità e irragionevolezza. Invero, in alternativa al meccanismo ordinario del “conguaglio” tra contributi da versare e somme da incassare, per i soggetti ammessi alla C.I.G.O., è previsto il meccanismo eccezionale del “pagamento diretto” delle somme spettanti da parte della sede dell'I.N.P.S. “in presenza di serie e documentate difficoltà finanziarie dell'impresa, su espressa richiesta di questa”. Sul punto, la direttiva I.N.P.S., contenuta nel messaggio del 15 dicembre 2009 n. 29223, ha precisato che, stante l’attuale periodo di crisi, le situazioni che legittimano il “pagamento diretto” consistono non solo nella sottoposizione a procedure concorsuali, nella cessazione delle aziende e nella comprovata crisi finanziaria delle stesse – già individuate con il messaggio del 7 ottobre 2005 n. 33735 – ma anche nelle “difficoltà aziendali dovute a carenza di liquidità”. Il parametro oggettivo, uniforme e notorio impiegato come principale indicatore del livello di salute finanziaria di un’impresa è costituito dell’indice di liquidità corrente (I.L.C.), corrispondente al rapporto tra l’attivo circolante e le passività correnti, come risultanti dall’ultimo bilancio approvato o dal bilancio provvisorio infra-annuale. Dalla definizione appena riportata discende che “la misura ideale dell’I.L.C. deve considerarsi pari o superiore a uno”, in quanto in tal caso “le disponibilità attive correnti iscritte in bilancio sono in grado di coprire o sopravanzare le corrispondenti passività di breve periodo” (T.A.R. Campania, sez. I, 19 gennaio 2017 n. 422). Come richiesto dall’I.N.P.S., nel richiamato messaggio del 15 dicembre 2009 n. 29223, l’odierna ricorrente ha allegato all’istanza di proroga della concessione della C.I.G.O. un’apposita relazione a firma del legale rappresentante, recante l’indicazione della liquidità differita e corrente dell’impresa e delle relative passività correnti, evidenziando un I.L.C. pari a 0,02. Tale valore – pari quasi a zero e, quindi, inferiore alla misura ideale dell’indice di liquidità corrente – attesta in modo oggettivo la sussistenza del presupposto, richiesto per la concessione del beneficio del c.d. pagamento diretto, consistente nella presenza di una situazione di grave difficoltà aziendale dovute a carenza di liquidità. Inoltre, va precisato che non riveste un ruolo assorbente l’incremento del solo fatturato, che indica un fattore finanziario diverso dalla “liquidità corrente”, che va invece calcolato, rapportando lo “attivo circolante” alle “passività correnti”. Peraltro, nel caso di specie, il fatturato rilevato come in aumento fa riferimento a maturati incassi, dovuti però a commesse datate. Pertanto, il motivo va accolto. 5.- In conclusione, il ricorso, in considerazione delle motivazioni sopra esposte, va accolto, con annullamento degli atti impugnati e riconoscimento della spettanza della C.I.G.O. in proroga, così come richiesta compresa l’ammissione al pagamento diretto. 6.- Le spese, per la complessità e parziale novità delle questioni poste, vanno compensate. P.Q.M. il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione II, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi di cui in motivazione. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa. Così deciso in Bari nella camera di consiglio del giorno 24 novembre 2020, tenutasi mediante collegamento da remoto in videoconferenza, secondo quanto disposto dall’art. 25 del decreto-legge 28 ottobre 2020 n. 137, con l'intervento dei magistrati: Giuseppina Adamo, Presidente Francesco Cocomile, Consigliere Lorenzo Ieva, Referendario, Estensore Giuseppina Adamo, Presidente Francesco Cocomile, Consigliere Lorenzo Ieva, Referendario, Estensore IL SEGRETARIO
Lavoro - Cassa integrazione guadagni – Ordinaria – Nuova disciplina successiva al c.d. jobs act - Individuazione.               E’ illegittimo il diniego di proroga della concessione della Cassa integrazione salariale ordinaria, richiesto per “carenze di commesse”, trattandosi di evento transitorio, legato ad una situazione temporanea del mercato (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che il d.lgs. 14 settembre 2015 n. 148, di attuazione della legge delega del 10 dicembre 2014 n. 183 (c.d. Jobs Act), recante “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro”, al capo II, ha disciplinato le nuove modalità di concessione della Cassa integrazione salariale ordinaria (Cigo). Il predetto decreto legislativo ha semplificato i procedimenti di concessione delle integrazioni salariali e meglio definito i requisiti di accesso e la documentazione da produrre, ai fini della valutazione che l’Istituto di previdenza è tenuto in merito ad esprimere. Il decreto n. 95442 del 15 aprile 2016 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha emanato ulteriori disposizioni attuative di dettaglio; mentre, la circolare I.N.P.S. n. 139 del 1° agosto 2016 (anticipata in parte dal messaggio n. 2908 del 1° luglio 2016) ha completato il quadro normativo, dettando la prassi da seguire nell’istruzione delle domande di concessione della nuova Cigo.. L’integrazione salariale è un ammortizzatore sociale che permette al prestatore di lavoro, parte contrattuale debole nel rapporto lavorativo, di fruire della continuità del salario, pur a fronte di eventi che ostacolino il normale dispiegarsi dell’obbligazione negoziale da lavoro, che permette al prestatore di lavoro di non perdere il proprio sostentamento, mentre il datore di lavoro è sollevato dal costo correlato al versamento (totale o parziale) della retribuzione. La Cigo è riconosciuta in presenza della ricorrenza di uno dei due presupposti: a) situazioni aziendali dovute a eventi transitori e non imputabili all’impresa o ai dipendenti, incluse le intemperie stagionali; b) situazioni temporanee di mercato (art. 11 d.lgs. 14 settembre 2015 n. 148; art. 1, comma 1, d.m. 15 aprile 2016). La “transitorietà” di crisi della situazione aziendale o della situazione di mercato sussistono quando è prevedibile, al momento della presentazione della domanda di Cigo, che l’impresa riprenda la normale attività lavorativa. Inoltre, la “non imputabilità” all’impresa o ai lavoratori della situazione di crisi consiste nella involontarietà e nella non riconducibilità a imperizia o negligenza delle parti della stessa (art. 1, commi 2 e 3, d.m. 15 aprile 2016). Alla domanda, è acclusa, ai fini della concessione della Cigo, una relazione tecnica dettagliata, elaborata dall’impresa (ai sensi dell’art. 47, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445), con l’indicazione delle ragioni che hanno determinato la sospensione o la riduzione dell’attività lavorativa, a dimostrazione, sulla base di elementi oggettivi, che l’impresa continua a operare sul mercato (art. 2, comma 1, prima parte, d.m. 15 aprile 2016). Integra la fattispecie «mancanza di lavoro o di commesse» la sospensione o riduzione dell’attività lavorativa derivante dalla significativa riduzione di ordini e commesse. Integra la fattispecie «crisi di mercato» la sospensione o riduzione dell’attività lavorativa per mancanza di lavoro o di commesse derivante dall'andamento del mercato o del settore merceologico a cui appartiene l’impresa, di cui costituiscono indici il contesto economico produttivo del settore o la congiuntura negativa che interessa il mercato di riferimento (art. 3, commi 1 e 3, d.m. 15 aprile 2016). Quanto al profilo concernente le domande di mera proroga, l’I.N.P.S. ha chiarito, fin dal messaggio n. 2908 del 1° luglio 2016, recante prime indicazioni operative della nuova disciplina, che anche le richieste di proroga della domanda originaria devono essere accompagnata da apposita “relazione tecnica”, in quanto domande distinte, tal da manifestare “il perdurare delle ragioni di integrazione presentate nella prima istanza”, ammettendosi dunque la proroga – possibile in quanto vengono in evidenza nell’ambito della Cigo mere stime di ripresa dell’attività – purché suffragate da nuova relazione tecnica apposita (anche integrativa della precedente) e valide motivazioni, che non dissimulino invece immotivati intenti dilatori volti a procrastinare in modo indeterminato lo stato di crisi; talché appaiono incompatibili con detto istituto le sole proroghe immotivate e reiterate senza soluzione di continuità. ​​​​​​​
Lavoro
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Disciplina statale sull’ISEE
N. 00010/2021 REG.PROV.COLL. N. 00087/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 87 del 2020, integrato da motivi aggiunti, proposto da -OMISSIS-, in persona dell’amministratore di sostegno -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato Maria Luisa Tezza, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giovanni Michelon, Riccardo Moretto, Fulvia Squadroni, dell’Avvocatura Civica di -OMISSIS-, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il loro studio in -OMISSIS-, piazza Brà n. 1; Conferenza dei Sindaci dei Comuni dell'Azienda -OMISSIS-”, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Enrico Minnei, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Regione Veneto, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Franco Botteon, Emanuele Mio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; e con l'intervento di ad opponendum:-OMISSIS- “-OMISSIS-”, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Maria Luisa Miazzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l'annullamento per quanto riguarda il ricorso introduttivo: - della nota prot. n. -OMISSIS- in data 24.10.20-OMISSIS- (ricevuta in data 13.11.20-OMISSIS-) nella quale il COMUNE, “Ufficio Rivalsa” determinava il contributo economico giornaliero computando le “pensioni della ricoverata compresa la 13^ e la -OMISSIS-^ mensilità, l'indennità di accompagnamento, detratta la quota mensile di € 100,00 prevista per le spese personali della ricoverata”, chiedeva “entro quindici giorni” il “versamento di € 5.588,15 quale maggiore somma anticipata … per il periodo 01.01.2017 al 31.-OMISSIS-.2018”, chiedeva l'invio “della documentazione bancaria dove risultino gli importi delle pensioni percepite” per il periodo “dal 01.05.2016 al 31.-OMISSIS-.2016”, chiedeva la trasmissione dell'attestazione ISEE per l'anno 20-OMISSIS-; - della Deliberazione del Consiglio Comunale n. -OMISSIS- del 03.03.2016 di approvazione del “Regolamento per l'erogazione di prestazioni economiche integrative di rette per i servizi residenziali a ciclo continuativo per persone anziane non autosufficienti” e della successiva modifica adottata con Deliberazione del Consiglio Comunale n. 22 del 23.03.2017; - della deliberazione della Conferenza dei Sindaci dell'-OMISSIS- (ora -OMISSIS-- -OMISSIS-) n. -OMISSIS-ad oggetto “Regolamento per l'erogazione di prestazioni economiche integrative di rette per i servizi residenziali a ciclo continuativo per persone anziane non autosufficienti”; - della Deliberazione della Giunta Comunale n. -OMISSIS- in data 23.02.2016 e n. -OMISSIS- del 07.04.2016 ed eventuali successive analoghe delibere che hanno approvato i “valori di riferimento” indicati nell'art. 11 del detto Regolamento comunale; - in parte qua, della Determinazione Dirigenziale n. -OMISSIS- in data 04.02.2016, n. -OMISSIS- del 13.02.2017 e n. -OMISSIS- del 07.02.2018; - della Deliberazione del Consiglio Comunale n. -OMISSIS- del 21.02.2013 che ha modificato l'art. 2 del “Regolamento per l'erogazione di interventi economici integrativi per il ricovero anziani presso strutture protette”, approvato con DCC n. 8/2005; - della Deliberazione del Consiglio Comunale n. -OMISSIS- del 10.09.2015 che ha approvato il “Regolamento sull'applicazione dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) per l'erogazione delle prestazioni sociali agevolate”; - in parte qua, della D.G.R. Veneto n. 1673 del 22.06.2010 che ha determinato gli importi della “quota di rilievo sanitario” “per anziani non autosufficienti e disabili”; - delle DGR nn. 464/2006, 394/2007, -OMISSIS-7/2007 e di ogni altro atto presupposto e/o conseguente e comunque connesso avente ad oggetto la partecipazione al costo del servizio fruito dalla sig.ra -OMISSIS-presso l'IPAB Istituto Assistenza Anziani – IAA - in -OMISSIS-; - nonché di tutti gli atti presupposti, connessi o consequenziali, anche d'incerta data, che hanno stabilito i criteri di compartecipazione al costo dei servizi sociosanitari ed in generale per i servizi residenziali resi agli anziani disabili gravi malati invalidi, non autosufficienti al 100%. Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da -OMISSIS-, in persona dell’amministratore di sostegno, il -OMISSIS- settembre 2020: per l’annullamento: - della nota prot. n. -OMISSIS- in data 10.06.2020 (ricevuta in data 15.06.2020) nella quale il Comune, determinava il contributo economico giornaliero computando la “pensione INPS… compresa la 13^ e la -OMISSIS-^ mensilità, l'indennità di accompagnamento, detratta la quota mensile di € 100,00 prevista per le spese personali della ricoverata” e chiedeva “entro quindici giorni” il “versamento di € 1.-OMISSIS-2,77 quale maggiore somma anticipata … per il periodo dal 01.01.20-OMISSIS- al 31.05.2020”; - della Deliberazione del Consiglio Comunale n. -OMISSIS- del 03.03.2016 di approvazione del “Regolamento per l'erogazione di prestazioni economiche integrative di rette per i servizi residenziali a ciclo continuativo per persone anziane non autosufficienti” e della successiva modifica adottata con Deliberazione del Consiglio Comunale n. 22 del 23.03.2017; - della Deliberazione della Conferenza dei Sindaci dell'-OMISSIS- (ora -OMISSIS-- -OMISSIS-) n. -OMISSIS- in data 03.-OMISSIS-.2015 ad oggetto “Regolamento per l'erogazione di prestazioni economiche integrative di rette per i servizi residenziali a ciclo continuativo per persone anziane non autosufficienti”; - della Deliberazione della Giunta Comunale n. -OMISSIS- del 07.04.2016 ed eventuali successive analoghe delibere che hanno approvato i “valori di riferimento” indicati nell'art. 11 del detto Regolamento comunale; - in parte qua, della Determinazione Dirigenziale n. 644 del -OMISSIS-.02.20-OMISSIS- e n. -OMISSIS- del 18.02.2020; - della Deliberazione del Consiglio Comunale n. -OMISSIS- del 21.02.2013 che ha modificato l'art. 2 del “Regolamento per l'erogazione di interventi economici integrativi per il ricovero anziani presso strutture protette”, approvato con DCC n. 8/2005; - della Deliberazione del Consiglio Comunale n. -OMISSIS- del 10.09.2015 che ha approvato il “Regolamento sull'applicazione dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) per l'erogazione delle prestazioni sociali agevolate”; - nonché, in parte qua, della D.G.R. Veneto n. 1673 del 22.06.2010 che ha determinato gli importi della “quota di rilievo sanitario” “per anziani non autosufficienti e disabili”; - e, per quanto occorrer possa, delle DGR nn. 464/2006, 394/2007, -OMISSIS-7/2007 e di ogni altro atto presupposto e/o conseguente e comunque connesso avente ad oggetto la partecipazione al costo del servizio fruito dalla sig.ra -OMISSIS- presso l'IPAB Istituto Assistenza Anziani - IAA - in -OMISSIS-; - nonché di tutti gli atti presupposti, connessi o consequenziali, anche d'incerta data, che hanno stabilito i criteri di compartecipazione al costo dei servizi sociosanitari ed in generale per i servizi residenziali resi agli anziani disabili gravi malati invalidi, non autosufficienti al 100%. Visti il ricorso introduttivo, il ricorso per motivi aggiunti e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di -OMISSIS-, della Conferenza dei Sindaci dei Comuni dell'Azienda -OMISSIS-e della Regione Veneto; Visto l’atto di intervento ad opponendum della Ulss n. 9 “-OMISSIS-”. Visti tutti gli atti della causa; Visto l’art. 25 del decreto legge n. 137 del 2020; Visto l’art. 4 del decreto legge n. 28 del 2020, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge n. 70 del 2020; Visto l’art. 84 del decreto legge n.18 del 2020, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge n. 27 del 2020; Relatore nell'udienza del giorno 11 novembre 2020 la dott.ssa Mara Spatuzzi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La ricorrente, in persona dell’amministratore di sostegno, con il ricorso introduttivo impugna l’atto con cui il Comune di -OMISSIS- le ha comunicato l’aggiornamento per l’anno 2017 e 2018 del contributo comunale in relazione alla c.d. retta “alberghiera” per il ricovero nell’Istituto per l’Assistenza Anziani in cui è stata accolta e le ha chiesto la restituzione della maggior somma anticipata dal Comune per tale periodo, nonché gli atti presupposti, meglio indicati in epigrafe, tra cui il regolamento comunale in materia e le delibere comunali attuative, la delibera della Conferenza dei Sindaci della -OMISSIS- (ora -OMISSIS-) di approvazione del regolamento tipo, e gli atti regionali in base ai quali è stata individuata la misura massima della quota di rilievo sanitario per la struttura in cui è stata accolta la ricorrente. 2. Nel ricorso si espone che: - la ricorrente, -OMISSIS-, nata il -OMISSIS-, anziana non autosufficiente e riconosciuta “-OMISSIS- con necessità di assistenza continua non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita” nonché “portatore di handicap in situazione di gravità ai sensi dell’art. 3, comma 3, L.5.2.-OMISSIS-92, n. 104”, è ricoverata presso l’IPAB Istituto Assistenza Anziani, IAA, di -OMISSIS-; - la stessa versa in precarie condizioni di salute come descritte nella relazione in data 16 giugno 2016 del medico responsabile dell’IPAB: “è qui istituzionalizzata in quanto affetta da demenza senile grave con disorientamento spazio-temporale pressoché totale (riconosce solo la nipote); inoltre presenta impotenza funzionale elevata per cui viene spostata con la carrozzina. E’ dipendente in tutto ... è incontinente ed usa stabilmente i pannoloni, in quanto depressa e psichicamente eretistica deve assumere con regolarità farmaci per la stabilizzazione dell’umore. Anche l’alimentazione è critica e deve essere tenuta in alimentazione controllata per evitare di peggiorare il deperimento organico” (doc. 24 in atti deposito ricorrente); - durante il ricovero presso la struttura subentravano “numerosi episodi infettivi polmonari considerati come plurimi ab ingestis” e difficoltà di alimentarsi (con diagnosi di grave disfagia) per cui, dopo un primo accesso al P.S. il -OMISSIS- luglio 2017, veniva ricoverata il 20 luglio 2017 per essere dimessa il 4 agosto 2017, dopo il posizionamento di PEG effettuato il 28 luglio 2017 (doc. 25 in atti deposito ricorrente) con invito alla “prosecuzione della terapia antipsicotica” previa “rivalutazione neurologica”; - la ricorrente ha come unica fonte di reddito una pensione di vecchiaia cat. -OMISSIS- per un importo mensile di circa di circa € 530,00 ed è titolare di una prestazione a favore di invalido civile -indennità - cat. INVIC n. -OMISSIS- - di circa € 500,00 al mese (doc. 28, 29 e 30 in atti deposito ricorrente); - l’ISEE della ricorrente ammonta ad € 4.346,53 nel 2017, ad € 5.017,52 nel 2018 e ad € 4.992,21 nel 20-OMISSIS- (doc. 32, 33 e 34 in atti deposito ricorrente); - la ricorrente sosterrebbe “spese personali” di mantenimento – assistenza, abbigliamento, trasporti ecc., come da rendiconto provvisorio anno 20-OMISSIS- redatto dall’amministratore di sostegno nominato in data 18 aprile 20-OMISSIS- (doc. 35 e 37 in atti deposito ricorrente); - con l’atto impugnato il Comune di -OMISSIS- determinava il “contributo economico giornaliero” da parte del Comune per l’anno 2017 in “€ 17.59” e per l’anno 2018 in “€ -OMISSIS-,26”, nei limiti della retta massima “alberghiera” di “€ 53,75 per l’anno 2017 e di € 54,37 per l’anno 2018” e “sulla base delle Attestazioni ISEE-pensioni della ricoverata compresa la 13^ e la -OMISSIS-^ mensilità, l’indennità di accompagnamento, detratta la quota mensile di € 100,00 prevista per le spese personali della ricoverata”, chiedendo, per l’effetto, “il versamento di €5.588,15 quale maggior somma anticipata da questa Amministrazione” per il periodo dal 1° gennaio 2017 al 31 dicembre 2018; - per l’effetto, a fronte di una retta c.d. “alberghiera” giornaliera presso l’IPAB pari ad € 64,80 (€ 23.652,00 annuali) - doc. 39 in atti deposito ricorrente - e della compartecipazione del Comune determinata in € 6.420,35 nel 2017 (17,59x365) e in € 4.474,90 nel 2018 (-OMISSIS-,26x365), la retta accollata alla ricorrente sarebbe nel 2017 pari a € 17.231,65 (23.652,00-6.420,35) nonostante un’ISEE di € 4.346,53 ed un totale di pensioni percepite (vecchiaia ed invalidità) che sarebbe di € 13.-OMISSIS-0,34; mentre nel 2018 la retta accollata alla ricorrente ammonterebbe ad € -OMISSIS-.177,10 (23.652,00-4.474,90) nonostante un’ISEE di € 5.017,52 ed un totale di pensioni percepite (vecchiaia ed invalidità) che sarebbe di € 13.278,47. E ciò in violazione della normativa in materia giungendo nel caso concreto a determinare importi del tutto avulsi dall’ISEE della sig.ra -OMISSIS-, addirittura superiori al totale delle entrate e non considerando le spese personali che in concreto la stessa sostiene. 3. Tanto premesso, la ricorrente deduce l’illegittimità degli atti impugnati per i seguenti motivi di ricorso: I) Violazione di legge: art. 7 e 10 bis L. 241/90; art. 97 Cost.; Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilita ratificata con L. 18/2009; violazione dei principi di trasparenza, buona amministrazione e partecipazione; difetto di istruttoria; omessa comunicazione di avvio del procedimento. La ricorrente lamenta, in sostanza, che il Comune con la nota impugnata avrebbe provveduto d’ufficio alla determinazione del quantum dovuto a titolo di compartecipazione ed alla conseguente richiesta di “restituzione” di € 5.588,15 quale maggiore somma anticipata, senza alcuna previa comunicazione dell’avvio del procedimento e senza alcun coinvolgimento della ricorrente nel procedimento in questione; II) Violazione di legge: artt. 3, 32, 38, 53, 97 e 117 co. 2 lett. m) Cost. ;Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità; Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (art. -OMISSIS-) e Carta europea dei diritti fondamentali (art. 21); artt. 2, 3, 4, 5 e 6 D.P.C.M. 159/2013; art 2 sexies D.L. 42/2016 convertito in L. 89/2016; art. 5 D.P.C.M. -OMISSIS-.2.2001; artt. 6, 8, 18 e 25 L. 328/2000; L.R.V. 1/2004; nullità per difetto assoluto di attribuzione; incompetenza; eccesso di potere: contraddittorietà, sviamento, difetto di motivazione e di istruttoria, illogicità e perplessità manifeste; violazione principio di non discriminazione della persona disabile. Con tale motivo di ricorso si lamenta l’illegittimità del regolamento comunale impugnato e dei relativi atti attuativi, in quanto il regolamento, nel disciplinare la compartecipazione comunale, prescinderebbe totalmente dalla disciplina in materia di ISEE di cui al DPCM n. 159/2013. Il regolamento sarebbe quindi illegittimo nelle parti in cui detta limiti alla compartecipazione, sia in punto di an (art. 4) che di quantum (art. 6), che non troverebbero alcun fondamento normativo: verrebbero illegittimamente conteggiate tutte le risorse del degente (redditi ai fini Iperf e redditi esenti), nonchè la somma del patrimonio mobiliare e del patrimonio immobiliare, che è già conteggiato al fine dell’ISEE; verrebbe limitata la compartecipazione del COMUNE nell’importo massimo all’uopo predeterminato (artt. 2, 4 e 11); verrebbero, in sostanza, determinati ulteriori valori di riferimento (soglia ISEE per l’accesso, patrimonio disponibile minimo e massimo, importo forfettario spese personali) in patente violazione del DPCM 159/2013. Infine, verrebbe illegittimamente prevista anche la necessità di una “domanda” (art. 4) per accedere al contributo, mentre la normativa nazionale (art. 6, co. 4, L. 328/2000) e regionale (art. 13 bis L.R.V. n. 5/-OMISSIS-95) postulerebbe una mera “informativa”. La giurisprudenza del Consiglio di Stato avrebbe ribadito più volte che i Comuni non possano derogare all’ISEE, in quanto attinente ai LEA, e che i Comuni non potrebbero, con i loro regolamenti, dare rilievo ad elementi diversi rispetto a quelli specificamente indicati nel DPCM n. 159 del 2013 al fine di determinare il livello di capacità economica dell’assistito, con la conseguenza che non sarebbero ammessi altri sistemi di calcolo delle disponibilità economiche dei soggetti che chiedono prestazioni di tipo assistenziale. III) Violazione di legge: Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità; artt. 3, 36, 38 e 53 Cost.; art. 2 sexies D.L. 42/2016 convertito in L. 89/2016; artt. 2, 3, 6, 22 L. 328/2000; artt. 3, 46 D.Lgs 917/-OMISSIS-86; art. 34 D.Lgs 601/-OMISSIS-73; art. 1 L. 118/-OMISSIS-71; art. 1 L. 18/-OMISSIS-80; art. 1 L. 104/-OMISSIS-92; art. 4 L. 328/2000; eccesso di potere: insussistenza e/o travisamento dei presupposti di fatto, sviamento, illogicità, violazione principio di dignità, autonomia ed indipendenza della persona disabile; difetto di istruttoria. Il Regolamento impugnato sarebbe illegittimo nella parte in cui prevede (art. 6) che vada computata, quale “quota fissa” a carico del degente, la “somma percepita in funzione dei livelli di disabilità/non autosufficienza” e illegittima sarebbe la nota comunale impugnata che prevede il conteggio di “pensioni della ricoverata ..., l’indennità di accompagnamento”. Il Comune, infatti, andrebbe ad intaccare, in tal modo, i sussidi esenti che, ai sensi dell’art. 2 sexies D.L. 42/2016 convertito in L. 89/2016, non rientrano nell’ISEE, e, computando in toto tali sussidi senza tener conto, inoltre, delle spese che la ricorrente comunque sostiene in proprio, andrebbe a violare i principi di “dignità intrinseca, autonomia individuale – compresa la liberà di compiere le proprie scelte – e indipendenza” tutelati dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità ed, ancora prima, dalla L. 104/-OMISSIS-92 nell’art. 1, nonché il principio di proporzionalità. IV) Violazione di legge: art. 5, co. 4, dpcm 159/2013; art. 3, 23, 53 e 117, co. 2 lett. m), Cost.; irragionevolezza manifesta; insussistenza e/o travisamento dei presupposti di fatto; difetto di istruttoria. La ricorrente deduce, inoltre, che gli importi relativi alla invalidità della ricorrente, versati sul libretto personale a lei intestato, comunque concorrono alla formazione del “patrimonio mobiliare” considerato nell’ISEE, come previsto nell’art. 5, co. 4, dpcm 159/2013 e, pertanto, sarebbe ulteriormente irragionevole pretendere di “conteggiare” in toto, ai fini della compartecipazione, tali importi, al di fuori dell’ISEE ed indipendentemente dallo stesso. V) Violazione di legge: Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità, artt. 2, 3, 32, 38 e 53 Cost.; L.R.Veneto 22/-OMISSIS-89 art. 7; eccesso di potere: violazione principio di proporzionalità, sviamento, illogicità, violazione principio di indipendenza della persona disabile, travisamento ed insussistenza dei presupposti di diritto e di fatto. Il Regolamento (art. 6 e 11) ed i provvedimenti impugnati sarebbero illegittimi anche laddove prevedono, in modo del tutto astratto ed avulso dalle concrete esigenze della malata, disabile grave, anziana, invalida al 100% e non autosufficiente, che le venga lasciato un “borsellino” mensile di “€ 100,00” da destinare alle “spese personali”, senza, invece, considerare la concreta situazione di fatto e le esigenze personali della stessa, in violazione dei principi di proporzionalità e di indipendenza della persona disabile. VI) Incompetenza; Eccesso di potere: insussistenza e/o travisamento presupposti di diritto; Violazione di legge: DPCM 159/2013, artt. 2, -OMISSIS- e 10; L. 26 maggio 2016 n. 89, art. 2 sexies; art. 32, 38, 117 co. 2, lett. m) Cost. La ricorrente sostiene che il decorso del termine fissato per l’adeguamento alla nuova disciplina ISEE avrebbe comportato tout court l’entrata in vigore della normativa statale contenuta nel DPCM 159/2013 (e nella L. 89/2016), senza alcuna possibilità di appellarsi ad un “Regolamento” comunale successivo, che non potrebbe legittimare la mancata applicazione della normativa in questione: i provvedimenti impugnati sarebbero illegittimi nella misura in cui, in totale carenza di potere, pretenderebbero - invocando detto “Regolamento” - di ignorare del tutto la normativa statale in materia di ISEE, già operante a livello locale. VII) di pertinenza della Regione Veneto oltre che del Comune: Violazione di legge: art. 3 septies D.LGS. 504/92; DPCM -OMISSIS-.02.2011; DPCM 29.11.2001; art. 54 L. 289/2002; art. 26 L. 833/-OMISSIS-78; art. 30 L. 730/-OMISSIS-83; artt. 3, 32 e 117, co. 2, lett m) Cost.; Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, art. 25; art. 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, art. 168 TFUE, art. 11 Carta sociale europea, Costituzione dell’O.M.S.; L. n. 2-OMISSIS- del 22.-OMISSIS-.2017; Eccesso di potere sotto diversi profili. Con tale motivo, la ricorrente deduce che il Comune avrebbe dovuto verificare (con la necessaria partecipazione della ricorrente) e richiedere agli Enti competenti il corretto rispetto del riparto degli oneri tra sanità e assistenza, definito dal DPCM -OMISSIS- febbraio 2001 e 29 novembre 2001 e dall'art. 54 L. 289/2002, quale livello essenziale di assistenza sanitaria, evitando così di scaricare sulla ricorrente oneri invece di natura sanitaria. la documentazione prodotta (doc. 11-25 in atti deposito ricorrente) comproverebbe la necessità di un “concorso inscindibile di più apporti professionali sanitari e sociali nell'ambito di un processo personalizzato di assistenza, con un’avvertita preminenza dei fattori produttivi sanitari impegnati negli apporti di cura, ove si consideri che la mancanza di un continuo e assiduo monitoraggio sanitario metterebbe in gioco le condizioni di vita e di sopravvivenza del paziente”, mentre l’intervento assistenziale (prestazioni di igiene personale; cambio di postura e altro), si presenterebbe come recessivo rispetto agli aspetti sanitari, che la condizione dell’assistita renderebbe necessari con carattere di stabilità e continuità. La -OMISSIS-sarebbero trattamenti medici e, nel caso di specie, saremmo di fronte a vere e proprie terapie, a cure sanitarie e socio-sanitarie fondamentali per la sopravvivenza della ricorrente, rispetto alle quali le prestazioni di natura socio-assistenziale avrebbero un ruolo di carattere marginale ed accessorio. Pertanto, le prestazioni erogate alla ricorrente per la loro natura sarebbero da ritenersi interamente a carico del SSN. VIII) di pertinenza della Regione Veneto oltre che del Comune: Violazione di legge: violazione artt. 3, 32 e 117 co. 2 lett. m) Cost.; art. 54 L 289/2002, art. 1 L. 833/-OMISSIS-78, tab. 1 D.P.C.M. -OMISSIS-.2.2001; D.P.C.M. 29.11.2001 all. 1C e 4, art. 1, 6 e -OMISSIS- L. 328/2000; incompetenza - eccesso di potere. In via subordinata, nella denegata ipotesi in cui si volesse ritenere che le prestazioni erogate alla ricorrente non debbano ritenersi interamente a carico del SSN, la ricorrente lamenta che non sarebbe rispettato neppure quanto previsto dal DPCM sui LEA, secondo il quale, in relazione alle prestazioni erogate a favore di disabili gravi le spese di assistenza in strutture semiresidenziali e residenziali accreditate sulla base di standard regionali, la spesa deve essere ripartita nella misura del 70% a carico del SSN e 30% a carico del Comune, fatta salva la compartecipazione dell’utente. Nel caso di specie, considerato l’importo della quota sanitaria erogata pari ad € 49,00, a fronte di un costo totale pari ad € 113,80 (49,00+64,80), in virtù di detta proporzione 30%-70%, la quota sociale dovrebbe essere di € 34,-OMISSIS- (30% di 113,80) mentre, sulla base degli atti impugnati, verrebbe posto a carico della ricorrente un importo di €47,21 nel 2017 e di € 52,54 nel 2018, accollandole quindi costi sanitari in violazione della sopracitata normativa. In considerazione di ciò sarebbero illegittimi la DGR Veneto n. 1673/2010 e gli ulteriori provvedimenti regionali DGR nn. 464/2006, 394/2007, -OMISSIS-7/2007 (richiamati del Regolamento impugnato) nonché quelli ulteriori in materia, nella parte in cui limitano la quota sanitaria nell’importo ivi indicato (di € 49,00 o di €56,00) in violazione della disciplina nazionale sui LEA. Gli atti regionali impugnati sarebbero illegittimi nella misura in cui pretenderebbero di “limitare” l’accollo della prestazione sanitaria al SSN alla “quota” determinata dalla Regione ogni anno (e, precisamente, in € 49,00 e € 56,00 nella DGR n. 1673/2010 – doc. 10), in violazione della normativa nazionale sui LEA e della percentuale del 30%-70% ivi prevista. Inoltre, si evidenzia che sarebbe il Comune a dover garantire il servizio al cittadino, salvo poi agire nei confronti degli altri soggetti onerati, per l’eventuale recupero delle somme necessarie al pagamento del servizio, che non potrebbero essere scaricate sull’utente o sulla famiglia. IX) Violazione di legge: artt. 1, 2, 6, -OMISSIS-, 22 e 25 L. 328/2000, art. 13 bis LRV 5/-OMISSIS-96, artt. 2 e 6 DPCM 159/2013, art. 117, co. 2 lett m) Cost. DPCM -OMISSIS-.02.2001 e 29.11.2001, art 54 L. 289/2002, D.Lgs. 502/92 art. 3 septies; Eccesso di potere: violazione principi di sussidiarietà, cooperazione, omogeneità, responsabilità ed unicità. Ad avviso della ricorrente, inoltre, la pretesa di contenere l’importo a carico del Comune nel limite massimo indicato negli atti impugnati e di imporre la “restituzione” di importi determinati in violazione della normativa sull’ISEE, comporterebbe di fatto l’illegittimo esonero del Comune dall’esercizio dei propri compiti istituzionali, assegnatigli dalla L. 328/2000 nella materia in questione; X) Violazione di legge: Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, artt. 2, 3 e 5; eccesso di potere: violazione principio accomodamento ragionevole, di non discriminazione, di proporzionalità; sviamento; illogicità manifesta. Con tale ultimo motivo di ricorso, si deduce che il Comune con i provvedimenti impugnati porrebbe a carico della ricorrente una retta annua pari nel 2017 ad € 17.231,65 e nel 2018 ad € -OMISSIS-.177,10, ben superiore non solo all’unico reddito ma, altresì, alla somma dello stesso e della indennità INVCIV (senza considerare l’importo delle spese personali che la ricorrente deve affrontare), con ciò discriminando gravemente la ricorrente rispetto alla sue plurime gravi patologie, nonché arrecandole i conseguenti evidenti danni, in violazione principio di non discriminazione, di proporzionalità e di accomodamento ragionevole (di cui alla “Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità”). 4. Con ricorso per motivi aggiunti, depositato il -OMISSIS- settembre 2020, la ricorrente ha impugnato l’atto del 15 giugno 2020 - con cui il Comune le ha comunicato l’aggiornamento del contributo comunale per il periodo dal 1° gennaio 20-OMISSIS- al 31 dicembre 20-OMISSIS- e per il periodo dal 1° gennaio 2020, determinando la compartecipazione comunale in “€ -OMISSIS-,77” al giorno, nei limiti della “retta alberghiera” di “€ 54,92 per l’anno 20-OMISSIS-” e di “€ 55,17 per l’anno 2020” e sulla base della “pensione INPS compresa la 13^ e la -OMISSIS-^ mensilità, l’indennità di accompagnamento, detratta la quota mensile di € 100,00 prevista per le spese personali della ricoverata”, e le ha chiesto il “versamento di € 1.-OMISSIS-2,00 quale maggiore somma anticipata da questa Amministrazione per il periodo dal 01.01.20-OMISSIS- al 31.05.2020”- nonché gli atti presupposti, meglio indicati in epigrafe e già impugnati con il ricorso introduttivo, tra cui il regolamento comunale in materia, le delibere comunali attuative, la delibera della Conferenza dei Sindaci della -OMISSIS- (ora ULSS n.9) di approvazione del regolamento tipo, gli atti regionali in base ai quali è stata individuata la misura massima della quota di rilievo sanitario per la struttura in cui è stata accolta la ricorrente. 5. Nel ricorso per motivi aggiunti, oltre a richiamare quanto già esposto nel ricorso introduttivo, si fa presente che: - nel 20-OMISSIS- l’ISEE della ricorrente era pari ad € 4.992,21 (doc. 34 in atti deposito ricorrente) e nel 2020 ad €5.038,84 (doc. -OMISSIS- e 48 in atti deposito ricorrente); - nel 20-OMISSIS- la ricorrente avrebbe sostenuto spese personali di mantenimento, come risulterebbe dal rendiconto anno 20-OMISSIS-, per € 7.423,89 (doc. 46 in atti deposito ricorrente); - a fronte di una retta giornaliera presso l’IPAB pari ad € 64,80 nel 20-OMISSIS- (€ 23.652,00 annuo) e ad €65,80 nel 2020 (€ 24.017,00 annuo) e della compartecipazione determinata dal Comune nell’importo annuo di € 7.216,05 (€ -OMISSIS-,77x365 giorni) sia per l’anno 20-OMISSIS- che il 2020, l’importo accollato alla ricorrente ammonterebbe nel 20-OMISSIS- ad € 16.435,95 (23.652,00 -7.216,05) nonostante un’ISEE pari a € 4.992,21, ed un totale di pensioni percepite (vecchiaia ed invalidità) che sarebbe di € -OMISSIS-.823,44 (oltre alla tredicesima pari ad € 550,78); e nel 2020 l’importo accollato alla ricorrente ammonterebbe ad € 16.800,95 (24.017,00 -7.216,05) nonostante un’ISEE di €5.038,84 ed un totale di pensioni percepite (vecchiaia ed invalidità) inferiore alla somma accollatale, e ciò senza considerare le spese sostenute nel 20-OMISSIS-; - non risulterebbe, inoltre, valutata la situazione sanitaria della ricorrente, dal mese di luglio 2017 idratata ed alimentata tramite PEG. 6. Vengono, quindi, dedotti i seguenti motivi aggiunti di ricorso: I) Violazione di legge artt. 3, 32, 38, 53, 97 e 117 co. 2 lett. m) Cost.; Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità; Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (art. -OMISSIS-) e Carta europea dei diritti fondamentali (art. 21); artt. 2, 3, 4, 5 e 6 D.P.C.M. 159/2013; art 2 sexies D.L. 42/2016 convertito in L. 89/2016; art. 5 D.P.C.M. -OMISSIS-.2.2001; artt. 6, 8, 18 e 25 L. 328/2000; L.R.V. 1/2004; nullità per difetto assoluto di attribuzione; incompetenza; eccesso di potere: contraddittorietà, sviamento, difetto di motivazione e di istruttoria, illogicità e perplessità manifeste; violazione del principio di non discriminazione della persona disabile. Con tale motivo vengono sostanzialmente riproposte le doglianze già sollevate con il secondo motivo del ricorso introduttivo, cui si rimanda per brevità, con riferimento all’illegittimità del regolamento comunale e degli altri provvedimenti impugnati per contrasto con la disciplina nazionale in materia di ISEE e con il quadro regolamentare nazionale e internazionale di tutela dei disabili anziani non autosufficienti. Ad avviso della ricorrente, infatti, il regolamento e gli ulteriori atti impugnati sarebbero in contrasto con la disciplina di riferimento, nazionale e regionale, determinando la quota di compartecipazione in modo totalmente svincolato dal parametro dell’ISEE, come definito dal DPCM 159/2013, e introducendo criteri del tutto avulsi da detta normativa e privi di fondamento; II) Violazione ed errata interpretazione di legge: Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità; artt. 3, 36, 38 e 53 Cost.; art. 2 sexies D.L. 42/2016 convertito in L. 89/2016; artt. 2, 3, 6, 22 L. 328/2000; artt. 3, 46 D.Lgs 917/-OMISSIS-86; art. 34 D.Lgs 601/-OMISSIS-73; art. 1 L. 118/-OMISSIS-71; art. 1 L. 18/-OMISSIS-80; art. 1 L. 104/-OMISSIS-92; art. 4 L. 328/2000; eccesso di potere: insussistenza e/o travisamento dei presupposti di fatto, sviamento, illogicità, violazione principio di dignità, autonomia ed indipendenza della persona disabile; difetto di istruttoria. Con tale motivo si ripropongono le argomentazioni già svolte con il terzo motivo del ricorso introduttivo, cui per brevità si rimanda; III) Violazione di legge: art. 5, co. 4, dpcm 159/2013; art. 3, 23, 53 e 117, co. 2 lett. m) Cost.; Sviamento: irragionevolezza manifesta; insussistenza e/o travisamento dei presupposti di fatto; difetto di istruttoria. Con tale motivo si ripropone quanto già dedotto con il quarto motivo del ricorso introduttivo in relazione al fatto che l’indennità INVCIV, concorrendo alla formazione dell’ISEE come “patrimonio mobiliare”, sarebbe già valutata al fine della determinazione dell’ISEE, come previsto nell’art. 5, co. 4, dpcm 159/2013, per cui sarebbe irragionevole pretendere di “conteggiare” in toto dette somme al di fuori dell’ISEE ed indipendentemente dallo stesso. IV) Violazione di legge: Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità, artt. 2, 3, 32, 38 e 53 Cost.; L.R.Veneto 22/-OMISSIS-89 art. 7; eccesso di potere: violazione principio di proporzionalità, sviamento, illogicità, violazione principio di indipendenza della persona disabile, travisamento ed insussistenza dei presupposti di diritto e di fatto. Come già dedotto con il quinto motivo del ricorso introduttivo, la ricorrente lamenta che il Regolamento (art. 6 e 11) ed i provvedimenti impugnati sarebbero illegittimi anche laddove prevedono, in modo del tutto astratto ed avulso dalle concrete esigenze della malata, disabile grave, anziana e invalida al 100% e non autosufficiente, che le venga lasciato un “borsellino” mensile di “€ 100,00” da destinare alle “spese personali”, senza considerare la concreta situazione di fatto e le esigenze personali della ricorrente, che nel 20-OMISSIS- avrebbe sostenuto costi pari a € 7.423,89, importo ben superiore alla prevista quota di conservazione. Inoltre deduce che il Comune, con la nota impugnata, porrebbe a carico della ricorrente una retta annua totale pari nel 20-OMISSIS- ad € 16.435,95 e nel 2020 ad € 16.800,95, superiore non solo all’unico reddito (pari alla pensione cat. VOART) ma, altresì, alla somma dello stesso e della indennità INVCIV, per cui comunque nulla resterebbe alla ricorrente per far fronte alle spese personali; V) Incompetenza; eccesso di potere: insussistenza e/o travisamento presupposti di diritto; violazione di legge: DPCM 159/2013, artt. 2, -OMISSIS- e 10; L. 26 maggio 2016 n. 89, art. 2 sexies; art. 32, 38, 117 co. 2, lett. m) Cost.. Con questo motivo si ripropongono le argomentazioni già sposte nel sesto motivo del ricorso introduttivo, cui per brevità si rimanda; VI) di pertinenza della Regione Veneto oltre che del Comune: violazione di legge: art. 3 septies D.LGS. 504/92; DPCM -OMISSIS-.02.2011; art. 26 L. 833/-OMISSIS-78; art. 30 L. 730/-OMISSIS-83; artt. 3, 32 e 117, co. 2, lett m) Cost.; Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, art. 25; art. 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, art. 168 TFUE, art. 11 Carta sociale europea, Costituzione dell’O.M.S.; L. n. 2-OMISSIS- del 22.-OMISSIS-.2017; Eccesso di potere: incompetenza, sviamento, travisamento e/o insussistenza dei presupposti di fatto e di diritto, carenza di motivazione, difetto di istruttoria, illogicità ed irragionevolezza manifesta; violazione principi di sussidiarietà, cooperazione, omogeneità, responsabilità ed unicità. Con tale motivo si ripropongono le argomentazioni già svolte nel settimo motivo del ricorso introduttivo, cui per brevità si rimanda, relative alla situazione di gravità dello stato di salute della ricorrente e al mancato rispetto degli oneri di riparto tra sanità e assistenza, ritenendo che in questo caso la prestazione dovesse essere al 100% a carico del servizio sanitario, secondo quanto previsto dalla disciplina nazionale sui LEA, e si lamenta l’illegittimità del provvedimento del Comune, che avrebbe calcolato la retta a carico della ricorrente senza invece aver verificato che doveva essere accollata in toto al SSN, nonchè delle deliberazioni regionali che limiterebbero l’accollo della prestazione sanitaria al SSN alla “quota” determinata dalla Regione ogni anno, in violazione della normativa nazionale sui LEA; VII) di pertinenza della Regione Veneto oltre che del Comune: violazione di legge: violazione artt. 3, 32 e 117 co. 2 lett. m) Cost.; art. 54 L 289/2002, art. 1 L. 833/-OMISSIS-78, tab. 1 D.P.C.M. -OMISSIS-.2.2001; art. 1, 6 e -OMISSIS- L. 328/2000; incompetenza - eccesso di potere: sviamento, carenza di motivazione, travisamento e/o insussistenza dei presupposti di fatto e di diritto, disparità di trattamento, violazione principi di sussidiarietà, cooperazione, omogeneità, responsabilità ed unicità. In subordine al motivo precedente, con tale motivo si ripropongono le argomentazioni già svolte nell’ottavo motivo del ricorso introduttivo, cui si rimanda per brevità, relative al mancato rispetto del riparto percentuale (70 % a carico del SSN e 30% a carico del Comune o dell’utente) previsto dalla disciplina nazionale sui LEA e si lamenta l’illegittimità del provvedimento impugnato, in quanto il Comune non avrebbe verificato il corretto riparto, nonché l’illegittimità delle deliberazioni regionali che limiterebbero l’accollo della prestazione sanitaria al SSN alla “quota” determinata dalla Regione ogni anno, in violazione della normativa nazionale sui LEA; VIII) Violazione di legge: artt. 1, 2, 6, -OMISSIS-, 22 e 25 L. 328/2000, art. 13 bis LRV 5/-OMISSIS-96, artt. 2 e 6 DPCM 159/2013, art. 117, co. 2 lett m) Cost., DPCM -OMISSIS-.02.2001 e 29.11.2001, art 54 L. 289/2002, D.Lgs. 502/92 art. 3 septies; eccesso di potere: violazione principi di sussidiarietà, cooperazione, omogeneità, responsabilità ed unicità. Con questo motivo si ripropongono le argomentazioni già svolte con il nono motivo del ricorso introduttivo, cui per brevità si rimanda; IX) Violazione di legge: Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, artt. 2, 3 e 5; Eccesso di potere: violazione principio accomodamento ragionevole, di non discriminazione, di proporzionalità; sviamento; illogicità manifesta. Con questo motivo la ricorrente ribadisce l’illegittimità degli atti impugnati, in quanto con questi il Comune porrebbe a carico della ricorrente una retta annua totale pari nel 20-OMISSIS- ad € 16.435,95 e nel 2020 ad €16.800,95, ben superiore non solo all’unico reddito ma, altresì, alla somma dello stesso e della indennità INVCIV, senza considerare l’importo delle spese personali che la ricorrente deve affrontare; con ciò discriminando gravemente la ricorrente rispetto alla sue plurime gravi patologie, nonché arrecandole i conseguenti evidenti danni, in violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e di “accomodamento ragionevole” (di cui alla “Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità”). 5. Si è costituito in giudizio il Comune di -OMISSIS-, eccependo in via preliminare: - la litispendenza con il giudizio pendente avanti il Tribunale di -OMISSIS- n. R.G. -OMISSIS-, relativo all’opposizione al decreto ingiuntivo chiesto dall'Istituto Assistenza Anziani nei confronti della signora -OMISSIS-per ottenere il pagamento della retta di ricovero (per il periodo da maggio 20-OMISSIS- a dicembre 2017) sulla base del contratto da lei sottoscritto per l'inserimento nella struttura di -OMISSIS- ( in cui l'Istituto Assistenza Anziani ha, poi, chiamato in causa anche l'Azienda -OMISSIS- -OMISSIS-, il Comune di -OMISSIS- e -OMISSIS- -OMISSIS-); - in via subordinata, l'irricevibilità del ricorso per tardività, in quanto la nota in data 24 ottobre 20-OMISSIS- n. 36043, oggetto del presente giudizio, sarebbe stata preceduta da diverse altre, ricevute dalla ricorrente, di tenore analogo, e sarebbe un atto meramente confermativo; e contrastando nel merito le avverse pretese. 6. Si è costituita in giudizio la Regione Veneto, eccependo il difetto di giurisdizione a favore del giudice ordinario, in quanto si tratterebbe di controversia, relativa all’importo del contributo economico dovuto a titolo di compartecipazione alla spesa sanitaria e sociosanitaria, che atterrebbe a diritti soggettivi e ad atti di natura paritetica. 7. Si è costituita in giudizio la Conferenza dei Sindaci dell’-OMISSIS- (ex -OMISSIS-) che ha eccepito in via preliminare il difetto di giurisdizione a favore del giudice ordinario in relazione VII motivo del ricorso introduttivo e al VI motivo del ricorso per motivi aggiunti, ha eccepito l’inammissibilità del V motivo del ricorso introduttivo e del IV motivo del ricorso per motivi aggiunti, e ha contrastato nel merito le avverse pretese, chiedendo anche che venga sollevata questione di costituzionalità “dell’art. 2-sexies del d.l. 29 marzo 2016, n. 42, convertito dalla l. 26 maggio 2016, n. 89 per difetto di copertura finanziaria in violazione degli artt. 81, comma 3 e 1-OMISSIS-, comma 5, Cost., nonché per lesione delle competenza legislative e amministrative della Regione e dei Comuni, in violazione degli artt. 117, comma 3 e 118 Cost., con pregiudizio del sistema socio-sanitario locale nel suo insieme, in spregio agli artt. 3, 32 e 38 Cost.”; e dell’art. 33 l.r. n. 1/2004 e degli artt. 2 e 6, l.r. n. 30, “per contrasto con il novellato DPCM n. 159/2013 da assumere a parametro interposto rispetto all’art. 117, comma 2, lett. m, Cost.”. 8. Si è costituita in giudizio con atto di intervento ad opponendum la ULSS n. 9, riproponendo, in sostanza, le eccezioni preliminari e le argomentazioni già sostenute dalla difesa della Conferenza dei Sindaci della -OMISSIS-, con richiesta di sollevare questione di costituzionalità, per le medesime ragioni evidenziate dalla Conferenza dei Sindaci. 9. In vista dell’udienza di merito, le parti hanno depositato ulteriori memorie e repliche, insistendo nelle loro pretese, e la ricorrente ha eccepito anche l’inammissibilità dell’intervento ad opponendum della -OMISSIS-. 10. All’udienza del 11 novembre 2020, il ricorso, previa discussione tenutasi mediante collegamento da remoto in videoconferenza, è stato trattenuto in decisione. DIRITTO 1. In via preliminare, il Collegio ritiene che non si possa, nel caso in questione, fare applicazione dell’istituto della litispendenza ex art. 39 c.p.c., eccepita dal Comune di -OMISSIS-, in quanto per costante giurisprudenza, tale istituto trova applicazione allorché una stessa causa è intrapresa dinanzi a giudici diversi, ma in ogni caso appartenenti al medesimo ordine giudiziario, e non, invece, quando cause di contenuto identico pendono davanti a giudici di giurisdizioni diverse. Sul piano generale, infatti, “l'istituto della litispendenza, disciplinato dall'art. 39 c.p.c., postula non solo l'identità della controversia, bensì la sua pendenza dinanzi a giudici diversi della giurisdizione ordinaria, non essendo configurabile invece tra giudizi instaurati in diversi ambiti giurisdizionali, rispetto ai quali l'eventuale e potenziale conflitto può risolversi solo attraverso regolamento di giurisdizione, oppure denunciando il conflitto di giurisdizione (cfr. per tutte Cass., Sez. V, 30 luglio 2007, n. 16834)” (così Cons. di Stato, sent. n.5820 del 2013; cfr. anche sent. n. 782 del 2016; Tar Napoli, sent. n. 1695 del 2020 con la giurisprudenza ivi citata). Né alcuna deroga a siffatto principio potrebbe dedursi dal cd. rinvio esterno ex art. 39, comma 1, c.p.a., cioè dal rinvio che questo fa alle disposizioni del codice di procedura civile, le quali in tal modo risultano applicabili al processo amministrativo per quanto non disciplinato dal codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010), nei limiti in cui siano compatibili o siano espressione di principi generali: infatti, il rinvio all'art. 39 c.p.c. comporta l'inapplicabilità al caso in esame della disciplina sulla litispendenza, proprio perché detta disciplina si applica solo all'ipotesi delle cause identiche intraprese dinanzi a giudici diversi appartenenti allo stesso ordine giudiziario. Del resto, “l'estraneità alla giurisdizione della disciplina stabilita dal codice di procedura civile per regolare i conflitti di competenza (cui possono ricondursi le regole in tema di litispendenza) è stata già affermata dalla Corte costituzionale con sentenza n. 77 del -OMISSIS- marzo 2007: questa ha, appunto, ritenuto che la “translatio judicii”, prevista in relazione alla competenza, non potesse in alcun modo estendersi alla giurisdizione, perché proprio la previsione della “translatio judicii” unicamente per la competenza ha il significato del divieto di applicare il predetto istituto alla giurisdizione e, pertanto, ha chiamato il Legislatore a stabilire una disciplina ad hoc per la “translatio” tra giudice ordinario e giudice speciale (poi introdotta con l. n. 69 del 2009 ed ora regolata dal c.p.a.)” (così Tar Latina, sent. n. 48 del 2015). Inoltre, non si può dire neppure che sussista una piena identità tra la causa pendente davanti al giudice civile, che riguarda l’opposizione al decreto ingiuntivo emesso su richiesta dalla IPAB nei confronti della signora -OMISSIS-, sulla base del contratto di inserimento da lei sottoscritto nel 20-OMISSIS-, per il pagamento, per il periodo dal 20-OMISSIS- al 2017, delle rette per l’inserimento nella struttura della signora -OMISSIS-, e il presente ricorso, come integrato da motivi aggiunti, con cui la signora -OMISSIS- impugna, lamentandone l’illegittimità, gli atti con cui il Comune ha rideterminato nel 20-OMISSIS- (per gli anni 2017 e 2018) e nel 2020 ( per il 20-OMISSIS- e 2020) la quota di compartecipazione comunale alla retta e le ha chiesto il versamento di una somma a restituzione di quanto anticipato, nonché impugna, in parte qua, gli atti regolamentari e di carattere generale presupposti: il regolamento comunale di disciplina della compartecipazione, la delibera della Conferenza dei Sindaci presupposta, le delibere comunali attuative, nonché le delibere regionali che hanno individuato l’entità della quota di rilievo sanitario per le strutture accreditate quale quella in cui è accolta la ricorrente. Quanto, poi, all’eccepito difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a favore del giudice ordinario, si ritiene che sulla presente controversia sussista la giurisdizione del giudice amministrativo. Nella controversia in questione, infatti, non vengono in rilievo posizioni diritto soggettivo nell’ambito di una specifica e puntuale regolazione delle rispettive posizioni di diritto e di obbligo, bensì viene in rilievo il complesso quadro regolamentare relativo al concorso del privato, del servizio sanitario regionale e del Comune di residenza in ordine al pagamento delle prestazioni assistenziali e sanitarie, che ha comportato l’adozione di determinazioni dei soggetti pubblici coinvolti, che sono frutto di valutazioni di carattere tecnico-amministrativo ed espressione dell’esercizio di un potere amministrativo e non paritetico, la cui verifica di legittimità spetta al giudice amministrativo. Con il ricorso introduttivo e con il ricorso per motivi aggiunti sono, infatti, impugnate le determinazioni dell’Amministrazione in ordine all’an e al quantum di contribuzione alla retta di residenzialità della ricorrente, anziana disabile non autosufficiente, accolta in una struttura accreditata e convenzionata, in cui la ricorrente è stata inserita previa la prescritta valutazione multidimensionale da parte dell’organo competente, nonché il regolamento comunale, la deliberazione della Conferenza dei Sindaci della -OMISSIS-, che aveva approvato il regolamento tipo da questo richiamata, le ulteriori delibere comunali applicative, le delibere di carattere generale della Regione che disciplinano la quota di rilievo sanitario per le strutture quali quella in cui è accolta la ricorrente: atti che involgono valutazioni di carattere discrezionale e sono frutto dell’esercizio di un potere amministrativo nel rapporto tra assistito e Pubblica Amministrazione, la cui verifica di legittimità spetta a questo giudice amministrativo, a maggior ragione nel caso, come quello in esame, ove vi è l’impugnazione anche di specifiche norme regolamentari e di atti di carattere generale (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 1676 del 20-OMISSIS-; n. 339 del 2015; n. 2961 del 2018; Tar Marche, sent. n. 20 del 2020; Tar Brescia, sent. n. 1051 del 2017; Tar Salerno, sent. n.594 del 20-OMISSIS-). 2. Quanto, poi, all’eccezione di tardività dell’impugnativa, sollevata dal Comune di -OMISSIS-, la stessa non può essere condivisa, in quanto con le note comunali impugnate, rispetto alle quali il ricorso, come integrato dai motivi aggiunti, è stato proposto nei termini, il Comune di -OMISSIS- ha provveduto a determinare il contributo a proprio carico per il pagamento della quota di retta di residenzialità c.d. “alberghiera” con riferimento agli anni 2017 e 2018 e, poi, per gli anni 20-OMISSIS- e 2020, e tali atti non possono essere considerati atti meramente confermativi, essendo stati adottati a seguito di una rinnovata attività istruttoria e previa valutazione dell’ulteriore documentazione trasmessa. E, per quanto riguarda l’interesse all’impugnativa degli atti regolamentari e di carattere generale presupposti, lo stesso, con riferimento alle annualità dal 2017 al 2020, oggetto di impugnativa con il presente ricorso, come integrato dai motivi aggiunti, è diventato attuale e concreto per la ricorrente a seguito dell’adozione degli atti comunali (impugnati con il presente ricorso e con i motivi aggiunti) che ne hanno fatto concreta applicazione. 3. Non si ritiene, infine, condivisibile l’eccezione della ricorrente di inammissibilità dell’intervento ad opponendum della -OMISSIS-, in quanto l'intervento ad opponendum deve ritenersi ammissibile ogni qual volta, come nel caso di specie, il soggetto interveniente vanti un interesse, ancorché di mero fatto, mediato e riflesso, al mantenimento della situazione giuridica creata dal provvedimento impugnato e, quindi alla reiezione del ricorso (cfr. Cons, di Stato, sez. V, 8 aprile 20-OMISSIS-, n. 1669, Tar Lecce, sent. n. -OMISSIS-23 del 2017). Né può essere condivisa l’eccezione di inammissibilità dell’atto di intervento per irregolarità della notifica, considerato che l’atto di intervento notificato via pec, pur non essendo nativo digitale, è un PDF ottenuto tramite scansione dell’atto di intervento, con relativa procura a margine, redatto e firmato in via analogica ed è accompagnato dalla dovuta asseverazione di conformità da parte del difensore, riportata nella relata di notifica. E, del resto, la ricorrente si è difesa nel merito anche con riferimento a tale atto di intervento, richiamandosi a quanto già esposto in replica alla memoria della Conferenza dei Sindaci della -OMISSIS-, attesa la sostanziale identità delle argomentazioni della -OMISSIS- rispetto a quelle della Conferenza dei Sindaci. Per quanto sopra, pertanto, l’atto di intervento deve ritenersi ammissibile, atteso che, per costante giurisprudenza, “il rilievo di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme di rito non è volto a tutelare l'interesse all'astratta regolarità del processo, ma a garantire l'eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della rilevata violazione, di talché, in tutti i casi in cui tale pregiudizio non esiste, deve ritenersi conseguentemente esclusa la possibilità di dare rilievo a qualsivoglia eccezione (afferente o meno alle regole PAT) laddove l'atto, come nella specie, abbia raggiunto comunque il suo scopo” (così Tar Lecce, sent. n. 788 del 2018; cfr. anche C.d.S., sent. n. 817 del 2018, “…l'atto, notificato in forma cartacea, poi è stato depositato in formato digitale e ha dunque comunque raggiunto lo scopo alla luce dell'art. 156 Cod. proc. civ., rispetto alla controparte - che ha potuto costituirsi e svolgere le proprie difese - e comunque sono state rispettate le "esigenze di correntezza della gestione informatica del processo amministrativo" evocate dalla pronuncia richiamata”). 4. Passando all’esame nel merito del ricorso introduttivo e del ricorso per motivi aggiunti, gli stessi sono da ritenersi solo in parte fondati, secondo quanto segue. 5. Per quanto riguarda l’esame dei motivi di ricorso, il Collegio ritiene di affrontare, secondo l’ordine logico delle questioni, prima il settimo motivo del ricorso introduttivo e il sesto motivo del ricorso per motivi aggiunti, in quanto evidenziano in astratto una più radicale illegittimità degli atti impugnati (cfr. C.d.S. Ad. Plen. n. 5 del 2015) e poi l’ottavo motivo del ricorso introduttivo e il settimo motivo del ricorso per motivi aggiunti, proposti espressamente dal ricorrente in via subordinata rispetto ai motivi precedenti, per poi procedere all’esame degli ulteriori motivi di ricorso. 5.1. Con il settimo motivo del ricorso introduttivo e il sesto motivo del ricorso per motivi aggiunti, infatti, la ricorrente, lamenta l’errata ripartizione tra Servizio sanitario e Comune degli oneri relativi alla retta di ricovero nella struttura residenziale, ritenendo che la stessa debba gravare interamente sul Servizio sanitario, e, in subordine, con l’ottavo motivo del ricorso introduttivo e il settimo motivo del ricorso per motivi aggiunti, la ricorrente lamenta che, comunque, non sarebbe rispettata la percentuale di riparto del 70% a carico del Servizio sanitario e del 30% a carico del Comune o dell’utente prevista dal DPCM sui LEA. La ricorrente, quindi, lamenta l’illegittimità del provvedimento del Comune, che avrebbe calcolato la retta a suo carico senza invece aver verificato che doveva essere accollata in toto al SSN e, in subordine, senza aver verificato il rispetto del riparto del 70% e 30% tra SSN e Comune o utente, nonchè lamenta l’illegittimità delle deliberazioni regionali che limiterebbero l’accollo della prestazione sanitaria al SSN alla “quota” determinata dalla Regione ogni anno, in violazione della normativa nazionale sui LEA. 5.2. Il settimo motivo del ricorso introduttivo e il sesto motivo del ricorso per motivi aggiunti sono da ritenere infondati in quanto: la ricorrente è stata comunque inserita, a seguito di apposita valutazione multidisciplinare, non contestata, in una struttura accreditata all’erogazione di prestazioni residenziali rivolte a persone anziane non autosufficienti, con minor-ridotto e maggior bisogno assistenziale, e non è stato ritenuto invece necessario il ricovero continuativo in una struttura di tipo sanitario con oneri a totale carico del SSR (in tal senso cfr. la recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, sent. n.6926 del 2020; sent. n. 1505 del 2020); la situazione della ricorrente, a seguito dell’assunzione dei medicinali prescritti e dopo il ricovero presso l’Azienza Ospedaliera Universitaria Integrata di -OMISSIS- (20 luglio 2017- 4 agosto 2017) per accertamenti e per l’inserimento del sondino nasogastrico, risulta comunque stabilizzata tanto è vero che dopo tale periodo di ricovero è stata riaccolta nella RSA; anche in sede di rivalutazione della situazione della ricorrente nel 2018, l’unità di valutazione multidisciplinare ha confermato l’inserimento nella struttura residenziale per non autosufficienti “con priorità sociale”, valutando le esigenze sanitarie con un punteggio di 20, corrispondente ad una necessità di assistenza sanitaria intermedia; e, comunque, considerato quanto disposto dell’art. 30 del DPCM -OMISSIS- gennaio 2017 sui LEA (in particolare lettera b) del comma1) e considerata la documentazione prodotta in giudizio, non emerge una situazione tale da poter considerare le prestazioni di cui beneficia la ricorrente quali “prestazioni socio sanitarie ad elevata integrazione sanitaria”, che si caratterizzano per la “particolare rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria” secondo quanto disposto dall’art. 3 septies del d.lgs. n.502 del -OMISSIS-92 e, in particolare, “dall'inscindibilità del concorso di più apporti professionali sanitari e sociali nell'ambito del processo personalizzato di assistenza, dalla indivisibilità dell'impatto congiunto degli interventi sanitari e sociali sui risultati dell'assistenza e dalla preminenza dei fattori produttivi sanitari impegnati nell'assistenza” (DPCM -OMISSIS-.02.2001, art.3, comma 3). 5.3.Considerato quanto sopra in relazione alle valutazioni tecnico discrezionali effettuate in sede di Unità di Valutazione Multidisciplinare, non contestata, per le quali è stata ritenuta idonea una prestazione di lungo assistenza presso una struttura residenziale per anziani non autosufficienti, mentre non si è riscontrata la necessità di ricovero in strutture per i disabili gravi che offrono prestazioni di residenzialità socio sanitaria a superiore intensità lungoassistenziale, devono ritenersi infondati, sempre alla luce di quanto affermato dalla più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia (cfr. in particolare C.d.S. sent. n. 1550 del 2020, parag. 9.3) anche i motivi con cui si lamenta il mancato rispetto del riparto degli oneri tra sanità e assistenza nella misura del 70% a carico del SSN e 30% a carico del Comune o utente. 6. Infondate sono anche le censure, di cui al sesto motivo del ricorso introduttivo e quinto motivo del ricorso per motivi aggiunti, con cui si lamenta che il regolamento in questione sarebbe stato adottato in carenza di potere, in quanto approvato oltre i termini fissati dal legislatore nazionale agli enti erogatori per l'adeguamento dei propri regolamenti (DPCM 159/2013, artt. -OMISSIS- e 10; D.L. 42 del 2016, convertito con modificazioni dalla legge n.89 del 2016, art. 2 sexies). I termini in questione, infatti, non possono essere considerati perentori, non prevedendosi espressamente che, in caso di mancata revisione entro i termini prescritti, i Comuni siano privati della facoltà di provvedere e, pertanto, non può, configurarsi un vizio di “carenza di potere” nel caso in questione, mentre quello che va verificato è, alla luce degli ulteriori motivi di ricorso, se la disciplina dettata dal regolamento comunale impugnato, nonché gli atti che ne hanno fatto applicazione, siano rispettosi della normativa di riferimento in materia di compartecipazione alla retta per gli anziani disabili e non autosufficienti al 100% (in tal senso cfr., da ultimo, C.d.S., sent. n. 6926 del 2020 che ha confermato sulla questione la sentenza di questo Tar Veneto n. 934 del 20-OMISSIS-). 7. I motivi secondo, terzo, quarto, quinto, nono e decimo del ricorso introduttivo, che si esaminano congiuntamente in quanto tra loro connessi, con cui si lamenta, sotto diversi profili, l’illegittimità dell’atto comunale del 24 ottobre 20-OMISSIS-, di determinazione della misura della compartecipazione comunale alla retta per gli anni 2017 e 2018, e degli atti regolamentari e di carattere generale presupposti, per violazione delle norme costituzionali e nazionali di tutela dei disabili e, in particolare, della disciplina in materia di ISEE, nonché dei principi internazionali in materia, di cui alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nonché i motivi primo, secondo, terzo, quarto, ottavo e nono del ricorso per motivi aggiunti, che ripropongono le medesime censure contro l’atto comunale del 10 giugno 2020 di determinazione della compartecipazione comunale per gli anni 20-OMISSIS- e 2020, nonché contro i relativi atti presupposti, sono da ritenersi fondati nei termini che seguono. 7.1. Si premette, innanzitutto che, per giurisprudenza ormai consolidata del Consiglio di Stato, come da ultimo ribadito anche nella sent. n. 6926 del 2020, cui si rimanda per la ricostruzione del complesso quadro normativo e giurisprudenziale sulla materia, la disciplina statale sull’ISEE rileva sia per l’accesso che per la compartecipazione al costo delle prestazioni sociosanitarie e sociali, come si può desumere dal dato testuale del DPCM 5 dicembre 2013 n. 159 che, all’art. 2, espressamente prevede che l’ISEE costituisce lo strumento “…di valutazione, attraverso criteri unificati, della situazione economica di coloro che richiedono prestazioni sociali agevolate. La determinazione e l'applicazione dell'indicatore ai fini dell'accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, costituisce livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, fatte salve le competenze regionali in materia di normazione, programmazione e gestione delle politiche sociali e socio-sanitarie e ferme restando le prerogative dei comuni”, e, come affermato dal Consiglio di Stato, alla luce del complesso quadro normativo e dei principi costituzionali e internazionali in materia, “l’ISEE resta, dunque, l’indefettibile strumento di calcolo della capacità contributiva dei privati e deve scandire le condizioni e la proporzione di accesso alle prestazioni agevolate, non essendo consentita la pretesa del Comune di creare criteri avulsi dall’ISEE con valenza derogatoria ovvero finanche sostitutiva”. Il Consiglio di Stato, infatti, ha ritenuto che non sia possibile “accreditare in subiecta materia spazi di autonomia regolamentare in capo ai Comuni in distonia con i vincoli rinvenienti dalla sopra richiamata cornice normativa di riferimento al punto da consentire…la introduzione di criteri ulteriori e derogatori rispetto a quelli che il legislatore riserva, dopo aver accordato preferenza all’indicatore ISEE, in prima battuta, allo Stato e, in via integrativa, alla Regione”, e ha ritenuto illegittimo il regolamento comunale che ha assegnato “un improprio e discriminante rilievo selettivo alla percezione di emolumenti (id est pensione di invalidità ovvero indennità di accompagnamento) che, tanto in ragione delle mentovate sentenze di questo Consiglio, che per le successive modifiche normative, avrebbero dovuto essere considerati normativamente “protetti” e, dunque, con valenza neutra tanto ai fini dell’ISEE che, in via consequenziale, nella definizione della capacità contributiva degli utenti” (Cons. di Stato, sent. n.3671 del 2018). La giurisprudenza del Consiglio di Stato, ha, inoltre, affermato – quanto all’aspetto relativo alle esigenze di assicurare gli equilibri di bilancio – che la sostenibilità finanziaria dei relativi costi andrebbe prudentemente evocata tenendo conto della strumentalità del servizio in questione rispetto alla salvaguardia di diritti a nucleo incomprimibile secondo i principi più volte affermati dalla Consulta (cfr. fra le altre, le sentenze C. Cost. nn. 80/2010 e n. 275/2016), sottolineando l’onere della parte di dimostrare l’impossibilità di far fronte all’impegno finanziario conseguente alla prestazione (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 6926 del 2020 con i precedenti richiamati). Il Consiglio di Stato, nella sentenza n.6926 del 2020 citata, dopo aver ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale in materia ed essersi soffermata anche sulla questione relativa al rapporto tra ISEE e indennità di accompagnamento, ha affermato che “Va quindi ribadito il principio, desumibile dalla giurisprudenza della Sezione, secondo cui non può essere riconosciuta ai Comuni una potestà di deroga alla legislazione statale e regionale, nell’adozione del regolamento comunale, in violazione della disciplina statale dell’ISEE, così come prevista dal DPCM n. 159/2013” (e, in tal senso, cfr. anche Cons. di Stato, sent. n. 1-OMISSIS-8 del 20-OMISSIS-; Cons. di Stato sent. n. 5684 del 20-OMISSIS- che ha concluso nel senso che “In definitiva, l’ISEE, nei termini sopra ricostruiti, serve, dunque, per valutare la situazione economica (calcolata non solo su base reddituale ma anche del patrimonio valorizzato in percentuale) al fine di regolarne l’accesso a varie prestazioni pubbliche, tra le quali, in particolare, spiccano quelle sociali e sociosanitarie. E’, dunque, nel solco delle divisate, vincolanti coordinate normative che il Comune di Salò avrebbe dovuto stimare le condizioni di partecipazione dei privati utenti alle prestazioni in argomento (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. III, sentt. 27.11.2018 n. 6708 e 13.11.2018 n. 6371), mantenendosi, peraltro, aderente alle voci che compongono la situazione economica quale definita dalla richiamata disciplina di settore, applicabile ratione temporis, e che indica in dettaglio 1) il reddito, nelle articolazioni ivi previste, 2) il patrimonio, immobiliare e mobiliare, quest’ultimo corretto da una franchigia predeterminata”). Mentre, per quanto riguarda i poteri delle Regioni, il Consiglio di Stato ha affermato che la Regione dispone “del potere normativo residuale in tema di servizi sociali nei sensi indicati dalla Corte Costituzionale, garantendo, quindi, livelli ulteriori di tutela” (così. C.d.S. sent. n. 6926 del 2020 cit.). Infine, nella medesima pronuncia n. 6926 del 2020, il Consiglio di Stato ha confermato il precedente della sezione, secondo cui (C.d.S., sent. n. 3640 del 2015) “non può trovare applicazione la L.R. Veneto n. 30/2009 che reca “disposizioni per la istituzione del Fondo regionale per la non autosufficienza” e per la sua disciplina e, in particolare, l’art. 6 in quanto tale articolo disciplina le prestazioni a carico del Fondo e, ai commi 4 e 5, prevede che la Regione con DGR adotti un atto di indirizzo per stabilire i criteri per la compartecipazione alla spesa al fine di assicurare omogeneità di trattamenti nel territorio regionale, ma tale atto di indirizzo a tutt’oggi non risulta ancora adottato”. 7.2.Tanto premesso, va verificato se il sistema delineato dal regolamento del Comune di -OMISSIS-, unitamente agli altri atti presupposti impugnati in parte qua (tra cui la deliberazione n. -OMISSIS- del 2015 della Conferenza dei Sindaci della -OMISSIS-, ora -OMISSIS-, di approvazione dello schema di regolamento tipo), e di cui gli atti di concreta determinazione della quota di compartecipazione comunale impugnati costituiscono applicazione, può considerarsi rispettoso del quadro normativo di riferimento, come ricostruito nelle sentenze del Consiglio di Stato sopra richiamate (in particolare, artt. 32, 38 e 53 della Costituzione; legge n. 328/2000; DPCM 5 dicembre 2013 n. 159; art. 2 sexies D.L. 42/2016 convertito in L. 89/2016, che, a seguito delle sentenze del Consiglio di Stato nn.838, 841 e 842 del 2016, ha escluso dal calcolo della componente reddituale dell’ISEE “i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, comprese le carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche in ragione della condizione di disabilità, laddove non rientranti nel reddito complessivo ai fini dell'IRPEF”; principi internazionali in materia di tutela delle persone con disabilità), che regola la misura della compartecipazione alla retta di residenzialità da parte di un soggetto anziano, disabile e non autosufficiente, quale la ricorrente. 7.3. Il regolamento del Comune di -OMISSIS- impugnato, come da ultimo modificato, dispone, per quanto di interesse del presente ricorso come integrato dai motivi aggiunti, all’art. 6 che “la misura dell'intervento economico integrativo comunale è stabilita come differenza tra il valore della retta alberghiera della struttura residenziale a ciclo continuativo presso cui è inserita la persona assistita e la quota di compartecipazione a carico dell'utente” quantificata tenendo conto che “a. la quota giornaliera a carico dell'utente è determinata dalla somma della quota variabile e della quota fissa. La quota variabile corrisponde a una percentuale della retta, calcolata in base all'ISEE del beneficiario ai sensi dell'art. 6, comma 3, del D.P.C.M. n. 159/2013 e successive modifiche, rapportato alla retta stessa e tenuto conto della relativa scala di equivalenza. La quota fissa è corrispondente alla somma percepita in funzione dei livelli di disabilità/non autosufficienza, ai sensi dell'allegato 3 al D.P.C.M. N. 159/2013” e “b….Per “patrimonio disponibile” ai fini del presente Regolamento si intende la somma del patrimonio mobiliare e del patrimonio immobiliare, come desumibile dalla Dichiarazione Sostitutiva Unica al netto dell'eventuale mutuo residuo, con esclusione dell'abitazione principale di residenza solo se utilizzata stabilmente a tal fine dal coniuge e/o dal/dai figlio/i fiscalmente a carico”. Il comma 6 del medesimo articolo prevede poi che “L'entità della prestazione economica integrativa comunale nonché la determinazione della capacità di compartecipazione del richiedente e dei familiari non componenti il nucleo viene calcolata pro-die in base alla retta alberghiera di riferimento su base giornaliera, tenuto conto di quanto previsto al successivo comma 7; il comma 7 prevede che “il Comune riconosce al richiedente un importo forfettario per le piccole spese personali nella misura determinata con provvedimento della Giunta Comunale, tenuto conto della franchigia sulla tipologia di reddito prevista dal D.P.C.M. 159/2013. Le somme lasciate nella disponibilità della persona assistita devono essere utilizzate esclusivamente per tale finalità. Eventuali somme residue non utilizzate, rilevate successivamente al decesso della persona assistita, devono essere comunicate da chi ne ha esercitato la tutela legale, dagli eredi o dalla Direzione della struttura residenziale ospitante nel caso di gestione delle stesse in nome e per conto dell'utente, ai competenti Uffici comunali onde permettere il recupero sulla contribuzione erogata dall'Ente”. L’art. 11 del regolamento demanda, poi, alla Giunta comunale la determinazione: del valore della retta alberghiera di riferimento di cui all'articolo 2, comma 4; del valore soglia dell'ISEE per l'accesso alla prestazione economica integrativa di cui all'articolo 4, comma 1, lettera c); dei valori di patrimonio disponibile minimo e massimo di cui all'articolo 6, comma 1, lettera b); dell’importo forfettario per le piccole spese personali di cui all'articolo 6, comma 8. Il Comune ha fissato il valore della retta alberghiera di riferimento (che costituisce quindi un limite massimo alla retta alberghiera) in € 53,75 per il 2017; in € 54,37 per il 2018; in € 54,92 per il 20-OMISSIS- e in €55,17 per il 2020, usando come parametro di riferimento l’ammontare della retta presso la struttura “-OMISSIS-”, e in € 100 mensili l’importo forfettario per le piccole spese personali. Il Comune, quindi, applicando tale limite al valore della retta alberghiera e gli altri criteri regolamentari rilevanti nel caso in questione (conteggio in toto anche delle indennità escluse ex lege dal calcolo dell’ISEE, nonché per intero del patrimonio mobiliare, a prescindere dai criteri di calcolo e dalle franchigie previste dalla disciplina in materia di ISEE), ha proceduto a determinare una compartecipazione a suo carico di € 17,59 al giorno per il 2017; di € -OMISSIS-,26 al giorno per il 2018; di € -OMISSIS-,77 al giorno per il 20-OMISSIS- e di € -OMISSIS-,77 al giorno per il 2020, a fronte di una retta c.d. alberghiera, richiesta dalla IPAB alla ricorrente, che ammonta € 64,80 al giorno per gli anni 2017, 2018 e 20-OMISSIS- e ad € 65,80 al giorno per il 2020 ( cfr. prospetto riassuntivo depositato dal Comune di -OMISSIS-, doc.91 in atti deposito Comune di -OMISSIS-). Pertanto: - nel 2017, a fronte di una retta giornaliera presso l’IPAB pari ad € 64,80 al giorno (importo annuo € 23.652,00 ), la compartecipazione del Comune è stata determinata in € 17,59 al giorno (importo annuo 17,59x365 = € 6.420,35), con l’effetto di accollare alla ricorrente la differenza pari ad € 47,21 al giorno (€ 64,80-€ 17,59) per un importo annuo di € 17.231,65 (€ 47,21x365), nonostante un’ISEE di € 4.346,53 ed un totale annuo di pensioni percepite (vecchiaia ed invalidità) di circa €-OMISSIS-.000,00; - nel 2018, a fronte di una retta giornaliera presso l’IPAB pari ad € 64,80 (importo annuo € 23.652,00), la compartecipazione del Comune è stata determinata in € -OMISSIS-,26 al giorno (importo annuo -OMISSIS-,26x365 = € 4.474,90), con l’effetto di accollare alla ricorrente la differenza pari ad € 52,54 al giorno (€ 64,80-€ -OMISSIS-,26) per un importo annuo di € -OMISSIS-.177,10 (€ 52,54 x365), nonostante un’ISEE di € 5.017,52 ed un totale annuo di pensioni percepite (vecchiaia ed invalidità) di circa € -OMISSIS-.000,00; - nel 20-OMISSIS-, a fronte di una retta giornaliera presso l’IPAB pari ad € 64,80 (importo annuo € 23.652,00), la compartecipazione del Comune è stata determinata in € -OMISSIS-,77 al giorno (importo annuo: -OMISSIS-,77x365 = € 7.216,05), con l’effetto di accollare alla ricorrente la differenza pari ad € -OMISSIS-,03 al giorno (€ 64,80-€ -OMISSIS-,77) per un importo annuo di € 16.435,95 (€ -OMISSIS-,03x365) nonostante un’ISEE di € 4.992,21 ed un totale di pensioni percepite (vecchiaia ed invalidità) di circa €-OMISSIS-.000,00; - nel 2020, a fronte di una retta giornaliera presso l’IPAB pari ad € 65,80 (importo annuo € 24.017,00), la compartecipazione del Comune è stata determinata in € -OMISSIS-,77 al giorno (-OMISSIS-,77x365 = € 7.216,05), con l’effetto di accollare alla ricorrente la differenza pari ad € 46,03 al giorno (€ 65,80-€ -OMISSIS-,77) per un importo annuo di € 16.800,95 (€ 46,03 x365), nonostante un’ISEE di € 5.038,84 ed un totale di pensioni percepite (vecchiaia ed invalidità) di circa € -OMISSIS-.000,00. - e, in applicazione di detta disciplina, il Comune ha anche chiesto alla ricorrente la “restituzione” della “maggiore somma anticipata” calcolata, per gli anni 2017-2018, in “€ 5.588,15” (doc. 1) e, per il periodo 1° gennaio 20-OMISSIS- - 31 maggio 2020, in “€ 1.-OMISSIS-2,77”. 7.4. Tale disciplina, con gli effetti che ne sono derivati, è da considerarsi illegittima in quanto il Comune, per determinare l’entità del contributo a suo carico, utilizza dei criteri (fissazione di un tetto massimo all’entità della retta c.d. alberghiera, pur a fronte dell’autorizzazione da parte degli organi competenti all’inserimento in una struttura accreditata e convenzionata; conteggio in toto anche delle indennità esenti, che sono escluse normativamente dal calcolo della componente reddituale dell’ISEE, mentre le stesse indennità, come affermato di recente dal Consiglio di Stato, sent. n. 1548 del 20-OMISSIS-, concorrono eventualmente a costituire il patrimonio della ricorrente e, quindi, rilevano comunque in sede di ISEE ma in relazione al diverso indicatore della situazione patrimoniale e secondo i parametri di calcolo definiti dal DPCM n.159 del 2013; conteggio per intero del patrimonio mobiliare, che viene già considerato ai fini ISEE secondo i parametri stabiliti dal DPCM n. 159 del 2013), che sono del tutto avulsi dall’ISEE, in contrasto con il quadro normativo nazionale e internazionale di riferimento come ricostruito dalle citate sentenze del Consiglio di Stato. Tale disciplina si pone, infatti, in evidente contrasto con la normativa in materia di ISEE che, invece, secondo la giurisprudenza sopra richiamata costituisce, “l’indefettibile strumento di calcolo della capacità contributiva dei privati e deve scandire le condizioni e la proporzione di accesso alle prestazioni agevolate, non essendo consentita la pretesa del Comune di creare criteri avulsi dall’ISEE con valenza derogatoria ovvero finanche sostitutiva”. 7.5. E, in ogni caso, tale disciplina, che ha portato ad accollare alla ricorrente per gli anni in questione una retta annuale non solo di molto superiore al suo ISEE ma anche superiore alla somma delle entrate della ricorrente (pensione di vecchiaia e invalidità), per cui nei fatti non verrebbe neppure garantito il c.d. “borsellino minimo” di 100 euro mensili per le spese personali, e, comunque, senza che sia contemplata alcuna possibilità di considerare le spese effettivamente sostenute dalla ricorrente, è da considerarsi illegittima in quanto non può certo dirsi rispettosa dei fondamentali principi di ragionevolezza e proporzionalità. Non può, inoltre, rilevare, nel caso di specie, in termini di preteso “accomodamento ragionevole” il richiamo fatto dalla difesa della Conferenza dei Sindaci al fatto che “alla ricorrente è applicata la maggiorazione dello 0,5 al parametro della scala di equivalenza di cui all’Allegato 1 del DPCM 159/2013, in quanto invalida civile, e così una diminuzione del valore dell’Indicatore della Situazione Economica Equivalente rispetto ad una persona non disabile (per il 20-OMISSIS- ISE 7488,31 : 1,5 = ISEE 4.992,21, cfr. doc. 34 ricorrente)”, considerato che il Comune per determinare l’importo della contribuzione individua criteri ulteriori di determinazione della capacità contributiva che finiscono per porre nel nulla proprio l’ISEE e le franchigie e i criteri di calcolo per questo previste, tra cui la richiamata maggiorazione al parametro della scala di equivalenza. 7.6. Né, considerati gli effetti sopra riportati e considerato che la ricorrente è stata inserita nella struttura residenziale in questione previa valutazione e autorizzazione in sede di Unità di valutazione multidimensionale distrettuale della ULSS, possono essere condivise le controdeduzioni delle Amministrazioni in merito alla legittimità, invece, della previsione del tetto massimo, applicato dal Comune a prescindere dalla entità della retta c.d. alberghiera della struttura accreditata e convenzionata, che, unitamente agli altri criteri di calcolo adottati, ha portato agli effetti sopra evidenziati. L’inserimento della ricorrente nella struttura in questione è, infatti, avvenuto a seguito di apposita valutazione e autorizzazione in sede di Unità di valutazione multidimensionale distrettuale della ULSS, che ha consentito l’inserimento della ricorrente nella struttura, accreditata e convenzionata, ritenendola adeguata alle sue esigenze, con accollo alla ULSS della quota di rilievo sanitario, e non risulta dagli atti che sia stata revocata l’autorizzazione all’inserimento nella struttura a seguito di un giudizio di non appropriatezza e neppure che sia mai stato proposto l’inserimento in altra struttura. E, secondo quanto affermato dal Consiglio di Stato, deve “ribadirsi, ferme le condizioni che giustificano il trattamento assistenziale, ivi inclusi i profili dell’appropriatezza, il principio della piena libertà di scelta da parte dell’assistito della struttura orbitante nel circuito del servizio sanitario ai sensi dell’art. 6, comma 4, della l. n. 328 del 2000 (che prevede la sola previa informazione del Comune)”, dal momento che la “appropriatezza del ricovero, che compete all’autorità sanitaria, non può, invero, essere messa in discussione dal Comune chiamato ex lege all’integrazione della retta ove sussistano, in aggiunta, i requisiti reddituali richiesti dalla normativa di settore” (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 5684 del 20-OMISSIS-). 7.7. Va poi rilevato, che, nel caso di specie, come di recente confermato dal Consiglio di Stato nella sent. n.6926 del 2020, “non può trovare applicazione la L.R. Veneto n. 30/2009, la quale reca “disposizioni per la istituzione del Fondo regionale per la non autosufficienza e per la sua disciplina” e, in particolare, l’art. 6, in quanto tale articolo disciplina le prestazioni a carico del Fondo e, ai commi 4 e 5, prevede che la Regione con DGR adotti un atto di indirizzo per stabilire i criteri per la compartecipazione alla spesa al fine di assicurare omogeneità di trattamenti nel territorio regionale, ma tale atto di indirizzo a tutt’oggi non risulta ancora adottato” (Cons. Stato, Sez. III, n. 3640/2015)”, e neppure si può ritenere che la disciplina regolamentare adottata del Comune discenda dall’art. 33 della legge regionale n. 1 del 2004. Per cui appare priva della necessaria rilevanza la questione di costituzionalità sollevata con riferimento alle norme regionali sopracitate, non potendosi ritenere che la disciplina regolamentare così come delineata dal Comune fosse imposta dalla normativa regionale sopra richiamata (in tal senso cfr. Cons. di Stato, sent. n. 6926 del 2020). 7.8. Infine, per quanto sopra detto in relazione agli effetti irragionevoli e sproporzionati della disciplina prevista dal regolamento comunale con riferimento alla situazione della ricorrente, anziana, disabile e non autosufficiente al 100%, motivazione già idonea a sorreggere l’accoglimento del presente ricorso, la questione di legittimità costituzionale per insufficienza della copertura finanziaria dell’art. 2-sexies del d.l. 42/2016 convertito in legge n. 89/2016 perde di rilevanza e, in ogni caso, come pure rilevato dal Cons. di Stato nella citata sent. n. 6926 del 2020, la giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenze n. 83/20-OMISSIS-; n. 205/2016) ha sottolineato che sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale fondate sulla inadeguatezza delle risorse senza puntuali riferimenti a dati analitici relativi alle entrate e alle uscite al fine di dimostrare l’inadeguatezza delle risorse, e, pertanto, la documentazione probatoria prodotta al riguardo in giudizio, per la sua genericità e ipoteticità, non può ritenersi sufficiente a prospettare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-sexies del d.l. 42/2016 convertito in legge n. 89/2016. 8. In definitiva, il ricorso introduttivo e il ricorso per motivi aggiunti in parte vanno respinti e in parte vanno accolti, nei termini di cui sopra, con assorbimento delle ulteriori censure, e, per l’effetto, vanno annullati gli atti comunali di determinazione della compartecipazione alla retta per gli anni dal 2017 al 2020 e, in parte qua, vanno annullati il regolamento comunale e gli altri atti presupposti, nei limiti e sensi di cui sopra. 9. Le spese di lite, considerato l’esito complessivo della controversia e la complessità delle questioni trattate, possono essere compensate tra le parti. 10. Infine, vanno liquidati gli onorari e le spese spettanti al difensore della ricorrente che è stata ammessa al gratuito patrocinio con decreti della apposita Commissione. Si ritiene congruo, in relazione alla natura della controversia, all’impegno professionale richiesto e all’attività processuale espletata, e tenuto conto che l’art. 130 del D.P.R. n. 115 del 2002 in relazione al gratuito patrocinio nel processo amministrativo dimezza i compensi spettanti ai difensori, liquidare il compenso, cumulativamente per il ricorso introduttivo e il ricorso per motivi aggiunti, nella misura di complessivi € 5.000,00(cinquemila), oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso introduttivo e sul ricorso per motivi aggiunti, come in epigrafe proposti, in parte li respinge e in parte li accoglie, nei sensi e per gli effetti di cui in motivazione. Compensa le spese di lite. Liquida gli onorari e le spese del presente giudizio in favore del difensore della ricorrente, ammessa al gratuito patrocinio a spese dello Stato, nella misura indicata in motivazione. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. -OMISSIS-6, e all'articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. -OMISSIS-6, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate. Così deciso in Venezia nella camera di consiglio del giorno 11 novembre 2020 con l'intervento dei magistrati: Alessandra Farina, Presidente Alessio Falferi, Consigliere Mara Spatuzzi, Referendario, Estensore Alessandra Farina, Presidente Alessio Falferi, Consigliere Mara Spatuzzi, Referendario, Estensore IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Sanità pubblica - Assistenza sanitaria - Persone con disabilità – Disciplina statale sull’ISEE _ Rilevanza – Limite.   ​​​​​​​          La disciplina statale sull’ISEE rileva sia per l’accesso che per la compartecipazione al costo delle prestazioni sociosanitarie e sociali (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che per giurisprudenza ormai consolidata del Consiglio di Stato, come da ultimo ribadito anche nella sent. n. 6926 del 2020, la disciplina statale sull’ISEE rileva sia per l’accesso che per la compartecipazione al costo delle prestazioni sociosanitarie e sociali, come si può desumere dal dato testuale del dPCM 5 dicembre 2013 n. 159 che, all’art. 2, espressamente prevede che l’ISEE costituisce lo strumento “…di valutazione, attraverso criteri unificati, della situazione economica di coloro che richiedono prestazioni sociali agevolate. La determinazione e l'applicazione dell'indicatore ai fini dell'accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, costituisce livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., fatte salve le competenze regionali in materia di normazione, programmazione e gestione delle politiche sociali e socio-sanitarie e ferme restando le prerogative dei comuni”, e, come affermato dal Consiglio di Stato, alla luce del complesso quadro normativo e dei principi costituzionali e internazionali in materia, “l’ISEE resta, dunque, l’indefettibile strumento di calcolo della capacità contributiva dei privati e deve scandire le condizioni e la proporzione di accesso alle prestazioni agevolate, non essendo consentita la pretesa del Comune di creare criteri avulsi dall’ISEE con valenza derogatoria ovvero finanche sostitutiva”. Il Consiglio di Stato, infatti, ha ritenuto che non sia possibile “accreditare in subiecta materia spazi di autonomia regolamentare in capo ai Comuni in distonia con i vincoli rinvenienti dalla sopra richiamata cornice normativa di riferimento al punto da consentire…la introduzione di criteri ulteriori e derogatori rispetto a quelli che il legislatore riserva, dopo aver accordato preferenza all’indicatore ISEE, in prima battuta, allo Stato e, in via integrativa, alla Regione”, e ha ritenuto illegittimo il regolamento comunale che ha assegnato “un improprio e discriminante rilievo selettivo alla percezione di emolumenti (id est pensione di invalidità ovvero indennità di accompagnamento) che, tanto in ragione delle mentovate sentenze di questo Consiglio, che per le successive modifiche normative, avrebbero dovuto essere considerati normativamente “protetti” e, dunque, con valenza neutra tanto ai fini dell’ISEE che, in via consequenziale, nella definizione della capacità contributiva degli utenti” (Cons. Stato  n. 3671 del 2018). La giurisprudenza del Consiglio di Stato, ha, inoltre, affermato – quanto all’aspetto relativo alle esigenze di assicurare gli equilibri di bilancio – che la sostenibilità finanziaria dei relativi costi andrebbe prudentemente evocata tenendo conto della strumentalità del servizio in questione rispetto alla salvaguardia di diritti a nucleo incomprimibile secondo i principi più volte affermati dalla Consulta (cfr. fra le altre, le sentenze Corte cost. nn. 80 del 2010 e n. 275 del 2016), sottolineando l’onere della parte di dimostrare l’impossibilità di far fronte all’impegno finanziario conseguente alla prestazione (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 6926 del 2020 con i precedenti richiamati).  Il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 6926 del 2020 citata, dopo aver ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale in materia ed essersi soffermata anche sulla questione relativa al rapporto tra ISEE e indennità di accompagnamento, ha affermato che “Va quindi ribadito il principio, desumibile dalla giurisprudenza della Sezione, secondo cui non può essere riconosciuta ai Comuni una potestà di deroga alla legislazione statale e regionale, nell’adozione del regolamento comunale, in violazione della disciplina statale dell’ISEE, così come prevista dal dPCM n. 159 del 2013” al fine di regolarne l’accesso a varie prestazioni pubbliche, tra le quali, in particolare, spiccano quelle sociali e sociosanitarie. E’, dunque, nel solco delle divisate, vincolanti coordinate normative che il Comune di Salò avrebbe dovuto stimare le condizioni di partecipazione dei privati utenti alle prestazioni in argomento (Cons. Stato,s. III, 27 novembre 2018, n. 6708 e 13 novembre 2018, n. 6371), Link mantenendosi, peraltro, aderente alle voci che compongono la situazione economica quale definita dalla richiamata disciplina di settore, applicabile ratione temporis, e che indica in dettaglio 1) il reddito, nelle articolazioni ivi previste, 2) il patrimonio, immobiliare e mobiliare, quest’ultimo corretto da una franchigia predeterminata”).  Mentre, per quanto riguarda i poteri delle Regioni, il Consiglio di Stato ha affermato che la Regione dispone “del potere normativo residuale in tema di servizi sociali nei sensi indicati dalla Corte Costituzionale, garantendo, quindi, livelli ulteriori di tutela” (Cons. Stato n. 6926 del 2020). Infine, nella medesima pronuncia n. 6926 del 2020, il Consiglio di Stato ha confermato il precedente della sezione, secondo cui (Cons. Stato n. 3640 del 2015) “non può trovare applicazione la L.R. Veneto n. 30 del 2009 che reca “disposizioni per la istituzione del Fondo regionale per la non autosufficienza” e per la sua disciplina e, in particolare, l’art. 6 in quanto tale articolo disciplina le prestazioni a carico del Fondo e, ai commi 4 e 5, prevede che la Regione con DGR adotti un atto di indirizzo per stabilire i criteri per la compartecipazione alla spesa al fine di assicurare omogeneità di trattamenti nel territorio regionale, ma tale atto di indirizzo a tutt’oggi non risulta ancora adottato”. 
Sanità pubblica
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/criterio-di-individuazione-dei-requisiti-di-partecipazione-in-sede-di-gara
Criterio di individuazione dei requisiti di partecipazione in sede di gara
N. 00133/2022 REG.PROV.COLL. N. 00795/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 795 del 2021, proposto da:Italia Trasporto Aereo S.p.A., rappresentata e difesa dagli avvocati Filippo Modulo, Giulio Napolitano, Emanuela Devoto Ticca, Alfredo Vitale e Luca Masotto, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Regione Autonoma della Sardegna, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Mattia Pani e Alessandra Putzu, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Ministero delle Infrastrutture e delle Mobilità Sostenibili, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Cagliari, domiciliato in Cagliari presso gli uffici della medesima, via Dante n. 23; nei confronti Volotea S.L., rappresentata e difesa dagli avvocati Laura Pierallini, Ilaria Gobbato e Michele Carpagnano, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l’annullamento previa adozione di ogni opportuna misura cautelare, - della Comunicazione della Regione Autonoma della Sardegna – Assessorato dei Trasporti del 7 ottobre 2021 recante “Procedura di emergenza, ai sensi dell'art. 16, paragrafo 12 del Regolamento (CE) n.1008/2008 e del paragrafo 9 della Comunicazione della Commissione (2017/C 194/01), per l'affidamento dei servizi di trasporto aereo di linea, per il periodo dal 15 ottobre 2021 fino al 14 maggio 2022, sulle rotte Alghero – Roma Fiumicino e viceversa (CIG 8908916E0B), Alghero – Milano Linate e viceversa (CIG 8909067AA8), Cagliari – Roma Fiumicino e viceversa (CIG 89091585C2), Cagliari – Milano Linate e viceversa (CIG 8909218745), Olbia – Roma Fiumicino e viceversa (CIG 8909285E8D), Olbia – Milano Linate e viceversa (CIG 8909332559). Comunicazione provvedimento di esclusione”; - della Determinazione Regione Autonoma della Sardegna – Assessorato dei Trasporti rep. 511 del 7 ottobre 2021, comunicata in pari data, recante “Procedure di emergenza, ai sensi dell'art. 16, paragrafo 12 del Regolamento (CE) n.1008/2008 e del paragrafo 9 della Comunicazione della Commissione (2017/C 194/01), per l'affidamento dei servizi di trasporto aereo di linea sulle rotte Alghero – Milano Linate e viceversa (CIG 8909067AA8), Alghero – Roma Fiumicino e viceversa (CIG 8908916E0B), Cagliari – Milano Linate e viceversa (CIG 8909218745), Cagliari – Roma Fiumicino e viceversa (CIG 89091585C2), Olbia – Milano Linate e viceversa (CIG 8909332559) e Olbia – Roma Fiumicino e viceversa (CIG 8909285E8D) per il periodo dal 15 ottobre 2021 fino al 14 maggio 2022. Provvedimento di Esclusione del Vettore ITA S.p.A.”; nonché, per quanto occorrer possa e nei limiti dell’interesse: - della Determinazione n. 478, protocollo n. 13491 del 22 settembre 2021 della Regione Autonoma della Sardegna – Assessorato dei Trasporti – Servizio per il trasporto marittimo e aereo e continuità territoriale recante “Procedura di emergenza, ai sensi dell'art. 16, paragrafo 12 del Regolamento (CE) n.1008/2008 e il paragrafo 9 della Comunicazione della Commissione (2017/C 194/01), per l'affidamento del servizio di trasporto aereo di linea sulla rotta Cagliari - Roma Fiumicino e viceversa per il periodo dal 15 ottobre 2021 fino al 14 maggio 2022 (CIG 89091585C2)”; - della Lettera di invito - Procedura negoziata di emergenza, ai sensi dell’art. 16, paragrafo 12 del Regolamento (CE) n.1008/2008 e del paragrafo 9 della Comunicazione della Commissione (2017/C 194/01), per l'affidamento del servizio di trasporto aereo di linea sulla rotta Cagliari-Roma Fiumicino e viceversa per il periodo dal 15 ottobre 2021 fino al 14 maggio 2022 (CIG 89091585C2); - del Decreto Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili n. 357 del 14 settembre 2021; - di ogni altro atto e provvedimento presupposto, preparatorio, connesso e/o consequenziale, anche eventualmente non noto. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Sardegna, di Volotea S.L. e del Ministero delle Infrastrutture e delle Mobilità Sostenibili; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza pubblica del giorno 2 febbraio 2022 il dott. Tito Aru e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Al fine di preservare la continuità del servizio pubblico di trasporto aereo sulle rotte di collegamento della Sardegna con la penisola, servizio eseguito fino al 14 ottobre 2021 dalla compagnia aerea Alitalia SAI S.p.A. in amministrazione straordinaria, la Regione Sarda ha indetto – per ciascuna rotta messa a gara – una procedura negoziata di emergenza, ai sensi dell’art. 16, paragrafo 12, del Regolamento (CE) n.1008/2008 e del paragrafo 9 della Comunicazione della Commissione (2017/C 194/01), invitando a presentare offerta 12 vettori aerei, tra i quali la ricorrente Italia Trasporto Aereo S.p.A. (di seguito ITA). 2. Le offerte dovevano essere presentate entro le ore 13 del 29 settembre 2021. 3. Le lettere di invito richiedevano ai concorrenti di possedere i “Requisiti generali”, i “Requisiti tecnici” e i “Requisiti organizzativi” in esse indicati. 4, Per quanto rileva nel ricorso in esame, le lettere d’invito prevedevano - tra l’altro - quale “Requisito tecnico”, la “disponibilità, in proprietà o in locazione garantita, per tutto il periodo del servizio considerato, di un numero adeguato di aeromobili con le caratteristiche di capacità necessarie a soddisfare le prescrizioni dell’imposizione di oneri”. 5. Alla gara hanno partecipato soltanto la ricorrente ITA e la compagnia Volotea S.L. 6. Quest’ultima, all’esito delle operazioni concorsuali, è stata esclusa dalla procedura selettiva per carenze formali della propria offerta. 7. ITA è risultata, quindi, aggiudicataria. 8. All’esito della verifica dei requisiti dichiarati in sede di offerta, tuttavia, la Regione Sardegna, con i provvedimenti impugnati, ne ha disposto l’esclusione dalla gara assumendo che la stessa non fosse in possesso del precitato requisito tecnico della disponibilità, in proprietà o in locazione garantita, per tutta la durata del servizio, di un numero adeguato di aeromobili. 9. Avverso tale determinazione è insorta la ricorrente che l’ha impugnata per i seguenti motivi: 1) Violazione e falsa applicazione di legge - Violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c. - Violazione e falsa applicazione dell’art. 2 – Partecipazione – Requisiti tecnici (n. 4) della lettera di invito - Violazione e falsa applicazione dell’art. 2 dell’Allegato tecnico al DM Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili n. 357 del 14 settembre 2021 - Difetto di istruttoria e travisamento dei fatti. Irragionevolezza ed illogicità. Motivazione erronea e perplessa – Sviamento: in quanto la Regione Sardegna sarebbe pervenuta ad una errata valutazione della documentazione contrattuale presentata da ITA nell’ambito del sub-procedimento di verifica dei requisiti dichiarati in sede di gara, con particolare riferimento al contenuto e agli effetti negoziali derivanti dall’Offerta Vincolante presentata da ITA e dalla sua accettazione da parte di Alitalia, addivenendo dunque all’errata conclusione di affermare la carenza della disponibilità degli aeromobili in capo alla ricorrente; 2) Violazione e falsa applicazione di legge - Violazione e falsa applicazione degli artt. 83 e 100 D.lgs. n. 50/20216 (Codice dei Contratti Pubblici) - Violazione della distinzione tra requisiti di partecipazione e requisiti di esecuzione del contratto - Violazione e falsa applicazione dell’art. 2 - Partecipazione - Requisiti tecnici (n. 4) della lettera di invito - Violazione e falsa applicazione dell’art. 2 dell’Allegato tecnico al DM Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili n. 357 del 14 settembre 2021 - Violazione del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa. Eccesso di potere per difetto di istruttoria, illogicità ed irragionevolezza - Sviamento: in quanto il predetto requisito, pur qualificato come tecnico di partecipazione dalla lettera di invito, doveva più correttamente intendersi alla stregua di un requisito di esecuzione del contratto e, come tale, doveva essere soddisfatto non già all’atto della presentazione della domanda di partecipazione da ciascun concorrente ma soltanto da parte dell’aggiudicatario e solo ai fini dell’esecuzione della prestazione; 3) In via subordinata: Illegittimità dell’art. 2 della lettera di invito e dell’art. 2 dell’Allegato tecnico del DM Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili ove interpretate nel senso di qualificare il requisito della dimostrazione del possesso di disponibilità, in proprietà o in locazione garantita, per tutto il periodo di durata degli oneri, di un numero adeguato di aeromobili, come requisito per la partecipazione alla gara: le disposizioni della lettera di invito sarebbero illegittime ove interpretate nel senso di qualificare il requisito della disponibilità degli aeromobili come requisito di partecipazione alla gara anziché come requisito di esecuzione della prestazione. 10. Concludeva quindi la ricorrente chiedendo, previa sospensione, l’annullamento del provvedimento impugnato, con vittoria delle spese. 11. Per resistere al ricorso si sono costituiti in giudizio la Regione Sardegna, il Ministero delle Infrastrutture e delle Mobilità Sostenibili e Volotea S.L che, con articolate difese scritte, ne hanno chiesto il rigetto, con favore delle spese. 12. Alla camera di consiglio del 3 novembre 2021 l’esame dell’istanza cautelare è stato abbinato al merito. 13. In vista dell’udienza di trattazione le parti hanno depositato memorie con le quali hanno insistito nelle rispettive conclusioni. 14. Alla pubblica udienza del 2 febbraio 2022, al termine della discussione, la causa è stata posta in decisione. DIRITTO L’infondatezza nel merito del ricorso induce il Tribunale a prescindere dall’esame delle eccezioni procedurali sollevate dalle parti resistenti. 1. Per ragioni di ordine sistematico il Collegio ritiene di prendere le mosse dal secondo motivo di impugnazione, con il quale la ricorrente contesta la natura del requisito che ha portato alla sua esclusione dalla gara. 2. A suo avviso, infatti, il requisito della “disponibilità, in proprietà o in locazione garantita, per tutto il periodo del servizio considerato, di un numero adeguato di aeromobili con le caratteristiche di capacità necessarie a soddisfare le prescrizioni dell’imposizione di oneri”, pur qualificato come tecnico di partecipazione dalla lettera di invito, doveva più correttamente intendersi alla stregua di un requisito di esecuzione del contratto e, come tale, non doveva essere soddisfatto da ciascun concorrente fin dall’atto della presentazione della domanda di partecipazione alla gara ma doveva essere dimostrato soltanto dall’aggiudicatario al momento della stipula del contratto in funzione, appunto, dell’esecuzione della prestazione contrattuale. 3. Il motivo è infondato. 4. Esso attiene, come detto, alla distinzione tra requisiti di partecipazione e requisiti di esecuzione. Tale distinzione è stata elaborata dalla giurisprudenza amministrativa collocando tra i secondi gli “elementi caratterizzanti la fase esecutiva del servizio” (cfr., Consiglio di Stato, Sezione V, 18 dicembre 2017, n. 5929; Consiglio di Stato, Sezione V, 17 luglio 2018, n. 4390), vale a dire i “mezzi (strumenti, beni ed attrezzature) necessari all’esecuzione della prestazione promessa alla stazione appaltante” (Consiglio di Stato, Sezione V, 18 dicembre 2020, n. 8159), così distinguendoli dai primi, che sono invece quelli necessari per accedere alla procedura di gara, in quanto requisiti generali di moralità (ex art. 80 d.lgs. n. 50 del 2016) e requisiti speciali attinenti ai criteri di selezione (ex art. 83 d.lgs. n. 50 del 2016). 5. In dottrina e in giurisprudenza non è dubbio che il possesso dei requisiti di partecipazione sia richiesto al concorrente sin dal momento della presentazione dell’offerta. 5.1 Riguardo ai requisiti di esecuzione, invece, l’approdo giurisprudenziale più recente, più volte condiviso da questa Sezione, è nel senso che essi sono, di regola, condizioni per l’esecuzione della prestazione contrattuale e che, pertanto, la dimostrazione del loro possesso attenga ad una fase procedimentale successiva a quella dell’ammissione alla gara, concentrandosi tale onere probatorio soltanto sull’aggiudicatario nella fase immediatamente antecedente alla stipula del contratto. 6. Premesso quanto sopra, non si può tuttavia escludere che – in particolari fattispecie concorsuali - la richiesta della predisposizione ed organizzazione di beni e mezzi per l’esecuzione del servizio sia prevista dalla lex specialis come elemento essenziale dell’offerta (in termini Consiglio di Stato, Sezione V, 2 febbraio 2022 n. 722). 7. Per particolari esigenze correlate all’interesse pubblico perseguito dalla stazione appaltante con l’indizione della procedura concorsuale, cioè, ben può accadere che la regolazione dei c.d. requisiti di esecuzione rinvenuta nella lex specialis si atteggi diversamente rispetto all’ordinaria scansione procedimentale sopra ricordata, con la conseguenza che, se espressamente richiesti come elementi essenziali dell’offerta, anche per i requisiti di esecuzione può accadere che la loro mancanza al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla gara comporti l’esclusione del concorrente. 8. Spetta dunque alla stazione appaltante, nella predisposizione della legge di gara e in relazione all’oggetto della prestazione richiesta, conciliare le contrapposte esigenze procedimentali su cui si è variamente soffermata la giurisprudenza: - da un lato, quella di evitare inutili aggravi di spesa a carico degli operatori economici concorrenti per procurarsi già al momento dell’offerta la disponibilità di beni e mezzi, senza avere la certezza dell’aggiudicazione e con effetti discriminatori ed anti-concorrenziali perché di favore per gli operatori già presenti sul mercato ed in possesso delle dotazioni strumentali, nonché con violazione del principio di proporzionalità (cfr. Corte di Giustizia U.E., sez. I, 8 luglio 2021, n. 428); - dall’altro lato, quella della stazione appaltante di garantire la serietà e l’effettività dell’impegno assunto dal concorrente di disporre dei mezzi necessari all’espletamento del servizio. 9. Nel caso in esame, la lex specialis è costituita dalla lettera d’invito che all’art. 2, dedicato ai requisiti di partecipazione, tra i requisiti tecnici detta la seguente prescrizione: “4. Disponibilità, in proprietà o in locazione garantita, per tutto il periodo del servizio considerato, di un numero adeguato di aeromobili con le caratteristiche di capacità necessarie a soddisfare le prescrizioni dell’imposizione di oneri”. 10. Orbene, ad avviso del Collegio l’interpretazione di tale prescrizione di gara, al fine di indagarne il suo contenuto immediatamente precettivo fin dal momento della presentazione della domanda, non può prescindere dalla contestualizzazione della procedura concorsuale e dalla pressante situazione d’urgenza nella quale si è trovata ad operare la Regione Sardegna per poter assicurare, senza soluzione di continuità, lo svolgimento del servizio pubblico di trasporto aereo sulle rotte di collegamento con la penisola che altrimenti si sarebbe interrotto il 15 ottobre privando l’isola di collegamenti assolutamente necessari. 11. L’incalzante tempistica procedimentale e la necessità di non procurare interruzioni ad un servizio di importanza assolutamente primaria per la Regione Sarda ha infatti reso necessaria una sostanziale sovrapposizione e coincidenza delle fasi della dimostrazione del possesso dei requisiti di ammissione e della prova della disponibilità dei requisiti di esecuzione, ritenendosi necessario imporre – secondo le valutazioni fatte dalla stazione appaltante, insindacabili nel merito se non per illogicità o irragionevolezza manifesta non sussistenti nella specie - un requisito di sicura affidabilità in ordine all’immediata attivazione del servizio, compresa la certa e sicura dimostrazione della disponibilità degli aeromobili necessari, fin dal momento della presentazione della domanda di partecipazione comunque prevista a pochi giorni dall’attivazione del servizio. 12. Così intesa la ratio sottesa alla prescrizione in questione, non può che concludersi nel senso che il requisito richiesto dovesse essere posseduto dai partecipanti alla selezione fin dal momento della presentazione della domanda di partecipazione, non essendo ammissibile, stante il ricordato carattere d’urgenza della procedura, alcun margine di incertezza in ordine alla capacità dell’aggiudicatario di attivare immediatamente il servizio a partire dal 15 ottobre 2021. Peraltro ITA non aveva dimostrato il sicuro possesso del requisito richiesto nemmeno successivamente. 13. Dette conclusioni conducono dunque alla reiezione del motivo di impugnazione in esame, nonché al rigetto del terzo motivo proposto in via subordinata dalla società ITA, non essendo ravvisabili nella prescrizione di gara, per quanto sopra detto, i profili di illegittimità denunciati per il caso di una sua interpretazione nei sensi sopra precisati. 14. Può quindi passarsi all’esame del primo motivo, col quale la società ITA contesta la decisione espulsiva della Regione affermando di aver comunque dimostrato, in sede di gara, il possesso del requisito in questione. 15. Esigenze di chiarezza espositiva impongono alcune precisazioni in fatto. 16. La ricorrente Italia Trasporto Aereo S.p.A. è stata costituita con decreto del Ministro dell'Economia e delle Finanze di concerto con il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, il Ministro dello Sviluppo Economico e il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali del 9 ottobre 2020 ai sensi e per gli effetti dell’articolo 79 del D.L. n. 18/2020 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020 n. 27, come modificato dall’articolo 202 del D.L. 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 e dall’articolo 87 del D.L. 14 agosto 2020, n. 104) e ha ottenuto dall’ENAC, in data 18 agosto 2021, il rilascio delle certificazioni (Certificato di Operatore Aereo e Licenza di Esercizio) funzionali all’avvio della propria operatività quale operatore aereo commerciale. 17. Ai sensi dell’articolo 6, comma 3, del decreto-legge 30 giugno 2021, n. 99, nonché dell’art. 11 quater del D.L. D.L. 25 maggio 2021, n. 73 convertito, con modificazioni, in L. 23 luglio 2021 n.106, a seguito della decisione della Commissione Europea di cui all’articolo 79, comma 4-bis, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 e in conformità al piano industriale della ricorrente, valutato positivamente dalla Commissione stessa, Alitalia - Società Aerea Italiana S.p.A. in A.S. (“Alitalia SAI”) e Alitalia Cityliner S.p.A. in A.S. (“Alitalia Cityliner” e, congiuntamente con Alitalia SAI, “Alitalia”) sono state autorizzate, anche mediante trattativa privata, al trasferimento, alla medesima ITA, del complesso di beni e rapporti costituenti parte delle attività “aviation” individuati nel piano (il “Perimetro Aviation”) e a porre in essere tutte le ulteriori procedure necessarie per l’esecuzione del piano industriale medesimo. 18. In data 15 luglio 2021, la Commissione Europea ha inviato alle istituzioni italiane una lettera a mezzo della quale ha valutato positivamente il piano industriale 2021-2025 di ITA e ha impartito talune prescrizioni e condizioni in relazione all’operazione di cessione del Perimetro Aviation. 19. Conseguentemente, Alitalia e ITA hanno sottoscritto, in data 10 agosto 2021, un Memorandum of Understanding (“MoU”) con il quale hanno disciplinato fra loro i principi, le linee guida e le attività da svolgere al fine di realizzare l’operazione di acquisizione del Perimetro Aviation e negoziare e definire i relativi termini e condizioni, con l’obiettivo prioritario - indicato da ITA e riconosciuto da Alitalia - di consentire ad ITA di diventare pienamente operativa entro il 15 ottobre 2021, quando sarebbe diventato efficace il trasferimento del Perimetro Aviation da Alitalia a ITA (“Data di efficacia”). 20. In questo contesto di (ri)organizzazione imprenditoriale da parte del nuovo operatore, in data 22 settembre 2021 è stata indetta la gara regionale che qui occupa e sono state inviate le lettere di invito agli operatori di settore. Hanno partecipato alla procedura, per ciascuna delle 6 rotte, soltanto i vettori Volotea S.L. e ITA S.p.A. 20.1 Il presente ricorso attiene esclusivamente alla tratta Cagliari - Roma Fiumicino e viceversa. 20.2 Le gare relative alle altre rotte sono state impugnate con separati ricorsi dal ITA ma, su richiesta della stessa ricorrente, i relativi giudizi sono stati dichiarati - con separate decisioni – improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse. 21. Orbene, successivamente all’esclusione di Volotea S.L. per ragioni estranee al presente giudizio (ed oggetto di altro giudizio), la Regione Sardegna ha avviato il controllo dei requisiti generali dell’unico altro operatore rimasto in gara e ha proceduto – con richiesta di integrazione documentale del 1° ottobre 2021 - alla verifica del possesso dei requisiti tecnici dichiarati, in sede di offerta, da ITA S.p.A. 22. ITA, infatti, nella sua domanda di partecipazione, aveva dichiarato espressamente di “possedere la disponibilità, in proprietà o in locazione garantita, per tutto il periodo del servizio considerato, di un numero adeguato di aeromobili con le caratteristiche di capacità necessarie a soddisfare le prescrizioni dell’imposizione di oneri”. 23. In riscontro alla richiesta istruttoria ITA, con nota del 4 ottobre 2021, comunicava alla Regione quanto segue: “C. Alitalia e ITA hanno sottoscritto, in data 10 agosto 2021, un Memorandum of Understanding (“MoU”) con il quale hanno disciplinato fra loro i principi e le line guida e le attività da svolgere al fine di realizzare l’operazione di acquisizione del Perimetro Aviation e negoziare e definire i relativi termini e condizioni, con l’obiettivo prioritario indicato da ITA e riconosciuto da Alitalia di consentire ad ITA di diventare pienamente operativa entro il 15 ottobre 2021, quando avrà efficacia il trasferimento del Perimetro Aviation da Alitalia a ITA (“Data di efficacia”); D. ITA acquisirà da Alitalia, nell’ambito del Perimetro Aviation identificato, gli aeromobili e gli slot ad essi collegati, oltre ad altri asset tangibili e intangibili, inclusi inter alia sistemi informativi e di prenotazione, che quindi entreranno nella disponibilità di ITA alla Data di efficacia; E. ITA definirà entro la settimana corrente con Alitalia la documentazione contrattuale che disciplinerà il trasferimento del Perimetro Aviation alla Data di efficacia, ivi inclusi i contratti di novazione degli accordi di leasing relativi agli aeromobili identificati nell’ambito del Perimetro Aviation”. 24. Con nota n. 014127 del 5 ottobre 2021 la Regione, ritenendo ancora non provato nell’attualità il requisito dichiarato, invitava la ITA a depositare “idonea e definitiva documentazione che attesti il titolo giuridico vincolante e comprovante il requisito”. 25. ITA integrava la documentazione prodotta con nota del 6 ottobre 2021 ma, col provvedimento impugnato, la Regione la escludeva dalla gara non ritenendo neanche tale documentazione integrativa idonea a dimostrare il possesso del requisito per cui è causa. 26. Tutto ciò premesso, il Collegio ritiene che la determinazione regionale sia stata correttamente adottata sulle base delle risultanze degli atti. E’ vero che Alitalia e ITA hanno sottoscritto, in data 10 agosto 2021, un Memorandum of Understanding (“MoU”) con il quale hanno disciplinato fra loro i principi e le linee guida e le attività da svolgere al fine di realizzare l’operazione di acquisizione del Perimetro Aviation e negoziare e definire i relativi termini e condizioni, con l’obiettivo prioritario indicato da ITA e riconosciuto da Alitalia di consentire ad ITA di diventare pienamente operativa entro il 15 ottobre 2021, ossia dall’efficacia del trasferimento del Perimetro Aviation da Alitalia a ITA. Ma, come risulta dagli atti, detta operazione di acquisizione del Perimetro Aviation al momento in cui doveva essere data prova concreta e definitiva del requisito, necessaria alla stipulazione del contratto in vista dell’immediata attivazione del servizio, non era affatto definita con certezza. 27. In primo luogo deve osservarsi che nell’art. 5 del Memorandum si precisava che il medesimo non comportava l’assunzione di alcun obbligo giuridicamente vincolante a carico delle Parti, fatta eccezione espressa per le obbligazioni previste dagli articoli 3 (Riservatezza), 6 (Spese e Costi) e 9 (Legge applicabile e Foro competente). 28. E’ vero che in data 24 agosto 2021 ITA ha inviato ad Alitalia l’offerta vincolante per l’acquisizione dei beni, degli assets e dei rapporti ricompresi nel Perimetro Aviation identificato che, come detto, includeva gli aeromobili e gli slot ad essi collegati, oltre ad altri assest tangibili e intangibili inclusi i sistemi informativi e di prenotazione, ma l’accettazione di Alitalia del 31 agosto 2021 era espressamente subordinata al rispetto di quattro diverse condizioni rispetto alle quali non risultava, al momento della decisione regionale, nessuna dimostrazione di ottemperanza da parte di ITA. 29. Del resto l’Offerta Vincolante inviata da ITA S.p.A. ad Alitalia in data 24 agosto 2021 affermava che “Con l’accettazione da parte di Alitalia della presente offerta vincolante … le parti si impegnano a definire in buona fede la Documentazione Contrattuale e a proseguire le trattative in relazione all’operazione in maniera spedita al fine di addivenire alla finalizzazione e sottoscrizione della medesima Documentazione Contrattuale entro il 20 settembre 2021”. Tale offerta, inoltre, nell’allegato A contenente l’elenco degli aeromobili, presentava ampi margini di provvisorietà recando la seguente indicazione: “…restando inteso che il presente Allegato A rappresenta un’individuazione di massima che potrà essere oggetto di integrazione e/o migliore identificazione nell’ambito della Documentazione Contrattuale… le parti convengono che la lista di aeromobili potrà essere oggetto di modifica, previo consenso di entrambe le parti”. 30. In sostanza, dunque, il contenuto dell’offerta era tale per cui la stessa non avrebbe potuto essere destinata a produrre, pur a seguito di formale accettazione, un vincolo giuridico definito. 31. La previsione di adempimenti successivi (e in particolare il subentro nei contratti di leasing degli aeromobili) si configurava dunque, diversamente da quanto sostiene la ricorrente (che tra l’altro non risulta aver depositato alcun atto di assenso alla cessione del contratto da parte della società di leasing con la quale la stessa ITA avrebbe dovuto definire rilevanti aspetti economici del subentro), come circostanza idonea a mettere in dubbio il diritto di ITA alla disponibilità degli aeromobili richiesti per l’effettivo avvio del servizio di continuità territoriale alla data prevista, secondo le modalità richieste dalla Regione, in un contesto connotato dal rilievo che l’urgenza di addivenire alla conclusione della gara non consentiva margini di incertezza quanto alla data di avvio del servizio con le modalità richieste. 32. Tanto meno l’effetto giuridico invocato dalla ricorrente può ritenersi prodotto da un’accettazione condizionata in mancanza di una sicura prova dell’avveramento delle condizioni. 33. In realtà, come giustamente rileva la difesa regionale, l’Offerta vincolante, una volta accettata, non aveva determinato l’acquisto della proprietà o costituito un contratto di locazione, ma aveva solo definito buona parte delle condizioni contrattuali del futuro atto diretto a perfezionare l’intera operazione. 34. Non può quindi condividersi l’affermazione della ricorrente secondo la quale il Perimetro Aviation, essenzialmente costituito dai 52 aerei, risultava già identificato in modo assolutamente preciso nell’Allegato A dell’offerta. E non risulta rilevante neppure l’argomento della ricorrente secondo il quale con comunicazione congiunta del 12 ottobre 2021, onde consentire l’espletamento da parte dell’Autorità di controllo delle conseguenti attività doverose e vincolate funzionali al perfezionamento del trasferimento di beni, assets e rapporti ricompresi nel Perimetro Aviation, ITA ed Alitalia avevano inviato ad ENAC una informativa contenente la lista definitiva degli aeromobili e degli slots, con una elencazione degli aeromobili “sostanzialmente” identica a quella allegata all’offerta. La stessa procedura per l’autorizzazione all’impiego degli aeromobili, infatti, alla data del 13 ottobre 2021, dunque nell’imminenza della data di attivazione del servizio, non era ancora definita, risultando (nota ENAC n. 116853) che a tale data la stessa era ancora in corso di finalizzazione. 35. Pertanto, se anche volontà degli stipulanti ITA e Alitalia era quella di addivenire ad un trasferimento della proprietà o del leasing degli aeromobili, quello che appare oggettivamente il significato del contratto scaturito dall’accettazione della proposta negoziale era l’indicazione un percorso di progressiva definizione di un accordo ancora privo – al momento della decisione regionale - dei necessari caratteri di certezza richiesti dalla stazione appaltante in vista dell’affidamento di un servizio che, come detto, per la sua essenzialità ed urgenza, non ammetteva rischi di ritardi o dilazioni nell’attivazione. 36. Le suesposte considerazioni inducono quindi al rigetto anche di tale motivo restando escluso che il predetto requisito della disponibilità degli aerei fosse già posseduto da ITA all’atto della presentazione dell’offerta e non risultando invero posseduto tale requisito nemmeno al momento previsto per la stipula del contratto. 37. In conclusione, quindi, il ricorso, si rivela infondato, va respinto. 38. La particolarità della vicenda esaminata giustifica la compensazione delle spese tra le parti. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa le spese del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Cagliari nella camera di consiglio del giorno 2 febbraio 2022 con l’intervento dei magistrati: Dante D'Alessio, Presidente Tito Aru, Consigliere, Estensore Oscar Marongiu, Consigliere Dante D'Alessio, Presidente Tito Aru, Consigliere, Estensore Oscar Marongiu, Consigliere IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione – Individuazione – Criterio.            Spetta alla stazione appaltante, nella predisposizione della legge di gara e in relazione all’oggetto della prestazione richiesta, conciliare, nell’individuare i requisiti di partecipazione, le contrapposte esigenze: da un lato evitare inutili aggravi di spesa a carico degli operatori economici concorrenti per procurarsi già al momento dell’offerta la disponibilità di beni e mezzi, senza avere la certezza dell’aggiudicazione e con effetti discriminatori ed anti-concorrenziali perché di favore per gli operatori già presenti sul mercato ed in possesso delle dotazioni strumentali, nonché con violazione del principio di proporzionalità; dall’altro garantire la serietà e l’effettività dell’impegno assunto dal concorrente di disporre dei mezzi necessari all’espletamento del servizio (1).    (1) La distinzione tra requisiti di partecipazione e requisiti di esecuzione è stata elaborata dalla giurisprudenza amministrativa collocando tra i secondi gli “elementi caratterizzanti la fase esecutiva del servizio” (cfr., Consiglio di Stato, Sezione V, 18 dicembre 2017, n. 5929; id. 17 luglio 2018, n. 4390), vale a dire i “mezzi (strumenti, beni ed attrezzature) necessari all’esecuzione della prestazione promessa alla stazione appaltante” (Consiglio di Stato, Sezione V, 18 dicembre 2020, n. 8159), così distinguendoli dai primi, che sono invece quelli necessari per accedere alla procedura di gara, in quanto requisiti generali di moralità (ex art. 80 d.lgs. n. 50 del 2016) e requisiti speciali attinenti ai criteri di selezione (ex art. 83 d.lgs. n. 50 del 2016).   In dottrina e in giurisprudenza non è dubbio che il possesso dei requisiti di partecipazione sia richiesto al concorrente sin dal momento della presentazione dell’offerta.   Riguardo ai requisiti di esecuzione, invece, l’approdo giurisprudenziale più recente, più volte condiviso da questa Sezione, è nel senso che essi sono, di regola, condizioni per l’esecuzione della prestazione contrattuale e che, pertanto, la dimostrazione del loro possesso attenga ad una fase procedimentale successiva a quella dell’ammissione alla gara, concentrandosi tale onere probatorio soltanto sull’aggiudicatario nella fase immediatamente antecedente alla stipula del contratto.   Premesso quanto sopra, non si può tuttavia escludere che – in particolari fattispecie concorsuali - la richiesta della predisposizione ed organizzazione di beni e mezzi per l’esecuzione del servizio sia prevista dalla lex specialis come elemento essenziale dell’offerta (in termini Consiglio di Stato, Sezione V, 2 febbraio 2022 n. 722).  Per particolari esigenze correlate all’interesse pubblico perseguito dalla stazione appaltante con l’indizione della procedura concorsuale, cioè, ben può accadere che la regolazione dei c.d. requisiti di esecuzione rinvenuta nella lex specialis si atteggi diversamente rispetto all’ordinaria scansione procedimentale sopra ricordata, con la conseguenza che, se espressamente richiesti come elementi essenziali dell’offerta, anche per i requisiti di esecuzione può accadere che la loro mancanza al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla gara comporti l’esclusione del concorrente.
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/visite-domiciliare-dei-medici-di-medicina-generale-ai-pazienti-covid
Visite domiciliari dei medici di medicina generale ai pazienti Covid
N. 08166/2020REG.PROV.COLL. N. 08943/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8943 del 2020, proposto da Regione Lazio, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Rodolfo Murra, Giuseppe Allocca, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Giuseppe Allocca in Roma, via Marcantonio Colonna 27; contro Cristina Patrizi, Giuseppina Onotri, Gian Marco Polselli, Sindacato dei Medici Italiani, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Stefano Tarullo, Alberto Saraceno, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Alberto Saraceno in Roma, via degli Scipioni n. 265; nei confronti Inmi Lazzaro Spallanzani I.R.C.C.S., Goglia Paola Barbara, non costituiti in giudizio; e con l'intervento di ad adiuvandum:Codacons – Coordinamento delle Associazioni A Tutela dei Diritti degli Utenti e dei Consumatori; Articolo 32-97 – Associazione Italiana per i Diritti del Malato e del Cittadino, in persona del rispettivo legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Gino Giuliano, Carlo Rienzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto in Roma, viale Giuseppe Mazzini n. 73; Regione Puglia, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Isabella Fornelli, Rossana Lanza, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Isabella Fornelli in Roma, via Barberini 36; Regione Veneto, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Franco Botteon, Chiara Drago, Andrea Manzi, Cristina Zampieri, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Andrea Manzi in Roma, via Confalonieri n. 5; Regione Molise, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Claudia Angiolini, Annamaria Macchiarola, con domicilio eletto presso lo studio Ufficio Delegazione Roma Regione Molise in Roma, via del Pozzetto n. 117; Regione Liguria, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Aurelio Domenico Masuelli, Andrea Bozzini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Regione Lombardia, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Sabrina Gallonetto, Maria Emilia Moretti, Pio Dario Vivone, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Stefano Gattamelata in Roma, via di Monte Fiore 22; Regione Calabria, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Angela Marafioti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Regione Autonoma Valle D'Aosta / Vallée D'Aoste, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Francesco Pastorino, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Regione Piemonte, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Marco Piovano, Marialaura Piovano, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Regione Basilicata, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Maddalena Bruno, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Nizza 56; Regione Autonoma della Sardegna, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Alessandra Camba, Sonia Sau, con domicilio eletto presso lo studio Sonia Sau in Roma, via Lucullo 24; Regione Emilia Romagna, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Maria Rosaria Russo Valentini, Roberto Bonatti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Regione Campania, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Massimo Consoli, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Poli, n. 29; Azienda Sanitaria Locale Roma 3, in persona del Direttore generale pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Fabio Ferrara, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Casal Bernocchi, 73; per opposizione di terzo ex art.109 comma 2 c.p.a.: Sezione Provinciale Latina Fimmg - Federazione Italiana Medici di Medicina Generale, Sezione Regionale Lazio Fimmg - Federazione Italiana Medici di Medicina Generale, Cirilli Giovanni, Sezione Provinciale Roma Fimmg - Federazione Italiana Medici di Medicina Generale, Bartoletti Pier Luigi, Moscatelli Marina, Chiriatti Alberto, Valente Fabio, Dutti Giovanni Marco, Falcione Alessandro, Reggiani Chiara, Maglie Maria Grazia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'avvocato Beniamino Caravita Di Toritto, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via di Porta Pinciana n. 6; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) n. 11991/2020, resa tra le parti, concernente l’annullamento dell'Ordinanza del Presidente della Regione Lazio n. Z00009 del 17.3.2020 (Proposta n. 3999 del 16.3.2020), recante «Ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-2019. Ordinanza ai sensi dell'art. 32, comma 3, della legge 23 dicembre 1978, n. 833 in materia di igiene e sanità pubblica», in BUR Lazio n. 27, Suppl. n. 3 del 17.3.2020. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dei dott.ri Cristina Patrizi, Giuseppina Onotri, Gian Marco Polselli e del Sindacato dei Medici Italiani; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 15 dicembre 2020 il Cons. Giulio Veltri e uditi per le parti gli avvocati Rodolfo Murra, Giuseppe Allocca, Stefano Tarullo, Alberto Saraceno, Isabella Fornelli, Francesco Pastorino, Sabrina Gallonetto, Maria Emilia Moretti, Gino Giuliano, Carlo Rienzi, Aurelio Domenico Masuelli, Annamaria Macchiarola, Claudia Angiolini, Andrea Manzi, Cristina Zampieri, Beniamino Caravita Di Toritto, Fabio Ferrara, Marco Piovano, Sonia Sau, Maria Rosaria Russo Valentini e Consoli Massimo; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con l’appello oggetto dell’odierno esame, la Regione Lazio ha impugnato la sentenza del TAR Lazio, in epigrafe indicata, con la quale è stato accolto il ricorso proposto dal Sindacato dei Medici Italiani – SMI, e da alcuni medici di medicina generale, proposto avverso alcuni provvedimenti adottati dalla regione Lazio per il contrasto all’emergenza COVID. 1.1. Segnatamente, è stato chiesto l’annullamento: - dell’Ordinanza del Presidente della Regione Lazio n. Z00009 del 17.3.2020, recante «Ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-2019. Ordinanza ai sensi dell'art. 32, comma 3, della legge 23 dicembre 1978, n. 833 in materia di igiene e sanità pubblica»; - del provvedimento della Regione Lazio – Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria prot. «Int. 0314552.10-04-2020», recante «Procedura speciale legata all’emergenza COVID. Programma di potenziamento cure primarie. Avviso volto ad acquisire manifestazione di interesse per svolgere attività nella USCAR»; - della Determinazione della Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria - Area Risorse Umane, a firma del Direttore regionale, prot. G04569 del 20.4.2020 recante «Approvazione del regolamento di funzionamento USCAR LAZIO» e del Regolamento ivi accluso quale sua parte integrante e sostanziale, in BURL n. 59 del 7.5.2020; - della Determinazione della Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria- Area Risorse Umane, a firma del Direttore regionale, prot. G04586 del 20.4.2020, recante «Procedura speciale legata alla Emergenza Covid. Programma di potenziamento cure primarie — USCAR Lazio – approvazione elenchi manifestazione di interesse di medici e infermieri» e degli ivi acclusi «Elenco Medici – Uscar», «Elenco Infermieri – Uscar», e «Allegato C - Ammessi con riserva»; - della Nota della Regione Lazio, Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria – Direzione Regionale per l’Inclusione Sociale prot. 301502 del 9.4.2020, a firma dei Direttori Botti e Guglielmino, avente ad oggetto «Ulteriori indicazioni per prevenire l’infezione da nuovo coronavirus SARS-COV-2 (COVID- 19) nelle strutture territoriali residenziali sanitarie, sociosanitarie e socioassistenziali», nonché dell’ivi accluso «Programma di potenziamento delle cure primarie - Emergenza COVID 19». 2. In sintesi e per quanto qui ancora rileva, i ricorrenti hanno dedotto, dinanzi al primo giudice, che in conseguenza dei provvedimenti regionali impugnati i medici di medicina generale sarebbero stati investiti di una funzione di assistenza domiciliare ai pazienti Covid del tutto impropria, spettante, in base all’art. 8 D.L. n. 14/2020 prima ed art. 4-bis D.L. n. 18/2020 (conv. in L. 27/2020) poi, unicamente alle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (c.d. USCA) istituite dal Legislatore nazionale d’urgenza proprio ed esattamente a questo scopo. Funzione che distrarrebbe i ricorrenti dal loro precipuo compito, che è quello di prestare l’assistenza ordinaria, a tutto detrimento della concreta possibilità di assistere i tanti pazienti non Covid, molti dei quali affetti da patologie anche gravi. 3. Il TAR ha accolto il ricorso e annullato in parte qua gli atti impugnati, ritenendo fondata la tesi dei ricorrenti. Ha affermato, in particolare, il primo giudice, che “Nel prevedere che le Regioni “istituiscono” una unità speciale “per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero”, la citata disposizione rende illegittima l’attribuzione di tale compito ai MMG, che invece dovrebbero occuparsi soltanto dell’assistenza domiciliare ordinaria (non Covid)”. 4. La Regione Lazio ha proposto appello con contestuale domanda di inibitoria dei provvisori effetti della sentenza gravata. 5. Nel giudizio di appello si sono costituiti ad adiuvandum il Codacons e Articolo 32-97 – Associazione Italiana per i diritti del malato e del cittadino, nonchè le Regioni Puglia, Veneto, Molise, Liguria, Lombardia, Calabria, Valle d’Aosta, Piemonte, Basilicata, Sardegna, Emilia Romagna; infine l’Azienda Sanitaria Locale Roma 3. 6. Hanno proposto opposizione di terzo ex art.109 comma 2 c.p.a. la Sezione regionale del Lazio e le Sezioni provinciali di Roma e Latina della FIMMG - Federazione Italiana Medici di Medicina Generale, nonché i dott.ri Moscatelli, Chiriatti, Valente, Dutti, Falcione, Reggiani e Maglie. 7. Nel giudizio si è costituito il S.M.I. - Sindacato dei medici italiani – e la dott.ssa Patrizi, originari ricorrenti. 8. La causa è stata chiamata all’udienza camerale del 15 dicembre 2020 e discussa da remoto ai sensi del combinato disposto dell’art. 4 D.L. n. 28/2020 e art. 25 D.L. n.137/2020. 9. In sede di discussione il Collegio ha dato avviso alle parti della sussistenza dei presupposti per l’emissione di una sentenza definitiva in forma semplificata in luogo dell’invocata pronuncia cautelare. DIRITTO 1. Come accennato nella premessa in fatto, il contenzioso concerne i provvedimenti con i quali la regione Lazio, al fine di fronteggiare l’emergenza pandemica in atto, ha dato ulteriore sviluppo al modello organizzativo regionale varato in attuazione dell’art. 1 legge n. 189/2012. Modello che da tempo ha visto la costituzione di Unità di Cure Primarie UCP (ossia forme organizzative monoprofessionali), nonché di Unità Complesse di Cure Primarie (forme organizzative invece multiprofessionali) aventi essenzialmente lo scopo di creare una rete sanitaria immediatamente reperibile, utile a evitare il sovraffollamento dei presidi di emergenza e urgenza. 1.1. La Regione Lazio, in sintesi, ha ritenuto di poter adeguatamente rispondere all’emergenza epidemiologica anche attraverso l’utilizzo delle succitate aggregazioni territoriali, individuando in ciascuna di esse un Referente COVID, dotato di tutti i presidi di prevenzione, cui affidare l’assistenza, anche a domicilio, dei pazienti affetti dal virus, così affiancando tale modulo di intervento all’Unità Speciale di Continuità Assistenziale Regionale (USCAR) per COVID-19, pure istituita ai sensi della disposizione nazionale prevista dall’art. 4 bis D.L. 17/03/2020, n. 18 per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 non necessitanti di ricovero ospedaliero. 2. Il Giudice di prime cure, nell’accogliere il ricorso del Sindacato dei Medici Italiani - una delle diverse associazioni rappresentative del medici di medicina generale - ha affrontato il nodo dell’esegesi dell’art. 4-bis D.L. n. 18/2020, e affermato un principio che per la sua valenza generale ha inciso sul complessivo approccio sanitario e organizzativo nella lotta all’epidemia e sui rapporti che tra i soggetti istituzionali e di governo in tale contesto: il principio, secondo il quale, la citata disposizione normativa statale, nel prevedere che le Regioni “istituiscono” una unità speciale “per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero”, implicitamente esonera de tale compito i medici di medicina generale e rende conseguentemente illegittima ogni disposizione regionale che distolga questi ultimi dai compiti “ordinari” (i.e. non codiv). 2.1. L’ampiezza, la rilevanza e l’effetto potenzialmente generale della statuizione, è alla base dell’intervento, in questo grado di appello, di molte Regioni, le quali, affiancandosi alla difesa della Regione Lazio, odierna appellante, sostengono i motivi di critica da quest’ultima promossi e così enucleabili: a) sarebbe erronea l’affermazione secondo la quale la ratio dell’art. 4 bis DL 18/2020 deve individuarsi nella necessità di non “distrarre” i medici di base dal proprio compito d’istituto, con attribuzione di “compiti del tutto avulsi dal loro ruolo all’interno del SSR”, atteso che, secondo la regione appellante: a) i compiti non sarebbero affatto “avulsi” dal Servizio Sanitario, il quale, in forza dell’art. 4 del DPCM del 12 gennaio 2017 (avente ad oggetto i LEA) e dell’art. 33 dell’Accordo Nazionale che riguarda i medici di medicina generale, assicura le visite domiciliari a scopo preventivo, diagnostico, terapeutico e riabilitativo da parte del medico di medicina generale che ha in carico il paziente, senza che si debba e possa discernere se il paziente ha o meno malattie infettive (primo motivo d’appello); b) tali compiti sarebbero vieppiù confermati dal recente accordo Nazionale Collettivo che attribuisce ai medici di medicina generale ed ai pediatri di libera scelta, un ruolo proattivo nel rafforzamento delle attività territoriali di diagnostica di primo livello e di prevenzione nella trasmissione della Sars-Cov 2 (secondo motivo d’appello); c) nessuna “distrazione” dai propri compiti di istituto vi sarebbe, posto che la visita domiciliare del proprio assistito costituisce parte integrante dei compiti del medico di medicina generale, in ispecie nell’attuale fase epidemiologica in cui l’elevatissimo numero di contagi richiede sinergia degli interventi e pluralità di risorse mediche, non affrontabili con le pur numerose USCAR istituite (il Lazio ne ha istituite 150 di unità, impiegando 1100 unità di personale tra medici e infermieri, eppure – secondo il report dell’appellante – sono ben poca cosa dinanzi ai 65.000 malati Covid nella regione Lazio, ai quali si chiede di stare a casa, senza cure, al fine di non intasare le strutture ospedaliere) (terzo motivo); d) in ogni caso le misure adottate rientrerebbero appieno nei profili organizzativi e gestionali della sanità, riservati dall’art. 117 cost. alle Regioni. 3. Il sindacato dei medici controinteressati (FIMMG), il Codacons, l’Articolo 32-97 – Associazione Italiana per i diritti del malato e del cittadino, nonchè le Regioni Puglia, Veneto, Molise, Liguria, Lombardia, Calabria, Valle d’Aosta, Piemonte, Basilicata, Sardegna, Emilia Romagna e, infine, l’Azienda Sanitaria Locale Roma 3, ribadiscono, seppur con diverso lessico e stile argomentativo, i medesimi concetti posti a base dei motivi d’appello. 4. Il sindacato dei medici italiani (S.M.I), originario ricorrente, replica invece alle censure avversarie sostenendone la mancanza di fondamento. 4.1. Innanzitutto, sul piano processuale, eccepisce che nessuno dei soggetti intervenuti ad adiuvandum (rispetto alla regione appellante) risulta titolare di «una situazione giuridica autonoma e incompatibile, rispetto a quella riferibile alla parte risultata vittoriosa per effetto della sentenza oggetto di opposizione», né «titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale» (Cons. Stato, Ad. Plen., 27.2.2019 n. 4), con la conseguente inammissibilità degli interventi de quibus. 4.2. Nel merito controdeduce evidenziando che la norma ha indissolubilmente legato l’istituzione delle USCA alla «gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero», individuando per queste Unità una missione specifica ed esclusiva: occuparsi unicamente di assistenza domiciliare e non di altre tipologia di intervento. Al contrario, in forza dei provvedimenti impugnati le USCAR laziali verrebbero indirizzate verso altri obiettivi (case di cura, comunità, istituti penintenziari e altre strutture) e solo in via residuale si occuperebbero dell’assistenza domiciliare, “scaricando” gli incombenti sui medici di medicina generale, con ricadute sulla normalità e continuità di funzionamento della rete assistenziale territoriale nel periodo pandemico. 4.3. Inoltre il DPCM del 12 gennaio 2017 sui LEA (citato dall’appellante) prevederebbe le visite domiciliari dei MMG solo ed esclusivamente per le patologie acute e croniche, fra le quali non rientrerebbero quelle infettive, e quelle non programmate. A tale proposito l’associazione appellata ripropone un motivo assorbito in prime cure, teso proprio a rilevare che le funzioni ed i compiti individuali del medico di assistenza primaria sono analiticamente descritti nell’art. 45 dell’ACN, a mente del quale la gestione dei malati nell’ambito dell’assistenza domiciliare può avvenire solo se questa è «programmata» e quindi, evidentemente, concordata a monte. Evenienza asseritamente non sussistente nel caso di specie. Del resto – chiosa l’associazione appellata - occorre rifuggire dalla suggestione della regione appellante e di quelle intervenute, secondo la quale l'evidente insufficienza degli addetti alle USCAR, la loro non conoscenza della storia clinica dei pazienti e l'inclusione nelle stesse anche di medici non specializzati rischierebbe di privare molti italiani, già svantaggiati perchè affetti da Covid, di una adeguata assistenza sanitaria, atteso che delle USCA fanno parte anche medici, e queste sono (a differenza dei medici di medicina generale) realmente dotati dei presidi per la sicurezza propria e altrui. Del resto, la comunicazione tra le USCA e i medici di medicina generale renderebbe perfettamente trasparente la storia clinica del paziente al team che si reca a domicilio del sospetto Covid. 4.4. Nessuna rilevanza potrebbe poi avere l’accordo collettivo stipulato il 28.10.2020, citato dall’appellante, che pone l’obbligo a carico dei medici di medicina generae di effettuare tamponi a domicilio, poiché tale accordo nel corso del primo giudizio si trovava allo stato di bozza, nè è stato sottoposto al vaglio del giudice; comunque non lo stesso non potrebbe intendersi come deponente per un obbligo di visita domiciliare del paziente Covid. L’associazione appellata insiste poi nel denunciare “la totale assenza di adeguata protezione personale per i MMG che effettuano visite a domicilio dei pazienti” e il rischio che da ciò discende, posto che se il medico potrebbe contagiare a sua volta centinaia di pazienti. 5. Ritiene, innanzitutto il Collegio, in delibazione dell’eccezione avanzata dall’associazione appellata, che l’intervento in appello delle varie Regioni sia ammissibile. Trattasi di un intervento che mira a difendere la legittimità dei provvedimenti impugnati in primo grado, attraverso l’argomentata adesione alle tesi dell’amministrazione appellante, senza ampliamento del thema decidendum. La giurisprudenza ha chiarito che l’intervento a supporto della legittimità del provvedimento impugnato può essere giustificato anche dalla titolarità di un interesse di fatto che consenta alla parte di ritrarre un vantaggio indiretto e riflesso dalla reiezione del ricorso (Cons. Stato, sez. IV, 10 febbraio 2020, n. 573 e, da ultimo 7 agosto 2020, n.4973). Non occorre, come sostenuto dall’appellata, che ricorra “una situazione giuridica autonoma e incompatibile, rispetto a quella riferibile alla parte risultata vittoriosa”. Situazione invece pretesa dalla giurisprudenza per la diversa ipotesi di opposizione del terzo pretermesso. Lo stesso dicasi per il Codacons e Articolo 32-97 – Associazione Italiana per i diritti del malato e del cittadino, il cui intervento è da ritenere pienamente ammissibile. 6. Differenziata è invece la situazione processuale della FIMMG - Federazione Italiana Medici di Medicina Generale, nonché dei dott.ri Moscatelli, Chiriatti, Valente, Dutti, Falcione, Reggiani e Maglie, i quali hanno dichiarato di voler proporre opposizione di terzo, id est di avvalersi di un mezzo di gravame autonomo, svincolato dall’appello principale. Ritiene il Collegio che nel caso di specie nondimeno sussista una situazione giuridica autonoma e incompatibile, rispetto a quella riferibile alla parte risultata vittoriosa, atteso che associazione e medici opponenti hanno dichiarato di avere un interesse di pari spessore e di segno opposto a quello del sindacato ricorrente in primo gradi (in sostanza trattasi di soggetti interessati dagli effetti dei provvedimenti impugnati che si ritengono “valorizzati” più che “distratti” dall’approccio organizzativo della Regione Lazio). La legittimazione all’opposizione di terzo quindi sussiste. In ogni caso, a ben vedere, la questione dello spessore e della rilevanza giuridica dell’interesse è stemperata dalla mancanza di autonome censure, ulteriori rispetto a quelle proposte dalla Regione Lazio, sì che l’opposizione in esame finisce per avere effetti analoghi a quelli dell’intervento adesivo svolto dagli altri intervenienti. 7. Ciò chiarito, può passarsi all’esame dei motivi d’appello. 8. Ritiene il Collegio che il gravame, i cui motivi possono essere congiuntamente esaminati, sia nel complesso fondato. 8.1. La sentenza di prime cure, e la tesi del Sindacato medici italiani, in prime cure accolta e qui riproposta, si fonda su due (inespressi) postulati: a) il primo, è quello secondo il quale l’esplosione di un evento pandemico e le conseguenze dello stesso sulla salute degli individui, in quanto evento straordinario e non previsto, immuti implicitamente i concetti di malattia acuta e cronica sui quali basano i LEA e i connessi accessi domiciliari nell’ambito della medicina generale; b) il secondo - nella tesi degli originari ricorrenti implicitamente collegato al primo - è che l’evento pandemico produca una sorta di tabula rasa organizzativa in ambito sanitario, in guisa che le disposizioni legislative emergenziali adottate per affrontare efficacemente l’evento e diminuirne le letali conseguenze epidemiologiche, costituiscano, anche in assenza di esplicite indicazioni in tal senso, strumento esaustivo ed esclusivo, capace di sostituirsi integralmente all’assetto ordinario delle competenze, attraverso non il meccanismo della deroga puntuale ma quello, appunto, dell’azzeramento del pregresso. 8.2. I postulati sono entrambi errati. 8.2.1. Il primo nonostante gli sforzi argomentativi dell’associazione appellata, non trova alcun appiglio normativo nel D.P.C.M. 12.1.2017 recante “Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all'articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502”. L’art. 4 comma 1 della fonte appena citata prevede infatti che “nell’ambito dell’assistenza sanitaria di base, il Servizio sanitario nazionale garantisce, attraverso i propri servizi ed attraverso i medici ed i pediatri convenzionati, la gestione ambulatoriale e domiciliare delle patologie acute e croniche secondo la migliore pratica ed in accordo con il malato, inclusi gli interventi e le azioni di promozione e di tutela globale della salute”. La tesi secondo la quale l’influenza da covid 19 non sarebbe una patologia acuta sussumibile nel disposto appena citato, si risolve in una mera illazione, posto che la patologia acuta è proprio il processo morboso funzionale o organico a rapida evoluzione, cui tipicamente è riconducibile quello conseguente a virus influenzale. Dunque non c’è dubbio che se il legislatore non fosse affatto intervenuto, nessuno avrebbe dubitato che i medici di medicina generale, in forza del D.P.C.M. 12.1.2017 e dell’accordo collettivo che ne dà attuazione sul versante della medicina generale, avrebbero avuto l’obbligo di effettuare accessi domiciliari ove richiesto e ritenuto necessario in scienza e coscienza, a prescindere dalla sussistenza in atto di una patologia infettiva, e nel rispetto ovviamente dei protocolli di prevenzione e tutela. 8.2.2. Il legislatore è tuttavia intervenuto, e com’è noto, ha approntato soluzioni organizzative emergenziali. Qui viene il rilievo la fallacia del secondo postulato. Le norme emergenziali, anche di carattere organizzativo, sono sempre norme speciali e derogatorie che si innestano in un contesto noto e presupposto dal legislatore, in modo da modellare l’assetto organizzativo ordinario e renderlo maggiormente idoneo a fronteggiare l’emergenza. E’ chiaro, dal punto di vista della tecnica legislativa, che per raggiungere tale finalità non occorre confermare espressamente l’ultravigenza di tutte le norme organizzative ordinarie pregresse, vigendo il generale criterio esegetico secondo il quale continua ad applicarsi ciò che non è espressamente derogato dalla norma emergenziale; così come è chiaro, dal punto di vista della scienza delle organizzazioni complesse, che un legislatore che voglia affrontare con la massima rapidità ed efficienza, senza lacune e soluzioni di continuità, una situazione emergenziale, non potrebbe giammai privarsi di un modello organizzativo già funzionante e testato, in favore di un modello interamente nuovo e sostitutivo, la cui concreta implementazione, tra l’altro, è rimessa all’iniziativa di ulteriori soggetti istituzionali e al reperimento di risorse umane e strumentali. Il principio della tabula rasa dell’organizzazione pregressa costituirebbe, in situazione emergenziale, un salto nel vuoto. 9. Ciò detto, l’esegesi dell’art. 4-bis D.L. n. 18/2020 appare al Collegio estremamente chiara. Esso ha previsto che “Al fine di consentire al medico di medicina generale o al pediatra di libera scelta o al medico di continuità assistenziale di garantire l'attività assistenziale ordinaria, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano istituiscono, entro dieci giorni dalla data del 10 marzo 2020, presso una sede di continuità assistenziale già esistente, una unità speciale ogni 50.000 abitanti per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero. L'unità speciale è costituita da un numero di medici pari a quelli già presenti nella sede di continuità assistenziale prescelta. Possono far parte dell'unità speciale: i medici titolari o supplenti di continuità assistenziale; i medici che frequentano il corso di formazione specifica in medicina generale; in via residuale, i laureati in medicina e chirurgia abilitati e iscritti all'ordine di competenza. L'unità speciale è attiva sette giorni su sette, dalle ore 8,00 alle ore 20,00, e per le attività svolte nell'ambito della stessa ai medici è riconosciuto un compenso lordo di 40 euro per ora. 2. Il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta o il medico di continuità assistenziale comunicano all'unità speciale di cui al comma 1, a seguito del triage telefonico, il nominativo e l'indirizzo dei pazienti di cui al comma 1. I medici dell'unità speciale, per lo svolgimento delle specifiche attività, devono essere dotati di ricettario del Servizio sanitario nazionale e di idonei dispositivi di protezione individuale e seguire tutte le procedure già all'uopo prescritte”. 10. Esaminata la norma con le giuste lenti, e sgomberato il campo dalle suggestioni scaturenti dagli erronei postulati sopra esaminati, appare chiaro che il senso della disposizione emergenziale in commento sia quello di alleggerire i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta e i medici di continuità assistenziale, dal “carico” derivante dall’esplosione pandemica, affiancando loro una struttura capace di intervenire a domicilio del paziente, a richiesta dei primi, ove questi, attanagliati da un fase di così diffusa morbilità e astretti dalle intuibili limitazioni temporali e fisiche, o anche legate all’indisponibilità temporanea di presidi efficaci, non possano recarsi al domicilio del paziente, o ritengano, in scienza e coscienza, nell’ambito della propria autonoma e libera valutazione medica, che sia necessaria o preferibile l’intervento della struttura di supporto. 10.1. Nessuna deroga ai LEA, quindi, ma garanzia della loro effettività attraverso un supporto straordinario e temporaneo – gli USCAR - destinato ad operare in sinergia e nel rispetto delle competenze e prerogative dei medici di medicina generale e degli altri medici indicati. 11. Trarre dalle disposizioni in commento, un vero e proprio divieto per i medici di medicina generale di recarsi a domicilio per assistere i propri pazienti alle prese con il virus, come sostenuto in prime cure, costituirebbe, per converso, un grave errore esegetico, suscettibile di depotenziare la risposta del sistema sanitario alla pandemia e di provocare ulteriore e intollerabile disagio ai pazienti, che già affetti da patologie croniche, si vedrebbero (e si sono invero spesso visti), una volta colpiti dal virus, proiettati in una dimensione di incertezza e paura, e finanche abbandonati dal medico che li ha sempre seguiti. 12. Del resto, seppur si volessero valorizzare le considerazioni dell’associazione appellata, nella parte in cui prospettano il rischio di ulteriore veicolazione del virus legato all’accesso domiciliare del medico di medicina generale, si tratterebbe comunque di rischi che dovrebbero essere previamente ponderati dal legislatore nell’ambito di una analisi multifattoriale, per poi eventualmente sfociare in un divieto chiaro ed espresso (che allo stato pacificamente difetta nel disposto dell’art. 4 bis cit), non potendosi certo far discendere, da tale ipotizzato rischio, un’esegesi normativa soppressiva del contributo che in questa fase i medici di medicina generale, i pediatri e i medici di continuità assistenziale possono e debbono dare unitamente alle USCAR nella lotta al virus. 13. In ogni caso sussistono ormai chiari indici che tale rischio sia subvalente rispetto al fattivo contributo che le figure mediche or ora menzionate possono dare nella lotta alla diffusione del virus. 13.1. Come allegato dalla Regione appellante e dalle altre parti intervenute, le associazioni maggiormente rappresentative dei medici hanno già stipulato un accordo che va oltre la visita domiciliare (per la quale, com’anzi detto non c’era certo bisogno di nuovi accordi) e consente ai medici, in relazione alla grave situazione emergenziale che il Paese sta affrontando, e allo scenario epidemico che si prospetta per il periodo autunno-invernale, l’accesso domiciliare per l’effettuazione di tamponi antigenici rapidi o di altro test di sovrapponibile capacità diagnostica. 13.2. L’accordo prevede che “L’attività è erogata nel rispetto delle indicazioni di sicurezza e di tutela degli operatori e dei pazienti, definite dagli organi di sanità pubblica”, opportunamente prevedendo, a prevenzione dei rischi di incremento del contagio che “In assenza dei necessari Dispositivi di Protezione Individuale (mascherine, visiere e camici), forniti ai sensi del precedente comma 5 per l’effettuazione dei tamponi antigenici rapidi, il medico non è tenuto ai compiti del presente articolo e il conseguente rifiuto non corrisponde ad omissione, né è motivo per l’attivazione di procedura di contestazione disciplinare”. 14. L’accordo sottende e formalizza un principio che ad avviso del Collegio era già ricavabile in precedenza dall’ordinamento: quello secondo il quale il medico di medicina generale (e le altre figure mediche operanti sul territorio), in scienza e coscienza ordinariamente valutano e, se necessario, effettuano, l’accesso domiciliare anche per i malati covid, nel rispetto dei protocolli di sicurezza, fruendo, ove necessario o opportuno, anche in considerazione dell’eventuale insufficienza o inidoneità dei dispositivi di protezione disponibili, del supporto dei medici e del personale dell’USCAR. 15. Ovviamente l’accordo citato, in nulla influisce sulla valutazione di legittimità che compete al Collegio in relazione agli atti impugnati in primo grado, e che è fatta esclusivamente con riferimento alle norme e agli accordi vigenti al momento di emanazione di quegli atti. Esso è piuttosto preso qui in considerazione solo quale indice dell’evoluzione dell’ordinamento verso soluzioni coerenti con l’esegesi che il Collegio oggi fornisce dell’art. 4 bis D.L. n. 18/2020 sulla base degli argomenti che precedono. 16. Quanto argomentato conduce all’accoglimento dell’appello della Regione Lazio e, per l’effetto, in riforma della sentenza gravata, alla reiezione del ricorso introduttivo di primo grado. 17. Avuto riguardo alla novità delle questioni, il Collegio ravvisa giusti motivi per compensare tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie. Per l’effetto, in riforma della sentenza gravata, respinge il ricorso introduttivo del primo grado. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 dicembre 2020 con l'intervento dei magistrati: Michele Corradino, Presidente Giulio Veltri, Consigliere, Estensore Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere Michele Corradino, Presidente Giulio Veltri, Consigliere, Estensore Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere IL SEGRETARIO
Covid-19 – Sanità – Medici di base – Visite domiciliari ai malati Covid in quarantena domiciliare – Preclusioni - Esclusione.             Non sussistono preclusioni per i medici di medicina generale ad effettuare visite domiciliari ai pazienti Covid in quarantena domiciliare (1).    (1) La Sezione ha riformato la sentenza del Tra Lazio che aveva accolto il ricorso, proposto avverso provvedimenti della Regione Lazio sull’assunto che gli stessi avrebbero gravato i medici di medicina generale di una funzione di assistenza domiciliare ai pazienti Covid del tutto impropria, spettante, in base all’art. 8, d.l. n. 14 del 2020 prima e all’art. 4-bis, d.l. n. 18 del 2020 poi, unicamente alle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (c.d. USCA) istituite dal Legislatore nazionale d’urgenza proprio ed esattamente a questo scopo. L’estensione della competenza ai malati Covid comporterebbe la distrazione di tali medici dal loro precipuo compito, che è quello di prestare l’assistenza ordinaria, a tutto detrimento della concreta possibilità di assistere i tanti pazienti non Covid, molti dei quali affetti da patologie anche gravi.   Ha chiarito il giudice di appello che la Regione Lazio ha ritenuto di poter adeguatamente rispondere all’emergenza epidemiologica anche attraverso l’utilizzo delle aggregazioni territoriali, individuando in ciascuna di esse un Referente Covid, dotato di tutti i presidi di prevenzione, cui affidare l’assistenza, anche a domicilio, dei pazienti affetti dal virus, così affiancando tale modulo di intervento all’Unità Speciale di Continuità Assistenziale Regionale (USCAR) per Covid-19.  La sentenza del Tar Lazio si fonda su due (inespressi) postulati: a) il primo è quello secondo il quale l’esplosione di un evento pandemico e le conseguenze dello stesso sulla salute degli individui, in quanto evento straordinario e non previsto, immuti implicitamente i concetti di malattia acuta e cronica sui quali si basano i Livelli essenziali di assistenza (LEA) e i connessi accessi domiciliari nell’ambito della medicina generale; b) il secondo è che l’evento pandemico produca una sorta di tabula rasa organizzativa in ambito sanitario, in guisa che le disposizioni legislative emergenziali adottate per affrontare efficacemente l’evento e diminuirne le letali conseguenze epidemiologiche, costituiscano, anche in assenza di esplicite indicazioni in tal senso, strumento esaustivo ed esclusivo, capace di sostituirsi integralmente all’assetto ordinario delle competenze, attraverso non il meccanismo della deroga puntuale ma quello, appunto, dell’azzeramento del pregresso.  La Sezione ha affermato che il primo postulato non trova alcun appiglio normativo nell’art. 4, comma 1, d.P.C.M. 12 gennaio 2017 (“Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all'articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502”). La tesi secondo la quale l’influenza da Covid 19 non sarebbe una patologia acuta sussumibile nel disposto appena citato, si risolve in una mera illazione, posto che la patologia acuta è proprio il processo morboso funzionale o organico a rapida evoluzione, cui tipicamente è riconducibile quello conseguente a virus influenzale.  Dunque non c’è dubbio che se il legislatore non fosse affatto intervenuto, nessuno avrebbe dubitato che i medici di medicina generale, in forza del d.P.C.M. 12 gennaio 2017 e dell’accordo collettivo che ne dà attuazione sul versante della medicina generale, avrebbero avuto l’obbligo di effettuare accessi domiciliari ove richiesto e ritenuto necessario in scienza e coscienza, a prescindere dalla sussistenza in atto di una patologia infettiva, e nel rispetto ovviamente dei protocolli di prevenzione e tutela.   Il legislatore è tuttavia intervenuto, e com’è noto, ha approntato soluzioni organizzative emergenziali. Qui viene il rilievo la fallacia del secondo postulato.   Le norme emergenziali, anche di carattere organizzativo, sono sempre norme speciali e derogatorie che si innestano in un contesto noto e presupposto dal legislatore, in modo da modellare l’assetto organizzativo ordinario e renderlo maggiormente idoneo a fronteggiare l’emergenza. L’art. 4-bis, d.l. n. 18 del 2020 è chiaro nel senso di voler alleggerire i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta e i medici di continuità assistenziale, dal “carico” derivante dall’esplosione pandemica, affiancando loro una struttura capace di intervenire a domicilio del paziente, a richiesta dei primi, ove questi, attanagliati da un fase di così diffusa morbilità e astretti dalle intuibili limitazioni temporali e fisiche, o anche legate all’indisponibilità temporanea di presidi efficaci, non possano recarsi al domicilio del paziente, o ritengano, in scienza e coscienza, nell’ambito della propria autonoma e libera valutazione medica, che sia necessaria o preferibile l’intervento della struttura di supporto. Nessuna deroga ai LEA, quindi, ma garanzia della loro effettività attraverso un supporto straordinario e temporaneo – gli USCAR - destinato ad operare in sinergia e nel rispetto delle competenze e prerogative dei medici di medicina generale e degli altri medici indicati.   Trarre dalle disposizioni in commento un vero e proprio divieto per i medici di medicina generale di recarsi a domicilio per assistere i propri pazienti alle prese con il virus costituirebbe, per converso, un grave errore esegetico, suscettibile di depotenziare la risposta del sistema sanitario alla pandemia e di provocare ulteriore e intollerabile disagio ai pazienti, che già affetti da patologie croniche, si vedrebbero (e si sono invero spesso visti), una volta colpiti dal virus, proiettati in una dimensione di incertezza e paura, e finanche abbandonati dal medico che li ha sempre seguiti.
Covid-19
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Comunicazione al Governo, da parte del Consiglio di Stato, di normativa “oscura, imperfetta od incompleta” : è il caso della revoca misure di accoglienza
Numero 01271/2020 e data 09/07/2020 Spedizione REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato Sezione Prima Adunanza di Sezione del 8 luglio 2020 NUMERO AFFARE 00633/2019 OGGETTO: Ministero dell’interno, Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione. Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da -OMISSIS-contro il Ministero dell'interno e Prefettura di Treviso-Ufficio territoriale di governo, avverso provvedimento di revoca delle misure di accoglienza; LA SEZIONE Vista la relazione n. 9.4.2/9.09-Protocollo 0006240 08/04/2019 - A2, con la quale il Ministero dell'interno, Dipartimento per le libertà civili ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto; Esaminati gli atti e udito il relatore, presidente Mario Luigi Torsello; Premesso: Il nominato in oggetto ha impugnato il provvedimento di revoca delle misure di accoglienza emesso dalla Prefettura — Ufficio Territoriale del Governo di Treviso e notificato in data 03.09.2018 — Prot. Uscita n. 0071311 del 30.07.2018. Al riguardo, riferisce l’Amministrazione che l’atto impugnato è stato emesso in applicazione dell'art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs n. 142/2015, vista la comunicazione della Polizia Locale di Treviso — Nucleo di polizia Giudiziaria — del 19 luglio 2018 con cui è stato segnalato il deferimento del ricorrente all'Autorità Giudiziaria per i reati di resistenza al pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) e porto ingiustificato di oggetti atti ad offendere (art. 4, legge n. 110/1975). In particolare, con tale segnalazione - richiamata per relationem nella parte motiva della contestata revoca - la Prefettura di Treviso veniva informata che in data 18 luglio 2018 il suddetto Comando di Polizia Locale era intervenuto, nel corso di un controllo di polizia all'esterno del centro, per sedare un scontro verbale e fisico tra il ricorrente ed un altro suo connazionale e che, in tale circostanza, il nominato in oggetto, dopo aver opposto resistenza agli agenti, veniva da questi bloccato mentre tentava di estrarre dalla tasca un cacciavite con punta a taglio limata della lunghezza totale di 14 cm., poi sottoposto a sequestro penale. Tale comunicazione veniva successivamente confermata dalla Questura di Treviso con nota del 20 luglio 2018 indirizzata alla locale Prefettura. Evidenzia ancora l’Amministrazione che la revoca in oggetto riguarda un cittadino straniero affetto da disturbi comportamentali derivanti dall'abuso di alcool. Risulta infatti che egli abbia manifestato ancora di recente forti alterazioni dello stato d'animo ed atteggiamenti spesso aggressivi, per altro contraddistinti dal totale rifiuto di aderire a percorsi psico-terapeutici esterni al centro di accoglienza presso il quale risulta ancora ospitato. Nel gravame viene dedotta, in primo luogo, la totale assenza di preventiva istruttoria, di motivazione e dei presupposti legittimanti ex art. 23, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 142/2015. Inoltre sussisterebbe la violazione dell'art. 7 L. n. 241/1990, sulla scorta del rilievo secondo il quale la Prefettura di Treviso avrebbe omesso la formale comunicazione di avvio del procedimento nonostante l'insussistenza di particolari ragioni di celerità tali da non consentire di procrastinare la decisione impugnata. Il Ministero ritiene che il ricorso debba essere respinto. Considerato: L’art. 23 del d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142, prevede che il prefetto dispone, con proprio motivato decreto, la revoca delle misure d'accoglienza in caso – per quanto rileva in questa sede – di violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto, da parte del richiedente asilo, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti (lett. e). Orbene la Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 12 novembre 2019 in C 233/18, ha ritenuto quanto segue: “56 Alla luce del complesso delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alle questioni poste dichiarando che l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33, letto alla luce dell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali, deve essere interpretato nel senso che uno Stato membro non può prevedere, tra le sanzioni che possono essere inflitte ad un richiedente in caso di gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza nonché di comportamenti gravemente violenti, una sanzione consistente nel revocare, seppur temporaneamente, le condizioni materiali di accoglienza, ai sensi dell’articolo 2, lettere f) e g), della menzionata direttiva, relative all’alloggio, al vitto o al vestiario, dato che avrebbe l’effetto di privare il richiedente della possibilità di soddisfare le sue esigenze più elementari. L’imposizione di altre sanzioni ai sensi del citato articolo 20, paragrafo 4, deve, in qualsiasi circostanza, rispettare le condizioni di cui al paragrafo 5 di tale articolo, in particolare quelle relative al rispetto del principio di proporzionalità e della dignità umana.”. Secondo la Corte, “gli Stati membri possono, nei casi di cui all’articolo 20, paragrafo 4, della direttiva 2013/33, imporre, a seconda delle circostanze del caso e fatto salvo il rispetto dei requisiti di cui all’articolo 20, paragrafo 5, della menzionata direttiva, sanzioni che non hanno l’effetto di privare il richiedente delle condizioni materiali di accoglienza, come la sua collocazione in una parte separata del centro di accoglienza, unitamente ad un divieto di contatto con taluni residenti del centro o il suo trasferimento in un altro centro di accoglienza o in un altro alloggio, ai sensi dell’articolo 18, paragrafo 1, lettera c), di tale direttiva. Analogamente, l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33 non osta ad una misura di trattenimento del richiedente ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 3, lettera e), della direttiva in parola, purché siano soddisfatte le condizioni di cui agli articoli da 8 a 11 della stessa direttiva”. Alla luce di tale sentenza della Corte di giustizia il Collegio non può che disapplicare, nella fattispecie in esame, la disposizione di cui alla lettera e) dell’articolo 23 del d.lgs. n. 142/2015, con conseguente accoglimento del ricorso. E’ stato, peraltro, recentemente rilevato che dalla disapplicazione della citata disposizione può conseguire “un vuoto normativo in quanto l’ordinamento non prevede alcuna sanzione ulteriore a carico degli stranieri richiedenti protezione internazionale e ammessi alle misure di accoglienza, i quali pongano in essere violazioni gravi delle regole dei centri in cui sono inseriti o comportamenti gravemente violenti; è tuttavia responsabilità del legislatore colmare tale lacuna non potendo questo Giudice esimersi dal rispettare l’interpretazione del diritto comunitario così come fornita dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.” (TAR Toscana, n. 540/2020; idem, n. 557/2020). Tali considerazioni sono condivise appieno da questa Sezione. Per tale ragione, sussistono i presupposti per dare applicazione all’art. 58 del regio-decreto 21 aprile 1942, n. 444 (Regolamento per l'esecuzione della legge sul Consiglio di Stato) secondo cui, quando dall'esame degli affari discussi dal Consiglio di Stato risulti che la legislazione vigente è in qualche parte “oscura, imperfetta od incompleta” – come è evidente, nel caso di specie, a seguito della sentenza della Corte di giustizia - il Consiglio di Stato medesimo ne riferisce al Presidente del Consiglio dei ministri. Conseguentemente il Collegio ritiene che il Presidente della Sezione debba riferire in merito al Presidente del Consiglio di ministri e al Ministro dell’interno, competente ratione materiae - per l’eventuale assunzione delle iniziative normative - ai quali, unitamente alla relativa comunicazione, verrà trasmessa copia della presente decisione. P.Q.M. Esprime il parere che il ricorso debba essere accolto. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1 d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente. IL SEGRETARIO Carola Cafarelli In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Straniero – Accoglienza – Revoca – Per gravi violazioni delle regole - Art. 23, d.lgs. n. 142 del 2015 – Disapplicazione – Comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri – Art. 58, r.d. n. 444 del 1942 – Possibilità.             Ai sensi dell’art. 58, r.d. 21 aprile 1942, n. 444 (Regolamento per l'esecuzione della legge sul Consiglio di Stato), quando dall'esame degli affari discussi dal Consiglio di Stato risulti che la legislazione vigente è in qualche parte “oscura, imperfetta od incompleta” il Consiglio di Stato ne deve riferire al Presidente del Consiglio dei Ministri; tale è la situazione che si verifica a seguito della sentenza della Corte di Giustizia Ue 12 novembre 2019 in C 233/18, che ha determinato la disapplicazione dell’art. 23, d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142, il quale ha previsto che il prefetto dispone, con proprio motivato decreto, la revoca delle misure d'accoglienza in caso., tra l’altro, di violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto, da parte del richiedente asilo, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti (1).   (1) Ad avviso della Corte di Giustizia Ue 12 novembre 2019 in C 233/18 uno Stato membro non può prevedere, tra le sanzioni che possono essere inflitte ad un richiedente in caso di gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza nonché di comportamenti gravemente violenti, una sanzione consistente nel revocare, seppur temporaneamente, le condizioni materiali di accoglienza dato che avrebbe l’effetto di privare il richiedente della possibilità di soddisfare le sue esigenze più elementari; gli Stati membri possono, nei casi di cui all’articolo 20, paragrafo 4, della direttiva 2013/33, imporre, a seconda delle circostanze del caso e fatto salvo il rispetto dei requisiti di cui all’art. 20, paragrafo 5, della menzionata direttiva, sanzioni che non hanno l’effetto di privare il richiedente delle condizioni materiali di accoglienza, come la sua collocazione in una parte separata del centro di accoglienza, unitamente ad un divieto di contatto con taluni residenti del centro o il suo trasferimento in un altro centro di accoglienza o in un altro alloggio, ai sensi dell’articolo 18, paragrafo 1, lettera c), di tale direttiva. Analogamente, l’art. 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33 non osta ad una misura di trattenimento del richiedente ai sensi dell’art. 8, paragrafo 3, lettera e), della direttiva in parola, purché siano soddisfatte le condizioni di cui agli articoli da 8 a 11 della stessa direttiva.
Straniero
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/prefettura-competente-ad-adottare-l-interdittiva-antimafia
Prefettura competente ad adottare l’interdittiva antimafia
N. 03030/2020REG.PROV.COLL. N. 07974/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7974 del 2019, proposto dalla -OMISSIS-s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Luca Tozzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro il Ministero dell’Interno e la Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Napoli, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, la Prefettura di Napoli – Ufficio Antimafia – Area 1ter-Osp, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tar Campania, sede di Napoli, sez. I, n. -OMISSIS-del 20 maggio 2019, non notificata, con la quale è stato respinto il ricorso proposto per l’annullamento, tra l’altro, dell’informazione antimafia interdittiva adottata nei confronti della -OMISSIS-s.p.a... Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Vista la memoria difensiva del Ministero dell’Interno e della Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Napoli depositata in data 17 febbraio 2020; Vista la memoria difensiva della -OMISSIS-s.p.a. depositata in data 21 febbraio 2020; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza del giorno 30 aprile 2020, svoltasi da remoto in videoconferenza ex art. 84, comma 6, d.l. n. 18 del 2020, il Cons. Giulia Ferrari; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. In data 16 marzo 2018 è stata emessa dalla Prefettura – UTG di Napoli un’informazione antimafia interdittiva (prot. n. -OMISSIS-) nei confronti della -OMISSIS-s.p.a. (d’ora in poi “-OMISSIS-”), società dedita alla fornitura di servizi nel settore delle pulizie, del giardinaggio, della disinfestazione e del facchinaggio. In particolare, il provvedimento ha tratto fondamento dalla circostanza che la -OMISSIS-, già socio unico della società -OMISSIS-s.r.l. (d’ora in poi “-OMISSIS-”), ha acquisito un ramo d’azienda di quest’ultima; che la -OMISSIS-è risultata gravata, in esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare n. -OMISSIS-dell’8 giugno 2016 (emessa dal GIP del Tribunale di Napoli su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli), da sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. del complesso aziendale, delle quote e del patrimonio, con contestuale nomina di amministratori giudiziari; che il capitale della -OMISSIS-era principalmente detenuto dal signor -OMISSIS-, gravato dal procedimento penale nel quale era stata emessa la predetta ordinanza di sequestro; che in tale procedimento gli è stato contestato il reato di cui all’art. 416-bis c.p. unitamente, tra gli altri, al signor -OMISSIS-– direttore generale e procuratore speciale della -OMISSIS-, destinatario di ordinanza cautelare in carcere e rinviato a giudizio per i reati, tra gli altro, di associazione mafiosa – e ad esponenti del clan camorristico -OMISSIS-; che in data 11 luglio 2017, le quote di -OMISSIS- sono state trasferite alla figlia -OMISSIS-; che il signor -OMISSIS-, anch’egli coinvolto nel procedimento penale, sarebbe coniuge di una nipote di -OMISSIS-. La Prefettura di Napoli, valorizzando queste circostanze, ha concluso che la -OMISSIS-è strettamente collegata alla -OMISSIS-e che entrambe le società sono riferibili ad un unico centro di interesse riconducibile alla famiglia -OMISSIS-e ad esponenti del clan camorristico -OMISSIS-, che ne hanno condizionato nel tempo le scelte e gli indirizzi, allo scopo di consentire alle stesse l’accaparramento di appalti pubblici. 2. Con atto introduttivo del giudizio, proposto innanzi al Tar Campania, sede di Napoli, sez. I, la -OMISSIS-ha avversato l’informazione interdittiva antimafia. Con successivo atto di motivi aggiunti, ha impugnato gli atti presupposti all’emanazione della misura interdittiva, depositati in giudizio dalla Prefettura di Napoli. In particolare, la -OMISSIS-, previa richiesta di sospensione cautelare, ha contestato l’incompetenza territoriale del Prefetto di Napoli all’adozione dell’informazione interdittiva e tutti i presupposti assunti a fondamento dell’atto avversato, evidenziando come l’Amministrazione avesse omesso di valutare l’elemento dell’attualità della permeabilità della società a tentativi di infiltrazione mafiosa, tanto alla luce degli sviluppi del procedimento penale che ha coinvolto i vertici della società, quanto a fronte della misure di self cleaning adottate dalla -OMISSIS-. Con ordinanza n. -OMISSIS-del 18 aprile 2018, il Tar ha respinto l’istanza di sospensione cautelare. Tale decisione è stata confermata in sede di appello cautelare con ordinanza di questa Sezione, n. -OMISSIS-del 28 maggio 2018. 3. Con sentenza n. -OMISSIS-del 20 maggio 2019 il Tar Napoli ha respinto integralmente il ricorso. In particolare, il primo giudice ha rigettato l’eccezione di incompetenza della Prefettura di Napoli evidenziando che fino al 20 marzo 2018 la sede legale della ricorrente fosse ancora attiva a Napoli e che, comunque, la -OMISSIS-avesse conservato una sede secondaria nella Provincia napoletana, da considerare quale centro di imputazione di rapporti giuridici. Quanto agli ulteriori profili di doglianza, il Tar li ha reputati infondati valorizzando le risultanze investigative del G.I.A. e i gravi elementi di colpevolezza, emersi dall’ordinanza di custodia cautelare n. -OMISSIS-, a carico degli organi di vertice della -OMISSIS-, il cui compendio aziendale è transitato nel patrimonio della -OMISSIS-. Il Tar ha, in aggiunta, ritenuto che l’ordinanza emessa dal GIP presso il Tribunale di Napoli del 6 marzo 2017 – con la quale è stato disposto il dissequestro e la restituzione agli aventi diritto del complesso aziendale della -OMISSIS-– avrebbe espresso un giudizio di mera attenuazione del pericolo di infiltrazione mafiosa e che gli sviluppi del procedimento penale, avviato nei confronti del signor -OMISSIS- e del signor -OMISSIS-, non avrebbero fatto venir meno il requisito dell’attualità del pericolo mafioso, dal momento che la -OMISSIS-sarebbe rimasta comunque nell’ambito dell’influenza della famiglia -OMISSIS-. 4. La citata sentenza n. -OMISSIS-del 20 maggio 2019 è stata impugnata con appello notificato il 1° ottobre 2019, riproducendo sostanzialmente le censure non accolte in primo grado e ponendole in chiave critica rispetto alla sentenza avversata. In particolare: a) il Tar avrebbe errato nel ritenere competente la Prefettura di Napoli. Al contrario, l’-OMISSIS-avrebbe trasferito la propria sede legale in Roma a far data dal 19 febbraio 2018, con la conseguenza che, alla data di adozione dell’informazione antimafia, la Prefettura competente sarebbe stata quella di Roma; b) il primo giudice avrebbe erroneamente ritenuto insussistenti il difetto di istruttoria e di motivazione, che inficerebbero il provvedimento avversato. Al contrario, il signor -OMISSIS-– unico soggetto a cui sarebbe possibile imputare responsabilità e condotte di favoreggiamento della criminalità organizzata – sarebbe stato repentinamente allontanato dalla società, con provvedimento di licenziamento confermato dal giudice del lavoro; la citata ordinanza n. -OMISSIS-del 2016 avrebbe escluso qualsiasi partecipazione del signor -OMISSIS- ad ambienti malavitosi; l’ordinanza di dissequestro della società -OMISSIS-avrebbe messo in luce come, per effetto del mutamento della compagine societaria, il pericolo di condizionamento mafioso si fosse sensibilmente attenuato; l’affitto del ramo d’azienda della -OMISSIS-da parte della -OMISSIS-sarebbe stato approvato dal GIP; il signor -OMISSIS-avrebbe ceduto le proprie quote alla figlia non convivente, estraniandosi dalla -OMISSIS-; il rapporto di parentela con il signor -OMISSIS- sarebbe stato richiamato in maniera apodittica senza chiarire come detto rapporto abbia fatto deporre nel senso di ritenere possibile un inquinamento mafioso della compagine societaria oggi appellante; c) il Tar avrebbe fornito un’interpretazione della normativa applicabile non conforme agli ultimi approdi giurisprudenziali della Corte EDU e della Corte costituzionale. L’adozione di una misura afflittiva, come l’informazione interdittiva antimafia, non dovrebbe essere affidata ad una valutazione eccessivamente discrezionale e arbitraria dell’Autorità prefettizia. La giurisprudenza avrebbe chiarito che, nell’ambito di qualsiasi misura di prevenzione, occorre che il legislatore circoscriva a monte in via normativa la discrezionalità dell’Autorità competente ed indichi specificamente i presupposti necessari ai fini dell’adozione della misura afflittiva. L’appellante, per tali ragioni, ha chiesto la rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità dell’art. 84, comma 4, lettere d) ed e), d.lgs. n. 159 del 2011 per violazione degli artt. 2, 3, 4, 24, 27, 41, 97 e 117 (in relazione all’art. 1, Protocollo 1 Add. CEDU) della Costituzione. 5. Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell’Interno e la Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Napoli, sostenendo l’infondatezza dell’appello. 6. Alla pubblica udienza del 26 marzo 2020 la causa è stata rinviata ad altra data. 7. Alla udienza del 30 aprile 2020 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1. Come esposto in narrativa è impugnata la sentenza del Tar Napoli, sez. I, n. -OMISSIS-del 20 maggio 2019, che aveva respinto il ricorso proposto per l’annullamento dell’informazione antimafia interdittiva, adottata in data 16 marzo 2018 nei confronti della -OMISSIS-s.p.a. (d’ora in poi “-OMISSIS-”), società dedita alla fornitura di servizi nel settore delle pulizie, del giardinaggio, della disinfestazione e del facchinaggio. L’interdittiva si fonda sul rilievo che la “ditta -OMISSIS-è strettamente collegata alla società -OMISSIS-ovvero ne è l'espressione imprenditoriale, avendo entrambe nel tempo assunto una diversa ragione sociale che è apparsa meramente fluttuante in quanto riferibili entrambi ad un unico centro di direzione riconducibile alla famiglia -OMISSIS-e ad esponenti del clan camorristico -OMISSIS- che ne hanno condizionato nel tempo le scelte e gli indirizzi allo scopo di consentire alle stesse l'accaparramento di appalti pubblici”. 2. Con un primo motivo l’appellante deduce l’incompetenza della Prefettura di Napoli ad adottare l’interdittiva avendo la stessa società – da sempre già operativa a Roma a livello amministrativo – trasferito anche la propria sede legale nella capitale in data 19 febbraio 2018, mentre il provvedimento impugnato era stato adottato il successivo 16 marzo 2018, in violazione dell’art. 90, d.lgs. n. 159 del 2011 e dei principi generali in materia di competenza all’adozione degli atti amministrativi. Giova premettere che l’art. 90, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 prevede che “Nei casi di cui all'art. 92, commi 2 e 3, l'informazione antimafia è rilasciata dal Prefetto della provincia in cui le persone fisiche, le imprese, le associazioni o i consorzi risiedono o hanno la sede legale” ovvero, per le società con sede all’estero ex art. 2508 cod. civ., dal Prefetto della provincia in cui è stabilita una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato. Al fine del decidere è dunque necessario verificare dove era posta la sede legale della -OMISSIS-alla data di adozione dell’interdittiva, id est il 16 marzo 2018. Il Tar ha giudicato non fondato il motivo sul rilievo che solo in data 20 marzo 2018 sono stati registrati gli atti prot. -OMISSIS- di cessazione di attività nella sede legale della -OMISSIS-s.p.a., con la conseguenza che fino a tale data la sede legale della società risultava ancora attiva a Napoli. Il Collegio ritiene invece il motivo fondato ed assorbente di ogni altra questione di merito, sollevata dall’appellante al fine di scardinare, in fatto e in diritto, le ragioni poste a base della interdittiva. In punto di diritto va in primo luogo rilevato che la norma, al fine di individuare il Prefetto competente ad adottare l’informativa, fa riferimento al luogo in cui era la sede legale della società al momento dell’adozione del provvedimento interdittivo e non alla data di avvio del relativo procedimento (nella specie, 27 giugno 2017). Corollario obbligato di tale premessa è che il Prefetto che ha avviato il procedimento e raccolto elementi ritenuti sufficienti a supportare il provvedimento cautelare, avvedutosi del trasferimento della sede legale in altra Provincia, è tenuto a trasmettere nell’immediatezza gli atti istruttori al Prefetto di tale Provincia, avendo perso la competenza a decidere. Emerge poi evidente che la sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato è indicata dal legislatore solo con riferimento alla società che ha la sede all’estero ex art. 2508 cod. civ. Ciò chiarito e superate dunque le difese delle Amministrazioni resistenti, al fine del decidere va dunque verificata, questa volta in punto di fatto, la data in cui è effettivamente avvenuto il trasferimento della sede legale, e cioè se solo il 20 marzo 2018 allorchè sono stati registrati gli atti prot. -OMISSIS- di cessazione di attività nella sede legale della -OMISSIS-s.p.a., sicché fino al 20 marzo 2018 la sede legale della ricorrente risultava ancora attiva a Napoli. Diversamente da quanto assume l’Amministrazione resistente dall’estratto del registro delle imprese del 21 marzo 2018 emerge che gli atti prot. -OMISSIS- del 20 marzo 2018 attengono a “acquisizione d’ufficio certificazioni di qualità, ambientali ed altro su comunicazione -OMISSIS-”, mentre il trasferimento della sede legale da Napoli a Roma risulta inequivocabilmente avvenuto il 28 febbraio 2018. Sul punto l’appellata non si è difesa, smentendo il contenuto delle due note, ma si è limitata a ribadire le argomentazioni del Tar Napoli in ordine alla circostanza che il procedimento fosse iniziato quando la sede legale era ancora a Napoli e all’esistenza di sedi secondarie, motivazioni entrambe non condivise, come si è detto, dal Collegio. Giova aggiungere che poiché il trasferimento della sede legale è opponibile dalla sua iscrizione nel Registro delle imprese e poiché l’iscrizione è stata effettuata il 28 febbraio 2018, diventa irrilevante anche la circostanza, dedotta dalla appellata, che non le fosse stata comunicata tale variazione di sede. Ed infatti, qualora la sede legale sia traferita in un altro Comune, la modifica deve essere adottata con delibera dall’assemblea dei soci, verbalizzata da un notaio, ai sensi dell’art. 2436 cod. civ., e presentata per l’iscrizione nel Registro delle imprese dallo stesso notaio verbalizzante. La deliberazione produce effetti con l'iscrizione. Per le ragioni sopra esposte, il motivo deve essere accolto. 3. Il Collegio non può peraltro esimersi dall’evidenziare come il vizio riscontrato ed il conseguente annullamento di una misura cautelare di così tale importanza per la difesa dell’ordinamento democratico avrebbero potuto essere evitati ove il Prefetto di Napoli, raccolti gli elementi indiziari di inquinamento mafioso, avesse verificato dal Registro delle imprese la permanenza della sede legale della società a Napoli e, accertatone il trasferimento, avesse subito trasmesso alla Prefettura di Roma, divenuta ex lege competente, l’intera istruttoria. Tale modus operandi si rende necessario ove si consideri che sempre più spesso le associazioni a delinquere di stampo mafioso fanno ricorso a tecniche volte a paralizzare il potere prefettizio di adottare misure cautelari (Cons St., sez. III, 6 maggio 2020, n. 2854). Di fronte al “pericolo” dell’imminente informazione antimafia di cui abbiano avuto in quale modo notizia o sentore, reagiscono mutando sede legale, assetti societari, intestazioni di quote e di azioni, cariche sociali, soggetti prestanome, cercando comunque di controllare i soggetti economici che fungono da schermo, anche grazie alla distinta e rinnovata personalità giuridica, nei rapporti con le pubbliche amministrazioni. Proprio la natura del provvedimento, finalizzato ad interdire in via preventiva, immediatamente, qualsiasi rapporto pubblicistico con il soggetto “inquinato” dai legami con la mafia, il contesto in cui nasce, costituito solitamente da complesse indagini di polizia giudiziaria contro le consorterie mafiose o da atti dei processi penali che ne seguono, rende indispensabile un continuo coordinamento tra le sedi della Prefettura perché non vadano disperse le lunghe indagini effettuate da una Prefettura, che la consorteria mafiosa cerca abilmente di paralizzare. Ciò soprattutto nel caso – come quello di specie – in cui evidenti sono gli indizi che supportavano la misura interdittiva, adottata a tutela di diritti aventi rango costituzionale, come quello della libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), nel necessario, ovvio, bilanciamento con l’altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle mafie. Come più volte ribadito dalla Sezione (5 settembre 2019, n. 6105), la libertà “dalla paura”, obiettivo al quale devono tendere gli Stati democratici, si realizza però anche, e in parte rilevante, smantellando le reti e le gabbie che le mafie costruiscono, a scapito dei cittadini, delle imprese e talora anche degli organi elettivi delle amministrazioni locali, imponendo la legge del potere criminale sul potere democratico – garantito e, insieme, incarnato dalla legge dello Stato – per perseguire fini illeciti e conseguire illeciti profitti. 4. Per tutte le ragioni sopra esposte l’appello deve pertanto essere accolto, con conseguente annullamento della sentenza del Tar Campania, sede di Napoli, sez. I, n. -OMISSIS-del 20 maggio 2019. Resta fermo - e doveroso - il potere della Prefettura di Roma, di verificare l’esistenza die presupposti per adottare la nuova interdittiva antimafia alla luce degli elementi raccolti dalla Prefettura di Napoli 5. Considerata la novità della vicenda contenziosa, sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese e degli onorari del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla la sentenza del Tar Campania, sede di Napoli, sez. I, n. -OMISSIS-del 20 maggio 2019. Compensa tra le parti in causa le spese e gli onorari del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, commi 1 e 2, d.lgs. n. 196 del 2003 (e degli artt. 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità della parte appellata e di tutti i riferimenti che rendono la vicenda contenziosa alla stessa riconducibile. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 aprile 2020 con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore Raffaello Sestini, Consigliere Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore Raffaello Sestini, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Informativa antimafia – Competenza – Prefettura diversa da quella dove ha la sede legale la società destinataria della Prefettura – Illegittimità.      É illegittima l’interdittiva adottata da una Prefettura diversa da quella dove ha la sede legale la società destinataria della Prefettura (1). (1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 90, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 prevede che “Nei casi di cui all'art. 92, commi 2 e 3, l'informazione antimafia è rilasciata dal Prefetto della provincia in cui le persone fisiche, le imprese, le associazioni o i consorzi risiedono o hanno la sede legale” ovvero, per le società con sede all’estero ex art. 2508 cod. civ., dal Prefetto della provincia in cui è stabilita una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato. La norma, al fine di individuare il Prefetto competente ad adottare l’informativa, fa riferimento al luogo in cui era la sede legale della società al momento dell’adozione del provvedimento interdittivo e non alla data di avvio del relativo procedimento. Corollario obbligato di tale premessa è che il Prefetto che ha avviato il procedimento e raccolto elementi ritenuti sufficienti a supportare il provvedimento cautelare, avvedutosi del trasferimento della sede legale in altra Provincia, è tenuto a trasmettere nell’immediatezza gli atti istruttori al Prefetto di tale Provincia, avendo perso la competenza a decidere. Emerge poi evidente che la sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato è indicata dal legislatore solo con riferimento alla società che ha la sede all’estero ex art. 2508 cod. civ. Ha peraltro aggiunto la Sezione che il Prefetto, raccolti gli elementi indiziari di inquinamento mafioso, deve verificare dal Registro delle imprese la permanenza della sede legale della società nella città e, accertatone il trasferimento, avesse subito trasmesso alla Prefettura, divenuta ex lege competente, l’intera istruttoria. Tale modus operandi si rende necessario ove si consideri che sempre più spesso le associazioni a delinquere di stampo mafioso fanno ricorso a tecniche volte a paralizzare il potere prefettizio di adottare misure cautelari (Cons St., sez. III, 6 maggio 2020, n. 2854). Di fronte al “pericolo” dell’imminente informazione antimafia di cui abbiano avuto in quale modo notizia o sentore, reagiscono mutando sede legale, assetti societari, intestazioni di quote e di azioni, cariche sociali, soggetti prestanome, cercando comunque di controllare i soggetti economici che fungono da schermo, anche grazie alla distinta e rinnovata personalità giuridica, nei rapporti con le pubbliche amministrazioni. Proprio la natura del provvedimento, finalizzato ad interdire in via preventiva, immediatamente, qualsiasi rapporto pubblicistico con il soggetto “inquinato” dai legami con la mafia, il contesto in cui nasce, costituito solitamente da complesse indagini di polizia giudiziaria contro le consorterie mafiose o da atti dei processi penali che ne seguono, rende indispensabile un continuo coordinamento tra le sedi della Prefettura perché non vadano disperse le lunghe indagini effettuate da una Prefettura, che la consorteria mafiosa cerca abilmente di paralizzare. Ciò soprattutto nel caso – come quello di specie – in cui evidenti sono gli indizi che supportavano la misura interdittiva, adottata a tutela di diritti aventi rango costituzionale, come quello della libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), nel necessario, ovvio, bilanciamento con l’altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle mafie. Come più volte ribadito dalla Sezione (5 settembre 2019, n. 6105), la libertà “dalla paura”, obiettivo al quale devono tendere gli Stati democratici, si realizza però anche, e in parte rilevante, smantellando le reti e le gabbie che le mafie costruiscono, a scapito dei cittadini, delle imprese e talora anche degli organi elettivi delle amministrazioni locali, imponendo la legge del potere criminale sul potere democratico – garantito e, insieme, incarnato dalla legge dello Stato – per perseguire fini illeciti e conseguire illeciti profitti
Informativa antimafia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/trasporto-marittimo-di-viaggiatori-di-linea-da-e-verso-la-sardegna-neol-periodo-di-emergenza-covid-19
Trasporto marittimo di viaggiatori di linea da e verso la Sardegna nel periodo di emergenza Covid-19
N. 04181/2020 REG.PROV.CAU. N. 04024/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 4024 del 2020, proposto da Grimaldi Euromed S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Flavio Iacovone, Francesco Sciaudone, Daniela Fioretti, Andrea Neri, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Francesco Sciaudone in Roma, via Pinciana 25; contro Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Ministero della Salute non costituiti in giudizio; nei confronti Regione Autonoma della Sardegna non costituito in giudizio; per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, - del decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro della salute n. 227 del 2.6.2020 (doc. 1, il “Decreto”), nella parte in cui limita fino alla data del 12 giugno il trasporto marittimo di viaggiatori di linea da e verso la Sardegna ai servizi svolti in continuità territoriale, con la previsione di riattivare dal 13 giugno tutti i collegamenti da e per la Sardegna verso i porti nazionali e viceversa; - di tutti gli atti presupposti, ivi compresi: il decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro della salute n. 207 del 17 maggio 2020 (doc. 2); la nota della Regione Sardegna menzionata tra i ‘visto' del decreto impugnato ma non conosciuta; - nonché di ogni atto presupposto, successivo, consequenziale o comunque connesso ai provvedimenti impugnati. Visti il ricorso e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dalla società ricorrente, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm.; Considerato che, nella specie, non sussistono le condizioni per disporre l’accoglimento dell’istanza anzidetta nelle more della celebrazione della camera di consiglio; P.Q.M. Rigetta l’istanza cautelare indicata in parte motiva. Fissa per la trattazione collegiale la camera di consiglio dell’8 luglio 2020, ore di rito. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma il giorno 5 giugno 2020. IL SEGRETARIO
Covid-19 – Trasporti – D.I. 2 giugno 2020 del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro della salute - Trasporto marittimo di viaggiatori di linea da e verso la Sardegna – Limiti temporali – Non va sospeso monocraticamente.            Deve essere respinta l’istanza di sospensione monocratica del decreto 2 giugno 2020 del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro della salute, nella parte in cui limita fino alla data del 12 giugno il trasporto marittimo di viaggiatori di linea da e verso la Sardegna ai servizi svolti in continuità territoriale, con la previsione di riattivare dal 13 giugno tutti i collegamenti da e per la Sardegna verso i porti nazionali e viceversa, non sussistendo i presupposti previsti dall’art. 56 c.p.a. per la sospensione cautelare monocratica.
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/istanza-di-differimento-giudizio-cautelare-proposto-dall-appellata-per-consentire-discussione-orale
Istanza di differimento giudizio cautelare proposto dall’appellata per consentire discussione orale
N. 02475/2020 REG.PROV.CAU. N. 02233/2020 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 2233 del 2020, proposto dal Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio eletto ope legis in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; contro il signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Aristide De Vivo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma dell’ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Prima Quater, n.-OMISSIS-. Visto l'art. 62 cod. proc. amm; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'atto di costituzione in giudizio del signor -OMISSIS-; Relatore nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2020 il Cons. Roberto Caponigro; Visto l’art. 84 del decreto legge n. 18 del 2020. Visto che il T.a.r. per il Lazio, Sezione Prima Quater, con ordinanza n. -OMISSIS-, ha rinviato la trattazione del merito della controversia alla udienza pubblica del 28 settembre 2020, sicché non può ritenersi venuto meno l’interesse alla trattazione del presente appello cautelare; Visto che, con nota del 4 maggio 2020, la parte appellata ha chiesto il differimento dell’udienza a data successiva al termine della fase emergenziale al fine di poter discutere oralmente la controversia, ai sensi dei principi costituzionali e comunitari a presidio e garanzia del diritto di difesa; Visto che, in data 6 maggio 2020, la parte appellata ha depositato un’istanza confermativa della richiesta di rinvio dell’udienza, evidenziando che la parte appellante, in data 5 maggio 2020, ha depositato documenti e note di udienza in violazione dei termini a difesa previsti dal c.p.a., come confermati dalla presente normativa emergenziale; Rilevato che il deposito effettuato in data 5 maggio 2020, con cui il Ministero dell’Interno si è opposto alla richiesta di rinvio formulata dai ricorrenti, confermando l’interesse alla trattazione dell’appello cautelare, si presenta irrilevante, in quanto le ragioni dell’appello cautelare sono state già evidenziate in maniera diffusa con la proposizione dell’impugnativa cautelare; Ritenuto che il differimento richiesto possa compromettere la ragionevole durata del presente giudizio cautelare e che manifeste esigenze di economia processuale - potendo il decorrere del tempo privare di utilità la richiesta cautelare avanzata dall’Amministrazione - inducono a disattendere la indicata richiesta di differimento (cfr. ordinanza Cons. Stato, VI, 21 aprile 2020, n. 2539, nella sua parte conclusiva); Considerato che, alla delibazione propria della fase cautelare, l’appello proposto dall’Amministrazione è meritevole di accoglimento, in quanto: - l’ammissione con riserva dell’interessato al corso di formazione, a prescindere dal superamento della prova orale e dalla sua collocazione tra i vincitori del concorso, costituisce per il ricorrente un’utilità maggiore di quella che allo stesso potrebbe derivare dall’eventuale accoglimento del ricorso; - i criteri per la valutazione del colloquio sono stati espressamente indicati nel verbale della Commissione n. 1 del 25 febbraio 2019 ed hanno fatto esplicito riferimento ad aspetti sia sostanziali che formali; - la motivazione del giudizio tecnico, con cui è valutata la prova orale, può ritenersi espressa in modo esaustivo con l’attribuzione di un punteggio numerico, incombendo, di contro, sul ricorrente l’onere di provare l’abnormità della valutazione espressa; Ritenuto equo disporre la compensazione delle spese del doppio grado del giudizio cautelare. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, accoglie l’appello cautelare e, per l’effetto, in riforma dell’ordinanza impugnata, respinge l’istanza cautelare proposta in primo grado. Compensa le spese del doppio grado del giudizio cautelare. La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte appellata. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2020 svoltasi in videoconferenza ai sensi dell’art. 84 del decreto legge n. 18 del 2020, con l'intervento dei magistrati: Antonino Anastasi, Presidente Daniela Di Carlo, Consigliere Francesco Gambato Spisani, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Roberto Caponigro, Consigliere, Estensore Antonino Anastasi, Presidente Daniela Di Carlo, Consigliere Francesco Gambato Spisani, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Roberto Caponigro, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Processo amministrativo – Covid-19 – Giudizio cautelare - Istanza di rinvio per consentire discussione orale - Proposta dall’appellata – Reiezione.             Deve essere respinta l'istanza della parte appellata di differire l'esame dell'appello cautelare proposto dall'Amministrazione alla fine della fase emergenziale, onde consentirne la discussione orale secondo i noti principi costituzionali e comunitari (1).   (1) La Sezione ha disatteso la richiesta di differimento ritenendo da un lato che esso potesse compromettere la ragionevole durata del giudizio cautelare; dall'altro che il decorso del tempo potesse vanificare e privare di utilità la richiesta cautelare dell'appellante Amministrazione, con lesione del principio di economia processuale (Cons. Stato, sez. VI, 21 aprile 2020, n. 2539).  
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/l-adunanza-plenaria-pronuncia-sulla-questione-relativa-agli-effetti-della-dichiarazione-di-dissesto-dell-ente-locale
L’Adunanza plenaria pronuncia sulla questione relativa agli effetti della dichiarazione di dissesto dell’ente locale
N. 00001/2022REG.PROV.COLL. N. 00011/2021 REG.RIC.A.P. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 11 di A.P. del 2021, proposto da Ferdinando Emilio Abbate e Mara Manfredi, rappresentati e difesi da se medesimi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Corchiano, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio 26 luglio 2019 n. 10043, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 17 novembre 2021 il Cons. Paolo Giovanni Nicolò Lotti. FATTO Con ordinanza di rimessione all'Adunanza Plenaria 21 aprile 2021, n. 3211 è stata sottoposta la questione relativa allo stato di dissesto degli enti locali disciplinato ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 5, comma 2, D.L. n. 80-2004, conv. nella L. n. 140-2004 e 252, comma 4, e 254, comma 3, d.lgs. n. 267-2000, già oggetto della precedente sentenza dell’Adunanza Plenaria 5 agosto 2020, n. 15. La Sezione remittente ha chiesto all’Adunanza Plenaria, infatti, una rimeditazione della questione alla luce dei principi CEDU, in particolare espressi nella sentenza n. 43780/2004 del 24/9/2013 (De Luca c/o Italia), ove la CEDU ha affermato che “l'avvio della procedura di dissesto finanziario a carico di un ente locale e la nomina di un organo straordinario liquidatore, nonché il successivo d.l. n. 80/2004 che impediva i pagamenti delle somme dovute fino al riequilibrio del bilancio dell'ente, non giustificano il mancato pagamento dei debiti accertati in sede giudiziaria, poiché lesive dei principi in materia di protezione della proprietà e di accesso alla giustizia riconosciuti dalla convenzione europea dei diritti dell'uomo. Ne consegue l'obbligo per lo Stato di appartenenza di pagare le somme dovute dagli enti locali nei termini e secondo le modalità prescritte dalla convenzione”. Pertanto, secondo la Sezione remittente, potrebbe essere ripensata la disciplina normativa sul dissesto, basata sulla creazione di una massa separata affidata alla gestione di un organo straordinario, distinto dagli organi istituzionali dell’ente locale, e sul principio secondo cui tutte le poste passive riferibili a fatti antecedenti al riequilibrio del bilancio dell’ente vanno attratte alla predetta gestione, benché il relativo accertamento (giurisdizionale o amministrativo) sia successivo. 2. Nel caso di specie, il Tribunale di Viterbo aveva emesso un decreto ingiuntivo (n. 1318 del 29 novembre 2017) nei confronti del Comune di Corchiano, per il pagamento in favore degli avvocati Mara Manfredi e Ferdinando Emilio Abbate (per la somma di €. 34.417,00, oltre agli interessi e spese di giudizio). Il suddetto decreto, non opposto e dichiarato esecutivo il 5 maggio 2018, veniva corredato di formula esecutiva il 10 maggio 2018, con successiva notifica del 23 maggio 2018. A fronte dell’inerzia del Comune, gli interessati avevano proposto al TAR Lazio ricorso per l’ottemperanza, ex artt.112 e ss. c.p.a., con richiesta di nomina di un commissario ad acta in caso di persistente inadempimento. Con sentenza 26 luglio 2019, n. 10043, qui appellata, il TAR rilevava che il Comune di Corchiano, con delibera c.c. n.10 del 19 giugno 2017 aveva dichiarato lo stato di dissesto finanziario; ai sensi dell’art.248, comma 2, d.lgs. n. 267-2000. Pertanto, trattandosi di provvedimento giurisdizionale intervenuto dopo la dichiarazione dello stato di dissesto, ma relativo a fatti precedenti a detta dichiarazione, i relativi crediti dei privati che avevano agito in sede monitoria dovevano necessariamente essere ascritti alla gestione liquidatoria. Con la conseguenza che, dalla data della predetta dichiarazione e sino all'approvazione del rendiconto di gestione da parte dell’organo straordinario di liquidazione, non potevano essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti dell'Ente per i debiti che rientrano nella competenza del predetto organo straordinario, in relazione al principio della par condicio dei creditori, e che la tutela della concorsualità comportava l’inibitoria anche del ricorso di ottemperanza, in quanto misura coattiva di soddisfacimento individuale del creditore. Gli appellanti hanno quindi impugnato la sentenza in questione, sostenendo l’incostituzionalità dell’art. 252, comma 4, d.lgs. n. 267-2000, nonché dell’art. 5, comma 2, d.l. n. 80-2004, convertito nella L n. 140-2004, in riferimento agli artt. 97 e 117 della Costituzione. La Sezione remittente, quindi, chiede a questa Adunanza se vi sia spazio per una diversa interpretazione di detti articoli, in modo che il loro contenuto dispositivo sia compatibile con i principi CEDU sopra evocati, in modo tale da rendere detto contenuto conforme a Costituzione. Alla Camera di Consiglio del 17 novembre 2021 la causa veniva trattenuta in decisione. DIRITTO 3. In primo luogo, deve ricordarsi che l’art. 252, comma 4, d.lgs. n. 267-2000 stabilisce che “l’organo straordinario di liquidazione ha competenza relativamente a fatti ed atti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato”. Tale norma ha subito un’integrazione ad opera dell’art. 5, comma 2, D.L. n. 80-2004 (convertito con L. n. 140-2004) che prevede che “ai fini dell'applicazione degli articoli 252, comma 4, e 254, comma 3, del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, si intendono compresi nella fattispecie ivi previste tutti i debiti correlati ad atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, pur se accertati, anche con provvedimento giurisdizionale, successivamente a tale data ma, comunque, non oltre quella di approvazione del rendiconto della gestione di cui all’art. 256, comma 11, del medesimo Testo Unico”. Pertanto, alla luce del dettato normativo, sotto il profilo finanziario, se gli atti e fatti cui è correlato il provvedimento giurisdizionale (o amministrativo, come ha ritenuto l’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 15-2020, valorizzando l’inequivoca locuzione “anche giurisdizionali”) sono cronologicamente ricollegabili all’arco temporale anteriore al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, il provvedimento successivo, che determina l’insorgere del titolo di spesa (nella specie, il decreto ingiuntivo esecutivo e non opposto), deve essere imputato alla Gestione liquidatoria, purché detto provvedimento sia emanato prima dell’approvazione del rendiconto della gestione di cui all’art. 256, comma 11. In questo caso, dunque, il debito viene imputato al bilancio della Gestione liquidatoria sotto il profilo amministrativo-contabile, privando l’ente comunale della relativa capacità giuridica (sotto il profilo civilistico) e competenza amministrativa su quel debito, che non è più ad esso imputabile. Il che spiega le conseguenze in ordine alle attività esecutive che vengono temporaneamente paralizzate fino all’approvazione del rendiconto della gestione di cui all’art. 256, comma 11. Sul paino letterale, dunque, non vi è alcuno spazio ermeneutico per aderire ad una interpretazione diversa. 4. Inoltre, deve ricordarsi, sotto il profilo teleologico, come ha già statuito questa Plenaria nella sentenza n. 15-2020, che le norme sul dissesto finanziario degli Enti Locali, contenute nel Titolo VIII, Capi II-IV del TUEL, sono preordinate al ripristino degli equilibri di bilancio degli enti locali in crisi, mediante un’apposita procedura di risanamento, delineando una netta separazione di compiti e competenze tra la gestione passata e quella corrente, a tutela della gestione corrente, che sarebbe pregiudicata se in essa confluissero debiti sostanzialmente imputabili alle precedenti gestioni amministrative (che sono state a tal punto fallimentari da determinare il dissesto dell’ente), in modo da garantire, per il futuro, la sostenibilità finanziaria del bilancio ordinario. I soggetti della procedura di risanamento sono l’Organo straordinario di liquidazione (OSL), incaricato di provvedere al ripiano dell’indebitamento pregresso con i mezzi consentiti dalla legge, e gli organi istituzionali dell’ente, chiamati ad assicurare condizioni stabili di equilibrio della gestione finanziaria e a rimuovere le cause strutturali all’origine del dissesto (art. 245). L’OSL, quindi, ha competenza relativamente a “fatti ed atti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell'ipotesi di bilancio riequilibrato» (che il consiglio dell’ente locale presenta per l’approvazione al Ministro dell’interno entro il termine perentorio di 3 mesi dalla data di emanazione del decreto di nomina dell’OSL: art. 259, comma 1) e provvede a: a) la rilevazione della massa passiva, ai sensi dell’art. 254); b) l’acquisizione e la gestione dei mezzi finanziari disponibili ai fini del risanamento, ai sensi dell’art. 255; c) la liquidazione e il pagamento della massa passiva, ai sensi dell’art. 256 (art. 252, comma 4)”. Pertanto, il principio generale è costituito dalla creazione di una massa separata affidata alla gestione di un organo straordinario, distinto dagli organi istituzionali dell’ente locale, che continui a rappresentare l’asse portante dell’intera disciplina del dissesto, nonostante le modifiche intervenute nel tempo su taluni aspetti della procedura. Quanto alla formazione della massa passiva: - l’OSL provvede all’accertamento della massa passiva mediante la formazione di un piano di rilevazione (art. 254, comma 1); - nel piano di rilevazione della massa passiva sono inclusi: a) i debiti di bilancio e fuori bilancio di cui all’art 194 verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato; b) i debiti derivanti dalle procedure esecutive estinte ai sensi dell’art. 248, comma 2; c) i debiti derivanti da transazioni compiute dall’OSL in ordine a vertenze giudiziali e stragiudiziali relative a debiti rientranti nelle fattispecie di cui alle precedenti lett. a) e b) (art. 254, comma 3); - a seguito del definitivo accertamento della massa passiva e dei mezzi finanziari disponibili, e comunque entro 24 mesi dall’insediamento, l’OSL predispone il piano di estinzione delle passività, includendo le passività accertate successivamente all’esecutività del piano di rilevazione dei debiti, e lo deposita presso il Ministero dell’Interno in vista dell’approvazione da parte di quest’ultimo (art. 256, comma 6). E’ evidente, quindi, che la disciplina normativa sul dissesto, basata sulla creazione di una massa separata affidata alla gestione di un organo straordinario, distinto dagli organi istituzionali dell’ente locale, può produrre effetti positivi soltanto se tutte le poste passive riferibili a fatti antecedenti al riequilibrio del bilancio dell’ente possono essere attratte alla predetta gestione, benché il relativo accertamento giurisdizionale o amministrativo sia successivo. Con l’unico limite rappresentato, come detto, dall’approvazione del rendiconto della gestione che segna la chiusura della Gestione Liquidatoria; dopo tale data, infatti, è evidente che non sarà più possibile imputare alcunché a tale organo, in quanto, dal punto di vista giuridico, esso ha cessato la sua esistenza. Altrimenti, se i debiti accertati in via giurisdizionale posteriormente, ma riferibili a fatti antecedenti, potessero essere portati ad esecuzione direttamente nei confronti dell’Ente comunale, non solo verrebbe frustrata la stessa ratio e lo scopo della gestione liquidatoria, ma sarebbe pregiudicata la gestione delle funzioni ordinarie del Comune, prima che esso torni ad uno stato di riequilibrio finanziario, mettendo a rischio l’esercizio delle stesse funzioni e dei servizi fondamentali svolti dal Comune, che non potrebbe sostenere sul piano finanziario i costi di tali funzioni e servizi, essendo di fatto in uno stato di insolvenza. 5. Tali ultimi rilievi servono anche a confutare i dubbi circa la legittimità costituzionale delle norme sullo stato di dissesto, così come evocati dalle parti appellanti e riferite nell’ordinanza di remissione. Infatti, se lo scopo delle norme sullo stato di dissesto è quello di salvaguardare le funzioni fondamentali dell’ente in stato di insolvenza, permettendogli di recuperare una situazione finanziaria di riequilibrio e, quindi, di normalità gestionale e di capienza finanziaria, che altrimenti sarebbe compromessa dai debiti sorti nel periodo precedente, è evidente che tale interesse pubblico risulta prevalente, in base ad un giudizio di bilanciamento e di razionalità, rispetto agli interessi individuali e patrimoniali dei privati ancorché accertati con provvedimenti giurisdizionali. Peraltro, la stessa Corte costituzionale, con la sentenza 21 giugno 2013, n. 154, relativa ad analoghe disposizioni per le obbligazioni rientranti nella gestione commissariale del Comune di Roma (art. 4, comma 8-bis, ultimo periodo, D.L. 25 gennaio 2010, n. 2, convertito, con modificazioni, in L. 26 marzo 2010, n. 42), ha sostenuto che in una procedura concorsuale – tipica di uno stato di dissesto – una norma che ancori ad una certa data il fatto o l’atto genetico dell’obbligazione è logica e coerente, proprio a tutela dell’eguaglianza tra i creditori, mentre la circostanza che l’accertamento del credito intervenga successivamente è irrilevante ai fini dell’imputazione; e sarebbe irragionevole il contrario, giacché farebbe difetto una regola precisa per individuare i crediti imputabili alla gestione commissariale o a quella ordinaria e tutto sarebbe affidato alla casualità del momento in cui si forma il titolo esecutivo, anche all’esito di una procedura giudiziaria di durata non prevedibile (punto 7.1 del considerato in diritto). 6. Per quanto riguarda la giurisprudenza CEDU evocata dall’ordinanza di remissione, va premesso che tale orientamento non risulta completamente consolidato a livello di Corte dei diritti dell’uomo. Peraltro, ed in ogni caso, qualora si dubiti della corrispondenza della normativa nazionale primaria ai principi espressi dalla CEDU, si deve ricordare che l'art. 117, comma 1, Cost. comporta il dovere per il legislatore ordinario di non violare le previsioni contenute in accordi internazionali; tale previsione costituisce un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto agli obblighi internazionali, e, con essi, al parametro comunemente qualificato norma interposta, integrativa del precetto costituzionale. Le norme convenzionali, interposte tra la Costituzione e la legge ordinaria alla stregua di fonti intermedie tra leggi ordinarie e precetti costituzionali, sono dunque idonee a fungere sia da parametro di costituzionalità ex art. 117 Cost., sia (esse stesse) da oggetto del giudizio di costituzionalità; le disposizioni della CEDU (e quelle della Carta sociale europea), rimanendo pur sempre a un livello sub-costituzionale, non si sottraggono al controllo di costituzionalità, essendo evidente, sul piano logico e sistematico, che la Costituzione non può essere integrata da fonti che ne violino i valori precettivi: la costituzionalità delle norme internazionali è, quindi, una precondizione ineludibile per il funzionamento del meccanismo di interposizione plasmato dall'articolo 117 citato. Al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, tenendo peraltro sempre conto degli interessi costituzionalmente protetti in altri articoli della Costituzione. Pertanto, l'art. 117, comma 1, Cost. condiziona l'esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali rientrano quelli derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, le cui norme (come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo) costituiscono fonte integratrice del parametro di costituzionalità introdotto dal citato comma 1 dell'art. 117 Cost. e la cui violazione da parte di una legge statale o regionale comporta l’illegittimità costituzionale della stessa, a meno che la norma della Convenzione non risulti a sua volta –a giudizio della Corte- in contrasto con una norma costituzionale (si tratta dell'operatività dei cc.dd. contro-limiti, soggetti a loro volta condizioni chiarite in dottrina come in giurisprudenza, che ne danno una lettura in senso “costruttivo” e non limitativo del diritto convenzionale). Di conseguenza, ove si ravvisi un contrasto della legge nazionale con i parametri della CEDU, la soluzione non può essere l’applicazione diretta della stessa e l’unica strada consentita all’interprete è rimettere la questione alla Corte costituzionale perché valuti la costituzionalità della legge alla luce del parametro interposto descritto dall’art. 117, coma 1, Cost.. 7. Nel caso di specie, tuttavia, non si ravvisa il contrasto con i parametri CEDU, così come prospettato nell’ordinanza di remissione, ove si insiste in particolare modo sulla circostanza che lo stato di dissesto, non essendo a priori limitato temporalmente, potrebbe, se eccessivamente protratto, comportare un’espropriazione sostanziale dei crediti dei privati, le cui azioni esecutive resterebbero paralizzate sine die. A prescindere dalla circostanza che tale dubbio afferisce ad un aspetto che attiene ad una situazione di fatto, connessa ad una mala gestione della procedura liquidatoria, deve essere osservato che il legislatore, con la descritta separazione tra la gestione liquidatoria e la gestione ordinaria dell’ente nonché con la sospensione delle azioni esecutive, ha inteso far fronte all’esigenza di assicurare massima certezza e una maggiore rapidità nella soddisfazione del ceto creditorio dell’ente locale nel rispetto dei princìpi ordinatori delle procedure concorsuali. Tali rilievi sono, peraltro, già stati esaminati dalla V Sezione di questo Consiglio con ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale 21 luglio 2021, n. 5502. Quindi, e in conclusione, da un lato, va rilevato che, con la separazione tra le attività finalizzate al risanamento e quelle di liquidazione della massa passiva, il dissesto ha assunto una fisionomia analoga al fallimento privatistico, il quale, come è noto, non è sottoposto a termini finali certi senza che, per questo, si sia dubitato della sua legittimità costituzionale, trattandosi peraltro di un istituto diffuso a livello comunitario. Al riguardo, si osserva che il processo di omologazione tra dissesto degli enti locali e fallimento privatistico si è poi accentuato con i successivi interventi normativi, realizzati con il d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77 (Ordinamento finanziario e contabile degli enti locali) e il relativo decreto correttivo (d.lgs. 11 giugno 1996, n. 336), con i quali si sono tra l’altro introdotte delle cause di prelazione dei crediti e si è previsto che l’organo straordinario di liquidazione predisponga un primo piano di rilevazione dei debiti recante l’elenco di quelli esclusi dalla massa passiva della procedura, strumentale all’erogazione del mutuo con la Cassa depositi e prestiti e il pagamento in acconto dei debiti inseriti nel piano di rilevazione. Dall’altro lato, va sottolineato che sussistono, anche in costanza di Gestione liquidatoria, contributi dello Stato per il pagamento dell’indebitamento pregresso in rapporto alla popolazione dell’ente dissestato (artt. 4 e 21 d.l. n. 8-1993), e quindi esistono correttivi normativi idonei a realizzare e plasmare l’interesse dei creditori dell’Ente i cui crediti siano confluiti nella Gestione liquidatoria. Al riguardo, deve peraltro aggiungersi che l’attività contrattuale della pubblica amministrazione è stata assoggettata alla normativa sul contrasto ai ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali, di cui al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 (Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali), in particolare per effetto delle modifiche introdotte dal decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192 - Modifiche al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, per l’integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a norma dell’articolo 10, comma 1, della legge 11 novembre 2011, n. 180). In tal modo, la remunerazione dei crediti attraverso gli interessi di mora ai sensi del citato d.lgs. n. 231-2002 offre una compensazione al creditore, che si contrappone al rischio che il credito venga attratto nella massa della Gestione liquidatoria. Il dissesto finanziario degli enti locali si colloca quindi, in altri termini, all’interno dell’antitesi Stato-mercato. Infatti, per la copertura del disavanzo dell’ente locale e per il suo risanamento è previsto un intervento, sia pure non illimitato, dello Stato, con funzione tipica di “pagatore di ultima istanza” all’interno del sistema di finanza pubblica che da esso promana; a ciò si contrappone un regime dei debiti commerciali dell’ente locale proprio delle transazioni tra imprese, in cui non sono ordinariamente previsti interventi di sostegno pubblico contro l’insolvenza. Si ricordano, peraltro, anche le misure straordinarie relative alla possibilità che l’ente locale acceda alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale prevista dall’articolo 243-bis, contraddistinta dall’incapacità solo temporanea di fare fronte al servizio del debito e, al pari del dissesto finanziario, dall’intervento di risorse a carico del bilancio dello Stato, ovvero il Fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli enti locali di cui all’art. 243-ter TUEL. Alla luce delle svolte considerazioni, si ritiene che le caratteristiche del procedimento di dissesto siano espressive di un equilibrato e razionale bilanciamento, a livello normativo, con la necessità, da un lato, di ripristinare la continuità di esercizio dell’ente locale incapace di assolvere alle funzioni e i servizi indispensabili per la comunità locale, e, dall’altro lato, di tutelare i creditori. L’equilibrio così delineato sul piano della vigente normativa rende evidente e manifesto che la disciplina sullo stato di dissesto non può ritenersi contrario ad alcun parametro costituzionale, né in via diretta né attraverso il meccanismo della norma interposta ex art. 117, comma 1, Cost.. 8. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere respinto in quanto infondato. Infatti, nel ricorso in appello sulla sentenza di inottemperanza del TAR qui impugnata si deduce che “la sentenza impugnata non avrebbe potuto dichiarare l’inammissibilità del ricorso ex art. 112 c.p.a., proposto dagli istanti, in quanto il giudicato – della cui mancata esecuzione essi si dolgono – non può ritenersi rientrante nell’ambito dei crediti di pertinenza dell’Organo straordinario di liquidazione”. Come invece detto, è chiaro dal tenore letterale delle norme esaminate e dai fatti indicati nel ricorso che i crediti per i quali si agisce in sede di ottemperanza siano di pertinenza indiscutibile dell’Organo straordinario di liquidazione. Le spese di lite del presente grado di giudizio possono essere compensate, sussistendo giusti motivi. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa le spese di lite del presente grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 novembre 2021 con l'intervento dei magistrati: Filippo Patroni Griffi, Presidente Franco Frattini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Carmine Volpe, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Luciano Barra Caracciolo, Presidente Marco Lipari, Presidente Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere, Estensore Hadrian Simonetti, Consigliere Andrea Pannone, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere Giulio Veltri, Consigliere Fabio Franconiero, Consigliere Filippo Patroni Griffi, Presidente Franco Frattini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Carmine Volpe, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Luciano Barra Caracciolo, Presidente Marco Lipari, Presidente Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere, Estensore Hadrian Simonetti, Consigliere Andrea Pannone, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere Giulio Veltri, Consigliere Fabio Franconiero, Consigliere
Enti locali – Comuni – Dichiarazione di dissesto – Effetti positivi - Condizione.   ​​​​​​​             La disciplina normativa sul dissesto del Comune, basata sulla creazione di una massa separata affidata alla gestione di un organo straordinario, distinto dagli organi istituzionali dell’ente locale, può produrre effetti positivi soltanto se tutte le poste passive riferibili a fatti antecedenti al riequilibrio del bilancio dell’ente possono essere attratte alla predetta gestione, benché il relativo accertamento giurisdizionale o amministrativo sia successivo, con l’unico limite rappresentato dall’approvazione del rendiconto della gestione che segna la chiusura della Gestione Liquidatoria; dopo tale data, infatti, è evidente che non sarà più possibile imputare alcunché a tale organo, in quanto, dal punto di vista giuridico, esso ha cessato la sua esistenza (1).   (1) La questione era stata rimessa dal Cons. St., sez. V, 21 aprile 2021, n. 3211   LINK     Ha chiarito la Sezione che se i debiti accertati in via giurisdizionale posteriormente, ma riferibili a fatti antecedenti, potessero essere portati ad esecuzione direttamente nei confronti dell’Ente comunale, non solo verrebbe frustrata la stessa ratio e lo scopo della gestione liquidatoria, ma sarebbe pregiudicata la gestione delle funzioni ordinarie del Comune, prima che esso torni ad uno stato di riequilibrio finanziario, mettendo a rischio l’esercizio delle stesse funzioni e dei servizi fondamentali svolti dal Comune, che non potrebbe sostenere sul piano finanziario i costi di tali funzioni e servizi, essendo di fatto in uno stato di insolvenza. Tali ultimi rilievi servono anche a confutare i dubbi circa la legittimità costituzionale delle norme sullo stato di dissesto, così come evocati dalle parti appellanti e riferite nell’ordinanza di remissione. Infatti, se lo scopo delle norme sullo stato di dissesto è quello di salvaguardare le funzioni fondamentali dell’ente in stato di insolvenza, permettendogli di recuperare una situazione finanziaria di riequilibrio e, quindi, di normalità gestionale e di capienza finanziaria, che altrimenti sarebbe compromessa dai debiti sorti nel periodo precedente, è evidente che tale interesse pubblico risulta prevalente, in base ad un giudizio di bilanciamento e di razionalità, rispetto agli interessi individuali e patrimoniali dei privati ancorché accertati con provvedimenti giurisdizionali. Peraltro, la stessa Corte costituzionale, con la sentenza 21 giugno 2013, n. 154, relativa a disposizioni per le obbligazioni rientranti nella gestione commissariale del Comune di Roma (art. 4, comma 8-bis, ultimo periodo, d.l. 25 gennaio 2010, n. 2, convertito, con modificazioni, in l. 26 marzo 2010, n. 42), ha sostenuto che in una procedura concorsuale – tipica di uno stato di dissesto – una norma che ancori ad una certa data il fatto o l’atto genetico dell’obbligazione è logica e coerente, proprio a tutela dell’eguaglianza tra i creditori, mentre la circostanza che l’accertamento del credito intervenga successivamente è irrilevante ai fini dell’imputazione; e sarebbe irragionevole il contrario, giacché farebbe difetto una regola precisa per individuare i crediti imputabili alla gestione commissariale o a quella ordinaria e tutto sarebbe affidato alla casualità del momento in cui si forma il titolo esecutivo, anche all’esito di una procedura giudiziaria di durata non prevedibile.   Ha quindi concluso l’Alto consesso che da un lato, va rilevato che, con la separazione tra le attività finalizzate al risanamento e quelle di liquidazione della massa passiva, il dissesto ha assunto una fisionomia analoga al fallimento privatistico, il quale, come è noto, non è sottoposto a termini finali certi senza che, per questo, si sia dubitato della sua legittimità costituzionale, trattandosi peraltro di un istituto diffuso a livello comunitario. Al riguardo, si osserva che il processo di omologazione tra dissesto degli enti locali e fallimento privatistico si è poi accentuato con i successivi interventi normativi, realizzati con il d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77 (Ordinamento finanziario e contabile degli enti locali) e il relativo decreto correttivo (d.lgs. 11 giugno 1996, n. 336), con i quali si sono tra l’altro introdotte delle cause di prelazione dei crediti e si è previsto che l’organo straordinario di liquidazione predisponga un primo piano di rilevazione dei debiti recante l’elenco di quelli esclusi dalla massa passiva della procedura, strumentale all’erogazione del mutuo con la Cassa depositi e prestiti e il pagamento in acconto dei debiti inseriti nel piano di rilevazione. Dall’altro lato, va sottolineato che sussistono, anche in costanza di Gestione liquidatoria, contributi dello Stato per il pagamento dell’indebitamento pregresso in rapporto alla popolazione dell’ente dissestato (artt. 4 e 21 d.l. n. 8-1993), e quindi esistono correttivi normativi idonei a realizzare e plasmare l’interesse dei creditori dell’Ente i cui crediti siano confluiti nella Gestione liquidatoria. Al riguardo, deve peraltro aggiungersi che l’attività contrattuale della pubblica amministrazione è stata assoggettata alla normativa sul contrasto ai ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali, di cui al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 (Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali), in particolare per effetto delle modifiche introdotte dal decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192 - Modifiche al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, per l’integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a norma dell’articolo 10, comma 1, della legge 11 novembre 2011, n. 180). In tal modo, la remunerazione dei crediti attraverso gli interessi di mora ai sensi del citato d.lgs. n. 231-2002 offre una compensazione al creditore, che si contrappone al rischio che il credito venga attratto nella massa della Gestione liquidatoria. Il dissesto finanziario degli enti locali si colloca quindi, in altri termini, all’interno dell’antitesi Stato-mercato. Infatti, per la copertura del disavanzo dell’ente locale e per il suo risanamento è previsto un intervento, sia pure non illimitato, dello Stato, con funzione tipica di “pagatore di ultima istanza” all’interno del sistema di finanza pubblica che da esso promana; a ciò si contrappone un regime dei debiti commerciali dell’ente locale proprio delle transazioni tra imprese, in cui non sono ordinariamente previsti interventi di sostegno pubblico contro l’insolvenza. Si ricordano, peraltro, anche le misure straordinarie relative alla possibilità che l’ente locale acceda alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale prevista dall’articolo 243-bis, contraddistinta dall’incapacità solo temporanea di fare fronte al servizio del debito e, al pari del dissesto finanziario, dall’intervento di risorse a carico del bilancio dello Stato, ovvero il Fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli enti locali di cui all’art. 243-ter TUEL. Alla luce delle svolte considerazioni, si ritiene che le caratteristiche del procedimento di dissesto siano espressive di un equilibrato e razionale bilanciamento, a livello normativo, con la necessità, da un lato, di ripristinare la continuità di esercizio dell’ente locale incapace di assolvere alle funzioni e i servizi indispensabili per la comunità locale, e, dall’altro lato, di tutelare i creditori. L’equilibrio così delineato sul piano della vigente normativa rende evidente e manifesto che la disciplina sullo stato di dissesto non può ritenersi contrario ad alcun parametro costituzionale, né in via diretta né attraverso il meccanismo della norma interposta ex art. 117, comma 1, Cost..  
Enti locali
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/non-va-sospesa-l-ordinanza-asl-che-mette-in-quarantena-tutta-la-squadra-del-bologna-calcio-a-fronte-di-casi-di-positivit-c3-a0
Non va sospesa l’ordinanza Asl che mette in quarantena tutta la squadra del Bologna Calcio a fronte di casi di positività
N. 00005/2022 REG.PROV.CAU. N. 00009/2022 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna (Sezione Seconda) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 9 del 2022, proposto da Lega Nazionale Professionisti Serie A, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Alberto Caretti, Giuseppe Morbidelli, Duccio Maria Traina, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Azienda Unita' Sanitaria Locale di Bologna, non costituito in giudizio; nei confronti Societa' Bologna Fc 1909, non costituito in giudizio; per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, del provvedimento della AUSL di Bologna 5 gennaio 2021 prot. n. 0001343/2022, nella parte in cui dispone “che tutti i componenti del gruppo squadra non potranno partecipare ad eventi sportivi ufficiali per almeno 5 giorni fino al 09/01/2021 e comunque per ognuno dei componenti valgono le suddette prescrizioni fino alla risoluzione completa dei relativi provvedimenti” Visti il ricorso e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm.; -rilevato peraltro che nell’attuale, straordinaria , grave e tuttora irrisolta(da due anni) emergenza sanitaria risulta necessariamente prevalente –nella presente fase processuale d’urgenza- la tutela dell’interesse pubblico fondamentale alla salvaguardia della sicurezza sanitaria collettiva rispetto all’interesse privato, economico e sportivo fatto valere in giudizio dalla società ricorrente; P.Q.M. Rigetta l’istanza predetta in quanto manifestamente inaccoglibile ,allo stato; Fissa per la trattazione collegiale la camera di consiglio del 2 febbraio 2022 ,nel doveroso rispetto dei termini prescritti dalla normativa vigente; Il presente decreto è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Bologna il giorno 7 gennaio 2022. IL SEGRETARIO
Covid-19 – Calcio – Squadra del Bologna Calcio – Casi di positività  - Ordinanza Asl di divieto di giocare le partite per cinque giorni – Non va sospesa.                  Non va sospeso il provvedimento dell’Azienda Sanitaria di Bologna che, accertato che nella Squadra del Bologna Calcio si sono verificati casi di positività al Covid, ha disposto anche il divieto di esercitare sport di squadra di contatto per cinque giorni per tutti gli atleti, e cioè anche per quelli sottoposti al (mero) regime di autosorveglianza, e ciò perchè nell’attuale, straordinaria e grave emergenza sanitaria risulta necessariamente prevalente – nella fase cautelare monocratica - la tutela dell’interesse pubblico fondamentale alla salvaguardia della sicurezza sanitaria collettiva rispetto all’interesse privato, economico e sportivo fatto valere in giudizio dalla società ricorrente.   ​​​​​​​
Covid-19
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Escussione della cauzione provvisoria
N. 01533/2020 REG.PROV.COLL. N. 08129/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8129 del 2019, proposto da: dott. Giorgio Soldani, rappresentato e difeso dagli avvocati Cristiana Carcelli e Natale Giallongo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui Uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12; nei confronti Ottavio Zirilli, Andrea Cardillo non costituiti in giudizio; per l'ottemperanza della sentenza 2 marzo 2018 n. 2382, emessa dal TAR Lazio, Sez. III, impugnata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche ma non sospesa dal Consiglio di Stato (Ord., Sez. VI, 1 agosto 2018 n. 3633) – docc. 1-2 ric.. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Cnr - Consiglio Nazionale Ricerche; Visto l 'art. 114 cod. proc. amm.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 18 dicembre 2019 il dott. Claudio Vallorani e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: FATTO e DIRITTO Con ricorso ex art. 112 e ss. c.p.a. notificato al CNR in data 14.6.2019 e depositato il 25 giugno successivo, il dott. Giorgio Soldani ha adito questo Tribunale per ottenere l’ottemperanza della sentenza esecutiva (ma non ancora passata in giudicato) di questa Sezione n. 2382/2018, emessa a definizione del ricorso n. RG.7275/2016. Ripercorrendo sinteticamente la complessa vicenda pregressa che ha condotto all’adozione della sentenza azionata, nel ricorso si espone che: - con bando 3 agosto 2009 n. 36487 il CNR indiceva un concorso interno, per titoli e colloquio, per l’assegnazione di tre posti di dirigente tecnologo di I livello, di cui due per i settori “giuridico-amministrativo” e “organizzativo-gestionale” e l’altro per i settori “programmazione e/o gestione impianti, strumentazioni e servizi e supporto alla ricerca”; - il dott. Soldani partecipava alla selezione concorrendo per l’assegnazione del posto relativo al secondo gruppo, dove si collocava al secondo posto (alle spalle dell’Ing. Zirilli); - il provvedimento di approvazione della graduatoria veniva impugnato dinnanzi al TAR Lazio che, con sentenza 26 marzo 2013 n. 3097, in accoglimento del gravame proposto, ordinava la rinnovazione della selezione; - con nota del 6 novembre 2013 il CNR approvava la nuova graduatoria nella quale il dott. Soldani si andava a collocare al primo posto, davanti al dott. Cardillo (secondo) e all’Ing. Zirilli (terzo); - quest’ultimo sollecitava il CNR all’esercizio dei poteri di autotutela per asserite incongruenze sui titoli vantati dall’odierno ricorrente e l’Ente, ritenendo di dover svolgere un’istruttoria sui rilievi esposti, disponeva la sospensione dell’efficacia del provvedimento di nomina nei confronti del dott. Soldani; - all’esito dell’istruttoria svolta il CNR confermava l’esito della selezione e, con nota prot. 27 gennaio 2014 n. 0006597, l’Amministrazione riconosceva al dott. Soldani la qualifica di dirigente tecnologo di primo livello; - tuttavia, effettuati nuovi controlli sui titoli presentati dal ricorrente in occasione della partecipazione al concorso, con nota del 1 aprile 2016, l’Amministrazione disponeva la decadenza del ricorrente dal concorso ai sensi degli artt. 71 e 75 del d.P.R. 445/2000 e approvava la nuova graduatoria di merito attribuendo al dott. Andrea Cardillo e all'ing. Ottavio Zirilli il profilo di Dirigente Tecnologo; - con il successivo provvedimento del 6 maggio 2016 è stato comunicato al Dott. Soldani il declassamento dal I Livello (Dirigente Tecnologo) al II Livello (Primo Ricercatore) con immediata decurtazione dallo stipendio mensile di complessivi Euro 1.000,00; - avverso questi ultimi provvedimenti (decadenza dal concorso e declassamento dal profilo di dirigente tecnologo a primo ricercatore) il dott. Soldani ha adito il TAR intestato chiedendone l’annullamento e contestando le conclusioni rassegnate nella relazione finale depositata il 31 luglio 2015 dalla Commissione d'indagine amministrativa nominata dal Direttore Generale del CNR (ricorso n. RG. 7275/2016); - in pendenza del ricorso, il CNR ha richiesto all’odierno ricorrente la restituzione delle differenze retributive per euro 108.628,32 (avverso tale provvedimento, lo stesso ricorrente ha proposto motivi aggiunti nell’ambito della medesima causa già instaurata); contestualmente il medesimo Ente ha operato la decurtazione dalla retribuzione del ricorrente di Euro 900,00 mensili dall’agosto 2017 (v. docc. 10 e 11). Con la sentenza del 2 marzo 2018 n. 2382, di cui oggi il dott. Soldani chiede l’ottemperanza, il TAR Lazio ha accolto il ricorso introduttivo e i successivi motivi aggiunti e annullato gli atti impugnati, vale a dire: a) il provvedimento con il quale il Dirigente della Direzione centrale gestione delle risorse umane aveva comunicato in data 6 maggio 2016 l'annullamento del precedente provvedimento prot. n.0006597 del 27 gennaio 2014 che aveva attribuito il I livello del profilo Dirigente Tecnologo al dott. Giorgio Soldani; b) il provvedimento del Dirigente della medesima Direzione centrale prot. 0021671 del 1 aprile 2016, con cui era stata comunicata al ricorrente la declaratoria di decadenza del medesimo dalla graduatoria di merito del concorso indetto con bando n. 364.87 e dal profilo di Dirigente Tecnologo, I livello professionale e, per l'effetto, riformulata la predetta graduatoria, attribuendo al Dott. Andrea Cardillo e all'Ing. Ottavio Zirilli il profilo di Dirigente Tecnologo; c) della relazione finale depositata il 31 luglio 2015 dalla Commissione d'indagine amministrativa nominata in dal Direttore Generale del C.N.R. con nota n. 19807 del 23 marzo 2015; d) della nota provvedimentale del CNR — Direzione Centrale gestione delle Risorse Umane, pos.301.10426 Matr.19965, notificata al ricorrente a mezzo pec il 13.07.2017. Dopo avere diffidato l’Amministrazione ad eseguire la pronuncia (doc. 9 ric.) e non avendo ottenuto alcun riscontro, il dott. Soldani agisce oggi in ottemperanza dinnanzi a questo Tribunale al quale chiede: la reintegrazione immediata nelle sue funzioni di Dirigente Tecnologo (I livello); la cessazione delle decurtazioni stipendiali e la restituzione delle somme indebitamente trattenute dal CNR a seguito dei provvedimenti vittoriosamente impugnati; il riconoscimento delle retribuzioni maturate e maturande nella posizione spettante, ivi compreso il riconoscimento del diritto al passaggio dalla V alla VI fascia, commisurata al I livello, con corresponsione immediata dei conguagli maturati e maturandi; il tutto con rivalutazione e interessi fino all’adempimento. Il CNR si è costituito con il patrocinio dell’Avvocatura Generale dello Stato, depositando comparsa di mero stile. In vista della camera di consiglio parte ricorrente ha depositato documentazione integrativa, comprensiva di un prospetto per il calcio delle differenze retributive di cui si chiede il pagamento (doc. 11 ric.). In due successive occasioni le camere di consiglio già fissate (rispettivamente in data 9.10.2019 e in data 4.12.2019) sono state rinviate su istanza del difensore del ricorrente che ha richiesto, prima, l’assegnazione di un termine per rinnovare la notifica nei confronti di uno dei due controinteressati (Zirilli e Cardillo) e, poi, per poter depositare la prova dell'avvenuta notifica del ricorso ai controinteressati. Quindi, nella camera di consiglio del 18 dicembre 2019, dopo la discussione, il ricorso è stato trattenuto per la decisione. La domanda merita accoglimento in quanto, ad oggi, non è stato dato alcun principio di esecuzione alla sentenza azionata, la quale, sebbene impugnata, è pienamente dotata di efficacia esecutiva, atteso che, seppur proposto dal CNR e tuttora pendente l’appello (RG. 05400/2018 REG.RIC. Cons. Stato), il Consiglio di Stato, Sez. VI, con ordinanza n. 3633 dell’1.8.2018 ha ritenuto che, nelle more della definizione del merito del giudizio, non sussistono i presupposti per la concessione della invocata misura cautelare, non risultando compiutamente rappresentato il requisito del “periculum in mora”. Il Collegio osserva che: stante la natura retroattiva dell’effetto caducatorio derivante dalla sentenza di primo grado, la quale, come si è visto, ha annullato i provvedimenti adottati dal CNR in autotutela, a partire dal provvedimento di annullamento d’ufficio - emesso dal Dirigente della Direzione Centrale gestione delle risorse umane e comunicato in data 6 maggio 2016 – che aveva annullato il provvedimento dello stesso CNR prot. n.0006597 del 27 gennaio 2014 di attribuzione del I livello del profilo di Dirigente Tecnologo al dott. Giorgio Soldani; stante, pertanto, la rimozione retroattiva, in conseguenza della sentenza qui azionata, degli effetti caducatori del provvedimento suddetto e della decadenza dalla graduatoria concorsuale che aveva visto (legittimamente) prevalere il dott. Soldani; quest’utlimo ha diritto: a) ad essere pienamente reintegrato nelle funzioni di Dirigente Tecnologo (I Livello) e nella relativa retribuzione mensile; b) alla cessazione immediata della decurtazione mensile nei termini indicati nella nota a firma del dott. Preti del CNR del 13 luglio 2017; c) alla ricostruzione della posizione professionale e previdenziale; d) all’adeguamento della retribuzione anche tramite il riconoscimento del diritto del passaggio dalla V alla VI fascia, commisurata al I livello, con corresponsione immediata dei conguagli maturati e maturandi; e) alla restituzione delle somme indebitamente trattenute dal CNR, sulle retribuzioni degli anni pregressi; f) al pagamento degli interessi e della rivalutazione, maturati e maturandi fino all’adempimento. Il CNR, pertanto, dovrà provvedere all’adozione degli atti necessari all’attuazione delle misure suddette a beneficio del ricorrente entro il termine di giorni 40 (quaranta) dalla comunicazione ovvero, se anteriore, dalla notificazione della presente sentenza. Decorso tale termine senza l’adozione dei prescritti provvedimenti, il Collegio provvede fin d’ora alla nomina di un commissario “ad acta” ai sensi dell’art. 112, comma 2, lett. d), c.p.a., il quale viene individuato nel Capo Dipartimento per la Formazione Superiore e la Ricerca del MIUR o dirigente da costui delegato che dovrà provvedere in sostituzione dell’Amministrazione inadempiente. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza), in accoglimento del ricorso proposto: a) ordina al CNR di provvedere all’adozione degli atti necessari all’attuazione di quanto disposto dalla sentenza 2 marzo 2018 n. 2382, emessa dal TAR Lazio, Sez. III, nei termini e secondo le modalità indicati in motivazione, entro il termine di giorni 40 (quaranta) dalla comunicazione ovvero, se anteriore, dalla notificazione della presente sentenza; b) decorso tale termine senza l’adozione dei prescritti provvedimenti, il Collegio provvede fin d’ora alla nomina di un commissario “ad acta” ai sensi dell’art. 112, comma 2, lett. d), c.p.a., il quale viene individuato nel Capo del Dipartimento per la Formazione Superiore e la Ricerca del MIUR o dirigente da costui delegato che dovrà provvedere in sostituzione dell’Amministrazione inadempiente; c) condanna il CNR in persona del legale rappresentante p.t., alla refusione, in favore del dott. Giorgio Soldani, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 1.000,00 (mille/00), oltre Iva e Cassa Avvocati come per legge, oltre al rimborso del contributo unificato già anticipato. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 dicembre 2019 con l'intervento dei magistrati: Giuseppe Daniele, Presidente Achille Sinatra, Consigliere Claudio Vallorani, Primo Referendario, Estensore Giuseppe Daniele, Presidente Achille Sinatra, Consigliere Claudio Vallorani, Primo Referendario, Estensore IL SEGRETARIO
Contratti della pubblica amministrazione - Cauzione  - Cauzione provvisoria – Escussione – Nei confronti di soggetti diversi dall’aggiudicatario – Esclusione.           Il nuovo codice dei contratti, a differenza di quello previgente, consente l’escussione della cauzione provvisoria nei soli confronti del concorrente dichiarato aggiudicatario (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016 stabilisce che la garanzia provvisoria “copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l'aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all'affidatario o all'adozione di informazione antimafia interdittiva emessa ai sensi degli artt. 84 e 91, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159”. La garanzia opera anche nel caso di mancanza dei requisiti di ordine generale e speciale, dichiarati in sede di partecipazione alla gara, in quanto tale carenza integra, senza dubbio, la nozione di “fatto riconducibile all’affidatario” che preclude la sottoscrizione del contratto. Proprio la disposizione in esame, però, colloca l’escussione della garanzia provvisoria nella fase successiva all’aggiudicazione e prima della stipula del contratto. In quest’ottica l’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016 deve essere letto in combinato disposto con gli artt. 36, comma 6, e 85, comma 5, e, soprattutto, 32, d.lgs. n. 50 del 2016 che prevedono come obbligatoria la verifica dei requisiti del solo aggiudicatario. Pertanto, nella sequenza procedimentale prefigurata dall’art. 32, commi 5 e ss., d.lgs. n. 50 del 2016 l’aggiudicazione, dopo la sua adozione, richiede l’espletamento di un’ulteriore fase avente ad oggetto la verifica dei requisiti e condizionante l’efficacia dell’aggiudicazione stessa e la conseguente decorrenza del termine per la stipula del contratto. E’, pertanto, in questa fase che, secondo il disposto dell’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016, opera la garanzia provvisoria la quale, nella previsione legislativa, sanziona le ipotesi in cui, anche per la mancanza dei requisiti dichiarati in sede di partecipazione e negativamente verificati, non sia possibile, “dopo l’aggiudicazione” (inciso espressamente previsto dall’art. 93, d.lgs. n. 50 del 2016 e mancante nel previgente art. 75, d.lgs. n. 163 del 2006), pervenire alla sottoscrizione del contratto. Ne consegue che l’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016 non si applica alle ipotesi in cui non è ancora intervenuta l’aggiudicazione ma solo la proposta di aggiudicazione che è un atto diverso avente natura meramente endoprocedimentale e, come tale, non impugnabile autonomamente (a differenza dell’aggiudicazione); alla medesima conclusione deve pervenirsi in riferimento ai casi in cui la stazione appaltante procede discrezionalmente, nel corso della gara, alla verifica dei requisiti di uno o più concorrenti. La disciplina in esame differisce da quella del codice abrogato ove il legislatore all’art. 48, d.lgs. n. 163 del 2006 prevedeva come obbligatoria la verifica a campione dei concorrenti, prima dell’apertura delle buste delle offerte, e, successivamente, dell’aggiudicatario e del secondo classificato. Nel sistema previgente alla pluralità di adempimenti, in tema di verifica dei requisiti, posti a carico della stazione appaltante, faceva riscontro la possibilità (che trovava un supporto normativo anche nell’art. 48, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006) della stessa di escutere la cauzione provvisoria anche prima dell’aggiudicazione. La disciplina del d.lgs. n. 50 del 2016, attualmente vigente, non prevede più l’obbligo del controllo a campione e del secondo classificato ed, in questa materia, ha ridotto gli adempimenti delle stazioni appaltanti che sono attualmente obbligate a verificare i requisiti del solo aggiudicatario; in quest’ottica di semplificazione di adempimenti, allora, l’escussione della garanzia provvisoria è circoscritta alla sola ipotesi di negativa verifica dei requisiti dichiarati dall’aggiudicatario mentre nei casi di c.d. “verifica facoltativa” sono applicabili, ricorrendone i presupposti, solo le altre sanzioni previste dall’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 (esclusione dalla gara, segnalazione all’Anac ai fini dell’inserimento nel casellario informatico, denuncia all’autorità giudiziaria nei casi di reato ecc.).
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/nel-periodo-emergenziale-il-collegamento-da-remoto-c3-a8-l-unica-modalit-c3-a0-di-svolgimento-della-discussione-orale-in-udienza
Nel periodo emergenziale il collegamento da remoto è l’unica modalità di svolgimento della discussione orale in udienza
N. 00024/2021 REG.PROV.PRES. N. 08144/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 8144 del 2020, proposto da Luca De Santis, rappresentato e difeso dall'avvocato Raffaele Simonetti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministro della Difesa, Ministero della Difesa - Direzione Gen.Per il personale Militare II Reparto, Ministero della Difesa - Dipartimento Miliare Medicina Legale Cmo Cc, Comando Logistico dell'Esercito Comando Sanita' e Veterinaria non costituiti in giudizio; Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri, Policlinico Militare Celio - Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; nei confronti Ministero della Difesa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio sezione staccata di Latina (Sezione Prima) n. 00244/2020, resa tra le parti, concernente annullamento verbale medico legale e adempimento istanza di revisione del giudizio medico legale; Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l’atto di opposizione alla discussione da remoto, depositato dal Sig. De Santis in data 14 gennaio 2021; Rilevato che l’appellante si oppone alla discussione da remoto richiesta dal Ministero della difesa, rappresentando la necessità che la discussione si svolga in presenza; Considerato che, ratione temporis, l’unica possibilità di discussione contemplata e ammessa dall’ordinamento è quella con collegamento da remoto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 4, comma 1, d.l. n.28 del 2020 e 25, comma 1, d.l. n.137 del 2020; Ritenuto che, a fronte di una disciplina positiva che contempla, in via straordinaria e temporanea, il collegamento da remoto come unica modalità di svolgimento della discussione orale, resta preclusa all’interprete ogni opzione interpretativa che, invece, ammetta la discussione in presenza, da intendersi quale possibilità esclusa, implicitamente, ma chiaramente, dalla citata normativa di riferimento (in ragione del suo carattere completo ed esauriente); Rilevato, peraltro, che l’affermata delicatezza della questione da discutere non vale in alcun modo ad autorizzare la (sostanziale) disapplicazione, in esito a un incerto e inattendibile percorso ermeneutico, della disposizione che prevede la (sola) discussione da remoto, sulla base della sua dichiarata (e sperimentata) idoneità ad assicurare l’integrità del contraddittorio; Considerato che non si ravvisano ragioni (di ordine giuridico o tecnico) per smentire l’assunto dell’equivalenza della discussione orale da remoto, rispetto a quella in presenza, quanto alla sua capacità di salvaguardare in maniera adeguata l’esercizio dei diritti di difesa e la pienezza della dialettica processuale; Ritenuto, pertanto, che l’opposizione dev’essere disattesa, restando confermata la discussione da remoto, già autorizzata con separato decreto; P.Q.M. Respinge l’opposizione del Sig. De Santis alla discussione da remoto. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma il giorno 15 gennaio 2021. IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Covid-19 – Discussione da remoto – Opposizione per asserita necessità discussione in presenza - esclusione.             Deve essere respinta l’opposizione alla discussione da remoto motivata con la necessità che la discussione si tenga in presenza, e ciò in quanto nell'attuale periodo di emergenza epidemiologica l’unica possibilità di discussione contemplata e ammessa dall’ordinamento è quella con collegamento da remoto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 4, comma 1, d.l. n. 28 del 2020 e 25, comma 1, d.l. n. 137 del 2020 (1).  (1) È stato chiarito che a fronte di una disciplina positiva che contempla, in via straordinaria e temporanea, il collegamento da remoto come unica modalità di svolgimento della discussione orale, resta preclusa all’interprete ogni opzione interpretativa che, invece, ammetta la discussione in presenza, da intendersi quale possibilità esclusa, implicitamente, ma chiaramente, dalla citata normativa di riferimento (in ragione del suo carattere completo ed esauriente). Il decreto ha altresì escluso che tale disposizione possa essere derogata (disapplicando la norma) in ragione della delicatezza della questione da discutere, in esito a un incerto e inattendibile percorso ermeneutico, della disposizione che prevede la (sola) discussione da remoto, sulla base della sua dichiarata (e sperimentata) idoneità ad assicurare l’integrità del contraddittorio.   E’ stato, infine, escluso che non sia configurabile l’equivalenza della discussione orale da remoto, rispetto a quella in presenza, quanto alla sua capacità di salvaguardare in maniera adeguata l’esercizio dei diritti di difesa e la pienezza della dialettica processuale. 
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/appalto-per-la-fornitura-domiciliare-di-ossigenoterapia
Appalto per la fornitura domiciliare di ossigenoterapia
N. 02865/2020REG.PROV.COLL. N. 09656/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9656 del 2019, proposto da Vivisol S.R.L, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Giuseppe Franco Ferrari, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via di Ripetta 142; contro Innovapuglia S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Angelo Clarizia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Principessa Clotilde, 2; Regione Puglia, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Marina Altamura, con domicilio eletto presso la Delegazione della Regione Puglia in Roma, via Barberini n. 36; nei confronti Asl Br, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Pierandrea Piccinni, Maurizio Nunzio Cesare Friolo, con domicilio eletto presso lo studio Barbara Cataldi in Roma, corso Risorgimento 11; Azienda Sanitaria Locale di Taranto, Azienda Sanitaria Locale della Provincia di Barletta – Andria – Trani, Azienda Sanitaria Locale di Bari, Azienda Sanitaria Locale di Foggia, Azienda Sanitaria Locale di Lecce non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Terza) n. 01037/2019, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Innovapuglia S.p.A., della di Regione Puglia e della Asl Br; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza del giorno 30 aprile 2020, tenuta nelle forme di cui all’art. 84 del d.l. n. 18/2020, il Cons. Raffaello Sestini; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1 – La controversia in esame si inserisce in un più ampio contenzioso riguardante la procedura aperta indetta da Innovapuglia S.p.A., quale soggetto aggregatore della Regione Puglia, per l’affidamento del servizio di ossigenoterapia domiciliare a lungo termine per i fabbisogni delle Aziende Sanitarie della medesima Regione. La gara, da aggiudicarsi secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (70 punti massimi per la qualità e 30 punti massimi per il prezzo), era articolata in 6 lotti per approvvigionare le 6 ASL della Regione mediante la stipula, da parte di Innovapuglia S.p.A, di 6 convenzioni quadro di durata biennale per l’effettuazione degli ordini da parte delle Aziende Sanitarie interessate 1.1 – Quanto ai contenuti della gara, le prestazioni richieste per ogni lotto comprendevano, in particolare, la fornitura periodica e la consegna di ossigeno terapeutico allo stato liquido in appositi contenitori criogenici, unità base e unità portatile, forniti in comodato d’uso gratuito; la fornitura e la consegna dei materiali di consumo e accessori occorrenti per l’espletamento del servizio; il servizio di assistenza tecnica e di manutenzione ordinaria e straordinaria; la sanificazione periodica dei contenitori criogenici; l’informazione e la formazione dei pazienti e degli assistenti sul corretto utilizzo delle apparecchiature; l’attivazione di un Call Center; l’applicativo informatico per la gestione del paziente e della fornitura di ossigeno comprendente tutti i dati richiesti del flusso informativo mensile obbligatorio nonché il ritiro delle apparecchiature e dell'eventuale materiale residuo. 1.2 – Quanto al prezzo, erano previsti due prezzi unitari a base d’asta, con obbligo di un identico sconto per entrambi: € 1,30/giorno per i servizi riferiti alla dispensazione domiciliare dell’ossigenoterapia; € 1,50/mc -quale prezzo medio stimato tra i prezzi attualmente praticati a livello nazionale, onnicomprensivo dei costi annessi per i materiali di consumo – per l’ossigeno liquido. 2 - Alcune imprese (in particolare, l’appellante Vivisol S.r.l., Medicair Sud S.r.l., Puglia Life S.r.l.) impugnavano davanti al TAR per la Puglia la lex specialis di gara, presentando istanza di decreto inaudita altera parte, per non dover presentare la propria offerta, ma tali istanze venivano rigettate. Anche esse presentavano pertanto offerte: l’odierna appellante Vivisol, in ATI con Medicair Sud, (che proponeva separato ricorso e poi separato appello) Puglia Life (che proponeva, anche essa, separato ricorso e poi separato appello) in ATI con Sapio Life S.r.l. (che interveniva ad adiuvandum in grado di appello). 2.1 - Il TAR rigettava le istanze cautelari e respingeva i tre ricorsi nel merito, con compensazione delle spese di lite tra le parti, con tre separate sentenze tutte impugnate in appello. Quella che definiva il ricorso di Vivisol SRl veniva impugnata con l’appello in epigrafe. 2.2 - Venivano altresì estromessi dalla gara i RTI formati da Sico - Società Italiana Carburo Ossigeno S.p.a. e Domolife S.r.l. per violazione dell’obbligo posto dalla lex specialis di gara di partecipazione nella stessa forma (individuale o associata) e composizione (in caso di RTI). I provvedimenti di esclusione venivano ritenuti legittimi dal TAR, dando atto del vincolo imposto dalla lex specialis di gara, con separate sentenze parimenti appellate dalle imprese interessate e decise da questa Sezione nella medesima udienza. 3 - Nel presente giudizio di appello, in particolare, l’appellante Vivisol, che nel frattempo è risultata aggiudicataria provvisoria per due lotti in ATI con Medicair Sud, da un lato, la Regione Puglia e la stazione appaltante Innovapuglia dall’altro, hanno ampiamente dibattuto mediante un ripetuto scambio di memorie. E’ inoltre intervenuta l’ASL BR. Infine, con memoria del 28 aprile 2020 Innovapuglia, replicando alla memoria di Vivisol del giorno precedente, ha chiesto la pubblicazione anticipata del dispositivo di sentenza ai sensi dell’art. 120, commi 9 e 11, c.p.a. 4 – Ai fini della decisione del giudizio, devono essere preliminarmente decise le dedotte eccezioni concernenti l’ammissibilità e la procedibilità del ricorso, che vengono messe in dubbio dalle parti resistenti (e cioè dalla Regione Puglia e in modo più analitico da Innovapuglia SpA) in ragione della avvenuta partecipazione dell’impresa alla gara e del suo posizionamento in ATI come prima in graduatoria in relazione a due lotti (numero massimo di lotti aggiudicabili al medesimo soggetto secondo le previsioni di gara), per i quali ha altresì già ottenuto l’aggiudicazione provvisoria, di modo che non potrebbe lucrare, anche in caso di accoglimento del gravame, alcuna ulteriore utilità meritevole di tutela in sede giurisdizionale. 4.1 – Le predette eccezioni non possono peraltro essere accolte. Infatti, la presentazione dell’offerta non pregiudica la perduranza dell’interesse a coltivare la lite diretta all’annullamento dell’intera gara (Consiglio di Stato, Sez. V, 25/11/2019, n. 8037), in quanto l’offerta (per quanto irrevocabile) resta comunque destinata ad essere travolta dall’annullamento in toto della gara, richiesto dalla ricorrente. Inoltre, Innovapuglia non ha ancora adottato il provvedimento di aggiudicazione definitiva che avrebbe fatto acquisire all’impresa il diritto di eseguire la prestazione. 5 - Nel merito, secondo l’appellante il TAR avrebbe errato nel respingere il ricorso di primo grado, non avvedendosi che la lex specialis di gara per come formulata non aveva consentito la presentazione di un’offerta ponderata, aveva imposto un prezzo non remunerativo sottoposto ad uno sconto incongruo ed aveva compromesso l’autonomia imprenditoriale delle imprese partecipanti, condizionandole a partecipare per tutti i lotti nella stessa forma e composizione. Come sarà di seguito argomentato, le predette censure non risultano peraltro fondate, dovendo pertanto trovare conferma la decisione negativa già adottata dal TAR nel giudizio di primo grado. 5.1 – Con il primo motivo di ricorso vengono dedotte le seguenti censure: errores in iudicando in punto di violazione degli artt. 2, 3, 41 e 97 Cost.; violazione degli artt. 30 e 95 d.lgs. n. 50/2016; violazione degli artt. 1337 e 1338 c.c.; violazione dell’autonomia negoziale, della libertà imprenditoriale, del principio di libera concorrenza, nonché del principio di buon andamento dell’azione amministrativa; eccesso di potere per illogicità e irragionevolezza manifesta. 5.1.1 - La legge di gara avrebbe, infatti, previsto una soglia di sbarramento obiettivamente troppo elevata e quindi irragionevole (con un minimo di 42 punti sui 70 punti massimi attribuibili all’offerta tecnica). Oltretutto, il coefficiente più basso, pari a 0, illogicamente non sarebbe assegnato all’offerta che per il relativo item è stimata insufficiente, ma all’offerta “rispondente ai requisiti senza elementi migliorativi” ovvero all’offerta sufficiente. Si aggiungerebbe l’inafferrabilità dei criteri di valutazione delle offerte, che rimetterebbero alla Commissione giudicatrice un potere di scelta illimitata vietato dall’art. 95 d.lgs. n. 50/2016. Sarebbe quindi stato impossibile fare stime dei comportamenti dei competitors in una logica concorrenziale, e quindi compiere valutazioni appropriate di convenienza economica e tecnica. Non basterebbe in altri termini per chi partecipa vincere, ma vincere nel migliore dei modi. 5.1.2 - La doglianza non è però suffragata da specifiche e puntuali argomentazioni atte a dimostrare da un lato, la irragionevole genericità dei criteri di valutazione, che offrono invece al valutatore una ampia e puntuale scala di valori in relazione alle prestazioni di ogni offerta e, dall’altro, la irragionevolezza della prevista soglia di sbarramento, ovvero che una offerta con un punteggio tecnico inferiore al minimo prestabilito avrebbe comunque potuto assicurare lo svolgimento di un servizio di fornitura compatibile con l’interesse pubblico di tutela del diritto alla salute dei pazienti perseguito dall’Amministrazione. Tale ultima censura, inoltre, nei fatti è smentita dalla stessa circostanza che non solo l’appellante, bensì tutte le imprese concorrenti, hanno superato tale soglia. La sentenza appellata chiarisce altresì che il valore zero corrisponde alle specifiche minime di ogni profilo prestazionale e che, quindi, correttamente non vengono accettati giudizi inferiori a quello corrispondente allo zero perché sotto di esso l’offerta è carente dei requisiti minimi, e quindi da escludere tout court. In realtà, come ampiamente chiarito dal giudice di prime cure, la disciplina di valutazione delle offerte tecniche non palesa il lamentato carattere arbitrario, in quanto la componente discrezionale del punteggio tecnico è disciplinata e limitata da una griglia di valutazione espressiva del puntuale giudizio tecnico su ogni singolo aspetto qualitativo dell’offerta. I coefficienti valutativi della griglia di valutazione sono a propria volta frutto di una preventiva individuazione dei criteri di valutazione affidata a parametri che definiscono gli aspetti prestazionali in modo specifico e chiaro. E’ stato quindi consentito agli operatori economici concorrenti di fare le proprie scelte, esercitando la propria libertà e responsabilità d’impresa, ai fini della emersione della migliore offerta nell’ambito di un mercato regolato ma realmente concorrenziale. 5.2 – Con il secondo motivo di ricorso vengono dedotte le seguenti censure: errores in procedendo in punto di omessa pronuncia e denegata giustizia; errores in iudicando in punto di: violazione degli artt. 2, 3, 41 e 97 Cost.; violazione degli artt. 30 e 95 d.lgs. n.50/2016; violazione degli artt. 1337 e 1338 c.c.; violazione del combinato disposto di cui agli artt. 1, co. 1, lett. oo), 85 e 105 d.lgs. n. 219/2006; violazione del principio del clare loqui; violazione dell’autonomia negoziale, della libertà imprenditoriale, del principio di libera concorrenza, nonché del principio di buon andamento dell’azione amministrativa; eccesso di potere per illogicità e irragionevolezza manifesta per ulteriori profili rispetto a quelli di cui al primo motivo. 5.2.1 - Si deduce, in particolare, l’irragionevolezza e quindi la ingiustizia manifesta di alcuni criteri di valutazione, in violazione della disciplina di riferimento e, più in generale, delle garanzie costituzionali che presidiano al libero esercizio dell’attività d’impresa. Sono contestati, in particolare, i punteggi tabellari relativi alle soluzioni migliorative previsti in relazione ai tempi di consegna e di installazione domiciliare, (0 punti: 12 ore, 1 punto: da 9 ore a 11 ore, 2 punti: da 6 ore a 8 ore, 3 punti: da 3 ore a 5 ore, 5 punti: meno di 3 ore) e di manutenzione straordinaria (0 punti: entro 2 ore, 5 punti: entro 1 ora). Si obietta al riguardo l’impraticabilità di entrambi i punteggi per la diversa estensione del territorio, comunque troppo ampio rispetto ai tempi previsti, da servire e per l’obbligo da capitolato tecnico di verificare preventivamente la presenza dell’assistito presso il domicilio entro le dodici ore solari, con consegne da effettuarsi di mattina o di pomeriggio. Il punteggio quantitativo relativo al numero di automezzi dedicati al servizio, inoltre, sarebbe irragionevole in assenza dell’indicazione del punteggio minimo da assicurare. 5.2.2 - Neppure le censure in esame si rivelano però fondate, Infatti, così come rilevato dal giudice di prime cure, l’abbattimento dei tempi oltre il limite della consegna entro le dodici ore solari viene del tutto ragionevolmente considerato come un indice di maggiore efficienza del servizio e di maggiore prossimità all’utente anche quanto alla verifica delle sue esigenze relative ai tempi e modi di fornitura, che determina correttamente una più favorevole valutazione della relativa offerta. Per quanto concerne poi i tempi di manutenzione straordinaria, esattamente il giudice di prime cure obietta l’infondatezza delle censure sollevate, dipendendo la maggiore rapidità di intervento per ogni singolo lotto in competizione, e quindi per ogni contesto territoriale omogeneo di riferimento relativo ad una ASL, da una migliore organizzazione aziendale della società e, quindi, dalla quantità e disseminazione dei punti di assistenza e degli addetti sul territorio. In particolare, quanto alla valutazione del numero degli automezzi in assenza di alcuna indicazione circa il numero minimo, in mancanza di una diversa applicazione deve ragionevolmente presupporsi, ancora in applicazione di un principio di libertà e quindi di responsabilità d’impresa, che il numero minimo consista semplicemente in un automezzo, soccorrendo ad integrazione il descritto criterio temporale. Analoghe considerazioni valgono per il punteggio qualitativo afferente ai materiali di consumo, visto che il concorrente, in forza del capitolato, deve in ogni caso garantire un certo quantitativo medio annuo per paziente ed inoltre dotare il paziente “senza oneri aggiuntivi” degli ulteriori materiali che siano comunque richiesti dallo specialista pneumologo prescrittore, ma può inoltre lucrare un maggiore punteggio discrezionale (massimo pari a 4 punti), offrendo una migliore qualità, rispetto ai requisiti minimi, dei materiali che deve comunque mettere a disposizione. I criteri in esame, dunque, non sono in astratto irragionevoli, né l’appellante dimostra che ne sia stata fatta una irragionevole applicazione. 5.3 – Con il terzo motivo di ricorso vendono dedotte le seguenti censure: errores in procedendo in punto di omessa pronuncia e denegata giustizia; errores in iudicando in punto di; violazione del combinato disposto di cui agli artt. 1, co. 1, lett. oo) e 85 d.lgs. n. 219/2006; violazione degli artt. 1, co. 796, lett. g), l. n. 206/2006 e 11, co. 6, d.l. n. 78/2010, nonché dell’art. 15 d.l. n. 95/2012. 5.3.1 – Si deduce che il criterio di valutazione dell’offerta tecnica costituito dalle modalità di registrazione della quantità di ossigeno presente nel contenitore al momento della consegna e del ritiro del recipiente sarebbe illogico e confliggerebbe con la normativa in materia, essendo l’ossigeno un farmaco che, in quanto tale, va necessariamente venduto a confezione, non rilevando i residui (non utilizzabili ma da smaltire) del contenitore. Si contesta inoltre l’obbligo di indicare i prezzi a base d’asta distinti per le prestazioni di servizi e di fornitura (€ 1,30 prezzo/giornata per i servizi; € 1,50 –erroneamente- per mc ossigeno anziché per contenitore) per poi dover effettuare un unico ribasso, con uno sconto unico per prestazioni eterogenee e diversamente remunerate, suscettibile di indurre il concorrente ad effettuare inevitabili compensazioni tra due valori disomogenei tra loro, inficiando la trasparenza della contabilità d’impresa. Inoltre inserire nel prezzo ossigeno liquido anche il costo dei materiali di consumo comporterebbe rimborsi maggiori di quelli in realtà dovuti in base al regime di pay-back, con grave nocumento economico, con introduzione di scenari futuri non dominabili circa la misura della contribuzione dovuta al ripianamento del deficit sanitario. 5.3.2 – Neppure la censura in esame merita accoglimento, in quanto il giudice di prime cure in realtà ha ampiamente chiarito l’appropriatezza della misurazione della quantità di ossigeno fornita in metri cubi, che non incide affatto sulla modalità di fornitura del prodotto ossigeno in contenitori pressurizzati e sulla conseguente contabilizzazione economica, e che risponde invece alla ragionevole esigenza di monitorare i consumi ai fini della verifica della economicità ed efficienza del servizio, posto a carico delle risorse pubbliche, e della puntuale programmazione futura dei relativi fabbisogni, fermo restando il pagamento della fornitura in base ai contenitori consegnati indipendentemente dal fatto che siano stati o meno integralmente utilizzati –ed anzi proprio in ragione, secondo il principio di imparzialità e buon andamento sancito dall’art. 97 della Costituzione, della circostanza che il pagamento avviene in base alla fornitura dei contenitori indipendentemente dal fatto che siano stati o meno integralmente utilizzati. Per le medesime considerazioni, non irragionevoli risultano sia il contestato obbligo di indicare distintamente i prezzi a base d’asta relativi alle attività di fornitura presso le abitazioni e alle attività di servizio rese agli utenti (necessariamente contabilizzate secondo parametri diversi: prezzo per quantità di prodotto –comprensivo dell’ossigeno e dei connessi materiali di consumo- e prezzo per tempo di lavoro), sia l’ulteriore e contestato obbligo di offrire un unico sconto percentuale dei due prezzi così determinati, in quanto riferiti a prestazioni diverse ma evidentemente connesse, essendo anche in questo caso rimessa alla libertà e conseguente responsabilità d’impresa la formulazione della migliore offerta atta a garantire, con il minor dispendio di risorse pubbliche, il pieno raggiungimento delle finalità d’interesse pubblico generale perseguite dall’Amministrazione. Conclusivamente, l’appellante non riesce a dimostrare la irragionevolezza dei citati criteri, e neppure riesce a dimostrare, così come acclarato dal giudice di primo grado, che dalla loro pretesa irragionevole applicazione siano derivati un nocumento economico per l’appellante ovvero una alterazione della par condicio in suo danno rispetto agli altri partecipanti, essendo rimessa alla autonomia imprenditoriale dei concorrenti la duplice scelta circa le compensazioni da effettuare e lo sconto unitario da offrire.ai fini della formulazione di un prezzo finale capace di compensare la fornitura, il servizio e gli oneri accessori alla migliori condizioni di un mercato regolato ma realmente concorrenziale, alla stregua dei principi di imparzialità, buon andamento e tutela della salute sanciti dalla Costituzione. 5.4 – Con il quarto motivo di ricorso vengono dedotte le seguenti censure: mancata individuazione come per legge (art. 23, co. 16, d.lgs. n. 50/2016) a cura della Stazione appaltante dei costi della manodopera; errores in iudicando in punto di: violazione dell’art. 23, co. 16, d.lgs. n. 50/2016; violazione del principio del clare loqui; violazione degli artt. 2, 3, 41 e 97 Cost.; violazione degli artt. 30 e 95 d.lgs. n. 50/2016; violazione degli artt. 1337 e 1338 c.c..; violazione dell’autonomia negoziale, della libertà imprenditoriale, del principio di libera concorrenza, nonché del principio di buon andamento dell’azione amministrativa. 5.4.1 – Si contesta con tale motivo la lacunosità della lex specialis di gara, che, difformemente da quanto previsto dall’art. 23, co. 16, del codice dei contratti pubblici, non avrebbe individuato i costi della manodopera. 5.4.2 – Peraltro, così come evidenziato dal giudice di prime cure, la lex specialis deve essere integrata dalla previsione di cui all’art. 95, co. 10, d.lgs. n. 50/2016, sicché comunque compete a ciascun offerente indicare i costi della manodopera, essendo anche in questo caso rimessa alla libertà e responsabilità dell’impresa la valutazione dei costi mediante una analitica previsione e contabilizzazione delle diverse attività lavorative necessarie al fine di garantire la fornitura del servizio di ossigenoterapia in esame nel rispetto degli obblighi normativi di tutela dei lavoratori, dai quali l’impresa non potrà comunque esimersi in sede di esecuzione del contratto. Era quindi il concorrente che doveva stimare i costi delle prestazioni lavorative di vario tipo ritenute necessarie per l’esecuzione del contratto in esame, qualificato dalla stessa stazione appaltante in sede di chiarimenti quale contrato di fornitura con alcuni servizi accessori, prima di predisporre una propria offerta conforme alle previsioni di legge. 5.5 – Con il quinto motivo di ricorso vengono dedotte le seguenti censure: errores in iudicando in punto di: violazione degli artt. 2, 3, 41 e 97 Cost. ; violazione degli artt. 1337 e 1338 c.c.; violazione dell’autonomia negoziale, della libertà imprenditoriale, del principio di libera concorrenza, nonché del principio di buon andamento dell’azione amministrativa per altri profili. 5.5.1 – Le censure in esame fanno riferimento al software che, secondo le previsioni di gara, dovrà essere messo a disposizione dalla ditta aggiudicataria ai fini della integrazione della contabilità del servizio di fornitura in esame con il nuovo sistema informativo amministrativo-contabile regionale (MOSS) unico e integrato per tutte le Aziende Sanitarie Locali, trattandosi di un obbligo incerto nei tempi e nella sua quantificazione economco-finanziaria in ragione della mancata conoscenza della futura piattaforma applicativa sviluppata in logica ERP (Enterprise Resource Planning) centralizzata e della correlata integrazione del software che occorrerà mettere a disposizione.. 5.5.2 – Peraltro, così come evidenziato dal giudice di prime cure, la censura non appare né conferente né, in ogni caso, dirimente, in quanto l’adeguamento amministrativo della contabilità dell’offerente alla piattaforma applicativa amministrativo-contabile del committente attiene ai normali oneri di diligenza e buona fede connessi all’esecuzione del contratto. La questione, quindi, concerne gli oneri ragionevolmente prevedibili da ciascuna impresa, nell’ambito delle proprie spese generali e di ammodernamento, per la fase, successiva a quella di gara, di realizzazione delle prestazioni contrattuali per le quali concorre. Ogni impresa deve, quindi, procedere, come d’uso, alla loro stima e quantificazione in sede di offerta avvalendosi, ove disponibili, delle eventuali indicazioni della stazione appaltante che, in questo caso, ha debitamente messo per tempo a disposizione di tutti i concorrenti le relative informazioni, nell’ambito di una esigenza di coordinamento unitario amministrativo-contabile regionale la cui ragionevolezza non può essere revocata in dubbio. 5.6 – Con il sesto motivo di ricorso vengono dedotte le seguenti censure: error in iudicando in punto di violazione e falsa applicazione degli artt. 45 e 48 d.lgs. n. 50/2016; violazione degli artt. 2, 3, 41 e 97 Cost.; violazione dell’autonomia negoziale e della libertà imprenditoriale. 5.6.1 – La doglianza in esame è riferita all’art. 2 del disciplinare di gara, il quale prevede che “l’operatore economico che intende partecipare a più lotti è tenuto a presentarsi sempre nella medesima forma (individuale o associata) ed in caso di R.T.I. o Consorzi, sempre con la medesima composizione, pena l'esclusione del soggetto stesso e del concorrente in forma associata cui il soggetto partecipa”, combinandosi con il limite di aggiudicazione a due lotti. La predetta previsione applicherebbe, quindi, ad una gara per l’affidamento di un contratto plurimo articolato in più lotti da considerare, per costante giurisprudenza, contrattualmente separati, una limitazione prevista invece per garantire l’autonomia e l’indipendenza fra una pluralità di offerte attinenti alla medesima gara. Ciò comporterebbe una indebita e quindi illegittima violazione dell’autonomia negoziale e della libertà imprenditoriale delle singole imprese, ed in particolare delle piccole imprese, in quanto tali principi postulano, invece, la possibilità per le imprese di partecipare liberamente alle diverse procedure negoziali singolarmente o in ATI con altri operatori, anche al fine di competere con i concorrenti di maggiori dimensioni. 5.6.2 – Neppure la censura in esame risulta fondata. Premette il Collegio che, così come riconosciuto dal giudice di prime cure, la limitazione di un numero massimo di lotti (due) aggiudicabili al medesimo offerente risponde, secondo le previsioni dell’art. 51 del codice dei contratti, alle medesime ragioni di tutela della libertà d’iniziativa economica e di concorrenza da indebite rendite oligopolistiche che postulano la suddivisione dei contratti in più lotti, e quindi risulta pienamente legittima. In tale quadro, l’ulteriore previsione che le offerte per più lotti messi a gara debbano essere presentate nella medesima forma individuale o associata e, in caso di RTI, con la medesima composizione risponde alla ragionevole esigenza d’interesse pubblico generale di garantire, da un lato, la correttezza e genuinità, e quindi la piena concorrenzialità fra loro, delle offerte riferite ad un’unica gara e, dall’altro, la univocità e serietà dell’impegno contrattuale assunto dai partecipanti alla medesima gara in sede di esecuzione dei singoli adempimenti contrattuali riferiti ai diversi lotti, ovvero alle diverse ASL della Regione Puglia, senza poter in ipotesi “triangolare” le responsabilità fra compagini societarie ed associative diverse. L’unitarietà della gara emerge, così come dedotto dal giudice di prime cure, dalla unicità della Commissione esaminatrice, dall’identità, per tutti i lotti, dei requisiti richiesti dal bando e degli elementi di valutazione dell'offerta tecnica di cui all’allegato 2 al disciplinare, dalla possibilità di produrre un’unica offerta telematica per più lotti, dall’identità, per tutte le Asl, delle modalità di prestazione del servizio e delle prestazioni richieste ed, inoltre, dall’integrazione telematica riferita alla esecuzione di tutti gli adempimenti negoziali conseguenti. Vengono, a tale ultimo riguardo, in rilievo le stesse deduzioni svolte dall’appellante per il precedente motivo di censura con riferimento al software che deve essere messo a disposizione dalla ditta aggiudicataria, quando convengono che la Regione Puglia ha avviato una gara telematica per l’acquisizione di un sistema informativo amministrativo-contabile, unico e integrato per le Aziende Sanitarie Locali, basato su una piattaforma applicativa sviluppata in logica ERP (Enterprise Resource Planning) centralizzata e che ad avvio del suddetto sistema informativo amministrativo- contabile (MOSS), dovrà essere prevista l’integrazione delle gestioni contabili di tutte le aggiudicatarie dei diversi lotti a garanzia di una gestione integrata ed unitaria del servizio di ossigenoterapia svolto in ambito regionale per ciascuna delle diverse ASL. La limitazione in esame quindi non è illegittima e non pregiudica l’autonomia privata dei concorrenti, trattandosi non di una gara ad oggetto plurimo suddiviso in lotti di diverso contenuto caratterizzati da una propria autonomia - e quindi gestibili in modo diverso dalle imprese aggiudicatarie - bensì di una gara unitaria rivolta alla fornitura di un medesimo servizio in aree territoriali diverse, con conseguente articolazione in lotti - corrispondenti ai diversi soggetti preposti alla tutela della relativa prestazione nei confronti degli utenti finali - che prelude a un sistema di gestione unitario della commessa. Alla stregua delle pregresse considerazioni risulta, dunque, legittima non solo la limitazione del numero massimo di lotti attribuibili allo stesso partecipante (prescrizione volta a favorire la concorrenza ex art. 51, commi 2 e 3, d.lgs. n. 50/2016), bensì anche il vincolo di partecipazione ai diversi lotti nella stessa forma e composizione, in quanto volto a garantire sia la corretta competizione fra le offerte riferite ai diversi lotti, sia la piena ed univoca responsabilità dei vincitori per l’adempimento delle specifiche obbligazioni nascenti dalla medesima gara in relazione ai diversi lotti. Tali finalità trovano, pertanto, un ulteriore specifico fondamento, nella fattispecie in esame, nell’esigenza di tutela del diritto alla salute dei pazienti del servizio sanitario regionale ai sensi dell’art. 32 Cost. oltrechè nei principi di imparzialità e buon andamento dell’attività ammnistrativa di cui all’art. 97 Cost. Risultano, inoltre, coerenti con l’invocato principio di libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost., che postula un mercato regolato a garanzia del pieno dispiegarsi del principio di libera concorrenza, principio che peraltro trova, in questo caso, specifica tutela proprio nelle regole di gara ora esaminate, e in particolare nel limite di aggiudicazione di due lotti rispetto ai sei messi in gara, trattandosi di regole volte a consentire alle imprese “new comers” di concorrere ad armi pari con gli operatori economici dominanti di uno specifico segmento di mercato, con potenziali evidenti ricadute positive sulla qualità del servizio e sul suo costo posto a carico della comunità. 6 - Conclusivamente l’appello deve essere respinto, con pubblicazione anticipata del dispositivo come richiesto da Innovapuglia S.p.A., e, per l’effetto, deve trovare conferma l’appellata sentenza di reiezione del TAR. Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza, nella misura liquidata in dispositivo, nei rapporti fra l’impresa appellante soccombente , la Regione Puglia e la stazione appaltante Innovapuglia S.p.A., mentre possono essere compensate quanto ai rapporti fra i medesimi soggetti e l’ASL BR, in considerazione del carattere formale delle difese di quest’ultima. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l’impresa appellante a rifondere alla Regione Puglia e a Innovapuglia S.p.A. in parti uguali le spese del presente grado di giudizio, che vengono complessivamente liquidate in Euro 10.000,00 (diecimila) oltre IVA, CPA e accessori. Compensa le spese nei confronti della Asl Br, vista la difesa meramente formale. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 aprile 2020 con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere, Estensore Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Contratti della pubblica amministrazione – Lotti - Numero massimo di lotti aggiudicabili e necessità che le offerte per più lotti messi a gara siano presentate nella medesima forma individuale o associata – Legittimità.      In sede di gara per l’affidamento della fornitura domiciliare di ossigenoterapia sono legittime le previsioni relative alla limitazione di un numero massimo di lotti (due) aggiudicabili al medesimo offerente e alla necessità che le offerte per più lotti messi a gara siano presentate nella medesima forma individuale o associata e, in caso di RTI, con la medesima composizione (1).   (1) Ha chiarito la sentenza che la prima previsione relativa alla limitazione di un numero massimo di lotti (due) aggiudicabili al medesimo offerente risponde, secondo le previsioni dell’art. 51 del codice dei contratti, alle medesime ragioni di tutela della libertà d’iniziativa economica e di concorrenza da indebite rendite oligopolistiche che postulano la suddivisione dei contratti in più lotti, e quindi risulta pienamente legittima. La seconda previsione relativa alla necessità che le offerte per più lotti messi a gara siano presentate nella medesima forma individuale o associata e, in caso di RTI, con la medesima composizione risponde alla ragionevole esigenza d’interesse pubblico generale di garantire, da un lato, la correttezza e genuinità, e quindi la piena concorrenzialità fra loro, delle offerte riferite ad un’unica gara e, dall’altro, la univocità e serietà dell’impegno contrattuale assunto dai partecipanti alla medesima gara in sede di esecuzione dei singoli adempimenti contrattuali riferiti ai diversi lotti senza poter in ipotesi “triangolare” le responsabilità fra compagini societarie ed associative diverse. L’unitarietà della gara emerge, così come dedotto dal giudice di prime cure, dalla unicità della Commissione esaminatrice, dall’identità, per tutti i lotti, dei requisiti richiesti dal bando e degli elementi di valutazione dell'offerta tecnica previsti dal disciplinare, dalla possibilità di produrre un’unica offerta telematica per più lotti, dall’identità, per tutte le Asl, delle modalità di prestazione del servizio e delle prestazioni richieste ed, inoltre, dall’integrazione telematica riferita alla esecuzione di tutti gli adempimenti negoziali conseguenti. La limitazione in esame quindi non è illegittima e non pregiudica l’autonomia privata dei concorrenti, trattandosi non di una gara ad oggetto plurimo suddiviso in lotti di diverso contenuto caratterizzati da una propria autonomia - e quindi gestibili in modo diverso dalle imprese aggiudicatarie - bensì di una gara unitaria rivolta alla fornitura di un medesimo servizio in aree territoriali diverse, con conseguente articolazione in lotti - corrispondenti ai diversi soggetti preposti alla tutela della relativa prestazione nei confronti degli utenti finali - che prelude a un sistema di gestione unitario della commessa. Alla stregua delle pregresse considerazioni risulta, dunque, legittima non solo la limitazione del numero massimo di lotti attribuibili allo stesso partecipante (prescrizione volta a favorire la concorrenza ex art. 51, commi 2 e 3, d.lgs. n. 50 del 2016), bensì anche il vincolo di partecipazione ai diversi lotti nella stessa forma e composizione, in quanto volto a garantire sia la corretta competizione fra le offerte riferite ai diversi lotti, sia la piena ed univoca responsabilità dei vincitori per l’adempimento delle specifiche obbligazioni nascenti dalla medesima gara in relazione ai diversi lotti. Tali finalità trovano, pertanto, un ulteriore specifico fondamento, nella fattispecie in esame, nell’esigenza di tutela del diritto alla salute dei pazienti del servizio sanitario regionale ai sensi dell’art. 32 Cost. oltrechè nei principi di imparzialità e buon andamento dell’attività ammnistrativa di cui all’art. 97 Cost. Risultano, inoltre, coerenti con l’invocato principio di libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost., che postula un mercato regolato a garanzia del pieno dispiegarsi del principio di libera concorrenza, principio che peraltro trova, in questo caso, specifica tutela proprio nelle regole di gara ora esaminate, e in particolare nel limite di aggiudicazione di due lotti rispetto ai sei messi in gara, trattandosi di regole volte a consentire alle imprese new comers di concorrere ad armi pari con gli operatori economici dominanti di uno specifico segmento di mercato, con potenziali evidenti ricadute positive sulla qualità del servizio e sul suo costo posto a carico della comunità.
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/effetti-della-sentenza-della-corte-costituzionale-n.-10-del-2015-sulla-robin-hood-tax
Effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2015 sulla Robin Hood Tax
N. 01602/2021REG.PROV.COLL. N. 10126/2018 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10126 del 2018, proposto da OIL ITALIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Giorgio Azzalini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro AUTORITÀ DI REGOLAZIONE PER ENERGIA RETI E AMBIENTE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Milano, n. 1882 del 2018; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza pubblica del giorno 14 gennaio 2021 il Cons. Dario Simeoli; L’udienza si svolge ai sensi dell’art.4, comma 1, del decreto-legge n. 28 del 30 aprile 2020 e dell’art. 25, comma 2, del decreto-legge n. 137 del 28 ottobre 2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo della piattaforma “Microsoft teams”, come previsto dalla circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1.‒ L’appellante Oil Italia s.r.l. (di seguito: “Società”) ‒ operante nel settore petrolifero e proprietaria di una rete di distributori di carburanti ubicati su tutto il territorio italiano ‒ deduce quanto segue: - l’art. 81, commi 16, 17 e 18 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma1, della legge 6 agosto 2008 n. 133, aveva imposto un prelievo fiscale ulteriore, nell’ambito dell’imposta sul reddito delle società (IRES), qualificato come addizionale (cd. “Robin Hood Tax”), pari al 5,5% da applicarsi ad alcuni operatori del settore della commercializzazione di petroli e gas che avessero registrato ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo d’imposta precedente; - la predetta misura fiscale era stata accompagnata dall’imposizione del divieto di traslazione dell’imposta sui prezzi al consumo, disponendo che sul rispetto di detta prescrizione vigilasse l’Autorità per l’energia elettrica e il gas, oggi Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (di seguito: “Autorità”); - con la deliberazione 394/2012/E/RHT del 27 settembre 2012, l’Autorità disciplinava l’attività di vigilanza sulla puntuale osservanza del divieto di traslazione sui prezzi al consumo della maggiorazione d’imposta di cui all’art. 81, comma 18, del decreto-legge n. 112 del 2008; - con la successiva deliberazione 70/2013/E/RHT, recante l’intimazione ad adempiere agli obblighi informativi in materia di traslazione della maggiorazione IRES sui prezzi al consumo, l’Autorità precisava che l’invio delle informazioni e dei documenti sarebbe dovuto avvenire entro e non oltre 60 giorni dal ricevimento del provvedimento, pena l’avvio di un procedimento sanzionatorio ai sensi dell’art. 2, comma 20, lettera c), della legge n. 481 del 1995; - la Società, ritenendo di non esser tenuta ad alcuna comunicazione all’Autorità, in quanto non soggetta alla “Robin Hood Tax”, non effettuava alcuna trasmissione dei dati e delle informazioni contabili richieste, ad eccezione di quelli di cui ai commi 3 e 4 dell’articolo 3 della predetta deliberazione 394/2012/E/RHT, con riferimento all’anno di esercizio 2007, e di quelli di cui al comma 3 dello stesso articolo 3, con riferimento all’anno di esercizio 2008; - sul presupposto contrario che la Società fosse invece tenuta al rispetto del predetto divieto, con deliberazione 426/2013/S/RHT del 3 ottobre 2013, l’Autorità deliberava l’avvio di un procedimento per l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’art. 2, comma 20, lettera c), della legge n. 481 del 1995, determinata nella misura di € 57.000,00; - in data 15 novembre 2013, la Società completava la trasmissione dei dati mancanti; - nel frattempo, con sentenza n. 10 del 2015, la Corte Costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18 del decreto-legge n. 112 del 2008, per violazione degli art. 3 e 53 della Costituzione; - con deliberazione 482/2016/S/RHT dell’8 settembre 2016, l’Autorità, accertata la mancata ottemperanza agli obblighi informativi previsti dalla deliberazione 394/2012/E/RHT, deliberava di irrogare nei confronti della Società una sanzione amministrativa pecuniaria pari ad € 40.000,00; - la Società impugnava quindi il citato provvedimento sanzionatorio, ma il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, con sentenza n. 1882 del 2018, rigettava il ricorso. 2.‒ Avverso la predetta sentenza ha proposto appello la Società, riproponendo nella sostanza i motivi di impugnazione già sollevati in primo grado, sia pure adeguati all’impianto motivazione della sentenza appellata. In particolare, secondo l’appellante: a) essendo stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’obbligo di corrispondere l’addizionale IRES per il settore petrolifero ed energetico prevista dall’art. 81, commi 16, 17 e 18 del decreto-legge n. 112 del 2008, sarebbe venuto meno lo stesso presupposto per l’applicazione dei connessi illeciti amministrativi, anche in forza di quanto previsto dall’art. 3, comma 2, del decreto legislativo n. 472 del 1997; il giudice di primo grado avrebbe mancato di considerare adeguatamente gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 81 citato, posto che la Corte costituzionale, in punto “modulazione degli effetti temporali della decisione”, si sarebbe espressa unicamente nel senso della irripetibilità dei versamenti tributari già compiuti e non sulla perdurante vigenza del tributo e, a maggior ragione, del potere di vigilanza dell’Autorità; la sentenza appellata risulterebbe ulteriormente viziata laddove non ha fatto corretta applicazione dell’art. 30, comma 3, della legge n. 87 del 1953, il quale ha reso esplicito il divieto di assumere le norme dichiarate incostituzionali a canoni di valutazione di qualsivoglia fatto o rapporto, pur se venuto in essere anteriormente alla pronuncia della Corte e, tra i rapporti travolti dalla declaratoria di incostituzionalità, rientrerebbe anche il procedimento sanzionatorio in questione conclusosi con la deliberazione impugnata dell’8 settembre 2016; la sentenza sarebbe altresì viziata laddove non avrebbe fatto corretta applicazione del principio tempus regit actum, in base al quale la legittimità del provvedimento finale dovrebbe essere valutata con riferimento alle norme vigenti al tempo in cui è stato emanato; b) contrariamente a quanto assunto dalla sentenza gravata, la Società non sarebbe stata tenuta al rispetto degli obblighi informativi connessi alla Robin Hood Tax, in quanto non soggetta a tale tributo, e segnatamente: i dati relativi al 2010 non avrebbero dovuto essere comunicati in quanto i ricavi del 2009 erano inferiori a 25 milioni di euro; i dati relativi al 2011 non avrebbero dovuto essere comunicati in quanto, essendo nel contempo mutata la normativa di riferimento, nel 2010 la società non aveva conseguito un reddito di almeno 1 milione di euro; i dati relativi al primo semestre 2012 non avrebbero dovuto essere comunicati in quanto nel 2011 la società non aveva conseguito un reddito di almeno 1 milione; le medesime considerazioni varrebbero, peraltro, dopo l’entrata in vigore del decreto-legge, 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, con l’effetto che la vigilanza dell’Autorità si sarebbe potuto esercitare nei confronti dei soli soggetti il cui fatturato era superiore al fatturato totale di € 482.000.000, pacificamente non raggiunto dall’odierna appellante in ciascuno degli anni di riferimento dal 2007 al 2011 e anche negli anni successivi 2012 e 2013; c) le argomentazioni del giudice di primo grado sarebbero inidonee a giustificare la quantificazione della sanzione: con riguardo alla gravità della violazione, l’Autorità non avrebbe infatti tenuto conto, né motivato, in ordine al fatto che la condotta tenuta dalla odierna appellante non avrebbe comportato alcuna conseguenza lesiva, non solo perché la società, seppur tardivamente, aveva adempiuto in toto agli obblighi informativi impartitigli (in parte anche prima dell’avvio del procedimento de quo), ma anche perché dalla conoscenza delle informazioni rese era emerso la non assoggettabilità della ricorrente all’allora vigente disciplina impositiva dell’addizionale IRES; l’Autorità, inoltre, non avrebbe tenuto conto, sia della sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18 del decreto-legge n. 112 del 2008 (a seguito della quale sarebbe venuto meno il disvalore che l’ordinamento attribuisce alla condotta contestata), sia del fatto che la società non si era resa responsabile di altre violazioni di provvedimenti dell’Autorità, sia che la richiesta di produzione documentale riguardava informazioni già in possesso dell’Amministrazione finanziaria, essendo i bilanci di esercizio documenti pubblici, depositati presso la Camera di Commercio competente per territorio. 3.‒ Si è costituita in giudizio l’Autorità, insistendo per l’integrale rigetto del gravame. 4.‒ All’odierna udienza del 14 gennaio 2021, la causa è stata discussa e trattenuta in decisione. DIRITTO 1.‒ Il primo mezzo di gravame ‒ con la quale la Società insiste nel sostenere che, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, del decreto-legge n. 112 del 2008, sarebbero venuti meno i presupposti legittimanti l’irrogazione della sanzione amministrativa applicata ‒ è destituito di fondamento. 1.1.‒ Con l’art. 81, commi 16, 17 e 18, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 133 del 2008, era stato previsto – a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007 – un prelievo aggiuntivo, qualificato «addizionale» all’imposta sul reddito delle società di cui all’art. 75 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 e successive modificazioni, pari al 5,5 per cento, da applicarsi alle imprese operanti in determinati settori, tra cui la commercializzazione di benzine, petroli, gas e oli lubrificanti, che abbiano conseguito ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo di imposta precedente, ponendo a carico dei soggetti passivi il divieto di traslazione sui prezzi al consumo e affidando all’Autorità per l’energia elettrica e il gas (divenuta da ultimo Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente) il compito di vigilare e di presentare al Parlamento, entro il 31 dicembre di ogni anno, una relazione sugli effetti del tributo. Successivamente, il legislatore ha ripetutamente modificato le citate disposizioni (segnatamente con: la legge 23 luglio 2009, n. 99; il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148; il decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98; il decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 ottobre 2013, n. 125). In particolare, ferma restando la struttura dell’imposta, è stata elevata la misura dell’«addizionale» a 6,5 punti percentuali; è stata ampliata la platea dei soggetti rientranti nel campo di applicazione dell’imposta, dal momento che il legislatore ha diminuito il volume minimo di ricavi oltre il quale le società operanti nel settore rientrano fra i soggetti passivi, portandolo dagli originari 25 milioni a 10 milioni e poi a 3 milioni di euro; è stata introdotta l’ulteriore soglia del conseguimento di un reddito superiore a 1 milione di euro, poi abbassata a 300 mila euro; sono stati limitati i poteri di controllo dell’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico alle sole imprese che integrino i presupposti per l’applicazione dell’«addizionale». 1.2.‒ Con la sentenza n. 10 del 2015, la Corte costituzionale ‒ chiamata a pronunciarsi in ordine all’illegittimità costituzionale dell’articolo 81, commi 16, 17 e 18, in relazione a svariati parametri ‒ ha valutato come infondate le questioni sollevate in relazione agli articoli 77, secondo comma, e 23 della Costituzione, incentrate, rispettivamente, sull’illegittimo utilizzo del decreto-legge in assenza dei motivi di necessità e urgenza e sulla riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte, pervenendo invece al giudizio d’incostituzionalità della normativa impugnata per contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost. Le ragioni dell’incostituzionalità sono state individuate in un «vizio di irragionevolezza», in relazione all’«incongruità dei mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo, in sé e per sé legittimo, perseguito». Il fine era quello di applicare un regime fiscale differenziato ad un mercato, quale è quello dei prodotti petroliferi, molto meno esposto a subire i pregiudizi della crisi per varie ragioni, sia per le caratteristiche strutturali del mercato (in ragione del suo carattere oligopolistico e della natura inelastica della domanda), sia perché tra il 2007 e il 2008 gli operatori della filiera avevano registrato profitti record, grazie al rapidissimo aumento del prezzo del greggio. Sennonché, secondo la Corte, tale giustificazione del prelievo aggiuntivo– colpire i “sovra­profitti” conseguiti da una particolare categoria di soggetti in una particolare congiuntura economica – avrebbe dovuto tradursi nella previsione di un’imposta la cui struttura fosse coerente con quell’intento. Sintomi della non congruenza del mezzo rispetto allo scopo sono stati invece individuati: nella base imponibile, costituita dall’intero reddito anziché dai soli “sovra­profitti”; nella durata permanente, anziché contingente, dell’addizionale, «che non appare in alcun modo circoscritta a uno o più periodi di imposta, né risulta ancorata al permanere della situazione congiunturale, che tuttavia è addotta come sua ragione»; nell’inidoneità a conseguire le dichiarate finalità solidaristiche e redistributive derivante dall’«obiettiva difficoltà di isolare […] la parte di prezzo praticato dovuta a traslazioni dell’imposta» (testimoniata dalle affermazioni della stessa Autorità garante in sede di Relazione al Parlamento) e quindi di sanzionare coloro che avessero scaricato l’onere impositivo sul prezzo al consumo. 1.3.‒ In ragione delle conseguenze pratiche dell’accoglimento della questione, la Corte ha tuttavia deciso di limitare nel tempo gli effetti della sua pronuncia di accoglimento. Secondo il giudice delle leggi, il ruolo affidatogli «come custode della Costituzione nella sua integralità impone di evitare che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge determini, paradossalmente, “effetti ancor più incompatibili con la Costituzione” (sentenza n. 13 del 2004) di quelli che hanno indotto a censurare la disciplina legislativa. Per evitare che ciò accada, è compito della Corte modulare le proprie decisioni, anche sotto il profilo temporale, in modo da scongiurare che l’affermazione di un principio costituzionale determini il sacrificio di un altro». Su queste basi, la Corte ha aggiunto che, nel caso di specie, «l’applicazione retroattiva della presente declaratoria di illegittimità costituzionale determinerebbe anzitutto una grave violazione dell’equilibro di bilancio ai sensi dell’art. 81 Cost.» e che «l’impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari connesse alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 81, commi 16, 17 e 18, del d.l. n. 112 del 2008, e successive modificazioni, determinerebbe, infatti, uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venire meno al rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale (artt. 11 e 117, I comma, Cost.) e, in particolare, delle previsioni annuali e pluriennali indicate nelle leggi di stabilità in cui tale entrata è stata considerata a regime». La rimozione retroattiva della normativa impugnata ingenererebbe inoltre una «irragionevole redistribuzione della ricchezza a vantaggio di quegli operatori economici che possono avere invece beneficiato di una congiuntura favorevole» con un conseguente «irrimediabile pregiudizio delle esigenze di solidarietà sociale con grave violazione degli artt. 2 e 3 Cost.» e un «indebito vantaggio che alcuni operatori economici del settore», pregiudizievole degli artt. 3 e 53 della Costituzione. Conclusivamente, dopo aver fatto cenno alla comparazione con alcune Corti costituzionali europee per le quali il contenimento degli effetti retroattivi delle sentenze di accoglimento costituisce «prassi diffusa», la Corte ha ritenuto «costituzionalmente necessaria» disporre la decorrenza degli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale (avvenuta il giorno stesso del deposito in Cancelleria, e cioè in data 11 febbraio 2015). La pronuncia della Corte costituzionale in commento non si configura nei termini di un’incostituzionalità «sopravvenuta» (la quale, a rigore, si verifica quando una determinata disciplina, conforme al dettato costituzionale al momento della sua entrata in vigore, è divenuta incostituzionale solo successivamente, a seguito del sopraggiungere di avvenimenti posteriori), bensì limita l’efficacia retroattiva della incostituzionalità realizzatasi ab origine, attraverso un bilanciamento tra valori o principi costituzionali, nella considerazione che la dichiarazione di incostituzionalità di una legge, nel tutelare e garantire certi valori, produrrebbe contemporaneamente effetti negativi rispetto ad altri valori, anch’essi meritevoli di tutela a livello costituzionale. Si tratta, in definitiva, di una sentenza manipolativa in senso “diacronico” che differisce l’efficacia della propria pronuncia al fine di realizzare il minore sacrificio possibile per i differenti valori in giuoco. Si prospetta davanti ai giudici comuni una divaricazione tra applicazione della norma ed applicazione della sentenza. Rispetto alle disposizioni che stabiliscono che la norma dichiarata incostituzionale non può trovare applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta ufficiale (in base all’art. 136 della Costituzione, quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una legge «la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione»; l’art. 30, comma 3, della legge n. 87 del 1953 precisa che «le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione»), la Corte costituzionale ha introdotto una deroga che limita la normale “retroattività” della pronuncia di incostituzionalità sulla base di un’operazione di bilanciamento tra differenti valori, tendente ad evitare l’eccessivo sacrificio di uno tra questi e la creazione di una situazione di maggiore incostituzionalità. Il risultato di richiedere che la norma dichiarata incostituzionale venga cionondimeno ancora applicata nei giudizi pendenti, non appare al Collegio foriera di una violazione dell’art. 101, secondo comma, della Costituzione per il quale «i giudici sono soggetti soltanto alla legge», in quanto l’obbligo di soggezione alla legge cessa soltanto di fronte a una legge “dichiarata” (anche nel tempo) incostituzionale dal giudice delle leggi. Né può dirsi che il rispetto della motivazione della sentenza n. 10 del 2015 si ponga in contrasto con il principio costituzionale enunciato dall’art. 24 della Costituzione, che riconosce il diritto d’azione, frustrato dall’eventuale applicazione di una norma riconosciuta come incostituzionale, dal momento che tale esito è il frutto di un bilanciamento tra principi costituzionali e regole processuali, giustificato dall’impellente necessità di tutelare valori costituzionali i quali, altrimenti, sarebbero risultati compromessi da una decisione di mero accoglimento, e dalla circostanza che la compressione degli effetti retroattivi è stata limitata a quanto strettamente necessario per assicurare il contemperamento dei valori in gioco. 1.4.‒ All’esito della digressione, sono evidenti le ragioni del rigetto del motivo di appello. In primo luogo, la limitazione degli effetti della pronuncia ha determinato l’annullamento dell’addizionale impugnata con decorrenza a partire dal periodo d’imposta in corso alla data del 12 febbraio 2015. Il che implica che, diversamente da quello che accade ordinariamente a seguito di una pronuncia d’incostituzionalità, la cessazione di efficacia della disposizione fiscale ha operato ex nunc, continuando perciò il tributo ad applicarsi se «sorto in relazione a presupposti avvenuti durante il suo vigore». Dalla legittimità dell’imposizione relativa agli esercizi finanziari oggetto del procedimento deriva altresì la vigenza pro tempore, sia del divieto di traslazione dell’onere della maggiorazione d’imposta sui prezzi al consumo, sia degli obblighi informativi che incombevano sugli operatori individuati dal comma 16 del ricordato art. 81. Sotto altro profilo, per quanto l’affermazione dell’efficacia pro futuro della decisione d’incostituzionalità determini una apparente coincidenza quoad effectus tra i diversi fenomeni dell’invalidità e dell’abrogazione, neppure può invocarsi il principio dell’abolitio criminis (applicabile peraltro alle sole sanzioni amministrative qualificabili come “penali” ai fini della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali). Il fatto in contestazione continua infatti a costituire una violazione punibile: le delibere impugnate sono espressione dell’esercizio di un potere sanzionatorio che trova il proprio fondamento nella nell’art. 2, comma 20, lettera c), della legge n. 481 del 1995 ‒ per nulla toccata dalla declaratoria di incostituzionalità ‒, la quale disposizione, fatta salva l’applicazione delle norme del codice penale (“salvo che il fatto costituisca reato”), attribuisce all'Autorità il potere di irrogare sanzioni amministrative pecuniarie «in caso di inosservanza dei propri provvedimenti o in caso di mancata ottemperanza da parte dei soggetti esercenti il servizio, alle richieste di informazioni o a quelle connesse all'effettuazione dei controlli, ovvero nel caso in cui le informazioni e i documenti acquisiti non siano veritieri» (il richiamo alla previsione di cui all’art. 3, comma 2, del decreto legislativo n. 472 del 1997 è invece inconferente, perché la sanzione amministrativa è stata irrogata non per la violazione di norme tributarie ma per il mancato rispetto di specifici obblighi informativi). L’illecito sanzionato ‒ perfezionatosi alla scadenza del termine previsto dalla deliberazione 70/2013/E/RHT ‒ conserva intatto, anche dopo la pronuncia di incostituzionalità, il suo disvalore, in quanto la mancata cooperazione della Società, tradottasi nel mancato invio dei dati richiesti, ha avuto comunque l’effetto di ostacolare l’esercizio dell’attività di vigilanza demandata all’Autorità, al fine di verificare la ricorrenza dei presupposti per l’assoggettamento alla maggiorazione di imposta. 2.‒ Anche il secondo motivo ‒ con il quale la Società censura la sentenza impugnata per non aver quest’ultima tenuto conto che il divieto di traslazione operasse nei confronti dei soli soggetti tenuti al pagamento dell’IRES e della relativa maggiorazione, cosicché la Società non sarebbe stata tenuta ad alcuna comunicazione all’Autorità non essendo soggetta alla Robin Hood Tax ‒ non coglie nel segno. 2.1.‒ La completa e tempestiva trasmissione delle informazioni richieste era strettamente funzionale allo svolgimento della predetta attività di vigilanza demandata all’Autorità. Vero è che, da ultimo, la verifica circa il rispetto del divieto agli operatori economici dei settori richiamati di traslare l’onere della maggiorazione d’imposta sui prezzi al consumo, avrebbe dovuto esercitarsi nei confronti dei soli soggetti il cui fatturato fosse superiore al fatturato totale previsto dall'articolo 16, comma 1, prima ipotesi, della legge 10 ottobre 1990, n. 287. Tuttavia, l’obbligo delle imprese di fornire all’Autorità le notizie e le informazioni da questa richiesta ‒ presidiato dalla sanzione in questione ‒ non poteva che indirizzarsi nei confronti di tutti gli operatori, anche di quelli che poi potessero risultare in concreto privi dei suddetti requisiti. 3.‒ Il terzo motivo ‒ con il quale la Società censura la sentenza impugnata per non aver essa accolto la doglianza avente ad oggetto l’illegittima quantificazione della sanzione ‒ va invece parzialmente accolto, in relazione al mancato rispetto del parametro di commisurazione della sanzione incentrato sulla gravità della condotta. 3.1 – L’attività determinativa del quantum della pena pecuniaria costituisce, come è noto, espressione di una funzione connotata da un’ampia discrezionalità. Il legislatore ha infatti stabilito in via generale l’importo minimo e l’importo massimo delle sanzioni amministrative pecuniarie che possono essere irrogate dall’Autorità, senza individuare un minimo ed un massimo edittale con riferimento a ciascuna tipologia di infrazioni. L’ampia discrezionalità riconosciuta in capo all’Autorità deve tuttavia tenere conto dei criteri indicati dall’articolo 11 della legge n. 689 del 1981 ‒ segnatamente: i) gravità della violazione; ii) opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione; iii) personalità dell’agente; iv) condizioni economiche dell’agente ‒, e dalle Linee Guida adottate dall’Autorità (con Delibera ARG/COM 144/08) proprio in ordine all’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate ai sensi dell’art. 2, comma 20, lettera c), della legge 14 novembre 1995, n. 481. 3.2.‒ Nel caso in esame, l’Autorità nel definire la sanzione base ha senza dubbio rispettato il criterio delle condizioni economiche dell’agente e del limite (prescritto nelle citate Linee Guida) del dieci per cento del fatturato realizzato dall’impresa nell’esercizio chiuso anteriormente alla data di avvio del procedimento sanzionatorio (ancorché non risulti superato il limite massimo edittale di euro 154.937.069,73): nella specie, le sanzioni irrogate rappresentano, secondo le deduzioni della difesa erariale, solo lo 0,11% del fatturato rilevante realizzato. Inoltre, l’Autorità ha preso espressamente in considerazione, quale fattore attenuante, la circostanza che la Società aveva provveduto, in data 15 novembre 2013, a completare l’invio dei dati mancanti. 3.3.‒ Tuttavia, sotto profilo della gravità della violazione, l’Autorità, nel rilevare che la condotta della società «contrasta con le disposizioni volte ad attivare flussi informativi funzionali allo svolgimento dell’attività di vigilanza demandata all’Autorità», non appare avere adeguatamente soppesato l’offensività in concreto di tale condotta e l’assenza di vantaggi conseguiti dall’agente in conseguenza della violazione, tenuto conto che è poi comunque emersa la non assoggettabilità della Società all’allora vigente disciplina impositiva dell’addizionale IRES (tale circostanza allegata dall’appellante non è stata oggetto di specifica contestazione di controparte). 3.4.‒ Per tali ragioni, ai sensi art. 134, comma 1, lettera c), del c.p.a., che riconosce in materia al giudice amministrativo una cognizione estesa al merito, la misura della sanzione pecuniaria comminata dall’Autorità deve essere ridotta nella misura di un terzo, e quindi ricalcolata in € 27.000,00. 4.‒ La complessità delle questioni dedotte e la parziale reciproca soccombenza giustificano la compensazione integrale tra le parti delle spese di entrambi i gradi dei giudizi. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, accoglie parzialmente l’appello n. 10126 del 2018 e, per l’effetto, in riforma della sentenza n. 1882 del 2018 emessa dal Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia, ridetermina la sanzione pecuniaria irrogata dall’Autorità, nella misura inferiore di € 27.000,00. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 gennaio 2021 con l’intervento dei magistrati: Sergio De Felice, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere Alessandro Maggio, Consigliere Dario Simeoli, Consigliere, Estensore Sergio De Felice, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere Alessandro Maggio, Consigliere Dario Simeoli, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Imposte e tasse – Imposta sul reddito delle società (Ires) - Art. 81, commi 16, 17 e 18, d.l. n. 112 del 2008 – Addizionale – Applicata agli operatori del settore della commercializzazione di petroli e gas che avessero registrato ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo d’imposta precedente – Violazione artt. 3 e 53 Cost. - Declaratoria di incostituzionalità con sentenza n. 10 del 2015 - Effetti  dal periodo d’imposta in corso alla data del 12 febbraio 2015.            Ha effetti dal giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (avvenuta il giorno stesso del deposito in Cancelleria, e cioè in data 11 febbraio 2015), e dunque a partire dal periodo d’imposta in corso alla data del 12 febbraio 2015, la sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2015 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma1, l. 6 agosto 2008 n. 133 (che ha imposto un prelievo fiscale ulteriore, nell’ambito dell’imposta sul reddito delle società - IRES, qualificato come addizionale, cd. “Robin Hood Tax”, pari al 5,5% da applicarsi ad alcuni operatori del settore della commercializzazione di petroli e gas che avessero registrato ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo d’imposta precedente) per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost. per vizio di irragionevolezza, in relazione all’incongruità dei mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo, in sé e per sé legittimo, perseguito di applicare un regime fiscale differenziato ad un mercato, quale è quello dei prodotti petroliferi, molto meno esposto a subire i pregiudizi della crisi; pertanto, diversamente da quello che accade ordinariamente a seguito di una pronuncia d’incostituzionalità, la cessazione di efficacia della disposizione fiscale ha operato ex nunc, continuando perciò il tributo ad applicarsi se “sorto in relazione a presupposti avvenuti durante il suo vigore” (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che con la sentenza n. 10 del 2015 la Corte costituzionale ‒ chiamata a pronunciarsi in ordine all’illegittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17 e 18, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma1, l. 6 agosto 2008 n. 133, in relazione a svariati parametri ‒ ha valutato come infondate le questioni sollevate in relazione agli artt. 77, secondo comma, e 23 Cost., incentrate, rispettivamente, sull’illegittimo utilizzo del decreto-legge in assenza dei motivi di necessità e urgenza e sulla riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte, pervenendo invece al giudizio d’incostituzionalità della normativa impugnata per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost.; le ragioni dell’incostituzionalità sono state individuate in un «vizio di irragionevolezza», in relazione all’«incongruità dei mezzi approntati dal legislatore rispetto allo scopo, in sé e per sé legittimo, perseguito».  Il fine era quello di applicare un regime fiscale differenziato ad un mercato, quale è quello dei prodotti petroliferi, molto meno esposto a subire i pregiudizi della crisi per varie ragioni, sia per le caratteristiche strutturali del mercato (in ragione del suo carattere oligopolistico e della natura inelastica della domanda), sia perché tra il 2007 e il 2008 gli operatori della filiera avevano registrato profitti record, grazie al rapidissimo aumento del prezzo del greggio.  Sennonché, secondo la Corte, tale giustificazione del prelievo aggiuntivo– colpire i “sovra­profitti” conseguiti da una particolare categoria di soggetti in una particolare congiuntura economica – avrebbe dovuto tradursi nella previsione di un’imposta la cui struttura fosse coerente con quell’intento.  Sintomi della non congruenza del mezzo rispetto allo scopo sono stati invece individuati: nella base imponibile, costituita dall’intero reddito anziché dai soli “sovra­profitti”; nella durata permanente, anziché contingente, dell’addizionale, «che non appare in alcun modo circoscritta a uno o più periodi di imposta, né risulta ancorata al permanere della situazione congiunturale, che tuttavia è addotta come sua ragione»; nell’inidoneità a conseguire le dichiarate finalità solidaristiche e redistributive derivante dall’«obiettiva difficoltà di isolare […] la parte di prezzo praticato dovuta a traslazioni dell’imposta» (testimoniata dalle affermazioni della stessa Autorità garante in sede di Relazione al Parlamento) e quindi di sanzionare coloro che avessero scaricato l’onere impositivo sul prezzo al consumo.  In ragione delle conseguenze pratiche dell’accoglimento della questione, la Corte ha tuttavia deciso di limitare nel tempo gli effetti della sua pronuncia di accoglimento. Secondo il giudice delle leggi, il ruolo affidatogli «come custode della Costituzione nella sua integralità impone di evitare che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una disposizione di legge determini, paradossalmente, “effetti ancor più incompatibili con la Costituzione” (sentenza n. 13 del 2004) di quelli che hanno indotto a censurare la disciplina legislativa. Per evitare che ciò accada, è compito della Corte modulare le proprie decisioni, anche sotto il profilo temporale, in modo da scongiurare che l’affermazione di un principio costituzionale determini il sacrificio di un altro».  Su queste basi, la Corte ha aggiunto che, nel caso di specie, “’applicazione retroattiva della presente declaratoria di illegittimità costituzionale determinerebbe anzitutto una grave violazione dell’equilibro di bilancio ai sensi dell’art. 81 Cost.” e che “l’impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari connesse alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 81, commi 16, 17 e 18, d.l. n. 112 del 2008, e successive modificazioni, determinerebbe, infatti, uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venire meno al rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale (artt. 11 e 117, primo comma, Cost.) e, in particolare, delle previsioni annuali e pluriennali indicate nelle leggi di stabilità in cui tale entrata è stata considerata a regime”. La rimozione retroattiva della normativa impugnata ingenererebbe inoltre una “irragionevole redistribuzione della ricchezza a vantaggio di quegli operatori economici che possono avere invece beneficiato di una congiuntura favorevole” con un conseguente “irrimediabile pregiudizio delle esigenze di solidarietà sociale con grave violazione degli artt. 2 e 3 Cost.” e un “indebito vantaggio che alcuni operatori economici del settore”, pregiudizievole degli artt. 3 e 53 Cost..  Conclusivamente, dopo aver fatto cenno alla comparazione con alcune Corti costituzionali europee per le quali il contenimento degli effetti retroattivi delle sentenze di accoglimento costituisce «prassi diffusa», la Corte ha ritenuto «costituzionalmente necessaria» disporre la decorrenza degli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale (avvenuta il giorno stesso del deposito in Cancelleria, e cioè in data 11 febbraio 2015).  La pronuncia della Corte costituzionale in commento non si configura nei termini di un’incostituzionalità “sopravvenuta” (la quale, a rigore, si verifica quando una determinata disciplina, conforme al dettato costituzionale al momento della sua entrata in vigore, è divenuta incostituzionale solo successivamente, a seguito del sopraggiungere di avvenimenti posteriori), bensì limita l’efficacia retroattiva della incostituzionalità realizzatasi ab origine, attraverso un bilanciamento tra valori o principi costituzionali, nella considerazione che la dichiarazione di incostituzionalità di una legge, nel tutelare e garantire certi valori, produrrebbe contemporaneamente effetti negativi rispetto ad altri valori, anch’essi meritevoli di tutela a livello costituzionale.  Si tratta, in definitiva, di una sentenza manipolativa in senso “diacronico” che differisce l’efficacia della propria pronuncia al fine di realizzare il minore sacrificio possibile per i differenti valori in giuoco.  Si prospetta davanti ai giudici comuni una divaricazione tra applicazione della norma ed applicazione della sentenza. Rispetto alle disposizioni che stabiliscono che la norma dichiarata incostituzionale non può trovare applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta ufficiale (in base all’art. 136 Cost., quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una legge “la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”; l’art. 30, comma 3, l. n. 87 del 1953 precisa che “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”), la Corte costituzionale ha introdotto una deroga che limita la normale “retroattività” della pronuncia di incostituzionalità sulla base di un’operazione di bilanciamento tra differenti valori, tendente ad evitare l’eccessivo sacrificio di uno tra questi e la creazione di una situazione di maggiore incostituzionalità.  Il risultato di richiedere che la norma dichiarata incostituzionale venga cionondimeno ancora applicata nei giudizi pendenti, non appare al Collegio foriera di una violazione dell’art. 101, secondo comma, della Costituzione per il quale “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, in quanto l’obbligo di soggezione alla legge cessa soltanto di fronte a una legge “dichiarata” (anche nel tempo) incostituzionale dal giudice delle leggi.  Né può dirsi che il rispetto della motivazione della sentenza n. 10 del 2015 si ponga in contrasto con il principio costituzionale enunciato dall’art. 24 Cost., che riconosce il diritto d’azione, frustrato dall’eventuale applicazione di una norma riconosciuta come incostituzionale, dal momento che tale esito è il frutto di un bilanciamento tra principi costituzionali e regole processuali, giustificato dall’impellente necessità di tutelare valori costituzionali i quali, altrimenti, sarebbero risultati compromessi da una decisione di mero accoglimento, e dalla circostanza che la compressione degli effetti retroattivi è stata limitata a quanto strettamente necessario per assicurare il contemperamento dei valori in gioco. ​​​​​​​
Imposte e tasse
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Sospensione impropria del giudizio e pendenza della questione di legittimità costituzionale
N. 02848/2022 REG.PROV.COLL. N. 00911/2013 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale -OMISSIS-, integrato da motivi aggiunti, proposto da -OMISSIS-, rappresentata e difesa dagli avvocati -OMISSIS- e -OMISSIS-, con domicilio fisico eletto presso lo studio dell’avvocato -OMISSIS- in Giarre, viale -OMISSIS- n. 43, e con domicilio digitale ex lege come da PEC da Registri di Giustizia; contro Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana - Soprintendenza BB.CC. di Messina, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Catania, presso i cui uffici domicilia in Catania, via Vecchia Ognina, 149; Comune di -OMISSIS- in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituito in giudizio; per l’annullamento - quanto al ricorso introduttivo del giudizio: 1) della nota prot. n. -OMISSIS- del 10/12/2013, notificata alla ricorrente il 17/01/2013, per mezzo della quale la Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Messina ha rigettato la domanda prot. n. -OMISSIS- del 10/12/2004 di accertamento di compatibilità paesaggistica e definizione degli illeciti edilizi presentata dalla ricorrente ai sensi dell'art. 32 del D.L. n. 269/2003 convertito in L. n. 326/2003, e 2) di ogni ulteriore atto, anche sconosciuto, precedente o successivo, propedeutico, connesso e/o consequenziale a quello impugnato; - quanto al ricorso per motivi aggiunti depositato in data -OMISSIS-, per l’annullamento previa sospensione: a) dell’ordinanza dirigenziale n. -OMISSIS- del Responsabile Area Urbanistica del Comune di -OMISSIS-avente ad oggetto “demolizione e ripristino stato dei luoghi dell’immobile adibito a civile abitazione sito in via -OMISSIS- n. 65” a mezzo della quale è stata ordinata alla odierna ricorrente “la demolizione delle opere realizzate nell’immobile sito in -OMISSIS-via -OMISSIS- n. 65 riportato in catasto al foglio di mappa -OMISSIS- ricadente nel prg vigente in zona B7 – alto interesse ambientale come stabilito nelle sentenze penali n. -OMISSIS- e n. -OMISSIS- che qui si intendono riportate e trascritte con il conseguente ripristino dello stato dei luoghi, antecedente gli interventi abusivi oggetto delle sentenze, entro e non oltre 90 giorni dalla notifica della presente”, b) della nota prot. n. -OMISSIS- del -OMISSIS- del Responsabile Area Urbanistica del Comune di -OMISSIS-il quale, nel riscontrare la motivata istanza di annullamento in autotutela di -OMISSIS-, rappresentava che l’ordine di demolizione è stato emesso “in 2 applicazione della sentenza del giudice monocrativo n. -OMISSIS- del -OMISSIS- depositata in cancelleria il -OMISSIS- e sentenza della Corte di Appello di Messina n. -OMISSIS- del -OMISSIS- depositata in cancelleria il -OMISSIS-” e, quindi, implicitamente rigettava l’anzidetta istanza di annullamento in autotutela; Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana – Soprintendenza BB.CC. di Messina; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 79, comma 1, cod. proc. amm.; Relatore nell’udienza straordinaria dedicata allo smaltimento dell’arretrato del giorno 24 ottobre 2022, svoltasi con le modalità di cui all’art. 87, comma 4-bis, cod. proc. amm. (novellato dall’art. 17, comma 7, lett. a), n. 6, del decreto legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2021, n. 113), il dott. Giovanni Giuseppe Antonio Dato e uditi per le parti i difensori presenti come specificato nel verbale; 1. Con ricorso introduttivo del giudizio notificato -OMISSIS- e depositato in data -OMISSIS- la deducente ha proposto la domanda in epigrafe. 2. Si è costituito in giudizio l’Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana – Soprintendenza BB.CC. di Messina al fine di resistere e di sostenere la legittimità degli atti impugnati. 3. Con ricorso per motivi aggiunti notificato in data -OMISSIS- e depositato in data -OMISSIS- la deducente ha proposto le ulteriori domande in epigrafe. 4. Con ordinanza -OMISSIS- è stata rigettata l’istanza di sospensiva del provvedimento impugnato con il ricorso per motivi aggiunti. 5. All’udienza straordinaria dedicata allo smaltimento dell’arretrato del giorno 24 ottobre 2022, presente il difensore della parte ricorrente, come da verbale, dopo la discussione la causa è stata trattenuta in decisione. 6. Rileva il Collegio che la decisione della controversia passa dall’applicazione dell'art. 25 bis (norma di interpretazione autentica) della legge reg. Sic. 10 agosto 2016, n. 16, così come introdotto con legge reg. Sic. 29 luglio 2021, n. 19, il quale stabilisce che l’art. 24 della legge reg. Sic. 5 novembre 2004, n. 15 “si interpreta nel senso che sono recepiti i termini e le forme di presentazione delle istanze presentate ai sensi dall'articolo 32 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, e pertanto resta ferma l’ammissibilità delle istanze presentate per la regolarizzazione delle opere realizzate nelle aree soggette a vincoli che non comportino inedificabilità assoluta nel rispetto di tutte le altre condizioni prescritte dalla legge vigente” (comma 1). Tale disposizione è stata impugnata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con ricorso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 43 del 27 ottobre 2021, in quanto ritenuta in contrasto con l'art. 3, l’art. 117, comma 2, lett. l) e s), e l’art. 123 Cost., nonché per violazione degli artt. 14 e 27 dello Statuto speciale della Regione Siciliana. 7. Il Collegio ritiene che la detta decisione della Corte costituzionale può direttamente incidere sulla valutazione della questione di che trattasi e che, pertanto, ricorrono i presupposti per disporre la sospensione c.d. impropria del giudizio fino alla definizione del giudizio pregiudiziale, pendente dinanzi alla Corte costituzionale. Va sul punto evidenziato che, per consolidato indirizzo giurisprudenziale, nel processo amministrativo trova ingresso la c.d. sospensione impropria del giudizio principale per la pendenza della questione di legittimità costituzionale di una norma, applicabile in tale procedimento, ma sollevata in una diversa causa, con la puntualizzazione che per la prosecuzione del giudizio sospeso, ai sensi dell’art. 80, comma 1, cod. proc. amm., deve essere presentata l’istanza di fissazione di udienza entro il termine decadenziale di 90 giorni, decorrenti dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del provvedimento della Corte costituzionale, pena l’estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 35, comma 2, lett. a), cod. proc. amm. (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. III, ord. 30 giugno 2022, n. 5452). 8. Il presente giudizio, pertanto, deve essere sospeso in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale sul sopra richiamato ricorso proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri avverso l’art. 1, comma 1, della legge reg. Sic. 29 luglio 2021, n. 19; per la prosecuzione del giudizio dovrà essere presentata, ai sensi dell’art. 80, comma 1, cod. proc. amm., una nuova istanza di fissazione entro il termine di giorni 90 decorrente dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del provvedimento della Corte Costituzionale di definizione del giudizio. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania (Sezione Seconda), impregiudicata ogni decisione sul rito e sul merito, sospende il giudizio nei sensi indicati in motivazione. La presente ordinanza è depositata presso la Segreteria della Sezione, che provvederà a darne comunicazione alle parti. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, e del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti e della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte ricorrente e le persone menzionate. Così deciso in Catania nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2022, svoltasi con le modalità di cui all’art. 87, comma 4 bis, cod. proc. amm. (novellato dall’art. 17, comma 7, lett. a), n. 6, del decreto legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2021, n. 113), con l'intervento dei magistrati: Francesco Brugaletta, Presidente Giovanni Giuseppe Antonio Dato, Primo Referendario, Estensore Antonino Scianna, Primo Referendario Francesco Brugaletta, Presidente Giovanni Giuseppe Antonio Dato, Primo Referendario, Estensore Antonino Scianna, Primo Referendario IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Giustizia amministrativa – Sospensione impropria - Questione di legittimità costituzionale - Nel processo amministrativo trova ingresso la sospensione impropria del giudizio principale, stante la pendenza della questione di legittimità costituzionale di una norma sollevata in una diversa causa. Ai fini della prosecuzione del giudizio sospeso, deve essere presentata l’istanza di fissazione di udienza entro il termine decadenziale di 90 giorni, decorrenti dalla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del provvedimento della Corte costituzionale, pena l’estinzione del giudizio, ex art. 35, comma 2, lett. a), c.p.a.
Giustizia amministrativa
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/istanza-di-discussione-da-remoto-della-causa-nel-periodo-di-emergenza-per-certificato-di-test-antigenico-di-positivit-c3-a0-al-covid-19
Istanza di discussione da remoto della causa nel periodo di emergenza per certificato di test antigenico di positività al Covid-19
N. 00003/2022 REG.PROV.PRES. N. 01287/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 1287 del 2021, proposto da Snam Rete Gas s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati -OMISSIS-e -OMISSIS-, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Maria Antonina Fascetto, Giacomo Consentino, Antonio Consentino, rappresentati e difesi dall'avvocato Mario Consentino, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Regione Siciliana - Assessorato Regionale Energia e Servizi di Pubblica Utilita' - Dipartimento Ener, Regione Siciliana - Assessorato Regionale Agricoltura Sviluppo Rurale e Pesca Mediterranea, Regione Siciliana - Ispettorato Agricoltura Enna, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale, domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale, 6; nei confronti Regione Siciliana - Presidenza, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale, domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale, 6; per la riforma dell'ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Seconda) n. 00709/2021, resa tra le parti Visti il ricorso e i relativi allegati; rilevato che la discussione orale è calendarizzata per il 12 gennaio 2022; vista l’istanza di discussione da remoto, ai sensi dell’art. 7-bis d.l. n. 105/2021, depositata da parte appellante in data 4 gennaio 2022; ritenuto che: il certificato di test antigenico di positività al Covid di uno dei difensori dell’appellante in data 4 gennaio 2022 non è da solo sufficiente a documentare l’impedimento oggettivo di partecipazione in presenza in data 12 gennaio 2022, atteso che in base alla circolare del ministero della salute del 30.12.2021 le regole sulla durata della quarantena differiscono in base alle diverse situazioni concrete (presenza o assenza di sintomi; avvenuta vaccinazione e numero di dosi vaccinali, tempo della vaccinazione), tutti elementi fattuali qui non documentati; in ogni caso la parte è assistita da due difensori e l’impedimento di uno solo non impedisce la discussione dell’altro; né sussiste un diritto della parte alla discussione di tutti i difensori, in quanto il diritto di difesa è sufficientemente garantito dalla possibilità che uno dei difensori possa discutere oralmente; P.Q.M. Respinge l’istanza di discussione da remoto. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità dei difensori dell’appellante. Così deciso in Palermo il giorno 5 gennaio 2022. IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Processo amministrativo – Covid-19 – Udienze da remoto – Certificato di test antigenico di positività al Covid-19 – Insufficienza ex se.     Non è possibile accogliere l’istanza di discussione da remoto della causa motivata con l’esibizione di un certificato di test antigenico di positività al Covid-19, che non è da solo sufficiente a documentare l’impedimento oggettivo di partecipazione in presenza (1).     (1) Ha ricordato il C.g.a. che il certificato di test antigenico di positività al Covid di uno dei difensori non è da solo sufficiente a documentare l’impedimento oggettivo di partecipazione in, atteso che in base alla circolare del ministero della salute del 30 dicembre 2021 le regole sulla durata della quarantena differiscono in base alle diverse situazioni concrete (presenza o assenza di sintomi; avvenuta vaccinazione e numero di dosi vaccinali, tempo della vaccinazione). ​​​​​​​Ha aggiunto il decreto che nella specie i difensori della parte erano due con la conseguenza che l’impedimento di uno solo non impedisce la discussione dell’altro né sussiste un diritto della parte alla discussione di tutti i difensori, in quanto il diritto di difesa è sufficientemente garantito dalla possibilità che uno dei difensori possa discutere oralmente   
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/onere-di-verifica-del-comune-sulla-legittimazione-a-richiedere-il-permesso-di-costruire
Onere di verifica del Comune sulla legittimazione a richiedere il permesso di costruire
N. 01827/2022REG.PROV.COLL. N. 07848/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7848 del 2020, proposto da Unisanitas S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Alfredo Contieri, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro - la Parrocchia di San Nicola di Bari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Marco Costantino Macchia e Francesco Maria Piscopo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Marco Costantino Macchia in Roma, via del Governo Vecchio, 20;- il Comune di Castel di Sangro, non costituito in giudizio; nei confronti di Anfass, non costituita in giudizio, per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo (Sezione Prima) n. 300/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio della Parrocchia di San Nicola di Bari; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 30 settembre 2021, il Cons. Oberdan Forlenza e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con l’appello in esame, la società Unisanitas S.r.l. impugna la sentenza 29 agosto 2020, n. 300, con la quale il TAR per l’Abruzzo, sez. I, in accoglimento del ricorso proposto dalla Parrocchia San Nicola di Bari di Castel di Sangro, ha annullato, in particolare, il permesso di costruire 20 settembre 2019, n. 4, concernente la realizzazione di una scala esterna di sicurezza in acciaio a servizio della RSA (residenza sanitaria assistita) condotta dalla medesima società Unisanitas. La Parrocchia, proprietaria in Castel di Sangro di un immobile utilizzato come convitto, ne aveva a suo tempo locato una parte alla Cooperativa sociale servizi S.r.l., la quale, con nota del 18 giugno 2016, comunicava la cessione del contratto alla società Unisanitas. Quest’ultima, in data 14 marzo 2019, diffidava la Parrocchia, ai sensi del D.M. 19 marzo 2015, all’esecuzione di lavori di rifacimento di talune strutture (precisamente: rifacimento di otto bagni, impianto di rilevazione fumi, impianto di evacuazione del personale e compartimentazione) e in data 18 marzo 2019 presentava istanza edilizia al Comune. La Parrocchia faceva pervenire al Comune, in data 3 aprile 2019, il proprio diniego all’autorizzazione delle opere, poiché talune di esse avrebbero interferito con il godimento della parte di immobile non concesso in locazione sia da parte di terzi, sia da parte della stessa Parrocchia. Veniva infine rilasciato un titolo autorizzatorio con prescrizioni alla realizzazione delle opere e, in data 5 luglio 2019, la società chiedeva alla Parrocchia di autorizzare la realizzazione di una scala antincendio. Non avendo ottenuto riscontro, la società presentava istanza al SUAP di Castel di Sangro onde ottenere il necessario permesso di costruire, allegando alla medesima un’autorizzazione rilasciata dalla Parrocchia nel 2007 alla Cooperativa all’epoca locataria per lavori di messa a norma del fabbricato, nonché una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà attestante la piena disponibilità dei suoli su cui è prevista l’ubicazione della scala esterna in acciaio. 2. Il permesso di costruire 20 settembre 2019, n. 4, a tal fine rilasciato, veniva impugnato dalla Parrocchia ed annullato con la sentenza oggetto del presente appello, la quale – previo rigetto di eccezione di inammissibilità dell’intervento ad adiuvandum spiegato dalla comodataria di parte dell’immobile - afferma in particolare: - “l’amministrazione non è tenuta a svolgere indagini approfondite sull’esistenza e la portata del titolo allegato dal richiedente il permesso di costruire, salvo nel caso in cui a chiederlo sia un soggetto diverso dal proprietario, il quale si sia opposto al rilascio”; - “nel caso di oggettiva incertezza sul diritto di realizzare un’opera edilizia su suolo altrui, prevale l’opposizione del proprietario e l’amministrazione deve senz’altro negare il rilascio del permesso di costruire”; - nel caso di specie, il Comune, anziché richiedere alla Unisanitas una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà attestante la piena disponibilità dell’area interessata dall’intervento edilizio (e ciò nonostante la ricevuta opposizione del proprietario), avrebbe “agevolmente potuto acquisire al procedimento . . . il contratto di locazione e l’autorizzazione rilasciata dalla Parrocchia alla realizzazione di opere di messa a norma . . . e trarne elementi idonei ad escludere sicuramente che la Unisanitas potesse disporre in modo pieno dell’area in questione”; - ciò in quanto l’art. 6 del contratto di locazione, che consente di “apportare modifiche e innovazioni richiedendo anche direttamente, ove necessario, autorizzazioni oppure concessioni amministrative”, è chiaramente “limitato ai locali interni dell’edificio”; - inoltre, “l’area interessata dall’intervento in questione serve per l’accesso al fabbricato e quindi alla parte di esso oggetto di locazione”, di modo che la scala antincendio ed il pannello ignifugo “costituiscono innovazioni eccedenti l’uso normale del bene locato”; - Unisanitas non poteva avvalersi in sede procedimentale di “un’autorizzazione rilasciata ad un soggetto diverso . . . e non riprodotta nel contratto del 2012 cedutole dalla Cooperativa sociale servizi 2000”; - nel conflitto tra proprietario e locatario, l’Amministrazione “avendo omesso di condurre un’istruttoria sul contratto di locazione, avrebbe dovuto far prevalere, rebus sic stantibus, la posizione espressa dalla Parrocchia, mentre, affidando l’esito del procedimento alla dichiarazione unilaterale della richiedente, viola l’art. 11 del DPR n. 380/2001, che richiede invece l’allegazione di un titolo non controverso”. 3. Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di appello: a) error in iudicando; omessa pronuncia; violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato; difetto di motivazione; ciò in quanto: a1) il contratto di locazione deve essere interpretato tenendo conto dello scopo perseguito da Unisanitas, “struttura sanitaria dotata di 55 posti letto autorizzati di cui 28 accreditati”, atteso che la “rimozione” della scala costituisce “circostanza obiettivamente ostativa alla prosecuzione dell’attività sanitaria . . . a fronte di un contratto di locazione nel quale era ben chiara ed evidente alle parti quale fosse la modalità di esercizio dell’attività” da svolgersi; a2) i lavori della scala antincendio sono stati realizzati sulla base di una SCIA in variante al permesso di costruire, la cui contestazione ad opera del terzo è in radice esclusa ex art. 19 legge n. 241 del 1990, di modo che ne deriva “l’inammissibilità del ricorso di primo grado poiché lo stesso era finalizzato a contestare titoli autorizzativi superati dalla citata SCIA in variante, che a sua volta non può costituire oggetto di domanda di annullamento”; a3) “la realizzazione della scala antincendio . . . era stata già autorizzata dalla stessa Parrocchia alla società conduttrice dell’immobile, società che ha poi ceduto il ramo d’azienda alla Unisanitas”; a4) “la scala è stata ubicata in un’area in cui non sussistono interferenze con i locali al piano terreno dell’immobile e attualmente sede della Croce Rossa e di ANFASS”; b) error in iudicando; eccesso di potere per travisamento dei fatti, perplessità ed irragionevolezza; illogicità della motivazione; carenza di istruttoria; violazione o falsa applicazione dell’art. 818 c.c.; ciò in quanto “l’area su cui insiste la scala è area pertinenziale dell’immobile locato” e il contratto di locazione non esclude l’area pertinenziale dal godimento di Unisanitas (ai sensi dell’art. 818 c.c.) “proprio perché sull’area in oggetto poteva essere istallata la scala antincendio finalizzata alla effettiva realizzazione dello scopo del contratto di locazione”. Inoltre, il progetto approvato nel 2007 dalla Diocesi di Sulmona – Valva già includeva la scala per cui è causa. 4. Si è costituita in giudizio la Parrocchia appellata, che ha concluso per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza. Con ordinanza 13 novembre 2020 n. 6627, questa Sezione “in disparte ogni valutazione in ordine al fumus boni juris”, al fine di evitare il periculum rappresentato dall’appellante, ha accolto l’istanza di sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata. Dopo il deposito di ulteriori memorie e repliche, all’udienza pubblica di trattazione la causa è stata riservata in decisione. DIRITTO 5. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata. 5.1. La giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. IV, 19 luglio 2021, n. 5407, e 30 agosto 2018, n. 5115; sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4776; sez. IV, 25 settembre 2014, n. 4818), che il permesso di costruire può essere rilasciato non solo al proprietario dell’immobile, ma a chiunque abbia titolo per richiederlo (così come previsto dall’art. 11, co. 1, DPR n. 380/2001), e tale ultima espressione va intesa nel senso più ampio di una legittima disponibilità dell’area, in base ad una relazione qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del proprietario. Si è precisato, inoltre, che, “il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l’onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell’immobile oggetto dell’intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l’attività edificatoria” (Cons. Stato, sez. IV, n. 4818/2014 cit.; in senso conforme, sez. V, 4 aprile 2012, n. 1990). Quanto ora esposto (ed il concetto di “sufficienza” riferito al titolo, elaborato dalla giurisprudenza) comporta, in generale, che: - per un verso, chi richiede il titolo autorizzatorio edilizio debba comprovare la propria legittimazione all’istanza; - per altro verso, è onere del Comune ricercare la sussistenza di un titolo (di proprietà, di altri diritti reali, etc.) che fonda una relazione giuridicamente qualificata tra soggetto e bene oggetto dell’intervento, e che dunque possa renderlo destinatario di un provvedimento amministrativo autorizzatorio. Tale verifica, tuttavia, deve compiersi secondo un criterio di ragionevolezza e secondo dati di comune esperienza (Cons. giust. Amm., 11 maggio 2021, n. 413; Cons. Stato, sez. II, 30 settembre 2019, n. 6528), ma non comporta anche che l’Amministrazione debba comprovare prima del rilascio (ciò mediante oneri di ulteriore allegazione posti al richiedente o attraverso propri approfondimenti istruttori), la “pienezza” (nel senso di assenza di limitazioni) del titolo medesimo. Ed infatti, ciò comporterebbe, in sostanza, l’attribuzione all’Amministrazione di un potere di accertamento della sussistenza (o meno) di diritti reali e del loro “contenuto” non ad essa attribuito dall’ordinamento. In tal senso, laddove ricorrano limitazioni negoziali al diritto di costruire, l’Amministrazione, quando venga a conoscenza dell’esistenza di contestazioni sul diritto di richiedere il titolo abilitativo, deve compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, ma senza tuttavia assumere valutazioni di tipo civilistico, appartenenti alla giurisdizione del giudice ordinario (Cons. Stato, sez. IV, n. 5407/2021 cit.). Tuttavia – come si è già affermato – assume rilievo differente l’ipotesi in cui la legittimazione a richiedere l’autorizzazione edilizia si fondi sulla titolarità di un diritto reale, da quella in cui essa attenga ad una disponibilità del bene a titolo diverso. In tale ultimo caso (ad esempio, bene detenuto per effetto di contratto di locazione), l’Amministrazione è tenuta ad accertare la sussistenza del consenso del proprietario, con la conseguenza che, laddove questo difetti, non potrà procedere al rilascio del permesso di costruire (Cons. Stato, sez. VI, 30 giugno 2021, n. 4919; sez. IV, n. 5115/2018 cit.) 5.2. Nel caso di specie, non sussistono i presupposti per il rilascio del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 11 DPR n. 380/2001, così come elaborati dalla giurisprudenza. Per un verso, la società richiedente non è titolare di alcun diritto reale, ma semplice locataria dell’immobile, il che già rende necessario un consenso espresso, inequivoco del proprietario, che invece ha manifestato la propria contrarietà all’intervento e di ciò il Comune era consapevole. Per altro verso, laddove anche fosse possibile superare il dissenso espresso del proprietario, la stessa sussistenza di una “discordanza interpretativa” in ordine all’art. 6 del contratto di locazione - in disparte ogni considerazione in ordine all’esatto contenuto di questo, che la sentenza impugnata ha condivisibilmente ritenuto non permissivo di attività edilizia - rende evidente come la legittimazione di Unisanitas a presentare l’istanza non fondi su basi chiare e certe inctu oculi, essendo invece necessarie interpretazioni del contenuto del contratto estranee alla competenza della pubblica amministrazione in sede di rilascio del titolo edilizio. Per altro verso ancora, il Comune di Castel di Sangro – pur a conoscenza della volontà contraria del proprietario – ha ritenuto sia di procedere ad una istruttoria esulante dalle proprie competenze, sia, soprattutto, di fondare il rilascio del titolo solo, in buona sostanza, sulla base di una autocertificazione della medesima società istante, attestante la piena disponibilità dei suoli. Da un lato, dunque, il Comune non ha proceduto ad accertamenti istruttori (ancorché questi, come si è detto, travalicassero le sue competenze in sede di rilascio di titolo edilizio); dall’altro lato, si è sostanzialmente rimesso alla “autorappresentazione” della sussistenza della propria legittimazione, rimessa ad una autocertificazione del richiedente il permesso di costruire. Appare, dunque, evidente come, nel caso di specie, siano del tutto mancanti i presupposti di legittimazione, in capo alla società appellante, a richiedere il permesso di costruire. Né può trovare accoglimento quanto rappresentato dall’appellante, laddove essa sostiene “l’inammissibilità del ricorso di primo grado poiché lo stesso era finalizzato a contestare titoli autorizzativi superati dalla citata SCIA in variante, che a sua volta non può costituire oggetto di domanda di annullamento”. In disparte ogni valutazione sui precisi contenuti della citata SCIA, appare evidente come essa si ponga come comunicazione in ordine a “variante” su lavori precedentemente assentiti da permesso di costruire per il quale non sussisteva alcuna legittimazione alla richiesta; di modo che il sopravvenire della segnalazione non preclude affatto l’esame della legittimità del titolo, relativamente al quale si ritiene di poter agire (unilateralmente) in variante. 6. Alla luce di tutte le considerazioni esposte, l’appello deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello proposto da Unisanitas S.r.l. (n. 7848/2020 r.g.), lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata. Condanna l’appellante al pagamento, in favore della costituita Parrocchia di San Nicola di Bari, delle spese e degli onorari del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 4.000,00 (quattromila/00), oltre accessori come per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 settembre 2021 con l’intervento dei magistrati: Raffaele Greco, Presidente Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore Luca Lamberti, Consigliere Francesco Gambato Spisani, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Raffaele Greco, Presidente Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore Luca Lamberti, Consigliere Francesco Gambato Spisani, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere IL SEGRETARIO
Edilizia – Permesso di costruire – Destinatari – Individuazione.  Edilizia – Permesso di costruire – Legittimazione del richiedente – Verifica – Limiti.                        Ai sensi dell’art. 11, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il permesso di costruire può essere rilasciato non solo al proprietario dell’immobile, ma a chiunque abbia titolo per richiederlo, e tale ultima espressione va intesa nel senso più ampio di una legittima disponibilità dell’area, in base ad una relazione qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del proprietario (1)            L’onere di verifica del Comune sulla legittimazione a richiedere il permesso di costruire, di cui all’art. 11, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, assume connotati differenti a seconda che la detta legittimazione si fondi sulla titolarità di un diritto reale, ovvero attenga ad una disponibilità del bene a titolo diverso. In tale ultimo caso (ad esempio, bene detenuto per effetto di contratto di locazione), l’Amministrazione è tenuta ad accertare la sussistenza del consenso del proprietario, con la conseguenza che, laddove questo difetti, non potrà procedere al rilascio del permesso di costruire.     (1) Ha chiarito la Sezione che ciò comporta, per un verso, che chi richiede il titolo autorizzatorio edilizio deve comprovare la propria legittimazione all’istanza, per altro verso, che è onere del Comune ricercare la sussistenza di un titolo (di proprietà, di altri diritti reali, etc.) che fondi una relazione giuridicamente qualificata tra soggetto e bene oggetto dell’intervento, e che dunque possa renderlo destinatario di un provvedimento amministrativo autorizzatorio. Tale verifica, tuttavia, deve compiersi secondo un criterio di ragionevolezza e secondo dati di comune esperienza, con la conseguenza che l’Amministrazione, quando venga a conoscenza dell’esistenza di contestazioni sul diritto di richiedere il titolo abilitativo, deve compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, ma senza tuttavia assumere valutazioni di tipo civilistico sulla “pienezza” del titolo di legittimazione addotto dal richiedente.   
Edilizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/all-adunanza-plenaria-l-individuazione-del-giudice-competente-a-decidere-sul-risarcimento-danni-conseguente-all-annullamento-giurisdizionale-di-una-va
All’Adunanza plenaria l'individuazione del giudice competente a decidere sul risarcimento danni conseguente all’annullamento giurisdizionale di una variante e dei conseguenti permessi di costruire -Affidamento incolpevole
N. 03701/2021 REG.PROV.COLL. N. 04605/2020 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA CON CONTESTUALE SENTENZA PARZIALE sull’appello n. 4605 del 2020, proposto dal Comune di Numana, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Maurizio Miranda, con domicilio eletto presso il suo studio in Ancona, viale della Vittoria, n. 7; contro la signora Emanuela Bacchilega, rappresentata e difesa dagli avvocati Stefano Minguzzi e Alessandra Ranci, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Aurelio Giunchi in Roma, via Carlo Alberto, n. 8. per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per le Marche, n. 268/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della signora Emanuela Bacchilega; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 marzo 2021 il consigliere Daniela Di Carlo e uditi per le parti gli avvocati Maurizio Miranda e Alessandra Ranci, che partecipano alla discussione orale mediante collegamento da remoto su piattaforma Teams, ai sensi dell'art. 25 del decreto legge n. 137 del 2020. 1. L’appellata, con il ricorso di primo grado proposto al T.a.r. per le Marche, ha chiesto che il Comune di Numana venisse condannato al risarcimento dei danni subiti per avere ella confidato in buona fede nella legittimità degli atti di pianificazione urbanistica e dei titoli edilizi emanati dal medesimo Comune (alcuni dei quali in favore del suo dante causa) e in seguito annullati in sede giurisdizionale. 2. Più nel dettaglio, era accaduto che: a) l’appellata, in data 28 marzo 2008, aveva acquistato dal proprio dante causa una porzione di un lotto al quale era stata impressa – in accogliento di una specifica osservazione del medesimo precedente proprietario - una destinazione edificatoria con la deliberazione del consiglio comunale di Numana n. 23 del 27 aprile 2006, di approvazione di una variante generale al p.r.g.; b) il permesso di costruire era stato rilasciato in favore del dante causa in data 11 marzo 2008 ed era stato parzialmente volturato in favore della appellata a seguito della compravendita stipulata tra le parti; c) ancora successivamente, erano stati avviati i lavori di costruzione delle due unità immobiliari; d) nel frattempo, la vicina di casa - che aveva impugnato sia l’atto di pianificazione, sia il primo titolo edilizio (con un ricorso notificato al suo dante causa), sia un permesso di costruire in variante (con motivi aggiunti notificati alla stessa appellata, divenuta medio tempore proprietaria dell’area), otteneva l’annullamento giurisdizionale della variante urbanistica per vizi propri e dei permessi di costruire per illegittimità derivata (con la sentenza n. 630 del 2011 del T.a.r. per le Marche, confermata da questa Sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 3114 del 2014); e) nel corso dell’anno 2015, il Comune - al dichiarato fine di ottemperare alle suddette sentenze e ritenendo che nella specie potesse trovare applicazione l’art. 38 del testo unico sull’edilizia n. 380/2001 - aveva emanato un atto di sanatoria delle opere edilizie in questione, contestato a sua volta dalla medesima vicina di casa, che nuovamente adiva il T.a.r. per le Marche con un ricorso di esecuzione per violazione del giudicato. f) Il T.a.r., con la sentenza n. 698/2015, accoglieva anche questo secondo ricorso e ingiungeva la demolizione di quanto già realizzato. g) A seguito di questa pronuncia, l’appellata ha proposto il ricorso di primo grado, ritenendosi ingiustamente lesa dalla ‘condotta’ tenuta dal Comune. Più in particolare, a suo dire, sussisterebbero gli elementi costitutivi della responsabilità dell’Amministrazione, in quanto: g.1) sul piano materiale, l’illegittimità degli atti comunali impugnati è stata accertata con sentenza passata in cosa giudicata ed è stata ulteriormente rilevata in sede di esecuzione al giudicato; g.2) sul piano soggettivo, sarebbero evidenti la colpevolezza e la negligenza del Comune, sia per avere travisato - al momento dell’emanazione degli atti impugnati - il contenuto delle osservazioni presentate dal dante causa della appellata e di quelle della vicina di casa in ordine all’adozione e alla approvazione della variante urbanistica del 2004, sia per avere emanato l’atto di sanatoria in applicazione del citato art. 38, in assenza dei relativi presupposti; g.3) sul piano del nesso di causalità, l’appellata ha affermato che ella non avrebbe acquistato la porzione del lotto di terreno, se il medesimo fosse stato privo della destinazione edificatoria, ed inoltre che non avrebbe mai cominciato o proseguito i lavori, se il Comune non avesse rilasciato il primo titolo edilizio al suo dante causa. g.4) Infine, sul piano del danno ingiusto e della sua quantificazione, ella ha commisurato le seguenti voci: - il valore dell’area edificabile, da cui va detratto il valore dell’area in base all’attuale destinazione agricola, e così per complessivi € 219.000,00 (ossia, € 224.000,00 - € 5.000,00); - le spese relative ai lavori edilizi eseguiti fino al momento della pubblicazione della sentenza del Consiglio di Stato che ha confermato la sentenza di primo grado, a cui si sommano le spese per la demolizione delle opere realizzate, e così per complessivi € 44.576,95. 3. Il T.a.r., con la sentenza impugnata, ha accolto il ricorso e, per l’effetto, ha condannato il Comune di Numana al pagamento in favore della ricorrente delle somme di cui al paragrafo 6.5. della motivazione, oltre alla corresponsione degli interessi dalla data di pubblicazione della medesima sentenza e fino al saldo, e al pagamento delle spese del giudizio liquidate in € 2.000,00, oltre accessori di legge. 4. Il Comune di Numana – che non si era costituito nel primo grado del giudizio - ha appellato la sentenza. 4.1. Col primo motivo d’appello, l’Amministrazione ha dedotto che non sussisterebbe la giurisdizione del giudice amministrativo sulla pretesa risarcitoria azionata a seguito dell’annullamento giurisdizionale dei provvedimenti amministrativi impugnati dalla vicina di casa della appellata, e rivelatisi poi illegittimi e inidonei a soddisfare in maniera stabile e definitiva il suo originario interesse legittimo pretensivo. 4.2. Inoltre, il Comune ha dedotto che si sarebbe dovuta dichiarare tardiva la notificazione del ricorso di primo grado, essendo decorso il termine previsto dall’art. 30 c.p.a. 4.3. Nel merito, l’Amministrazione ha sostenuto l’erroneità della sentenza impugnata, la quale non avrebbe correttamente interpretato l’art. 30 c.p.a. in relazione agli artt. 2056 e 1227 del codice civile; in particolare, la sentenza non avrebbe adeguatamente considerato il comportamento tenuto dalla stessa appellata (che ha realizzato le opere ‘a suo rischio e pericolo’, in pendenza del giudizio di primo grado) e neppure il fatto che ella non avrebbe mai potuto vantare – come poi è stato accertato con la sentenza passata in giudicato – un’aspettativa giuridica meritevole di tutela al mantenimento degli effetti di atti rivelatisi illegittimi. 4.4. Ancora nel merito, il Comune ha dedotto la violazione dell’art. 30 c.p.a. e dell’art. 2043 c.c., perché il TAR avrebbe dovuto ravvisare l’insussistenza della colpa (da considerare quale elemento indefettibile per la sussistenza della responsabilità), per la complessità del travagliato iter amministrativo e giudiziario che ha riguardato la variante al p.r.g., con la quale si era attribuita la capacità edificatoria al lotto in questione, per soddisfare una specifica sollecitazione del dante causa dell’appellata. Di tali censure, riguardanti il ‘merito’ della vicenda, si darà maggior conto ai successivi paragrafi 34 e 35 della presente ordinanza. 5. L’appellata si è costituita ed ha chiesto che il gravame sia respinto. 5.1. In via preliminare, ella ha eccepito l’inammissibilità del motivo d’appello sulla insussistenza della giurisdizione amministrativa, sotto svariati profili: a) in primo luogo, perché il Comune di Numana, decidendo di non costituirsi nel primo grado del giudizio e sollevando soltanto in appello la questione di giurisdizione, le avrebbe sostanzialmente sottratto la possibilità di svolgere le proprie difese nel corso del giudizio di primo grado; b) in secondo luogo, perché l’eccezione di difetto di giurisdizione sarebbe stata sollevata per la prima volta in appello, in violazione del divieto dei nova in appello, previsto dall’art. 104, comma 1, c.p.a.; c) in terzo luogo, perché il motivo sarebbe infondato, attenendo la controversia ad un tipico caso di illegittimo esercizio del potere amministrativo accertato con efficacia di giudicato da una sentenza di annullamento di atti autoritativi, sicché la connessa e conseguenziale domanda risarcitoria sarebbe proponibile dinanzi, nuovamente, al giudice amministrativo. 5.2. Ancora in via preliminare, l’appellata ha chiesto che sia ravvisata la tempestività del ricorso di primo grado, perché la sospensione feriale dei termini si applica a tutti i termini processuali, eccetto quelli espressamente esclusi, tra i quali ultimi non è annoverato quello previsto dall’art. 30 c.p.a. 5.3. Nel merito, l’appellata ha contestato in modo articolato le deduzioni del Comune appellante circa l’assenza degli elementi costitutivi dell’illecito ed ha chiesto la conferma della condanna disposta dalla sentenza impugnata. 6. Le parti hanno ulteriormente insistito sulle rispettive tesi difensive, mediante il deposito di documenti, di memorie integrative e di replica. 7. All’udienza pubblica del 4 marzo 2021, la causa è stata discussa dalle parti ed è stata trattenuta in decisione dalla Sezione. 8. In via preliminare, vanno esaminate le eccezioni con cui la parte appellata ha contestato sotto diversi profili, sia di rito sia di merito, l’ammissibilità del motivo formulato dal Comune appellante, sulla insussistenza della giurisdizione amministrativa. 9. Più nel dettaglio, ritiene il Collegio che non sia fondata l’eccezione dell’appellata, secondo la quale ella avrebbe ‘perduto’ un intero grado del giudizio (quello di primo grado) per controdedurre sul prospettato difetto di giurisdizione, in considerazione del fatto che: a) rientra nella legittima facoltà processuale della parte intimata di difendersi o meno nel corso del giudizio amministrativo di primo grado; b) l’appello al Consiglio di Stato, nei limiti dell’effetto devolutivo e delle preclusioni e delle decadenze già verificatesi, rappresenta un mezzo di gravame e non un mero mezzo di impugnazione, sicché l’intera materia del contendere è rimessa all’integro giudizio in sede d’appello; c) il soccombente in primo grado, anche se non si è costituito nel relativo giudizio, con l’atto d’appello può formulare tutte le sue difese di rito e di merito, al fine di ottenere la riforma della sentenza impugnata; d) l’art. 9 del c.p.a. disciplina specificamente i limiti al rilievo officioso del difetto di giurisdizione da parte del Consiglio di Stato (“Nei giudizi di impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione”); e) il giudicato sulla questione di giurisdizione si forma soltanto all’esito dell’esperimento (o della decorrenza dei termini) dei mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento processuale e rispetto alla sua formazione non ha rilevanza il fatto che la parte intimata non si sia costituita nel primo grado del giudizio. Anche l’eccezione concernente l’asserita violazione del divieto dei cd nova in appello non è fondata. L’ambito di efficacia oggettiva entro cui opera l’istituto in questione riguarda il divieto per le parti di ampliare le difese articolate nel precedente grado del giudizio, poiché la formazione della materia del contendere è rimessa al potere dispositivo delle parti secundum alligata et probata. Ne consegue che la questione sulla insussistenza della giurisdizione amministrativa ben poteva essere formulata per la prima volta dal Comune in appello per rimuovere la sua soccombenza, così come espressamente consentito dall’art. 9 del c.p.a., pur in assenza della sua costituzione nel primo grado del giudizio. Il primo motivo d’appello risulta dunque ammissibile. 10. L’ultima questione preliminare da esaminare – sollevata dall’appellata - afferisce alla questione se sia fondata la deduzione del Comune, per la quale sussisterebbe la giurisdizione del giudice civile sulla controversia de qua. 10.1. Prima di affrontare tale questione di giurisdizione, che rappresenta l’oggetto del primo quesito sottoposto alla valutazione della Adunanza Plenaria, la Sezione rileva che vada esaminato il motivo d’appello, secondo cui si dovrebbe rilevare la tardività del ricorso di primo grado. 10.2. A questo proposito va rilevato che l'accertamento dei presupposti processuali riguarda, nell'ordine, la giurisdizione, la competenza, la capacità delle parti, lo ius postulandi, la ricevibilità e la eventuale rimessione in termini, il contraddittorio e l’estinzione del giudizio, mentre l’accertamento delle condizioni dell'azione concerne l’interesse ad agire, il titolo o la legittimazione al ricorso, la legitimatio ad causam (v. la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 2015). Ciò significa che in linea di principio si dovrebbe definire con priorità la questione sulla sussistenza o meno della giurisdizione amministrativa. 10.3. Nel caso di specie, tuttavia, la Sezione ritiene che vada decisa con priorità la questione sulla ricevibilità del ricorso di primo grado, il cui superamento consente di devolvere all’esame dell’Adunanza Plenaria la specifica questione di giurisdizione. 10.3. Ad avviso della Sezione, la deduzione del Comune appellante – sulla tardività del ricorso di primo grado - non è fondata e va, pertanto, respinta. L’art. 30, comma 5, del c.p.a. dispone che “Nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza”. Gli atti impugnati dalla vicina – la variante urbanistica ed i permessi di costruire - sono stati annullati dal TAR per le Marche con la sentenza n. 630 del 2011, confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 3114 del 2014, pubblicata in data 19 giugno 2014 e passata in giudicato, a seguito dello spirare dei termini previsti per la sua impugnazione (con ricorso per revocazione o per cassazione), in data 3 febbraio 2015. Il ricorso con cui l’appellata ha formulato la domanda di risarcimento del danno è stato portato alla notificazione in data 2 dicembre 2014, che si è perfezionata il successivo 3 dicembre 2014 (v. la cartolina di ricevimento allegata al ricorso di primo grado), ben prima del passaggio in giudicato della sentenza recante l’annullamento degli atti, dunque nel rispetto del termine di decadenza di 120 giorni, previsto dal citato art. 30, comma 5, del c.p.a. Dagli atti processuali non risulta, invece, che la sentenza di questa Sezione pubblicata il 19 giugno 2014 sia stata oggetto di notificazione a cura della parte, circostanza che avrebbe determinato l’applicazione del termine breve di sessanta giorni per il suo passaggio in cosa giudicata e, dunque, il necessario ricalcolo del termine per la proposizione tempestiva del ricorso ai sensi dell’art. 30, comma 5, del c.p.a. Di conseguenza, quand’anche si ritenga che il comma 5 riguardi qualsiasi domanda risarcitoria formulata dopo una sentenza di annullamento (non solo quella del ricorrente vittorioso, ma anche quella del controinteressato – o suo avente causa - soccombente), il termine da esso previsto risulta rispettato. 11. Si può dunque passare ad esporre le ragioni della rimessione all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99 del codice del processo amministrativo. 12. La questione in contestazione tra le parti riguarda l’individuazione del giudice (civile o amministrativo) fornito di giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno proposta dal destinatario di una favorevole variante urbanistica e dei conseguenti ‘provvedimenti ampliativi’, per i pregiudizi conseguenti all’annullamento dei medesimi provvedimenti, disposto dal giudice amministrativo in accoglimento di un altrui ricorso. 13. La Sezione ritiene opportuno che sulla questione si pronunzi con la sua istituzionale autorevolezza l’Adunanza plenaria, poiché non vi sono in materia univoci orientamenti delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato. 14. Al riguardo, la Sezione preliminarmente rileva che la questione di principio riguarda non solo i casi in cui in una materia sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (nella specie, la controversia riguarda le conseguenze dell’annullamento di atti di pianificazione e di permessi di costruire, dunque di atti emanati nelle materie dell’urbanistica e dell’edilizia), ma anche i casi in cui sussiste la giurisdizione amministrativa di legittimità, quando il soggetto controinteressato nel processo amministrativo - una volta che si sia determinata la soccombenza ‘sua e dell’Amministrazione’ con l’annullamento di un favorevole atto impugnato - intenda ottenere dall’Amministrazione medesima un risarcimento del danno, proprio perché è stato emanato il provvedimento per lui favorevole, ma che poi è stato annullato, perché risultato illegittimo. 15. Sulla questione di giurisdizione in esame si sono funditus pronunciate le tre ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che hanno affermato la giurisdizione del giudice civile nelle controversie avente per oggetto le domande risarcitorie formulate: - dal beneficiario di una concessione edilizia poi legittimamente annullata in sede di autotutela, il quale lamentava la lesione di un suo affidamento (si tratta della ordinanza n. 6594 del 2011); - da chi aveva ottenuto dapprima una attestazione sull’edificabilità di un’area (utile per valutare la convenienza di un acquisto, rivelatasi insussistente) e poi una concessione edilizia legittimamente annullata in sede giurisdizionale, il quale anche in tal caso lamentava la lesione di un suo affidamento (si tratta della ordinanza n. 6595 del 2011); - da chi aveva ottenuto una aggiudicazione di una gara d’appalto di un pubblico servizio, annullata in sede giurisdizionale, il quale anche in tal caso lamentava la lesione di un suo affidamento (si tratta della ordinanza n. 6596 del 2011). 16. Con tali ordinanze, le Sezioni Unite: - hanno superato il proprio precedente orientamento, per il quale – per la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativa – rileva la riconducibilità della controversia ad una delle materie indicate dalla legge, rientrandovi anche tutte le controversie di natura risarcitoria (v. la sentenza n. 8511 del 2009); - hanno evidenziato che chi aveva proposto le domande risarcitorie non poneva in discussione la legittimità degli atti di annullamento (in via amministrativa o giurisdizionale) di quelli ampliativi della loro sfera giuridica (questione ovviamente esaminabile dal giudice avente giurisdizione sugli atti autoritativi, e cioè dal giudice amministrativo, che peraltro in almeno due dei casi sopra indicati aveva annullato gli atti impugnati), ma lamentava la ‘lesione dell’affidamento’ riposto nella legittimità degli atti annullati e chiedeva il risarcimento dei danni subiti per aver orientato sulla base di questi le proprie scelte negoziali o imprenditoriali; - hanno ritenuto che sarebbe ravvisabile un ‘diritto all’integrità del patrimonio’, la cui lesione, cagionata con la ‘lesione dell’affidamento’, determinerebbe la sussistenza della giurisdizione del giudice civile. 17. Peraltro, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno poi affermato principi anche divergenti da quelli posti a base delle citate ordinanze del 2011. 18. Alcune pronunce (nn. 17586/2015, 12799/2017, 15640/2017, 19171/2017, 1654/2018, 4996/2018, 22435/2018, 32365/2018, 4889/2019, 6885/2019 e 12635/2019) si sono poste in linea di continuità con le ordinanze del 2011 ed hanno affermato che: a) la controversia sulla domanda risarcitoria formulata da chi abbia fatto ‘incolpevole affidamento’ su di un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica, successivamente annullato, rientrerebbe nella giurisdizione del giudice civile, perché avrebbe ad oggetto la lesione non già di un interesse legittimo, bensì di un diritto soggettivo; b) tale diritto sarebbe quello alla ‘conservazione dell'integrità del patrimonio’, leso dalle scelte compiute confidando nella legittimità del provvedimento amministrativo poi annullato. 19. Altre pronunce delle Sezioni Unite, invece, hanno affermato la sussistenza della giurisdizione amministrativa: - per Sez. Un., n. 8057 del 2016, «l'azione amministrativa illegittima - composta da una sequela di atti intrinsecamente connessi - non può essere scissa in differenti posizioni da tutelare, essendo controverso l'agire provvedimentale nel suo complesso, del quale l'affidamento costituisce un riflesso, privo di incidenza sulla giurisdizione»; - per Sez. Un., n. 13454 del 2017, «la giurisdizione esclusiva prevede la cognizione, da parte del giudice amministrativo, sia delle controversie relative ad interessi legittimi della fase pubblicistica, sia delle controversie di carattere risarcitorio originate dalla caducazione di provvedimenti della fase predetta, realizzandosi quella situazione d'interferenza tra diritti ed interessi, tra momenti di diritto comune e di esplicazione del potere che si pongono a fondamento costituzionale delle aree conferite alla cognizione del giudice amministrativo, riguardo ad atti e comportamenti assunti prima dell'aggiudicazione o nella successiva fase compresa tra l'aggiudicazione e la mancata stipula del contratto»; - per Sez. Un., n. 13194 del 2018, i principi fissati nelle ordinanze del 2011 non sono applicabili quando non vi sia stato un provvedimento ampliativo della altrui sfera giuridica. 20. Come si è già sopra evidenziato, il contrasto di vedute sulla questione si è verificato anche nell’ambito della giurisprudenza amministrativa. Di tale contrasto ha dato conto esaurientemente l’ordinanza n. 2013 del 2021 della Sezione Seconda del Consiglio di Stato, riguardante una domanda risarcitoria conseguente all’annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento ampliativo, in materia di governo del territorio. Tale ordinanza ha riscontrato “un contrasto giurisprudenziale in punto di giurisdizione all’interno del Consiglio di Stato, atteso che in alcune pronunce (cfr. Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 27 settembre 2016, n. 3997; Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 25 gennaio 2017, n. 293, e 20 dicembre 2017, n. 5980; Consiglio di Stato, sezione VI, 13 agosto 2020, n. 5011) si è aderito alla traiettoria argomentativa sostenuta dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, con le ordinanze del 32 marzo 2011, numeri 6594, 6595 e 6596, e con altre ordinanze (4 settembre 2015, n. 17586, 22 maggio 2017, n. 12799; 22 giugno 2017, n. 15640, 2 agosto 2017, n. 19171, 23 gennaio 2018, n. 1654, 2 marzo 2018, n. 4996, 24 settembre 2018, n. 22435, 13 dicembre 2018, n. 32365, 19 febbraio 2019, n. 4889, 8 marzo 2019, n. 6885, 13 maggio 2019, n. 12635, e 28 aprile 2020, n. 8236) si è affermato che la domanda risarcitoria proposta nei confronti della pubblica amministrazione per i danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento ampliativo illegittimo rientra nella giurisdizione ordinaria (anche nelle materie rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), non trattandosi di una lesione dell’interesse legittimo pretensivo del danneggiato (interesse soddisfatto, seppur in modo illegittimo), ma di una lesione del diritto soggettivo alla sua integrità patrimoniale oppure (più recentemente) di una lesione all’affidamento incolpevole quale situazione giuridica soggettiva autonoma, dove l’esercizio del potere amministrativo non rileva in sé, ma per l’efficacia causale del danno-evento. Per contro, in altre pronunce (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23 febbraio 2015, n. 857; T.a.r. Abruzzo, Sezione di Pescara, 20 giugno 2012, n. 312) si è affermato che, nelle materie di giurisdizione amministrativa esclusiva, le domande relative al risarcimento del danno da lesione dell’affidamento riposto sulla legittimità dei provvedimenti successivamente annullati rientrerebbero nell’ambito della cognizione del giudice amministrativo; in tal senso si sono peraltro espresse le sezioni unite della Corte di cassazione con le ordinanze 21 aprile 2016, n. 8057, e 29 maggio 2017, n. 13454 (per l’ipotesi di annullamento in autotutela di provvedimento di affidamento di sevizio pubblico)”. 21. Così delineate le diverse posizioni della giurisprudenza, vanno esposti gli argomenti formulati a sostegno dell’uno o dell’altro indirizzo interpretativo. 22. Più in particolare, a sostegno del ‘primo orientamento’ sulla sussistenza della giurisdizione civile, la ratio decidendi seguita negli anni dalle Sezioni Unite è stata così compendiata dalla ordinanza n. 8236 del 2020: - “la giurisdizione amministrativa presuppone l'esistenza di una controversia sul legittimo esercizio di un potere autoritativo lesivo di un interesse del singolo ed è preordinata ad apprestare tutela (cautelare, cognitoria ed esecutiva) contro l'agire pubblicistico della pubblica amministrazione; - l'attribuzione al giudice amministrativo del potere di condannare l'amministrazione al risarcimento del danno conseguente al modo in cui essa ha esercitato il potere tende a rendere piena ed effettiva la tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, concentrando innanzi al giudice amministrativo non solo la fase del controllo di legittimità dell'azione amministrativa, ma anche quella del risarcimento del danno; tale attribuzione, tuttavia, non individua una nuova materia attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo (quest'ultima affermazione risale, peraltro, a C. cost. n. 204/2004 § 3.4.1)”; - “l'attribuzione al giudice amministrativo della tutela risarcitoria costituisce, quindi, uno strumento ulteriore, complementare rispetto alla tradizionale tutela demolitoria, per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione”; - “il presupposto perché si possa predicare la sussistenza della giurisdizione amministrativa, tuttavia, è che il danno di cui si chiede il risarcimento nei confronti della pubblica amministrazione sia causalmente collegato alla illegittimità del provvedimento amministrativo; in altri termini, che la causa petendi dell'azione di danno sia la illegittimità del provvedimento della pubblica amministrazione”; - “esula, pertanto, dalla giurisdizione amministrativa la domanda con cui il destinatario di un provvedimento illegittimo ampliativo della sua sfera giuridica chieda il risarcimento del danno subito a causa della emanazione e del successivo annullamento (ad opera del giudice o della stessa pubblica amministrazione, in via di autotutela) di tale provvedimento; la causa petendi di detta domanda, infatti, non è la illegittimità del provvedimento amministrativo, bensì la lesione dell'affidamento dell'attore nella legittimità del medesimo”. 23. Per l’opposto ‘secondo orientamento’, tali considerazioni non applicano correttamente né il nesso di presupposizione logico-giuridica tra le premesse e le conclusioni, né il rapporto di causa/effetto tra la causa petendi e le conseguenze dell’annullamento del provvedimento favorevole a chi poi proponga la domanda risarcitoria. Tale orientamento condivide le prime tre affermazioni enunciate dalle Sezioni Unite, sopra riportate al § 22. Nella sostanza, la condivisione delle relative affermazioni si basa su due principi incontrovertibili, evincibili anche dalle disposizioni del codice del processo amministrativo (nelle quali sono state trasfuse le univoche statuizioni della Corte Costituzionale), e cioè che: a) la giurisdizione amministrativa postula che vi sia controversia sul legittimo esercizio o sul mancato esercizio di un potere autoritativo lesivo di una situazione soggettiva (v. l’art. 7 del c.p.a.); b) la tutela risarcitoria costituisce una tecnica di tutela delle situazioni soggettive, complementare o alternativa rispetto a quella demolitoria, e non già un’ulteriore materia da ripartire tra i giudici (v. le sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 della Corte Costituzionale). 24. Il ‘secondo orientamento’ non condivide, invece, l’affermazione secondo cui esulerebbe dalla giurisdizione amministrativa la domanda con cui il destinatario di un provvedimento per lui favorevole – ma illegittimo - chieda il risarcimento del danno subito conseguente alla sua emanazione e al suo successivo annullamento (disposto in sede giurisdizionale o amministrativa). 25. La critica principale si appunta sulla inversione logica che si verrebbe ad operare tra la causa petendi della domanda risarcitoria e la natura dell’illegittimità amministrativa perpetrata, e dunque, in definitiva, sul rapporto tra causa ed effetto. In altre parole, secondo questo diverso indirizzo ermeneutico, la causa petendi della domanda risarcitoria non potrebbe essere ‘appiattita’ sulla tradizionale distinzione, nell’ambiti degli interessi legittimi, tra interesse pretensivo e interesse oppositivo, come se l’interesse del privato alla legittimità dell’azione amministrativa potesse essere ridotto, nell’ambito di quello pretensivo, alla distinzione tra il conseguimento legittimo dell’atto (non vi è dubbio che ciò debba sempre essere, se non altro per il principio di legalità amministrativa), e il suo successivo mantenimento, trascurando del tutto il nesso relazionale all’interno del quale si svolge il rapporto giuridico procedimentale tra Amministrazione pubblica e privato. 26. Occorre dunque approfondire la questione sulla posizione giuridica di chi entri in relazione con l’Amministrazione pubblica, attraverso un rapporto procedimentalizzato. Al riguardo, il primo indirizzo ha dato rilievo ad una situazione soggettiva creata ad hoc, dapprima identificata nel ‘diritto alla conservazione del patrimonio’ e poi, melius re perpensa, rinominata come ‘diritto alla tutela dell’affidamento’. Più in particolare, sono state le stesse Sezioni Unite, con l’ordinanza n. 8236 del 2020, a ritornare sulle proprie definizioni e a superare l’invalso convincimento che – per le precedenti pronunce delle Sezioni Unite - rintracciava la situazione soggettiva del privato lesa dalla delusione delle aspettative generate dal comportamento della pubblica amministrazione nel ‘diritto soggettivo alla conservazione dell'integrità del patrimonio’. Secondo l’ordinanza in commento, “il patrimonio di un soggetto è l'insieme di tutte le situazioni soggettive, aventi valore economico, che al medesimo fanno capo. La conservazione dell'integrità del patrimonio, pertanto, altro non è che la conservazione di ciascuno dei diritti, e delle altre situazioni soggettive attive, che lo compongono. La nozione di "diritto alla conservazione dell'integrità del patrimonio" risulta dunque, in definitiva, priva di consistenza autonoma, risolvendosi in una formula descrittiva che unifica in una sintesi verbale la pluralità delle situazioni soggettive attive che fanno capo ad un soggetto. Va invece ribadito che la situazione soggettiva lesa a cui si riferiscono i principi affermati nelle ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 e in quelle successive conformi - a cui queste Sezioni Unite intendono dare conferma e seguito - si identifica nell'affidamento della parte privata nella correttezza della condotta della pubblica amministrazione”. Al di là dell’avvenuta rinomenclatura, queste osservazioni - che mirano a supportare il ‘primo orientamento’ – si sono basate su ulteriori considerazioni di natura sostanziale e processuale. Sul piano sostanziale, le Sezioni Unite non hanno attribuito rilievo alle posizioni giuridiche soggettive riconducibili alla dinamicità del procedimento amministrativo, nel rapporto tra chi abbia chiesto ed ottenuto il provvedimento e l’Amministrazione pubblica, ed hanno individuato uno distinto titolo giuridico ‘dell’obbligazione’, considerando rilevante l’art. 1173 del codice civile, per il quale “Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”. Nel richiamare categorie, istituti e figure soggettive del diritto civile, questo distinto titolo giuridico è stato fatto discendere (come già prima evidenziato, prima sub specie del ‘diritto alla conservazione del patrimonio’, poi come ‘diritto connesso al legittimo affidamento’) dal principio generale del neminem laedere. Sul piano processuale, invece, il considerare irrilevante il nesso sussistente tra l’interesse legittimo del privato - l’avvenuto esercizio del potere e la posizione giuridica dell’eventuale controinteressato che abbia ottenuto l’annullamento del provvedimento in sede giurisdizionale - ha indotto le Sezioni Unite a ravvisare una distinta situazione soggettiva devoluta alla giurisdizione del giudice civile. 27. La Sezione – nel rimettere all’esame dell’Adunanza Plenaria la questione di giurisdizione – ritiene che in linea di principio si dovrebbe affermare la sussistenza della giurisdizione amministrativa, ai sensi degli articoli 7 e 133 del codice del processo amministrativo, potendo non risultare convincenti le considerazioni sostanziali e quelle processuali poste a base del ‘primo orientamento’. 28. Per quanto concerne il piano sostanziale, non può essere sottovalutata la natura tipicamente relazionale dell’interesse legittimo pretensivo, e cioè della posizione (che come l’interesse legittimo oppositivo o difensivo) correlativa all’esercizio pur illegittimo del pubblico potere. 28.1. L’interesse legittimo pretensivo esprime, ad un tempo, sia l’interesse sostanziale rappresentato dalla pretesa ad ottenere un ‘bene della vita’, sia l’interesse procedimentale per cui il provvedimento finale sia emanato seguendo il procedimento previsto dalla legge. Non si tratta di un mero interesse ‘occasionalmente protetto’ (adoperando una espressione tipica degli albori della giustizia amministrativa), cioè protetto per il tramite della tutela primaria della legalità amministrativa, bensì di una situazione giuridica immediata, diretta, concreta e personale del privato (per i relativi approfondimenti, v. anche la sentenza n. 7 del 2021 dell’Adunanza Plenaria). Può risultare dunque artificioso il sovrapporre a una tale posizione giuridica soggettiva – riferibile ad un rapporto di diritto pubblico tra il richiedente e l’Amministrazione - una diversa situazione sostanziale (da richiamare per individuare una ‘diversa’ giurisdizione), basata sul principio del neminem laedere (il cui ambito di efficacia prescinde dalla esistenza di un preesistente rapporto tra danneggiante e danneggiato) o anche su un ‘contatto sociale’ (categoria che può giustificare nell’ambito della giurisdizione civile la soluzione secondo giustizia di determinate tipologie di controversie senza alterare i criteri di riparto della giurisdizione, ma che di per sé è incongruamente richiamata quando si tratti dell’esercizio o del mancato esercizio del pubblico potere, come ha chiaramente evidenziato anche la citata sentenza n. 7 del 2021 dell’Adunanza Plenaria). 28.2. In quest’ottica prospettica, per considerazioni sistematiche la Sezione ritiene che l’interesse pretensivo risulta di per sé leso quando l’Amministrazione emana il diniego avente natura autoritativa, ovvero resta inerte (risultando illogico e in contrasto con la legge n. 241 del 1990 il ritenere che nel corso del procedimento l’inerzia dell’attività amministrativa – disciplinata dalle leggi amministrative sostanziali e processuali – sia definibile come un comportamento sottoposto al diritto privato). L’interesse pretensivo: - costituisce il presupposto logico-giuridico del diritto che poi vanta il richiedente, qualora in accoglimento della istanza vi sia il rilascio di un permesso, di una concessione, di una licenza o di un altro atto abilitativo ‘comunque denominato’; - ridiventa configurabile, allorquando l’Amministrazione in sede di autotutela o il giudice in sede giurisdizionale abbia annullato l’atto abilitativo, estinguendo di conseguenza quel diritto di per sé configurabile solo quando l’atto abilitativo favorevole risulti ancora efficace. In altri termini, quando è annullato (in sede amministrativa o giurisdizionale) il provvedimento favorevole, il più delle volte l’istanza originaria del richiedente non può che risultare infondata e va respinta. Nella prassi, quando l’Amministrazione dapprima accoglie una istanza e poi annulla il titolo abilitativo perché risultato illegittimo, il secondo provvedimento comporta – anche se ciò non è esplicitato expressis verbis – il rigetto della istanza medesima. Lo stesso avviene in sostanza quando sia rilasciato un atto abilitativo (ad esempio, un permesso di costruire) e questo sia annullato dal giudice amministrativo su istanza di chi vi abbia interesse (ad esempio, ‘del vicino’, come è avvenuto nel caso della variante urbanistica e dei permessi rilasciati dal Comune di Numana). In tal caso, nella prassi l’annullamento dell’espresso titolo abilitativo da parte del giudice amministrativo, in accoglimento del ricorso di chi vi abbia interesse, non sempre è seguito da un formale ed espresso ulteriore provvedimento negativo, di rigetto della originaria istanza. Infatti, a seconda dei casi, l’annullamento del titolo abilitativo da parte del giudice può comportare sia la rinnovazione del procedimento e il rilascio di un ulteriore titolo abilitativo (se ne sussistono tutti i presupposti), oppure la sostanziale fine della vicenda, perché dalla sentenza del giudice amministrativo si desume che il vizio dell’atto abilitativo è di per sé è insanabile, pur se un formale diniego non è emanato dopo la sentenza di annullamento. Ciò che rileva, sul piano sostanziale, è il fatto che – con l’annullamento dell’atto abilitativo – non sussiste più il diritto in precedenza sorto e torna ad esservi un interesse pretensivo che però non può più essere soddisfatto, quando un tale esito sia desumibile dalla sentenza del giudice amministrativo (di cui può anche prendere atto un ulteriore provvedimento, questa volta negativo, conseguente all’annullamento dell’atto abilitativo precedente). 28.3. Allorquando sia stato annullato l’atto abilitativo e dunque non sia più configurabile il diritto ad esso conseguente, l’originario richiedente torna ad essere titolare di un interesse legittimo. In fondo, si tratta del ripristino della dinamica delle posizioni giuridiche, già segnalata dalla Seconda Sezione, con l’ordinanza n. 2013 del 2021: il ricorrente ed il controinteressato, beneficiario in quanto tale dell’atto abilitativo impugnato, sono titolari di contrapposti interessi legittimi nel corso del procedimento, sicché – una volta che la sentenza amministrativa abbia annullato il titolo abilitativo – il controinteressato non risulta più titolare del diritto che era sorto con l’atto ormai annullato. In altri termini, il controinteressato soccombente va qualificato come titolare di una posizione soggettiva contrapposta e speculare a quella del ricorrente vittorioso, in un quadro nel quale tra di loro e nei confronti dell’Amministrazione non vi sono diritti soggettivi da fare valere. 28.4. Qualora il controinteressato soccombente nel giudizio di legittimità intenda formulare una domanda risarcitoria nei confronti dell’Amministrazione anch’essa soccombente, la relativa causa petendi riguarda proprio il come è stato in precedenza esercitato il potere amministrativo e si deve verificare se il vizio dell’atto – oltre ad aver comportato il suo annullamento – deve avere conseguenze sul piano risarcitorio. Come ha evidenziato la Corte Costituzionale con le sentenze n. 292 del 2000 (§ 3.3.), n. 204 del 2004 (§ 3.4.1.) e n. 191 del 2006 (4.2.), la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, per il caso di domanda risarcitoria della lesione arrecata all’interesse legittimo, si giustifica poiché la pretesa risarcitoria consiste in un rimedio ulteriore, che l’ordinamento ormai riconosce, quando è stato leso l’interesse legittimo. 28.5. Per un principio di simmetria, la lesione arrecata all’interesse legittimo è configurabile sia quando l’istanza non sia accolta e vi sia un diniego poi annullato su ricorso del richiedente, sia quando l’istanza sia accolta e il titolo abilitativo sia annullato su ricorso di chi vi abbia interesse. In entrambi i casi, non sono ravvisabili (ab origine o a seguito dell’atto o della sentenza di annullamento) diritti soggettivi e rileva l’art. 7, comma 1, del codice del processo amministrativo, per il quale ‘sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni’. Il comma 1 si è espressamente riferito alle controversie ‘concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo’ e risulta dunque testualmente applicabile a tutte le controversie che sorgono quando vi sia stato l’esercizio del pubblico potere e vi sia chi si dolga del suo illegittimo esercizio. 28.6. L’art. 7 – anche per le considerazioni poste a base delle sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 della Corte Costituzionale – si ispira al principio per il quale il giudice amministrativo è il ‘giudice naturale dell’esercizio della funzione pubblica’, esercizio che con evidenza vi è non solo quando un diniego illegittimamente respinga una istanza, ma anche quando un illegittimo titolo abilitativo accolga l’istanza. 28.7. Ragionando diversamente, si produrrebbe un ingiustificato e irragionevole scollamento tra fatto e diritto, tra procedimento e processo, sottraendo al giudice amministrativo – che per l’art. 103 della Costituzione conosce degli interessi legittimi - una parte fondamentale dell’agire amministrativo, e cioè quello autoritativo manifestatosi attraverso provvedimenti favorevoli al richiedente, ma giuridicamente non rispettosi del paradigma legale. Sotto tale profilo, va rimarcato che l’art. 103 della Costituzione – anche sulla base dei lavori della Assemblea Costituente – ha attribuito uno specifico significato tecnico-giuridico alla nozione di interesse legittimo, la quale – quando si tratti dello svolgimento dell’azione amministrativa e degli atti autoritativi - non può essere elusa sulla base di ricostruzioni teoriche che vi soprappongano diritti in realtà non qualificati come tali dalla legge. 28.8. In altre parole, la pretesa risarcitoria – quando si basa su quanto è accaduto in sede di esercizio del potere amministrativo ‘autoritativo’ o nel corso del procedimento amministrativo – non è riconducibile ad un comportamento o a una condotta di rilievo privatistico o svolta ‘in via di mero fatto’ e che potrebbe essere serbata da un quisque de populo in spregio al principio del neminem laedere, ma si duole dell’esercizio (o del mancato esercizio) del potere amministrativo, disciplinato dal diritto pubblico: a) sotto l’aspetto soggettivo, si tratta di provvedimenti e di attività della pubblica Amministrazione; b) sotto l’aspetto oggettivo, si tratta di poteri disciplinati dalla legge n. 241 del 1990 e dalle altre leggi amministrative; c) sotto l’aspetto funzionale, si tratta di verificare le conseguenze dell’illegittimo esercizio del potere. Sotto l’aspetto normativo, la domanda risarcitoria - nel caso in esame – si basa non sulla illiceità di un ‘comportamento’ (comunque riconducibile all’esercizio del potere), bensì sull’emanazione sia pure illegittima del provvedimento autoritativo, con la conseguente applicazione dell’art. 7, comma 1, e dell’art. 133, comma 1, lettera f), del codice del processo amministrativo, per il quale sussiste la giurisdizione esclusiva sulla medesima domanda risarcitoria: è ben difficile sostenere che la domanda risarcitoria non abbia per ‘oggetto’ il ‘come’ sia stato esercitato il potere amministrativo con il provvedimento annullato (e nella materia urbanistica, nel caso in esame), per i chiari enunciati dell’art. 7 e dell’art. 133 sopra richiamati. 29. A questo proposito, la menzionata ordinanza n. 2013 del 2021 della Sezione Seconda del Consiglio di Stato ha già osservato che è prioritario qualificare l’illecito in senso logico ed eziologico, anziché in senso meramente cronologico (“atteso che l’ordinamento attribuisce, in ossequio al principio di effettività e pienezza della tutela giurisdizionale, alla cognizione del giudice amministrativo tutti gli strumenti processuali idonei a tutelare la posizione lesa dall’esercizio dei pubblici poteri di cui è titolare l’amministrazione e che la circostanza che il danno non sia direttamente cagionato dal provvedimento, ma derivi dal suo annullamento, attiene soltanto al piano cronologico e non, per contro, a quello logico ed eziologico, stante la riconducibilità diretta del pregiudizio al provvedimento amministrativo”). 29.1. Il criterio di riparto della giurisdizione, che trascina con sé la cognizione sull’azione risarcitoria intesa come tecnica di tutela e non come autonoma materia a sua volta da ripartire, non si basa sulla satisfattività o meno della situazione soggettiva, ma sulla sua natura giuridica (“In sostanza, l’orientamento favorevole alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria si basa sul presupposto per cui vi sarebbe l’interesse legittimo soltanto a fronte della illegittima negazione di un bene della vita e non dinanzi all’illegittimo ‒ e, pertanto, necessariamente instabile ‒ riconoscimento di siffatto bene. Quest’impostazione, tuttavia, non appare in sintonia con il generale criterio di riparto sancito dalla Costituzione che non condiziona la natura delle situazioni soggettive (diritto soggettivo/interesse legittimo), rilevante per la concreta applicazione del criterio, al carattere satisfattivo o non satisfattivo del provvedimento amministrativo”). 29.2. Il giusto processo, tra i suoi principali corollari, ha il principio della concentrazione delle tutele. “Inoltre l’opposta soluzione potrebbe condurre ad esiti disarmonici, atteso che, in base ad essa, laddove il risarcimento venga chiesto dal controinteressato – titolare di un interesse legittimo speculare a colui che ha ottenuto dalla pubblica amministrazione – per i danni causatigli da un provvedimento illegittimo vi sarebbe giurisdizione del giudice amministrativo su tale domanda, mentre, qualora la domanda risarcitoria sia avanzata dal soggetto destinatario del medesimo illegittimo provvedimento (a lui favorevole), la giurisdizione si radicherebbe presso l’autorità giudiziaria ordinaria. Da uno stesso giudizio dinanzi al giudice amministrativo sul provvedimento, conclusosi con pronuncia caducatoria, potrebbero, quindi, gemmare due differenti domande risarcitorie, vagliate da due differenti plessi giurisdizionali, il che non sembra conforme alla coerenza del sistema processuale, nonché ai principio di parità di trattamento e di concentrazione delle tutele, considerato peraltro che la Corte costituzionale, con la sentenza 15 luglio 2016, n. 179, ha precisato che «l’ordinamento non conosce materie “a giurisdizione frazionata”, in funzione della differente soggettività dei contendenti». 29.3. In altri termini, ragioni di coerenza sistematica – di per sé rilevanti anche per ravvisare la ragionevolezza delle soluzioni legislative (o delle loro esegesi), ponendosi altrimenti serie questioni di legittimità costituzionale con riferimento agli articoli 3, 97 e 103 della Costituzione – sembrano imporre di ritenere che – una volta annullato un atto abilitativo – il giudice amministrativo ha giurisdizione su ogni domanda risarcitoria proposta nei confronti dell’Amministrazione: - quella formulata da quel vicino che impugni il permesso di costruire (con il medesimo ricorso introduttivo o con una domanda proposta dopo la sentenza di annullamento); - quella formulata dal titolare del permesso di costruire, che sia la parte controinteressata nel giudizio di cognizione proposto contro tale provvedimento (con un ricorso incidentale condizionato all’accoglimento eventuale dalla domanda di annullamento o – come nel caso di specie – con un ricorso autonomo dopo l’annullamento del permesso). 29.4. Affermare la sussistenza della giurisdizione del giudice civile sembra dunque contrastare anche con la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, per la quale il giudice amministrativo è il ‘giudice naturale dell’esercizio della funzione pubblica’: tale funzione si deve necessariamente sindacare quando si esamina la domanda risarcitoria, formulata dal controinteressato risultato soccombente nel giudizio amministrativo di legittimità. 30. Inoltre, dovrebbe rilevare anche l’aspetto ricostruttivo e di sistema sotto il profilo della qualificazione della responsabilità giuridica in cui incorre l’Amministrazione pubblica. 30.1. La tesi che individua nel giudice civile il giudice fornito di giurisdizione a conoscere la situazione soggettiva dell’affidamento giunge a questo risultato processuale, come si è già esposto, perché afferma che sul piano sostanziale la lesione discende dalla violazione non delle regole di diritto pubblico che disciplinano l'esercizio del potere amministrativo, bensì delle regole di correttezza e buona fede di diritto privato, che anche l’Amministrazione pubblica è tenuta a rispettare, sulla base del principio del neminem laedere. 30.2. Il ‘secondo orientamento’ replica a queste affermazioni, reputandole non pertinenti alla fattispecie all’esame. Si è affermato, in primo luogo, che il tema dell’individuazione del giudice fornito di giurisdizione sulla domanda risarcitoria da provvedimento favorevole poi annullato non avrebbe nulla a che vedere col principio di diritto secondo cui, “non diversamente da quanto accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di correttezza e buona fede non sono regole di validità (del provvedimento), ma regole di responsabilità (per il comportamento complessivamente tenuto)”. Quest’ultimo principio (ribadito anche dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 2018) riguarda l’affermazione di una regola che consente di ottenere dal giudice amministrativo la tutela risarcitoria in presenza dei relativi presupposti e di per sé non consente di desumere che dovrebbe esservi la giurisdizione del giudice civile su un’altra tipologia di controversie risarcitorie. In questa prospettiva, il principio secondo cui la violazione delle regole di condotta non è causa di invalidità dell’atto, bensì fonte di responsabilità civile, non solo non risulta decisiva nel senso dell’affermazione della giurisdizione del giudice civile, ma costituisce, anzi, un argomento erroneamente utilizzato rispetto alla problematica del riparto di giurisdizione, per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, il criterio del riparto è fondato sulla situazione soggettiva, e non sui principi di diritto o sulle regole di condotta (la tutela dell’affidamento, sia nella tradizione giuridica romanistica, sia in quella europea, sia in quella interna civilistica, rappresenta un principio generale del diritto e, guardato dall’angolo prospettico delle regole di condotta, esprime la reazione al tradimento della fiducia malriposta, ma non costituisce di per sé un’autonoma situazione soggettiva: anche per la più recente giurisprudenza della Cassazione il diritto alla conservazione del patrimonio non è un vero e proprio ‘diritto’, bensì un’espressione sintetica per esprimere il concetto, descrittivo d’insieme, dell’appartenenza ad un soggetto di una certa posizione giuridica). La tutela dell’affidamento costituisce un ‘principio’, piuttosto che una ‘situazione soggettiva’, che consente di valutare il comportamento delle parti che entrano in relazione tra di loro e se vi sia stata la violazione di un legittimo affidamento che dà luogo ad un comportamento antigiuridico e alla conseguente responsabilità. In secondo luogo, la condanna al risarcimento del danno – come si è già evidenziato - costituisce una ‘tecnica di tutela’ della posizione giuridica soggettiva, e non un’ulteriore ‘materia’ da ripartire. Oltre a rilevare il sopra riportato art. 7, comma 1, del c.p.a. (sulla sussistenza della giurisdizione amministrativa sulle controversie ‘concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo’), vanno richiamati i commi 4 e 5 del medesimo art. 7, i quali hanno specificato che tra le controversie sono ricomprese quelle risarcitorie, connesse e consequenziali, rispettivamente, alle situazioni di interesse legittimo e, nelle particolari materie indicate dalla legge, anche di diritto soggettivo. Sotto il profilo testuale, va rimarcato che il comma 1 ha con lungimiranza affermato la sussistenza della giurisdizione amministrativa, attribuendo rilievo decisivo solo e soltanto alla natura autoritativa del potere, in qualsiasi forma esso si sia manifestato (provvedimento, atto, accordo, comportamento connesso all’esercizio del potere amministrativo; cfr. Corte Costituzionale n. 191 del 2006), e non alla satisfattività o meno dell’azione amministrativa rispetto alle aspettative del richiedente. D’altra parte, l’art. 7, al comma 7, ha previsto che “Il principio di effettività è realizzato attraverso la concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, dei diritti soggettivi”. E’ ragionevole affermare che tale ‘concentrazione’ riguardi tutte le azioni esperibili nel processo amministrativo (cognitoria, demolitoria, risarcitoria, esecutiva), dunque anche tutte le azioni risarcitorie, quando sia lamentato l’illegittimo esercizio del potere, per tutte le situazioni soggettive coinvolte nel corso del procedimento amministrativo e per quelle conseguenti all’emanazione del provvedimento autoritativo, anche quando gli effetti di questo siano venuti meno a seguito dell’annullamento disposto in sede amministrativa o giurisdizionale. D’altra parte, qualora sia ravvisata la giurisdizione del giudice civile, risulterebbe sottratta al giudice amministrativo la cognizione di controversie di indubbia natura pubblicistica, anche con l’inconveniente per il quale un altro ordine giurisdizionale – in disarmonia con gli articoli 7 e 133 del c.p.c. - dovrebbe per di più esaminare la portata ed il significato anche conformativo delle pronunce del giudice amministrativo, se non altro allo scopo di qualificare i fatti e di ravvisare la sussistenza o meno degli elementi costitutivi di un illecito, di cui un elemento decisivo da valutare è proprio il decisum della sentenza di annullamento emessa dal giudice amministrativo per verificare se in concreto vi sia una rimproverabilità eccedente la mera illegittimità dell’atto. Un’altra disarmonia, già segnalata dalla Seconda Sezione con la citata ordinanza n. 2013 del 2021, sarebbe costituita dal fatto che – malgrado indubbiamente sussista la giurisdizione amministrativa per il caso in cui chi abbia impugnato un permesso proponga anche la domanda risarcitoria dopo il suo annullamento – proprio a seguito dell’annullamento del permesso il suo originario beneficiario potrebbe proporre (per la tesi qui avversata) una domanda risarcitoria innanzi al giudice civile, malgrado vi sia la sostanziale identicità della vicenda, caratterizzata dalla emanazione del provvedimento autoritativo all’esito del relativo procedimento e dal suo annullamento da parte del giudice amministrativo. Ciò peraltro osterebbe alla contestuale proposizione del ricorso incidentale condizionato da parte del beneficiario, consentendo di fatto la sola successiva proposizione del ricorso autonomo, malgrado il codice di rito non preveda tale forma di limitazione relativamente alle modalità di impugnazione. Va infine segnalato che l'art. 30, comma 2, del c.p.a. completa il quadro delle condizioni e dei presupposti per l’esercizio dell’azione risarcitoria, contestualmente ad un’altra azione o anche in via autonoma, ancorandola in modo esplicito al pregiudizio derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella doverosa. 30.3. Si formula dunque alla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato il quesito ‘se sussista la giurisdizione amministrativa sulla domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno, formulata dall’avente causa del destinatario di una variante urbanistica, quando entrambi siano risultati soccombenti in un giudizio amministrativo, proposto dal vicino, all’esito del quale sia stata annullata per vizi propri la medesima variante e siano stati annullati per illegittimità derivata i conseguenti permessi di costruire’. 31. Con riferimento alle altre censure formulate dal Comune di Numana, per l’ipotesi in cui vada respinto il primo motivo d’appello e vada ravvisata la giurisdizione amministrativa, la Sezione ritiene che vadano approfonditi il rilievo da attribuire nei singoli casi all’affidamento, nonché la determinazione dei presupposti in base ai quali si possa effettivamente ritenere che esso sia ‘incolpevole’. 31.1. Ad avviso della Sezione, non qualsivoglia affidamento del privato può essere posto a base di una domanda risarcitoria, per il solo fatto dell’annullamento di un provvedimento amministrativo favorevole. Infatti, occorrerebbe sempre tenere conto delle peculiarità della fattispecie concreta, da apprezzarsi caso per caso, alla luce degli accadimenti effettivamente svoltisi nel corso del procedimento amministrativo e tenendo conto delle modalità con cui è stata presentata l’istanza poi accolta dall’Amministrazione con l’atto poi annullato. 31.2. Nel caso di specie, ad avviso della Sezione, dovrebbe tenersi conto del fatto che: a) la vicenda trae origine da una favorevole variante urbanistica e da permessi di costruire, e cioè da provvedimenti emessi dal Comune di Numana in accoglimento delle istanze del dante causa della appellata, e dai titoli edilizi che ella ha chiesto di volturare in proprio favore, ritenendoli conformi ai suoi interessi, negli stessi termini in cui lo erano per il suo dante causa; b) l’interessata ha difeso in giudizio gli atti in questione, risultando soccombente, come l’Amministrazione, sia nel giudizio di annullamento sia in quello, successivo, di esecuzione per violazione del giudicato, laddove è stata definitivamente acclarata la non sanabilità delle opere nemmeno ai sensi dell’art. 38, del Testo unico sull’edilizia; c) ad avviso dell’appellata, l’affidamento ingenerato dal Comune si sarebbe sostanziato nella propria convinzione di aver titolo a ottenere (e mantenere) i permessi di costruire. 32. A questo proposito, si richiamano per ragioni di brevità i passaggi logico-argomentativi contenuti nella menzionata ordinanza di rimessione alla Adunanza Plenaria n. 2013 del 2021, depositata dalla Sezione Seconda, la quale ha evidenziato anche su questo aspetto un contrasto di giurisprudenza tra le Sezioni semplici del Consiglio di Stato: “Segnatamente, a fronte di un indirizzo per cui la sentenza di annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo «ha accertato l’assenza di un danno ingiusto, perché all’originario ricorrente non spettava l’ottenimento del bene della vita sotteso al suo interesse legittimo. Tanto che l’amministrazione, qualora avesse posto in essere una condotta jure avrebbe dovuto respingere l’istanza di concessione edilizia» (Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 17 gennaio 2014, n. 183) e per cui «nel caso di annullamento in sede giurisdizionale di un titolo abilitativo (...) non può (...) dolersi del danno chi ‒ per una qualsiasi evenienza e con un provvedimento espresso, ovvero a seguito di un silenzio assenso o una s.c.i.a. ‒ abbia ottenuto un titolo abilitativo presentando un progetto oggettivamente non assentibile: in tal caso il richiedente sotto il profilo soggettivo ha manifestato quanto meno una propria colpa (nel presentare il progetto assentibile solo contra legem) e sotto il profilo oggettivo attiva con efficacia determinante il meccanismo causale idoneo alla verificazione del danno» (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 29 ottobre 2014, n. 5346), vi è un’altra corrente giurisprudenziale favorevole al riconoscimento della risarcibilità della lesione dell’affidamento del privato verso un provvedimento illegittimo, annullato in sede di autotutela o in sede giurisdizionale, seppur in presenza di stringenti limiti in tema di prova della colpa dell’amministrazione, del danno subito dall’istante e del nesso di causalità tra l’annullamento e il predetto danno (cfr. Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 20 dicembre 2017, n. 5980; T.a.r. Campania, Napoli, sezione VIII, sentenza 3 ottobre 2012, n. 4017, dove si riconduce la tematica de qua alla responsabilità precontrattuale)”. 33. Tanto premesso, il Collegio reputa opportuno svolgere alcune ulteriori precisazioni circa il primo dei cennati orientamenti, il cui esito interpretativo sembra condivisibile. 33.1. L’affidamento è un istituto giuridico che taglia trasversalmente l’intero ordinamento giuridico e senza dubbio ha rilievo nei rapporti tra i privati e le pubbliche amministrazioni, anche nelle fattispecie in cui vi è esercizio di un potere di natura pubblicistica. Il Collegio ritiene che, per aversi un affidamento giuridicamente tutelabile in capo al privato, occorra che questi - in buona fede e senza sua colpa - ritenga di avere titolo al conseguimento o alla conservazione di un bene della vita. In sostanza, ai fini della sussistenza di un affidamento meritevole di tutela, il privato che ha interloquito con la pubblica amministrazione innanzitutto non deve averla indotta dolosamente o colposamente in errore e comunque deve risultare titolare di una aspettativa qualificata, basata su una pretesa risultante conforme al quadro ordinamentale applicabile al caso di specie. 33.2. In linea di principio, l’ipotesi dell’annullamento del provvedimento favorevole in sede giurisdizionale va tenuta distinta da quella dell’annullamento d’ufficio in sede autotutela: a fronte del medesimo petitum risarcitorio, le causae petendi sono differenti. Nel caso di annullamento d’ufficio, l’eventuale affidamento del privato è stato ab antiquo considerato rilevante dalla giurisprudenza anche consultiva di questo Consiglio, sulla rilevanza del tempo decorso dall’emanazione dell’atto illegittimo e sull’onere dell’Amministrazione di basare l’atto d’annullamento su una adeguata motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico attuale (salve le precisazioni necessarie nei casi in cui siano stati commessi illeciti in materia edilizia: cfr. le sentenze dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 17 ottobre 2017). Quando invece avverso l’atto abilitativo è proposto un ricorso al giudice amministrativo da parte di chi vi abbia interesse, la sentenza di annullamento non può tenere conto di un ‘legittimo affidamento’, rilevando il vizio dell’atto annullato. 33.3. Sotto tale profilo, può risultare condivisibile la deduzione difensiva del Comune appellante, secondo cui chi esegue un provvedimento – che sia stato tempestivamente impugnato – lo fa ‘a suo rischio e pericolo’. Non sembra infatti che possa sussistere un ‘legittimo affidamento’, da porre a base di una domanda risarcitoria nei confronti dell’Amministrazione, quando il beneficiario dell’atto – avvertito della possibilità che questo sia annullato – ritenga di effettuare spese, che ragioni di prudenza potrebbero indurre ad evitare. Si può ritenere, in tal caso, che vi sia una ‘scelta consapevole’ di dare esecuzione ad un atto, malgrado sia stata tempestivamente dedotta la sua illegittimità, poi rilevata dal giudice. Una tale ‘scelta consapevole’ non può che risultare decisiva anche per escludere sotto il profilo causale la riferibilità del danno all’Amministrazione. 33.4. Tali considerazioni possono rilevare a maggior ragione quando l’interessato abbia cominciato una attività sulla base di una denuncia di inizio di una attività o dichiarazioni analoghe e poi il giudice amministrativo abbia ravvisato l’insussistenza dei relativi presupposti, censurando la mancanza di provvedimenti repressivi dell’Amministrazione. Anche in questi casi – in capo a chi ha presentato una dichiarazione contrastante con la normativa di settore - non sembra che si possa ravvisare un affidamento meritevole di protezione, dovendo egli imputare solo a se stesso il pregiudizio conseguente all’accertamento della insussistenza dei relativi presupposti. 33.5. Allorquando si tratti dell’annullamento in sede di autotutela di un provvedimento risultato illegittimo, è dunque ben difficile innanzitutto ravvisare un affidamento ‘incolpevole’, quando l’illegittimità era riscontrabile dal suo stesso beneficiario. Inoltre, per il caso di annullamento in sede di autotutela, la legge n. 241 del 1990 dispone dettagliate regole riguardanti l’esercizio del relativo potere: da nessuna disposizione e da nessun principio generale si può desumere una regola per la quale l’Amministrazione dovrebbe temere di esercitare il proprio potere di annullamento d’ufficio, perché il destinatario dell’atto di annullamento potrebbe agire per ottenere il risarcimento del danno conseguente al ripristino della legalità. In sostanza, non può che affermarsi la sussistenza di un principio di non contraddizione, per il quale l’Amministrazione – qualora abbia riscontrato di avere emanato un provvedimento illegittimo –non può essere posta nella asistematica alternativa di annullare tale provvedimento e di dovere risarcire il danno al beneficiario dell’atto illegittimo, oppure di non annullare affatto il provvedimento, per evitare la proposizione della domanda risarcitoria. 33.6. Anche per i casi di annullamento in sede giurisdizionale dell’atto illegittimo dovrebbe rilevare il principio di non contraddizione. Nel caso di annullamento del permesso di costruire risultato illegittimo, si verifica la soccombenza del destinatario del titolo, che riveste la qualifica di controinteressato nel giudizio proposto avverso di esso. Ammettere che il controinteressato soccombente possa chiedere il risarcimento del danno, nei confronti della autorità emanante, significa affermare che in ogni caso il beneficiario del provvedimento illegittimo non risponderebbe delle conseguenze di tali illegittimità e anzi di esse comunque si avvantaggerebbe, poiché la sua soccombenza rispetto alla domanda d’annullamento sarebbe ‘compensata’ dalla sua possibilità di ottenere il ristoro economico dall’Amministrazione, rendendo irrilevante se non altro il principio di autoresponsabilità. 33.7. Comunque, sempre con riferimento all’ipotesi del permesso di costruire illegittimamente rilasciato, si può affermare che il controinteressato soccombente - a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale del titolo – vanta indubbiamente una pretesa risarcitoria nei confronti del progettista che ha elaborato la domanda, la quale è accolta (de plano o previ accertamenti) perché l’Amministrazione la ha considerata attendibile, ‘fidandosi’ del titolo professionale di chi la ha predisposta. Sotto tale profilo, non sembra che possa parlarsi di un affidamento ‘incolpevole’, quando il richiedente - per il tramite del progettista – abbia presentato un progetto di per sé non assentibile. Il committente non può che rispondere dell’errore commesso dal progettista e può agire nei suoi confronti con la relativa azione contrattuale. In questo contesto, quando sia stato annullato un permesso illegittimo seguito dalla realizzazione delle opere, potrebbe riscontrarsi un vulnus alla integrità dell’ambiente e del territorio, configurandosi una fattispecie in cui chi ha ottenuto il permesso illegittimo – più che essere la ‘vittima di un illecito’ – ne risulta l’autore. Tali considerazioni a maggior ragione possono rilevare, per i casi in cui l’attività edilizia consegua alla presentazione di una dichiarazione di parte, in assenza di un formale atto autoritativo abilitativo. 33.8. Sotto tale profilo, nei casi concreti – in presenza dei relativi presupposti di fatto - può rilevare anche il principio generale desumibile in materia di illeciti dall’art. 47 del codice penale (sull’”errore determinato dall’altrui inganno’), per il quale “del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l'ha determinata a commetterlo”. Pertanto, in linea di principio si potrebbe affermare – in linea col principio di autoresponsabilità – che non può fondatamente chiedere alcun risarcimento chi proponga una istanza di per sé non accoglibile, quando vi sia una asseverazione o una dichiarazione di parte, che in qualsiasi modo attesti la spettanza di un titolo abilitativo, in realtà non spettante, 33.9. Dovrebbero inoltre rilevare anche tutte quelle considerazioni svolte dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 364 del 1988, circa le regole di diligenza – anche sulla conoscenza della normativa applicabile - cui si devono attenere coloro che svolgono attività in determinati settori della vita sociale. Sembra inevitabile dunque distinguere i casi in cui l’illegittimità sia riconducibile esclusivamente ad un errore commesso dall’Amministrazione, dagli altri casi in cui l’illegittimità consegua alla presa d’atto di elementi poi risultati insussistenti: chi propone una domanda inaccoglibile non potrebbe dunque chiedere il risarcimento, nei casi in cui l’Amministrazione – dopo aver espressamente o tacitamente accolto l’istanza, assecondando l’iniziativa – rispristini la legalità con l’emanazione di un annullamento d’ufficio. 33.10. Dovrebbe inoltre rilevare una ulteriore regola, per la quale – nel caso di emanazione di un provvedimento ictu oculi illegittimo (come nel caso di emanazione di una autorizzazione paesaggistica immotivata) – la palese illegittimità dell’atto dovrebbe fare escludere la fondatezza della domanda risarcitoria di chi abbia ritenuto di porre in essere le attività costruttive, per di più prima che il provvedimento sia divenuto inoppugnabile o in pendenza del relativo giudizio di impugnazione. Anche in tali casi, l’esecuzione di un provvedimento sub iudice potrebbe dare luogo ad un comportamento imprudente ed ‘a proprio rischio e pericolo’, rispetto al quale la successiva sentenza d’annullamento non costituisce un evento imprevedibile. 34. Con riferimento al caso di specie, inoltre, rilevano le circostanze specificamente dedotte con il secondo motivo d’appello, con cui si deduce che l’appellata avrebbe potuto evitare la verificazione del danno per il quale ha chiesto il risarcimento, con la conseguente applicazione dell’art. 1227 del codice civile e dell’art. 30, comma 2, del c.p.a., per il quale il giudice ‘esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza’. 34.1. Il Comune appellante ha evidenziato che: - l’Amministrazione a suo tempo ha assecondato la pretesa del dante causa dell’appellata di rendere edificabile l’area, con gli atti impugnati innanzi al TAR per le Marche con il ricorso n. 800 del 2006, cui sono seguiti motivi aggiunti in data 24 aprile 2008 e del maggio 2010, proposti rispettivamente contro il permesso di costruire di data 11 marzo 2008 e quello in variante di data 18 marzo 2010 - l’appellata ha acquistato il terreno dal dante causa in data 28 marzo 2008, quando da circa due anni era pendente il giudizio proposto dal vicino avverso gli atti che avevano attribuito edificabilità al terreno in questione, e – a seguito della notifica nei suoi confronti dell’ordinanza del TAR n. 338 del 2010 – si è costituita nel giudizio in data 6 luglio 2010, formulando una serie di eccezioni e chiedendo il rigetto del ricorso principale e dei motivi aggiunti; - non è imputabile al Comune l’eventuale mancata comunicazione, da parte del suo dante causa, della pendenza del giudizio amministrativo proposto avverso la variante urbanistica ed il primo permesso; - rileva il fatto che il primo permesso di costruire fu impugnato in data 11 aprile 2008 e che, come la stessa appellata ha dichiarato (depositando peraltro un atto privo di data certa), il contratto d’appalto è stato stipulato il 14 aprile 2008, dunque dopo la notifica dell’impugnazione, cominciando evidentemente i lavori ‘nella piena consapevolezza dell’alea derivante dalla già proposta impugnazione’, senza fermare i lavori neppure dopo l’impugnazione del secondo permesso di costruire rilasciato in variante; - il TAR, con l’ordinanza cautelare di data 6 maggio 2008, aveva sospeso gli effetti degli atti impugnati, sicché – anche in relazione all’esito del giudizio cautelare - la successiva attività costruttiva si può considerare effettuata a rischio e pericolo dell’appellata, che pure per tale ragione non potrebbe dunque dolersi dei danni che asserisce di avere subito (rilevando anche l’ulteriore ordinanza n. 338 del 27 maggio 2010, che aveva sospeso gli effetti del permesso di costruire in variante). 34.2. La Sezione rileva, dunque, che effettivamente si potrebbe escludere nella specie un affidamento ‘incolpevole’: esso può essere ravvisato – in presenza di tutti gli altri presupposti sulla assenza del conseguimento di un vantaggio con comportamenti fraudolenti o inducenti in errore – quando si sia consolidato nel tempo, con la conservazione della utilità per un lasso di tempo tale da rendere ragionevole la sua stabilità, ciò che difficilmente si può ravvisare quando si ottenga un atto abilitativo di per sé impugnabile e in concreto già impugnato. 35. Rileva altresì quanto dedotto dal Comune col terzo motivo d’appello, secondo cui in concreto neppure sussisterebbe la colpa del Comune, rilevante anche ai sensi dell’art. 30 del codice del processo amministrativo. 35.1. L’Amministrazione ha richiamato le vicende che hanno condotto all’emanazione della sentenza del TAR per le Marche n. 630 del 2011, poi confermata in sede d’appello, per evidenziare che – al di là della questione riguardante la sussistenza di un affidamento ‘incolpevole’ – comunque si dovrebbe escludere ogni profilo di sua colpa, per la particolare complessità della vicenda e per l’impasse in cui essa si era trovata, nel deliberare in sede di variante urbanistica a favore del dante causa dell’appellata e nel cercare di porre rimedio all’errore, effettuato per assecondare le sue aspirazioni. 35.2. Osserva al riguardo la Sezione che, dalla lettura delle sopra richiamate sentenze del TAR e del Consiglio di Stato, si potrebbero desumere elementi univoci e chiari, tali da evidenziare come il Comune appellante abbia inteso assecondare le aspirazioni di carattere edificatorio del dante causa dell’appellata, incorrendo sì in quelle illegittimità segnalate dal vicino, ma nell’ambito di una situazione estremamente complessa. Al riguardo, dalla lettura della sentenza del TAR n. 630 del 2011, si desume che: - essa ha in sostanza riscontrato l’illegittimità della delibera del consiglio comunale n. 68 del 2006 (e l’illegittimità derivata degli atti successivi), per una contraddizione tra il contenuto delle osservazioni formulate dal dante causa dell’appellata e quelle formulate (in tempi diversi) dalla vicina che ha impugnato gli atti poi annullati con la medesima sentenza; - tale contraddizione è originariamente dipesa da un mero errore materiale che aveva riguardato la numerazione delle medesime osservazioni e dal travisamento del contenuto delle osservazioni della vicina; - la sentenza ha altresì ravvisato un difetto di motivazione della delibera consiliare, per il fatto che essa si è discostata dai precedenti pareri del progettista e dell’ufficio urbanistica, oltre che un profilo formale di mancata trasmissione dell’avviso dell’avvio del procedimento di riesame. Stando così le cose, si potrebbe senz’altro ritenere che il procedimento amministrativo – volto a soddisfare anche interessi privati in conflitto, tra cui sia quelli del dante causa dell’appellata, sia quelli della vicina - si è caratterizzato per una particolare complessità: gli atti di pianificazione sono sì risultati viziati da profili di illegittimità, ma in un quadro complessivo nel quale non sembra che si possa formulare un giudizio di rimproverabilità nei confronti del Comune. Sotto tale aspetto può risultare decisivo anche il constatare come la sentenza del TAR n. 630 del 2011, al § 11, abbia osservato che ‘il permesso di costruire dell’11 marzo 2008 e quello in variante del 18 marzo 2010 (atti in sé legittimi, come legittimi sono i pareri formulati sugli stessi dall’Ente Parco del Conero, la cui invalidità viene affermata solo apoditticamente dalla ricorrente) sono affetti da illegittimità derivata’. L’annullamento di tutti gli atti è stato disposto non per superficialità dell’azione amministrativa in sede di emanazione dei permessi (sicché nella specie nessun addebito può essere mosso al Comune per l’aver emanato i permessi di costruire), ma esclusivamente per le complesse vicende riguardanti la precedente variante urbanistica, che la stessa sentenza del TAR ha descritto nella loro peculiarità (e focalizzando l’avvenuto errore materiale, non tempestivamente segnalato), senza formulare alcun giudizio di disvalore. Ciò si desume chiaramente dall’incipit del § 5 della sentenza n. 630 del 2011, la quale ha rilevato il ‘contenuto singolare’ della delibera consiliare n. 68 del 2006, aggiungendo come ‘in questa sede l’aggettivo non esprime alcun giudizio di valore sulla legittimità dell’atto’, anche in tal modo rimarcando quella complessità del caso, desumibile dall’intera motivazione della medesima sentenza. Semmai, il TAR ha rilevato come il Comune – una volta emanati gli illegittimi atti in sede di pianificazione – abbia con ‘pervicacia’ (v. il § 9 della sentenza) ‘cercato di sanare con provvedimenti ad hoc la situazione’, cioè abbia tenuto talmente in conto la situazione in cui versava l’appellata – pur se ella da tempo avvertita della vicenda – al punto da emanare l’illegittimo atto di sanatoria in suo favore: di tale ‘pervicacia’ (lesiva in realtà della posizione della vicina) non si può certo dolere l’appellata, volendo il Comune invece salvaguardarla anche a costo di emanare un ulteriore atto illegittimo (quello di sanatoria, emesso però in violazione dell’art. 38 del testo unico sull’edilizia, come il TAR ha rilevato in accoglimento delle ulteriori doglianze della vicina). Ad avviso della Sezione: - deve sussistere la rimproverabilità dell’Amministrazione anche quando si intenda ottenere un risarcimento per il danno cagionato all’affidamento ‘incolpevole’ (così come avviene quando sia proposta una domanda risarcitoria per lesione di un interesse legittimo pretensivo a seguito dell’annullamento di un diniego); - nella specie potrebbe risultare fondato il motivo d’appello sulla assenza della rimproverabilità del Comune, in considerazione di tutte le circostanze e della complessità della vicenda che ha dato luogo a suo tempo alla sentenza di annullamento. 36. Per le ragioni che precedono, la Sezione: - respinge le eccezioni formulate dall’appellata, avverso l’ammissibilità del primo motivo d’appello; - respinge il motivo d’appello sulla tardività del ricorso di primo grado; - pronunciando sugli altri motivi d’appello, sarebbe dell’avviso che dovrebbe essere respinto il primo motivo (con la declaratoria della sussistenza della giurisdizione amministrativa) e che dovrebbero essere accolte tutte le censure sulla infondatezza del ricorso di primo grado, con riforma della sentenza impugnata. Tuttavia, in considerazione della delicatezza della questione di giurisdizione formulata con il primo motivo d’appello, e per il suo evidente carattere di massima, la Sezione investe l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato dei seguenti quesiti, decisivi per l’esame anche delle altre censure d’appello: ‘a) se sussista la giurisdizione amministrativa sulla domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno, formulata dall’avente causa del destinatario di una variante urbanistica, quando entrambi siano risultati soccombenti in un giudizio amministrativo, proposto dal vicino, all’esito del quale sia stata annullata per vizi propri la medesima variante e siano stati annullati per illegittimità derivata i conseguenti permessi di costruire – e, più in generale, se sussista sempre la giurisdizione amministrativa quando – su domanda del ricorrente vittorioso o su domanda del controinteressato soccombente (che proponga un ricorso incidentale condizionato o un ricorso autonomo) – si debba verificare se il vizio di un provvedimento autoritativo, oltre a comportare il suo annullamento, abbia conseguenze sul piano risarcitorio); b) qualora sussista la giurisdizione amministrativa sulla domanda sub a) del controinteressato soccombente, quando sia giuridicamente configurabile un affidamento ‘incolpevole’ che possa essere posto a base di una domanda risarcitoria, anche in relazione al fattore ‘tempo’; c) qualora sussista la giurisdizione amministrativa e quand’anche si sia in presenza di un affidamento ‘incolpevole’ del controinteressato soccombente, quando si possa escludere la rimproverabilità dell’Amministrazione. 37. Valuterà l’Adunanza Plenaria se affermare i rilevanti principi di diritto o se definire il secondo grado del giudizio. 38. La statuizione delle spese di lite vi sarà con la sentenza definitiva. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, non definitivamente pronunciando sull’appello n. 4605 del 2020: - respinge le eccezioni formulate dall’appellata, sulla ammissibilità del primo motivo d’appello; - respinge il motivo d’appello del Comune di Numana, sulla tardività del ricorso di primo grado; - deferisce all’esame dell’Adunanza Plenaria la definizione delle altre censure contenute nell’atto d’appello e delle questioni connesse. Manda alla Segreteria della Sezione per gli adempimenti di competenza e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di causa e della presente ordinanza al Segretario incaricato di assistere all'Adunanza plenaria. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 marzo 2021, svoltasi mediante collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25, d.l. n. 137/2020, con l'intervento dei magistrati: Luigi Maruotti, Presidente Daniela Di Carlo, Consigliere, Estensore Francesco Gambato Spisani, Consigliere Nicola D'Angelo, Consigliere Michele Pizzi, Consigliere Luigi Maruotti, Presidente Daniela Di Carlo, Consigliere, Estensore Francesco Gambato Spisani, Consigliere Nicola D'Angelo, Consigliere Michele Pizzi, Consigliere IL SEGRETARIO
Giurisdizione – Risarcimento danni – Conseguente ad annullamento di una variante e dei conseguenti permessi di costruire – Rimessione All’Adunanza plenaria.                 Devono essere rimesse all’Adunanza plenaria le questioni se: a) sussista la giurisdizione amministrativa sulla domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno, formulata dall’avente causa del destinatario di una variante urbanistica, quando entrambi siano risultati soccombenti in un giudizio amministrativo, proposto dal vicino, all’esito del quale sia stata annullata per vizi propri la medesima variante e siano stati annullati per illegittimità derivata i conseguenti permessi di costruire – e, più in generale, se sussista sempre la giurisdizione amministrativa quando – su domanda del ricorrente vittorioso o su domanda del controinteressato soccombente (che proponga un ricorso incidentale condizionato o un ricorso autonomo) – si debba verificare se il vizio di un provvedimento autoritativo, oltre a comportare il suo annullamento, abbia conseguenze sul piano risarcitorio); b) qualora sussista la giurisdizione amministrativa sulla domanda sub a) del controinteressato soccombente, quando sia giuridicamente configurabile un affidamento ‘incolpevole’ che possa essere posto a base di una domanda risarcitoria, anche in relazione al fattore ‘tempo’; c) qualora sussista la giurisdizione amministrativa e quand’anche si sia in presenza di un affidamento ‘incolpevole’ del controinteressato soccombente, quando si possa escludere la rimproverabilità dell’Amministrazione (1).    (1) La Sezione ha dato atto che sulla questione è insorto un contrasto di giurisprudenza sia tra i giudici ordinari che tra quelli amministrativi.  Le tre ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato la giurisdizione del giudice civile nelle controversie avente per oggetto le domande risarcitorie formulate: - dal beneficiario di una concessione edilizia poi legittimamente annullata in sede di autotutela, il quale lamentava la lesione di un suo affidamento (si tratta della ordinanza n. 6594 del 2011); - da chi aveva ottenuto dapprima una attestazione sull’edificabilità di un’area (utile per valutare la convenienza di un acquisto, rivelatasi insussistente) e poi una concessione edilizia legittimamente annullata in sede giurisdizionale, il quale anche in tal caso lamentava la lesione di un suo affidamento (si tratta della ordinanza n. 6595 del 2011); - da chi aveva ottenuto una aggiudicazione di una gara d’appalto di un pubblico servizio, annullata in sede giurisdizionale, il quale anche in tal caso lamentava la lesione di un suo affidamento (si tratta della ordinanza n. 6596 del 2011).   Le Sezioni Unite hanno superato il proprio precedente orientamento (la sentenza n. 8511 del 2009), per il quale – per la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativa – rileva la riconducibilità della controversia ad una delle materie indicate dalla legge, rientrandovi anche tutte le controversie di natura risarcitoria; hanno evidenziato che chi aveva proposto le domande risarcitorie non poneva in discussione la legittimità degli atti di annullamento (in via amministrativa o giurisdizionale) di quelli ampliativi della loro sfera giuridica (questione ovviamente esaminabile dal giudice avente giurisdizione sugli atti autoritativi, e cioè dal giudice amministrativo, che peraltro in almeno due dei casi sopra indicati aveva annullato gli atti impugnati), ma lamentava la ‘lesione dell’affidamento’ riposto nella legittimità degli atti annullati e chiedeva il risarcimento dei danni subiti per aver orientato sulla base di questi le proprie scelte negoziali o imprenditoriali; hanno ritenuto che sarebbe ravvisabile un ‘diritto all’integrità del patrimonio’, la cui lesione, cagionata con la ‘lesione dell’affidamento’, determinerebbe la sussistenza della giurisdizione del giudice civile.   Le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno poi affermato principi anche divergenti da quelli posti a base delle citate ordinanze del 2011.   Alcune pronunce (nn. 17586/2015, 12799/2017, 15640/2017, 19171/2017, 1654/2018, 4996/2018, 22435/2018, 32365/2018, 4889/2019, 6885/2019 e 12635/2019) si sono poste in linea di continuità con le ordinanze del 2011 ed hanno affermato che: a) la controversia sulla domanda risarcitoria formulata da chi abbia fatto ‘incolpevole affidamento’ su di un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica, successivamente annullato, rientrerebbe nella giurisdizione del giudice civile, perché avrebbe ad oggetto la lesione non già di un interesse legittimo, bensì di un diritto soggettivo; b) tale diritto sarebbe quello alla ‘conservazione dell'integrità del patrimonio’, leso dalle scelte compiute confidando nella legittimità del provvedimento amministrativo poi annullato.   Altre pronunce delle Sezioni Unite, invece, hanno affermato la sussistenza della giurisdizione amministrativa: - per Sez. Un., n. 8057 del 2016, “l'azione amministrativa illegittima - composta da una sequela di atti intrinsecamente connessi - non può essere scissa in differenti posizioni da tutelare, essendo controverso l'agire provvedimentale nel suo complesso, del quale l'affidamento costituisce un riflesso, privo di incidenza sulla giurisdizione”; - per Sez. Un., n. 13454 del 2017, “la giurisdizione esclusiva prevede la cognizione, da parte del giudice amministrativo, sia delle controversie relative ad interessi legittimi della fase pubblicistica, sia delle controversie di carattere risarcitorio originate dalla caducazione di provvedimenti della fase predetta, realizzandosi quella situazione d'interferenza tra diritti ed interessi, tra momenti di diritto comune e di esplicazione del potere che si pongono a fondamento costituzionale delle aree conferite alla cognizione del giudice amministrativo, riguardo ad atti e comportamenti assunti prima dell'aggiudicazione o nella successiva fase compresa tra l'aggiudicazione e la mancata stipula del contratto”; - per Sez. Un., n. 13194 del 2018, i principi fissati nelle ordinanze del 2011 non sono applicabili quando non vi sia stato un provvedimento ampliativo della altrui sfera giuridica.  Anche la giurisprudenza del giudice amministrativo è divisa sul punto, atteso che in alcune pronunce (cfr. Cons. St., sez. V, 27 settembre 2016, n. 3997; id., sez. IV, 25 gennaio 2017, n. 293, e 20 dicembre 2017, n. 5980; id., sez. VI, 13 agosto 2020, n. 5011) si è aderito alla traiettoria argomentativa sostenuta dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, con le ordinanze del 32 marzo 2011, numeri 6594, 6595 e 6596, e con altre ordinanze (4 settembre 2015, n. 17586, 22 maggio 2017, n. 12799; 22 giugno 2017, n. 15640, 2 agosto 2017, n. 19171, 23 gennaio 2018, n. 1654, 2 marzo 2018, n. 4996, 24 settembre 2018, n. 22435, 13 dicembre 2018, n. 32365, 19 febbraio 2019, n. 4889, 8 marzo 2019, n. 6885, 13 maggio 2019, n. 12635, e 28 aprile 2020, n. 8236) si è affermato che la domanda risarcitoria proposta nei confronti della pubblica amministrazione per i danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento ampliativo illegittimo rientra nella giurisdizione ordinaria (anche nelle materie rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), non trattandosi di una lesione dell’interesse legittimo pretensivo del danneggiato (interesse soddisfatto, seppur in modo illegittimo), ma di una lesione del diritto soggettivo alla sua integrità patrimoniale oppure (più recentemente) di una lesione all’affidamento incolpevole quale situazione giuridica soggettiva autonoma, dove l’esercizio del potere amministrativo non rileva in sé, ma per l’efficacia causale del danno-evento.   Per contro, in altre pronunce (Cons. St., sez. V, 23 febbraio 2015, n. 857; Tar Pescara 20 giugno 2012, n. 312) si è affermato che, nelle materie di giurisdizione amministrativa esclusiva, le domande relative al risarcimento del danno da lesione dell’affidamento riposto sulla legittimità dei provvedimenti successivamente annullati rientrerebbero nell’ambito della cognizione del giudice amministrativo; in tal senso si sono peraltro espresse le sezioni unite della Corte di cassazione con le ordinanze 21 aprile 2016, n. 8057 e 29 maggio 2017, n. 13454 (per l’ipotesi di annullamento in autotutela di provvedimento di affidamento di sevizio pubblico)”.  La Sezione – nel rimettere all’esame dell’Adunanza Plenaria la questione di giurisdizione – ritiene che in linea di principio si dovrebbe affermare la sussistenza della giurisdizione amministrativa, ai sensi degli artt. 7 e 133 c.p.a., potendo non risultare convincenti le considerazioni sostanziali e quelle processuali poste a base del ‘primo orientamento’.  L’interesse legittimo pretensivo esprime, ad un tempo, sia l’interesse sostanziale rappresentato dalla pretesa ad ottenere un ‘bene della vita’, sia l’interesse procedimentale per cui il provvedimento finale sia emanato seguendo il procedimento previsto dalla legge. Non si tratta di un mero interesse ‘occasionalmente protetto’ (adoperando una espressione tipica degli albori della giustizia amministrativa), cioè protetto per il tramite della tutela primaria della legalità amministrativa, bensì di una situazione giuridica immediata, diretta, concreta e personale del privato (per i relativi approfondimenti, v. anche la sentenza n. 7 del 2021 dell’Adunanza Plenaria). Può risultare dunque artificioso il sovrapporre a una tale posizione giuridica soggettiva – riferibile ad un rapporto di diritto pubblico tra il richiedente e l’Amministrazione - una diversa situazione sostanziale (da richiamare per individuare una ‘diversa’ giurisdizione), basata sul principio del neminem laedere (il cui ambito di efficacia prescinde dalla esistenza di un preesistente rapporto tra danneggiante e danneggiato) o anche su un ‘contatto sociale’ (categoria che può giustificare nell’ambito della giurisdizione civile la soluzione secondo giustizia di determinate tipologie di controversie senza alterare i criteri di riparto della giurisdizione, ma che di per sé è incongruamente richiamata quando si tratti dell’esercizio o del mancato esercizio del pubblico potere, come ha chiaramente evidenziato anche la citata sentenza n. 7 del 2021 dell’Adunanza Plenaria). Ha aggiunto la Sezione che allorquando sia stato annullato l’atto abilitativo e dunque non sia più configurabile il diritto ad esso conseguente, l’originario richiedente torna ad essere titolare di un interesse legittimo. In fondo, si tratta del ripristino della dinamica delle posizioni giuridiche, già segnalata dalla sez. II, con l’ordinanza n. 2013 del 2021:  il ricorrente ed il controinteressato, beneficiario in quanto tale dell’atto abilitativo impugnato, sono titolari di contrapposti interessi legittimi nel corso del procedimento, sicché – una volta che la sentenza amministrativa abbia annullato il titolo abilitativo – il controinteressato non risulta più titolare del diritto che era sorto con l’atto ormai annullato. In altri termini, il controinteressato soccombente va qualificato come titolare di una posizione soggettiva contrapposta e speculare a quella del ricorrente vittorioso, in un quadro nel quale tra di loro e nei confronti dell’Amministrazione non vi sono diritti soggettivi da fare valere.   Qualora il controinteressato soccombente nel giudizio di legittimità intenda formulare una domanda risarcitoria nei confronti dell’Amministrazione anch’essa soccombente, la relativa causa petendi riguarda proprio il come è stato in precedenza esercitato il potere amministrativo e si deve verificare se il vizio dell’atto – oltre ad aver comportato il suo annullamento – deve avere conseguenze sul piano risarcitorio.  Per un principio di simmetria, la lesione arrecata all’interesse legittimo è configurabile sia quando l’istanza non sia accolta e vi sia un diniego poi annullato su ricorso del richiedente, sia quando l’istanza sia accolta e il titolo abilitativo sia annullato su ricorso di chi vi abbia interesse. In entrambi i casi, non sono ravvisabili (ab origine o a seguito dell’atto o della sentenza di annullamento) diritti soggettivi e rileva l’art. 7, comma 1, c.p.a., per il quale ‘sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni’.  La pretesa risarcitoria – quando si basa su quanto è accaduto in sede di esercizio del potere amministrativo ‘autoritativo’ o nel corso del procedimento amministrativo – non è riconducibile ad un comportamento o a una condotta di rilievo privatistico o svolta ‘in via di mero fatto’ e che potrebbe essere serbata da un quisque de populo in spregio al principio del neminem laedere, ma si duole dell’esercizio (o del mancato esercizio) del potere amministrativo, disciplinato dal diritto pubblico: a) sotto l’aspetto soggettivo, si tratta di provvedimenti e di attività della pubblica Amministrazione; b) sotto l’aspetto oggettivo, si tratta di poteri disciplinati dalla l. n. 241 del 1990 e dalle altre leggi amministrative; c) sotto l’aspetto funzionale, si tratta di verificare le conseguenze dell’illegittimo esercizio del potere. Sotto l’aspetto normativo, la domanda risarcitoria - nel caso in esame – si basa non sulla illiceità di un ‘comportamento’ (comunque riconducibile all’esercizio del potere), bensì sull’emanazione sia pure illegittima del provvedimento autoritativo, con la conseguente applicazione degli artt. 7, comma 1, e 133, comma 1, lettera f), c.p.a., per il quale sussiste la giurisdizione esclusiva sulla medesima domanda risarcitoria: è ben difficile sostenere che la domanda risarcitoria non abbia per ‘oggetto’ il ‘come’ sia stato esercitato il potere amministrativo con il provvedimento annullato (e nella materia urbanistica, nel caso in esame), per i chiari enunciati degli artt. 7 e 133 c.p.a..  A questo proposito, la menzionata ordinanza n. 2013 del 2021 della Sezione Seconda del Consiglio di Stato ha già osservato che è prioritario qualificare l’illecito in senso logico ed eziologico, anziché in senso meramente cronologico (“atteso che l’ordinamento attribuisce, in ossequio al principio di effettività e pienezza della tutela giurisdizionale, alla cognizione del giudice amministrativo tutti gli strumenti processuali idonei a tutelare la posizione lesa dall’esercizio dei pubblici poteri di cui è titolare l’amministrazione e che la circostanza che il danno non sia direttamente cagionato dal provvedimento, ma derivi dal suo annullamento, attiene soltanto al piano cronologico e non, per contro, a quello logico ed eziologico, stante la riconducibilità diretta del pregiudizio al provvedimento amministrativo”). Il criterio di riparto della giurisdizione, che trascina con sé la cognizione sull’azione risarcitoria intesa come tecnica di tutela e non come autonoma materia a sua volta da ripartire, non si basa sulla satisfattività o meno della situazione soggettiva, ma sulla sua natura giuridica (“In sostanza, l’orientamento favorevole alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria si basa sul presupposto per cui vi sarebbe l’interesse legittimo soltanto a fronte della illegittima negazione di un bene della vita e non dinanzi all’illegittimo ‒ e, pertanto, necessariamente instabile ‒ riconoscimento di siffatto bene. Quest’impostazione, tuttavia, non appare in sintonia con il generale criterio di riparto sancito dalla Costituzione che non condiziona la natura delle situazioni soggettive (diritto soggettivo/interesse legittimo), rilevante per la concreta applicazione del criterio, al carattere satisfattivo o non satisfattivo del provvedimento amministrativo”).  Ragioni di coerenza sistematica – di per sé rilevanti anche per ravvisare la ragionevolezza delle soluzioni legislative (o delle loro esegesi), ponendosi altrimenti serie questioni di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3, 97 e 103 Cost. – sembrano imporre di ritenere che – una volta annullato un atto abilitativo – il giudice amministrativo ha giurisdizione su ogni domanda risarcitoria proposta nei confronti dell’Amministrazione: - quella formulata da quel vicino che impugni il permesso di costruire (con il medesimo ricorso introduttivo o con una domanda proposta dopo la sentenza di annullamento); - quella formulata dal titolare del permesso di costruire, che sia la parte controinteressata nel giudizio di cognizione proposto contro tale provvedimento (con un ricorso incidentale condizionato all’accoglimento eventuale dalla domanda di annullamento o – come nel caso di specie – con un ricorso autonomo dopo l’annullamento del permesso). Affermare la sussistenza della giurisdizione del giudice civile sembra dunque contrastare anche con la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, per la quale il giudice amministrativo è il ‘giudice naturale dell’esercizio della funzione pubblica’: tale funzione si deve necessariamente sindacare quando si esamina la domanda risarcitoria, formulata dal controinteressato risultato soccombente nel giudizio amministrativo di legittimità.  D’altra parte, qualora fosse ravvisata la giurisdizione del giudice civile, risulterebbe sottratta al giudice amministrativo la cognizione di controversie di indubbia natura pubblicistica, anche con l’inconveniente per il quale un altro ordine giurisdizionale – in disarmonia con gli artt. 7 e 133 c.p.c. - dovrebbe per di più esaminare la portata ed il significato anche conformativo delle pronunce del giudice amministrativo, se non altro allo scopo di qualificare i fatti e di ravvisare la sussistenza o meno degli elementi costitutivi di un illecito, di cui un elemento decisivo da valutare è proprio il decisum della sentenza di annullamento emessa dal giudice amministrativo per verificare se in concreto vi sia una rimproverabilità eccedente la mera illegittimità dell’atto.    Ha ancora affermato la Sezione non qualsivoglia affidamento del privato può essere posto a base di una domanda risarcitoria, per il solo fatto dell’annullamento di un provvedimento amministrativo favorevole. Infatti, occorrerebbe sempre tenere conto delle peculiarità della fattispecie concreta, da apprezzarsi caso per caso, alla luce degli accadimenti effettivamente svoltisi nel corso del procedimento amministrativo e tenendo conto delle modalità con cui è stata presentata l’istanza poi accolta dall’Amministrazione con l’atto poi annullato. 
Giurisdizione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/compenso-una-tantum-ai-docenti-universitari-pregiudicati-dal-blocco-degli-scatti-stipendiali-dal-2011-al-2015
Compenso una tantum ai docenti universitari pregiudicati dal blocco degli scatti stipendiali dal 2011 al 2015
N. 02985/2022 REG.PROV.COLL. N. 03792/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3792 del 2019, proposto da Giovanni Andrea Righi, Maddalena Cioni, Sandra Battistelli, Lorenza Pecciarini, Enrico Picciolini, Anna Laura Abbamonti, Eduardo Motolese, Aldo Mariottini, rappresentati e difesi dall'avvocato Prof. Fabio Merusi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Istruzione dell'Universita' e della Ricerca, Universita' degli Studi Siena, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; per l'annullamento del Decreto Ministeriale 2.03.2018, n. 197 “Criteri e modalità per la ripartizione delle risorse e l'attribuzione dell'importo una tantum ai professori e ai ricercatori di ruolo previsto dall'articolo 1, comma 629, Legge 27 dicembre 2017, n. 205”, e per sentir condannare l'Università di Siena al pagamento ai ricorrenti del corrispettivo una tantum previsto dalla legge 27.12.2017, n. 205 secondo i modi e i criteri di calcolo previsti dal decreto ministeriale impugnato così come risultante dopo l'annullamento parziale richiesto Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell'Istruzione dell'Universita' e della Ricerca e di Universita' degli Studi Siena; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'Udienza pubblica del giorno 12 gennaio 2022 il Consigliere Alfonso Graziano e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Va premesso che, per compensare parzialmente i professori e ricercatori universitari di ruolo del blocco degli scatti stipendiali per il personale non contrattualizzato per il quinquennio 2011-2015 stabilito dall’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78/2010 (conv. con modificazioni dalla L. n. 122/2010 e prorogato dall'art. 1, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 122/2013 ), la legge 27 dicembre 2017, n. 205, all’art. 1 co. 629, ha previsto che “a titolo di parziale compensazione del blocco degli scatti stipendiali disposto per il quinquennio 2011-2015 dall’articolo 9, comma 21, del decreto – legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, ai professori e ricercatori universitari di ruolo in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge e che lo erano alla data del 1° gennaio 2011, o che hanno preso servizio tra il 1° gennaio 2011 e il 31 dicembre 2015, è attribuito una tantum un importo ad personam in relazione alla classe stipendiale che avrebbero potuto maturare nel predetto quinquennio e in proporzione all'entità del blocco stipendiale che hanno subìto, calcolato, nei limiti delle risorse di cui al presente comma, sulla base di criteri e modalità definiti con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge”. Il decreto previsto dal legislatore è il D.M. 2 marzo 2018, n. 197, che ha definito i criteri di attribuzione delle risorse necessarie al delineato ristoro della perdita derivante dal disposto blocco degli scatti alle Istituzioni e universitarie e quelli di assegnazione degli importi ai beneficiari da parte delle università, l’art. 2, comma 3, del d.m. prevedendo per i docenti beneficiari che il quantum: “a) è ridotto in misura percentuale determinata da ciascuna Istituzione, compresa tra il 20% e il 30% per coloro che hanno beneficiato per una sola annualità e tra il 40% e il 50% per coloro che nel periodo 2011-2013 hanno beneficiato di due annualità degli incentivi una tantum di cui all’articolo 29, comma 19, della legge 30 dicembre 2010, n. 240; “b) è riconosciuto esclusivamente all’esito della positiva valutazione ottenuta ai sensi dell’articolo 6, comma 14, della legge 30 dicembre 2010, n. 240.” 1.1. In altri termini, ai sensi dell’art. 2, co. 3, lett. a) del D.M. n. 197/2018, la provvidenza è stata ridotta in misura variabile tra il 20 e il 30 % per coloro che avessero beneficiato degli incentivi una tantum previsti dall’art. 29, co. 19 della Legge Gelmini nel periodo 2011 – 2013 e per una percentuale oscillante tra il 40 e il 50% per i docenti che invece avessero beneficiato di tali incentivi per due annualità, nel predetto arco temporale. 2. Con il ricorso in trattazione, depositato il 2 aprile 2019, i ricorrenti docenti universitari impugnano il d.m. 2 marzo 2018, n. 197 chiedendo al Tribunale l’annullamento delle disposizioni del decreto ritenute lesive (in particolare dell’art. 2, comma 3). Svolgono anche azione di condanna dell’Università a corrispondere loro l’importo una tantum – di cui assumono la mancata attribuzione – epurato delle asseritamente illegittime sottrazioni effettuate in ossequio al D.M. impugnato. 2.1. Si è costituito il MUR con comparsa formale dell’Avvocatura di Stato del 10 maggio 2019 in pari data producendo la nota del Rettore dell’Università di Siena prot. n. 69767 del 24.4.2019 con cui si chiedeva l’estromissione da giudizio per difetto di legittimazione passiva sul rilievo della sottrazione dell’impugnato decreto ministeriale dai poteri dell’ateneo e della auto applicatività dello stesso, cui non residuerebbe l’adozione di atti applicativi da parte dell’Università. I ricorrenti depositavano breve memoria il 6 dicembre 2021. Entrambe le parti chiedevano con note del 7 e 10 gennaio 2022 il passaggio in decisione della causa sulla base degli atti depositati. I ricorrenti hanno prodotto ulteriore memoria il 3 febbraio 2022 in cui si fa riferimento ad una Ordinanza del Collegio asseritamente emessa in ordine alla prospettata inammissibilità del ricorso; in realtà l’Ordinanza in questione è stata assunta dal Collegio relativamente ad altri analoghi ricorsi, chiamati in spedizione alla odierna pubblica Udienza ma non relativamente a quello in trattazione. 3. Alla pubblica Udienza del 12 gennaio 2022 la causa veniva trattenuta a sentenza. 4. Può prescindersi dall’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dall’Università di Siena nonché per difetto di legittimazione passiva, poiché il Collegio ritiene infondato in diritto il primo motivo, appuntato sulla presunta illegittimità dell’impugnato D.M. n. 197/2018 per contrasto con la l. n. 205/2017 e parimenti infondato il secondo con cui si adombra l’illegittimità costituzionale della citata legge (che appare manifestamente infondata), per le ragioni che ci si accinge ad esporre. 4.1. Premettono in fatto i deducenti che “Poiché non ricevevano alcuna corresponsione da parte dell'Università di appartenenza, alla quale lo Stato aveva attribuito le somme necessarie per corrispondere ai docenti universitari l'una tantum compensativa del blocco stipendiale subito nel quinquennio 2011-2015, prendevano contatto con l'Università di appartenenza dalla quale apprendevano che l'una tantum "compensativa" non era stata ancora corrisposta a nessuno, né in toto né pro rata, per difficoltà dipendenti da quanto previsto in un decreto regolamentare del Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, il D.M. 2.03.2018, n. 197, il quale stabilisce che l'una tantum deve essere corrisposta agli aventi diritto: 1) soltanto ad esito di una positiva valutazione del servizio prestato nel quinquennio in questione da parte del competente organo accademico (Dipartimento o Facoltà); 2) non solo, ma che la somma una tantum compensativa del blocco stipendiale deve essere decurtata delle somme percepite a titolo di incentivi una tantum "di cui all'art. 29, comma 19, della legge 30 dicembre 2010, n. 240" eventualmente percepite nel quinquennio in questione, previo accertamento delle stesse.(…) Premessi tali auspicati annullamenti si chiede la condanna dell'Università di Pisa a corrispondere ai ricorrenti l'una tantum prevista dalla L. 205/2017, calcolata secondo i criteri stabiliti dal D.M. 2018, n. 197, depurati delle due prescrizioni delle quali è stato richiesto l’annullamento, per i seguenti motivi” (Ricorso, pagg. 2-3-). 4.2. Con il primo motivo, rubricando Illegittimità del comma 2 dell'art. 1 del D.M. 2.03.2018, n. 197 per violazione di legge, la legge 27.12.2017, n. 205 e dell'art. 3 Cost., nonché per eccesso di potere per irrazionalità, incongruità e travisamento del presupposto di fatto, sostengono che siccome l'indennità una tantum prevista dall'art. 1 comma 629 si riferisce ad un compenso sostitutivo di quello che sarebbe stato dovuto ai professori e ricercatori universitari nel quinquennio 2011-2015, risulterebbe evidente che tale indennità va attribuita a tutti coloro che erano in ruolo ed in servizio nel quinquennio 2011-2015 a prescindere da quale possa essere il loro stato attuale, se ancora di ruolo oppure no. La corresponsione dell'una tantum per coloro che non sono più in servizio alla data prevista dal decreto ministeriale impugnato funzionerebbe infatti come la corresponsione di un arretrato dovuto su un compenso stipendiale di un rapporto pregresso; assunto che sarebbe confermato anche dal fatto che l'accertamento per la determinazione dell'una tantum è fatto con riferimento al servizio prestato nel 2011-2015 e non certamente in base a quello attualmente prestato, atteso che l’art. 1, co. 629 della L. n. 25/2017 contempla il beneficio dell’una tantum in controversia “in relazione alla classe stipendiale che avrebbero potuto maturare nel predetto quinquennio” e non in ragione del servizio prestato all’atto della sua entrata in vigore. 4.3. Per superare la condizione dell’essere in servizio alla data di entrata in vigore della legge, posta dal citato art. 1. co 629 delle stessa onde poter essere beneficiari dell’importo una tantum de quo agitur i ricorrenti sostengono inoltre che il riferimento al servizio "alla data di entrata in vigore della presente legge" non va inteso in senso letterale, cioè nel senso di essere in ruolo al momento dell'entrata in vigore della legge, bensì nel senso di essere in condizione utile per ricevere un corrispettivo per una prestazione avvenuta nel quinquennio 2011/2015. 5. Ad avviso della Sezione entrambe le sintetizzate argomentazioni difensive non colgono nel segno e vanno disattese. La seconda, appena riassunta, per cui l’espressione “in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge” non andrebbe intesa in senso letterale bensì come equivalente ad essere al momento dell’entrata in vigore della stessa, in condizione di utile per ricevere un corrispettivo per una prestazione svolta nel quinquennio 2011-2015 interessato dal blocco degli scatti stipendiali, si risolve all’evidenza in un’ermeneusi creativa assolutamente non evincibile né estrapolabile dal tenore testuale della norma e pertanto in ultima analisi praeter legem, confliggendo con il canone basilare di interpretazione della legge dettato dall’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile “Interpretazione della legge” il quale dispone che “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”. Orbene, il significato reso palese dal significato delle parole “in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge” è inequivoco, altro non potendo significare la locuzione “in servizio”, se non svolgimento della prestazione lavorativa; che altrimenti il legislatore avrebbe aggiunto “o in quiescenza”. 5.1. Né potrebbe giovare ai ricorrenti il ricorso al criterio c.d. teleologico fondato sulla intentio legis, pure indicato dall’art. 12 delle preleggi, atteso che, malgrado la giurisprudenza non ritenga prevalente l’interpretazione letterale rispetto al criterio dell’intenzione del legislatore in quanto “l’art. 12 disp. prel. c.c. non privilegia più il criterio interpretativo letterale perché, facendo riferimento alla intenzione del legislatore, evidenzia un riferimento essenziale alla coerenza della norma e del sistema” (Cassazione civile, sez. I , 4/4/2014 , n. 7981; in terminis, Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 8/5/2015 , n. 374; Consiglio di Stato, sez. IV, 30/6/2017 , n. 3233), nel caso di specie mancano nel testo complessivo del comma 629 all’esame, indizi che consentano di ricostruire un’intenzione del legislatore riferita alla coerenza della norma e del sistema, militante in senso diverso rispetto all’interpretazione letterale costituita dalla condizione dell’essere il docente universitario in servizio attivo alla data di entrata in vigore della legge n 205/2017. 5.2. Non persuasivo si prospetta altresì il primo argomento, secondo cui l'indennità una tantum prevista dall'art. 1 comma 629 costituirebbe ad un compenso sostitutivo di quello che sarebbe stato dovuto ai professori e ricercatori universitari nel quinquennio 2011-2015in assenza del blocco degli scatti, fungendo da arretrato dovuto in consguenza del blocco stesso. Siffatta tesi urta con la evidente natura dell’’indennità una tantum quale mera “parziale compensazione” del sacrificio che i docenti e i ricercatori universitari hanno dovuto sopportare a causa del ridetto blocco stipendiale stabilito con il d.l. n. 78/2010. Una compensazione, soprattutto se non integrale ma parziale è altro rispetto ad un arretrato, la ontologica diversità di tali emolumenti emergendo oltre che dal chiaro significato del termine “compensazione”, che sta per ristoro, parziale, anche dalla circostanza che l’indennità per cui è causa non è equivalente nell’ammontare, agli scatti stipendiali bloccati, considerato che il tessuto normativo scaturito dalla l. n. 205/2017, dal regolamento attuativo di cui al d.m. n. 197/2018 e ai conseguenti provvedimenti attuativi assunti dalle singole università, contempla un sistema di calcolo della provvidenza che non conduce all’integrale coacervo dell’importo degli scatti stipendiali che dovevano maturare nel quinquennio 2011-2015. Da quanto osservato consegue l’infondatezza del primo motivo. 6.Con il secondo, rubricando Illegittimità derivata del comma 2, art. 1, D.M. 197/2018 per incostituzionalità della legge di bilancio 2018 (L. 27.12.2017, n. 205) se e in quanto preveda un trattamento differenziato in materia di corresponsione dell'una tantum compensativa del blocco degli scatti stipendiali previsto nel quinquennio 2011-2015 i ricorrenti, in sintesi, lamentano che ove l’art. 1, co. 629, l. n. 205/2017 debba interpretarsi nel corretto senso dianzi esposto, ossia come preclusiva dell’attribuzione del beneficio dell’una tantum per i docenti e ricercatori non più in servizio alla data del 1 gennaio 2018 di entrata in vigore della legge, la stessa sarebbe incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. per trattamento discriminatorio nei confronti di coloro che si sono trovati in situazione perfettamente identica – aver prestato servizio nel periodo 2011-2015 e aver subito la stessa decurtazione dello stipendio per blocco temporaneo degli scatti stipendiali. Domandano quindi che il Tribunale disponga il rinvio alla Corte costituzionale affinché dichiari l’incostituzionalità della legge. 6.1. Con la prima parte del terzo motivo, che per economia espositiva conviene scrutinare congiuntamente al secondo testé riassunto, i ricorrenti si dolgono della asserita illegittimità prescrizione di cui alla lett. b), comma 3, dell'art. 2 del D.M. 197/2018, secondo il quale l'una tantum è "riconosciuta esclusivamente all'esito di positiva valutazione ottenuta ai sensi dell'art. 6, comma 14, della legge 30 dicembre 2010, n. 240", cioè sulla base della valutazione della qualità del servizio prestato nel quinquennio 2011-2015 da parte del competente organo accademico (Dipartimento di afferenza dei professori e ricercatori universitari). Per i deducenti di tale necessario presupposto non v'è alcuna traccia nel comma 629 dell'art. 1 L. 2017/n. 205, per cui la prescrizione regolamentare sarebbe illegittima per violazione di legge e incompetenza, nonché per eccesso di potere stante la mancanza di qualsiasi nesso ipotizzabile fra l'accertamento della qualità del servizio prestato e la corresponsione di un compenso sostitutivo e compensativo di quello non attribuito attraverso il blocco degli scatti stipendiali nel quinquennio in questione. 7. La Sezione ritiene la suggerita questione di illegittimità costituzionale manifestamente infondata. Conviene in via preliminare, operare una sintetica ricostruzione dei tratti essenziali della disciplina afferente all’intervento normativo di contenimento della spesa in questione. 7.1. Con l’art. 9 comma 21 del D.L. 78/2010 è stato introdotto il blocco dei meccanismi di adeguamento retributivo (previsti dall’art. 24 della L. 448/1998) nei confronti del personale non contrattualizzato in regime di diritto pubblico. In particolare, per il richiamato personale tali meccanismi sono stati sospesi per il triennio 2011-2013, ancorché a titolo di acconto ed escludendo successivi recuperi. Inoltre, per il medesimo personale che fruiva di un meccanismo di progressione automatica degli stipendi, il triennio 2011-2013 non è stato considerato utile ai fini della maturazione delle classi e degli scatti di stipendio previsti dai rispettivi ordinamenti. Infine, è stato previsto che le progressioni di carriera (comunque denominate) eventualmente disposte nello stesso lasso temporale avessero effetto ai soli fini giuridici. Tale blocco stipendiale è stato con successivi provvedimenti prorogato (con DPR n° 122/2013 emanato in attuazione dell’art. 16, comma1 del DL 98/2011, conv. con mod. dalla L. 122/2010) fino al 31.12.2014 e, successivamente (con l’art. 1, comma 256, della L. 190/2014), fino a tutto il 2015. La legge 205 del 2017 ha previsto che a titolo di parziale compensazione del blocco dei predetti scatti stipendiali venisse attribuito una tantum un importo ad personam in relazione alla classe stipendiale che i professori e ricercatori universitari in ruolo avrebbero potuto maturare nel predetto quinquennio (2011-2015) e in proporzione all’entità del blocco stipendiale che hanno subito. Trattasi del secondo intervento una tantum che ha interessato il predetto personale universitario dopo quello contemplato dall’art. 29 comma 19 della legge 240 del 2010 che autorizzava la spesa di 18 milioni di euro per l'anno 2011 e di 50 milioni di euro per ciascuno degli anni 2012 e 2013, demandando ad un decreto del Ministro, adottato di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, l’indicazione dei criteri e modalità per l'attuazione del presente comma con riferimento alla ripartizione delle risorse tra gli atenei e alla selezione dei destinatari dell'intervento secondo criteri di merito accademico e scientifico. 7.2. Con il nuovo provvedimento, da taluni denominato, infatti, “una tantum bis” sono stati quindi riconosciuti ulteriori importi a titolo di parziale compensazione del blocco degli scatti stipendiali. La legge 205 del 2017 si connota quale elargizione volta ad accordare un - ancorché parziale - ristoro collegato ai mancati incrementi retributivi nel quinquennio di riferimento 2011-2015. La disciplina normativa reca un ambito applicativo restrittivo in una dimensione sia oggettiva che soggettiva. Sotto il primo profilo, accorda espressamente una mera “parziale compensazione” e non un integrale ristoro del pregiudizio derivato ai docenti universitari dal blocco degli scatti stipendiali. Il Legislatore, avendo preso preliminarmente atto del venir meno delle esigenze congiunturali che avevano determinato nel 2010 il blocco degli scatti stipendiali introdotto con il d.l. n. 78/2010 generato dalle necessità di fronteggiare un periodo di profonda crisi economica tramite una penetrante opera generalizzata di “spending review” (tant’è che il decreto legge predetto fu denominato “Decreto Salva Italia), ha poi, come recentissimamente la Sezione ha avuto modo di precisare in fattispecie analoga, “inteso compiere il massimo sforzo possibile per ristorare, ma solo con una “parziale compensazione”, i docenti universitari che avevano subito il blocco degli scatti stipendiali nel quinquennio 2011-2015.”(cfr. T.A.R. Lazio – Roma, Sez. III, 7 marzo 2022, n. 2661). 7.3. Sotto il secondo profilo, il legislatore ha operato una scelta all’interno della platea dei docenti universitari che tale blocco avevano subito, circoscrivendo la stessa a coloro che ancora prestavano servizio al momento della dell’entrata in vigore della norma. Tale scelta, come detto oggettivamente restrittiva, tuttavia, non pare porsi in contrasto con il principio di uguaglianza evocato da parte ricorrente, neppure con riguardo alla restrittività che la caratterizza “e latere subiecti”. La situazione soggettiva dei docenti e ricercatori ancora in servizio alla data di entrata in vigore della legge (1.1.2018) non può, infatti, considerarsi sovrapponibile a quella dei colleghi che a quella data erano cessasti dal servizio attivo e collocati in quiescenza. E ciò in virtù dei fattori di seguito illustrati. 8. Anzitutto, va debitamente avvertito, come meglio si dirà infra, che il credito dei professori e ricercatori concernente il dibattuto “una tantum”, non origina dal loro rapporto di lavoro e dalle prestazioni espletate nel ambito dello stesso bensì da una manovra del legislatore che con il d.l. n. 78/2010 aveva congelato gli scatti stipendiali. Lo stesso legislatore, peraltro, come dianzi anticipato ricalcando le conclusioni cui la Sezione è giunta con la citata sentenza 7 marzo 2022, n. 2266, interviene successivamente, preso atto della fine della congiuntura che aveva determinato quella scelta e con un contrarius actus di pari livello legislativo (art. 1, co. 629, L. n. 205/2017) ritiene di poter fare uno sforzo per compensare, ma solo parzialmente, coloro che erano stati pregiudicati dalla precedente legge. Tale opzione legislativa limitativa non appare irragionevole al lume dell’art. 3 della Costituzione poiché intanto rappresenta il massimo sforzo che il legislatore abbia potuto compiere, la provvidenza sorgendo già con una genetica portata limitativa, che traspare dall’essere la stessa solo una “parziale” compensazione. La nuova legge sorge, dunque, giova ribadirlo, già con una portata limitativa e restrittiva sia quanto all’oggetto della provvidenza erogata, che è una “parziale compensazione”, sia sul piano soggettivo, quanto cioè ai soggetti che ritiene possano beneficiarne, individuati solo nei docenti che fossero ancora in servizio alla data della sua entrata in vigore. 8.1. Invero, tra le due figure di soggetti poste a confronto ai fini della formulazione di una diagnosi di violazione del principio di uguaglianza ex art.. 3 Cost. non si ravvisa una equivalenza, di talché possa dirsi che il legislatore ha discriminato due posizioni poste sullo stesso piano e versanti nella medesima condizione. I professori in quiescenza non prestano più servizio attivo per l’Amministrazione Universitaria là dove i docenti ancora in servizio forniscono una utilitas all’amministrazione e per essa alla collettività. Altro profilo differenziale tra i docenti in servizio e quelli in quiescenza risiede nella circostanza che i primi vantano un credito nei confronti dell’Istituzione universitaria per la quale prestano servizio, là dove i secondi hanno un diritto di credito verso l’istituto previdenziale. La ratio dello spartiacque temporale condizionante il riconoscimento dell’una tantum solo ai docenti e ricercatori in servizio al 1.1.2018, verosimilmente va ricercata nell’esigenza di non perseverare a sperequare il loro trattamento economico, che già dal 1.1.2016 era immune dal blocco degli scatti stipendiali, rispetto a quello dei loro colleghi non più in servizio. I primi, che avevano subito il pregiudizio del blocco, nello spirito della L. n. 205/2017 non potevano continuare ad essere pregiudicati una volta che le esigenze congiunturali che avevano determinato il blocco erano cessate, ed il legislatore ha limitato solo ad essi la provvidenza riparatrice in quanto la loro posizione si differenzia da quella dei colleghi in quiescenza perché questi ultimi versavano nella diversa condizione di docenti che non fornivano più il servizio di insegnamento alla collettività. La leva legislativa e il discrimen è rappresentato, a parere della Sezione, dalla continuità ed attualità della prestazione lavorativa e del correlato trattamento economico, che il legislatore non vuole che seguiti ad essere sperequato – cessate le esigenze congiunturali che avevano determinato il blocco – e che anzi appare meritevole di essere parzialmente ristorato mediante l’attribuzione dell’una tantum. 8.2. Ma la considerazione forse dirimente al fine di apprezzare la radicale diversità di situazioni soggettive e posizioni tra le due categorie di docenti, è data dalla natura del credito afferente al beneficio dell’una tantum (rispetto ad un ordinario credito da lavoro), che non origina dalla pregressa prestazione lavorativa, nel qual caso il diritto di credito avrebbe potuto essere azionato dai docenti universitari malgrado l’intervenuta cessazione dal servizio. Si pensi al caso del docente che abbia maturato in costanza del servizio, un credito per lavoro straordinario o ferie non godute. E’ di tutta evidenza che tale credito potrò essere fatto valere nonostante la cessazione dal servizio, nei termini prescrizionali. Il credito riveniente dal riconoscimento dell’una tantum non scaturisce, invece, dalla pregressa prestazione lavorativa, bensì da una nuova disposizione legislativa (l’art. 1, co. 629, L. n. 205/2017) che ne ha dettato le relative condizioni, la principale delle quali è l’attualità del servizio alla data di entrata in vigore della norma. Condizione che, per le delineate ragioni di diversità delle posizioni dei docenti in servizio rispetto a quelli in quiescenza, non appare indubitabile di infrazione costituzionale sotto la lente dell’art.3 Cost. In siffatto contesto, quindi, richiedere alla Corte Costituzionale una forzatura della mano al legislatore mediante una soppressione di quella condizione, equivarrebbe a snaturare la portata della norma e frustrarne la ratio, la quale esprime il massimo sforzo che il legislatore abbia potuto fare. 9.Possono giovare, mutatis mutandis, nel delibare la non manifesta infondatezza o meno delle censure di violazione del principio di uguaglianza, le elaborazioni cui è approdata la giurisprudenza amministrativa con riguardo al vizio dell’eccesso di potere per disparità di trattamento, del quale quello della violazione del principio di uguaglianza da parte del legislatore, costituisce una proiezione al livello del sindacato sulla conformità della legge al principio di uguaglianza, ossia di trattamento paritario. Ebbene, il postulato del vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento è notoriamente costituito dalla identità delle situazioni o posizioni poste a confronto. Si è infatti condivisibilmente precisato che “Sussiste il vizio di disparità di trattamento nel caso in cui l'Amministrazione, nell'esercizio della propria potestà discrezionale, ha provveduto in senso diverso, traendo quindi da situazioni identiche conseguenze nella fattispecie irrazionali.” (T.A.R. Lombardia - Brescia , sez. II , 02/11/2021 , n. 903); che “L'eventuale sussistenza del vizio di disparità di trattamento rispetto ad un diverso professionista nell'ambito di un diverso procedimento per pratiche commerciali scorrette per fattispecie analoga, postula in ogni caso l'identità (o almeno la totale assimilabilità) delle situazioni poste a raffronto e la completa sovrapponibilità di tutti gli elementi di rilievo delle fattispecie sanzionate” (T.A.R. Lazio - Roma, sez. I , 02/09/2021, n. 9491). Anche in materia di procedure concorsuali la Sezione è pervenuta alle medesime affermazioni di principio: “La disparità di trattamento può essere rilevata nel caso in cui, a fronte di presupposti di fatto e apprezzamenti tecnici del medesimo tenore, la Commissione formuli due giudizi divergenti.” (T.A.R. Lazio - Roma, Sez. III , 1/10/2021, n. 10099). Opzione rinvenibile altresì nella giurisprudenza della Suprema Corte, secondo cui, ad esempio, “Il controllo giudiziario volontario ex art. 34-bis, comma 6, d.lg. n. 159 del 2011 può essere chiesto e ottenuto dall'imprenditore colpito da informazione interdittiva antimafia, mentre è precluso all'imprenditore destinatario di una comunicazione antimafia interdittiva. Né questa differenza di disciplina crea alcuna disparità di trattamento, giacché i due provvedimenti sono diversi quanto a presupposti e natura.” (Cassazione penale, sez. V, 18 giugno 2021, n. 35048). 9.1. Echi di siffatti principi si rinvengono in più di una sentenza costituzionale. Valga la pena richiamare per tutte Corte Costituzionale, 8 luglio 2020, n.142, secondo cui “Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 28, comma 4, d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175, censurato per violazione degli artt. 3 e 76 Cost., nella parte in cui prevede che, ai soli fini della validità e dell'efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi, sanzioni e interessi, l'estinzione della società di cui all'art. 2495 c.c. ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese. La scelta del Governo non è estranea agli obiettivi di razionalizzazione dell'azione amministrativa in materia di attuazione e accertamento dei tributi perseguiti dalla delega e, anzi, si pone in linea di continuità e complementarità rispetto a tali obiettivi, in quanto, consentendo all'amministrazione finanziaria di compiere le ordinarie attività di accertamento nonostante l'estinzione della società, agevola la definizione delle situazioni giuridiche soggettive passive e attive del contribuente. Inoltre, nel favorire l'adempimento dell'obbligazione tributaria verso le società cancellate dal registro delle imprese, non determina l'ingiustificata disparità di trattamento denunciata dal rimettente, atteso che non è configurabile una piena equiparazione fra le obbligazioni pecuniarie di diritto comune e quelle tributarie, per la particolarità dei fini e dei presupposti di queste ultime, che si giustificano con la garanzia del regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato, cui è volto il credito tributario (sentt. nn. 291 del 1997, 281 del 2011, 178 del 2016, 10, 90, 198, 212 del 2018, 79, 170 del 2019, 96 del 2020)” . 10. Coerente con la condizione di essere in servizio al momento dell’entrata in vigore della norma è infatti l’altra condizione posta dal legislatore, ossia l’aver ottenuto la positiva valutazione ottenuta ai sensi dell’articolo 6, comma 14, della legge 30 dicembre 2010, n. 240, la quale presuppone l’attualità del servizio. Il che conduce allo scrutinio della prima parte del terso motivo sopra sintetizzata, appuntata sulla pretesa illegittimità della norma del d.m. n. 197/2018 (art. 3, lett. b) che subordina il riconoscimento dell’una tantum all’ottenimento della positiva valutazione ai sensi dell’art. 6, co. 14 della Legge Gelmini, di riforma del sistema di reclutamento dei docenti universitari, N. 240 del 2010. Orbene, a parere della Sezione neanche siffatta condizione appare irragionevole o illogica, ove si consideri in primis che essa sostanzia una meritevolezza del docente nella comprensibile ottica meritocratica che permea il sistema. Merita inoltre al riguardo tenere nel debito conto che tale positiva valutazione, nell’impianto della norma che la prescrive, ossia l’art. 6. co. 14 della l. n. 240/2010, è funzionale proprio all’attribuzione ai professori e ricercatori universitari degli scatti triennali, ragion per cui non può neanche lontanamente ipotizzarsi un sospetto di violazione costituzionale dell’art. 1, co. 629 della l. 2015 del 2017 nella parte in cui subordina il riconoscimento dell’una tantum anche all’ottenimento della positiva valutazione, che è un presupposto ineludibile del riconoscimento degli scatti a regime extra blocco. Dispone infatti l’art. 6, co. 14 della legge in disamina che “I professori e i ricercatori sono tenuti a presentare una relazione triennale sul complesso delle attività didattiche, di ricerca e gestionali svolte, unitamente alla richiesta di attribuzione dello scatto stipendiale di cui agli articoli 36 e 38 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, fermo restando quanto previsto in materia dal decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.”. La norma prosegue poi chiarendo il nesso funzionale che lega la positiva valutazione dei docenti con il riconoscimento degli scatti stipendiali, stabilendo infatti in proposito che “La valutazione del complessivo impegno didattico, di ricerca e gestionale ai fini dell'attribuzione degli scatti triennali di cui all'articolo 8 è di competenza delle singole università secondo quanto stabilito nei regolamenti di ateneo. In caso di valutazione negativa, la richiesta di attribuzione dello scatto può essere reiterata dopo che sia trascorso almeno un anno accademico.” La censura svolta con la seconda parte del terzo motivo si profila pertanto infondata e va disattesa. 11. Più in generale va conclusivamente riepilogato che non può revocarsi in dubbio come siano diversificate le posizioni dei docenti tuttora in servizio attivo che prestano ancora la loro attività a beneficio della collettività dei discenti e della struttura universitaria di cui sono dipendenti, rispetto a quelle di coloro che, cessati dal servizio, non svolgono più attività per l’Istituzione universitaria pubblica e per la collettività. Dall’altro, la legge in parola, nel determinarsi a demandare al regolamento ministeriale attuativo l’individuazione dei criteri e delle modalità per il riconoscimento di siffatto emolumento al personale ancora in ruolo ha, in qualche modo, inteso valorizzare una dimensione premiante e dinamica dell’una tantum che, sotto un versante, in fase applicativa, si rivolge al passato prevedendo la sua decurtazione in ragione del pregresso conseguimento dell’una tantum “ex L. 240/2010” e sotto l’altro, rivolgendosi anche in proiezione futura, prende in considerazione il merito professionale e l’apporto dato alla comunità dei discenti, subordinando l’erogazione al conseguimento della valutazione dell’attività svolta. Riguardata in tale corretta ottica, la norma in parola, appare pertanto connotarsi per una intrinseca ragionevolezza nel momento in cui, in presenza di situazioni differenziate che contemplavano la presenza di soggetti che avevano subito il blocco e che prestavano tutt’ora servizio e quelli medio tempore collocati in quiescenza, ha ritenuto di operare una scelta effettuata sulla base di tale differente posizione, della composita natura dell’una tantum in questione e del differente apporto che tale personale era in grado di fornire ai destinatari della propria prestazione. In definitiva, a fronte dell’adottata misura volta –a partire dal d.l. 78/2010 - al perseguimento dell’obiettivo del contenimento della spesa pubblica, che ha interessato tutto il comparto del pubblico impiego, “in una dimensione solidaristica sia pure con le differenziazioni rese necessarie dai diversi statuti professionali delle categorie che vi appartengono” (cfr. Corte Cost. n. 310 del 2013, punto 13.5. del Considerato in diritto), appare ragionevole e conforme al principio di uguaglianza e di ragionevolezza della legge promananti dall’art. 3 della Carta costituzionale, la scelta operata con l’introduzione dell’una tantum parzialmente compensativo di cui all’art. 1, co. 629 della Legge n. 205 del 2017. 12. Con la seconda parte del terzo motivo i ricorrenti deducono altresì che appare illegittima anche la prescrizione di cui alla lett. a) del comma 3 dell'art. 2 del D.M. 197/2018 nella parte in cui prevede una riduzione della misura dell'una tantum attribuibile attraverso la sottrazione degli incentivi percepiti, sempre nello stesso periodo, in applicazione dell'art. 29, comma 19, della legge 30.12.2010, n. 240. Di tale sottrazione non c'è traccia nella L 2017/ n. 205 e la sua previsione è pertanto illegittima per violazione di legge e per incompetenza assoluta del regolamento ministeriale attuativo della legge 2017/n. 205. Soggiungono inoltre: “Non solo, ma tale previsione appare incongrua ed irrazionale atteso che non è dato vedere quale nesso, o qualsivoglia rapporto, si voglia individuare fra la corresponsione di una somma una tantum compensativa di una retribuzione non percepita e la percezione di incentivi di produttività percepiti invece a tutt'altro titolo nello stesso identico periodo al quale si riferisce il blocco agli scatti stipendiali. Donde anche la configurazione del vizio di eccesso di potere per irrazionalità, illogicità e incongruità.” (Ricorso, pag. 8.). 12.1. Ebbene, il motivo si rivela inammissibile per carenza di interesse atteso che l’eventuale accoglimento del ricorso relativamente alle sintetizzate doglianze che lo compongono, alcun vantaggio sarebbe idoneo a recare ai ricorrenti, essendo essi esclusi dal novero dei soggetti beneficiari dell’una tantum “e latere subiecti”, vale a dire per non essere più in servizio alla data di entrata in vigore dell’art. 1, co. 629 della l. 27 dicembre 2017, n. 205, ossia al 1 gennaio 2018, disposizione immune dagli adombrati sospetti di infrazione costituzionale come più sopra argomentato. Basti al riguardo rammentare che “Il diritto al ricorso nel processo amministrativo sorge in conseguenza della lesione attuale di un interesse sostanziale e tende a un provvedimento del giudice idoneo, se favorevole, a rimuovere quella lesione; le condizioni soggettive per agire in giudizio sono la legittimazione processuale, cosiddetta legittimazione ad agire, e l'interesse a ricorrere.” (Consiglio di Stato, Sez. V , 12 maggio 2020, n. 2969). 13. Le censure ad avviso della Sezione sono inoltre infondate nel merito e vanno pertanto disattese. Al riguardo il Collegio evidenzia in primo luogo che non è esatto affermare che i ricorrenti hanno subito una “sottrazione degli incentivi percepiti” in applicazione dell’art. 29, co. 19, L. n. 240/2010 “sempre nello stesso periodo”, ovvero “nello stesso identico periodo al quale si riferisce il blocco agli scatti stipendiali Invero, valga osservare: 1) i benefici contemplati dall’art. 29, co. 9, L. n. 241/2010 non sono stati sottratti, ma hanno determinato soltanto la riduzione dell’importo una tantum elargito in esecuzione della l. n. 205/2017; non si è quindi al cospetto di alcuna sottrazione di quei benefici; 2) detti benefici o incentivi di produttività che hanno cagionato la predetta decurtazione, peraltro applicata dall’Università nella percentuale minima, non sono stati percepiti nel medesimo periodo in cui i docenti hanno subito il blocco degli scatti, ma solo nel biennio 2011-2013, là dove il blocco degli scatti ha interessato un più esteso arco temporale, ossia il quinquennio 2011-2015. L’art. 2, co.3 del D.M. n. 197/2018 dispone infatti la riduzione dell’indennità compensativa una tantum de qua (in misura oscillante tra il 20 e il 30% e il 40 e il 50% a seconda che i benefici di cui alla Legge Gelmini siano stati percepiti in una ovvero due annualità) “per coloro che nel periodo 2011-2013 hanno beneficiato degli incentivi una tantum di cui all’articolo 29, comma 19, della legge 30 dicembre 2010, n. 240;”. 13.1. La prima parte della scrutinata censura si prospetta dunque infondata e va disattesa. 14. Del pari non persuasiva appare al Collegio la ulteriore parte della doglianza, secondo la quale della esaminata “sottrazione” (che non è tale per le ragioni testé esposte) non c'è traccia nella L n. 205/2017 e la sua previsione è pertanto illegittima per violazione di legge e per incompetenza assoluta del regolamento ministeriale attuativo della legge n. 205/2017 e tale previsione appare incongrua ed irrazionale atteso che non è dato vedere quale nesso, o qualsivoglia rapporto, si possa individuare fra la corresponsione di una somma una tantum compensativa di una retribuzione non percepita, e la percezione di incentivi di produttività percepiti invece a tutt'altro titolo. 14.1. Per contro, il Collegio osserva che quanto alla mancata previsione della illustrata decurtazione dell’importo una tantum per cui è causa nella L. n. 205/2017, ciò non contravviene all’impianto e alla ratio dell’art. 1, co. 629 della L. n. 205/2017, che si presenta come improntato ad un carattere restrittivo e limitativo della provvidenza da esso stabilita, apprezzabile sotto i due profili più sopra sviscerati e che conviene qui riepilogare in rapida sintesi. Il primo è quello soggettivo, prevedendo la norma che il beneficio va riconosciuto solo ai docenti universitari che alla data di entrata in vigore della legge (1.1.2018) fossero ancora in servizio e non in quiescenza. Previsione che non appare al Collegio affetta da dubbi di infrazione costituzionale del principio di uguaglianza, posto, come sopra ampiamente argomentato, non sono sovrapponibili le figure del docente che, tuttora in servizio attivo, presta ancora la sua attività a beneficio della collettività dei discenti e della struttura Universitaria di cui è dipendente, rispetto alla figura e alla posizione del docente che, cessato dal servizio, non svolge più attività per l’Istituzione universitaria pubblica e per la collettività. La portata restrittiva della norma affiora inoltre anche sotto il profilo oggettivo, emergente alla sua dichiarata natura di mera “parziale compensazione” e non di integrale ristoro del pregiudizio derivato ai docenti universitari dal blocco degli scatti stipendiali Sicché, come la Sezione ha già puntualizzato nel caso analogo sopra richiamato, “non emerge neanche sotto tale aspetto un sostenibile dubbio di infrazione del principio costituzionale della ragionevolezza della legge ex art. 3 Cost, ove si consideri che con la previsione, ad opera dell’art. 1, co. 629, L. n. 205/2017, solo di una parziale compensazione del pregiudizio causato ai docenti tuttora in servizio dal blocco degli scatti stipendiali, il Legislatore, avendo preso preliminarmente atto del venir meno delle esigenze congiunturali che avevano determinato nel 2010 il blocco degli scatti con il d.l. n. 78/2010 generato dalle necessità di una generalizzata “spending review” (tant’è che il decreto legge predetto fu denominato “Decreto Salva Italia), ha poi inteso compiere il massimo sforzo possibile per ristorare, ma solo con una “parziale compensazione”, i docenti universitari che avevano subito il blocco degli scatti stipendiali nel quinquennio 2011-2015.” (T.A.R. Lazio – Roma, Sez. III, 7 marzo 2022, n. 2661). 14.2. Orbene, non appare al Collegio dissonante con la tratteggiata portata limitativa e restrittiva dell’art. 1, co. 629 della L. 27 dicembre 2017, n. 205 e latere subiecti e sul piano contenutistico, l’aver previsto in sede di varo del D.M. n. 197/2018 attuativo della legge, una sorta di limitata non cumulabilità dell’indennità una tantum introdotta dalla legge, con i benefici già fruiti dai docenti in un arco temporale inferiore, come si è chiarito, a quello interessato dal blocco degli scatti stipendiali (per la precisione solo nei primi tre anni del blocco stesso). E ciò non solo per l’armonia e la consonanza normativa appena illustrata, ma anche considerando che i docenti che avevano fruito di utilità economiche premiali in un lasso temporale solo parzialmente coincidente con il periodo del blocco degli scatti stipendiali, erano stato già beneficati dal legislatore e in parte ristorati. Ne consegue che anche in considerazione di tale parziale ma pur sempre apprezzabile ristoro, si rivela coerente ed esente da mende non solo sub specie di dubbi di infrazione costituzionale, ma anche sul piano del dedotto eccesso di potere, la previsione ministeriale di applicare ai beneficiari degli importi loro riconosciuti in applicazione dell’art. 29 della L. n. 240/2010, una mera decurtazione dell’importo una tantum recato dalla L. n. 205/2017 e relativo DM 197/2018 attuativo; decurtazione non particolarmente rilevante (limitata infatti alla percentuale variabile tra il 20 e il 30% per chi avesse fruito dei benefici di cui all’art. 29, l. n. 240/2010 per una sola annualità e dal 40 al 50% per chi invece di quei benefici avesse fruito per due annualità nei primi tre anni del blocco degli scatti stipendiali) ed oltretutto applicata dall’Università di Pisa nella misura minima. 14.3. Siffatta, contenuta, decurtazione – non sottrazione – muove del resto anche nell’ottica di scongiurare locupletazioni a favore di soggetti che già sono stati in parte ristorati dalla fruizione dei benefici ottenuti per effetto dell’art. 29, co. 9 della L. n. 240/2010 e che non è sembrato al Ministero che allorché ha adottato il D.M. n. 197/2018, ragionevole e congruente ristorare ulteriormente mercé l’erogazione dell’indennità una tantum, stante la sua delineata portata limitativa e parzialmente compensativa, nell’importo integrale. Sulla scorta delle svolte considerazioni le due riassunte e scrutinate censure si prospettano dunque infondate e vanno conseguentemente disattese. 15. L’argomentata infondatezza e parziale inammissibilità dei motivi primo, secondo e terzo è ragione del conseguenziale rigetto della domanda di condanna (par. IV del ricorso) dell'Università di Siena a corrispondere l'una tantum prevista dalla L. 205/2017 secondo i criteri di calcolo previsti dal D.M. attuativo 197/2018, depurato, a seguito del previo annullamento, delle prescrizioni risultanti dalle lett. a) e b), comma 3, art. 2 del D.M. 197/2018. 16.In definitiva, riassumendo, alla luce delle argomentazioni tutte finora illustrate, il ricorso si profila parzialmente inammissibile per carenza di interesse limitatamente alla seconda parte del terzo motivo. Il ricorso si prospetta contestualmente infondato relativamente ai motivi primo, secondo e prima parte del terzo e quanto alla domanda (par. IV) di condanna dell’Università di Siena a corrispondere l'una tantum prevista dalla L. 205/2017 secondo i criteri di calcolo previsti dal D.M. attuativo 197/2018, depurato, a seguito del previo annullamento, delle prescrizioni risultanti dalle lett. a) e b), comma 3, art. 2 del D.M. 197/2018. 17. Le spese possono essere compensate per la novità e la particolarità delle questioni affrontate. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, così provvede: - Dichiara il ricorso in parte inammissibile; - Respinge il ricorso nel merito. - Respinge la domanda di condanna dell’Università di Siena. Compensa integralmente le spese di lite tra le costituite parti. Ordina che la presente Sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2022 con l'intervento dei Magistrati: Alfonso Graziano, Presidente FF, Estensore Chiara Cavallari, Referendario Luca Biffaro, Referendario Alfonso Graziano, Presidente FF, Estensore Chiara Cavallari, Referendario Luca Biffaro, Referendario IL SEGRETARIO
Università degli studi - Professore ordinario e associato – Trattamento economico - Blocco degli scatti stipendiali quinquennio 2011-2015 – Compensazione con importo una tantum - Art. 1, comma 629, l. n. 205 del 2017 – Questione di legittimità costituzionale - Manifesta infondatezza       E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 629, l. 27 dicembre 2017, n. 205 che riconosce un importo una tantum a parziale compensazione del blocco degli scatti stipendiali subito dai professori e ricercatori universitari del quinquennio 2011-2015 per effetto del d.l. n. 78 del 2010 e successive proroghe, solo ai professori e ricercatori che erano ancora in servizio alla data di entrata in vigore della legge (1 gennaio 2018) poiché rappresenta il massimo sforzo che il legislatore abbia potuto compiere, la provvidenza sorgendo già con una genetica portata limitativa, che traspare dall’essere la stessa solo una “parziale” compensazione e non pare porsi in contrasto con il principio di uguaglianza evocato da parte ricorrente, neppure con riguardo alla restrittività che la caratterizza “e latere subiecti” (1).     (1) Ha chiarito la Sezione che la situazione soggettiva dei docenti e ricercatori ancora in servizio alla data di entrata in vigore della legge (1.1.2018) non può, infatti, considerarsi sovrapponibile a quella dei colleghi che a quella data interviene successivamente, preso atto della fine della congiuntura che aveva determinato quella scelta e con un contrarius actus di pari livello legislativo (art. 1, co. 629, L. n. 205/2017) ritiene di poter fare uno sforzo per compensare, ma solo parzialmente, coloro che erano stati pregiudicati dalla precedente legge. Tale opzione legislativa limitativa non appare irragionevole al lume dell’art. 3 della Costituzione poiché intanto rappresenta il massimo sforzo che il legislatore abbia potuto compiere, la provvidenza sorgendo già con una genetica portata limitativa, che traspare dall’essere la stessa solo una “parziale” compensazione per i docenti che a quella data erano cessasti dal servizio attivo e collocati in quiescenza. Inoltre, tra le due figure di soggetti poste a confronto ai fini della formulazione di una diagnosi di violazione del principio di uguaglianza ex art.. 3 Cost. non si ravvisa una equivalenza, di talché possa dirsi che il legislatore ha discriminato due posizioni poste sullo stesso piano e versanti nella medesima condizione. I professori in quiescenza non prestano più servizio attivo per l’Amministrazione Universitaria là dove i docenti ancora in servizio forniscono una utilitas all’amministrazione e per essa alla collettività. Altro profilo differenziale tra i docenti in servizio e quelli in quiescenza risiede nella circostanza che i primi vantano un credito nei confronti dell’Istituzione universitaria per la quale prestano servizio, là dove i secondi hanno un diritto di credito verso l’istituto previdenziale. Ha ancora  chiarito la sezione che non è illegittimo l’art. 3, lett. b) del d.m. 2 marzo 2018, n.197/2018 che subordina il riconoscimento dell’una tantum all’ottenimento della positiva valutazione ai sensi dell’art. 6, co. 14 della Legge Gelmini.n. 240 del 2010, di riforma del sistema di reclutamento dei docenti universitari, poichè in primis che essa sostanzia una meritevolezza del docente nella comprensibile ottica meritocratica che permea il sistema ed inoltre tale positiva valutazione, nell’impianto della norma che la prescrive, ossia l’art. 6. co. 14 della l. n. 240/2010, è funzionale proprio all’attribuzione ai professori e ricercatori universitari degli scatti triennali, stabilendo che “I professori e i ricercatori sono tenuti a presentare una relazione triennale sul complesso delle attività didattiche, di ricerca e gestionali svolte, unitamente alla richiesta di attribuzione dello scatto stipendiale di cui agli articoli 36 e 38 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, fermo restando quanto previsto in materia dal decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.”. La norma prosegue poi chiarendo il nesso funzionale che lega la positiva valutazione dei docenti con il riconoscimento degli scatti stipendiali, stabilendo infatti in proposito che “La valutazione del complessivo impegno didattico, di ricerca e gestionale ai fini dell'attribuzione degli scatti triennali di cui all'articolo 8 è di competenza delle singole università secondo quanto stabilito nei regolamenti di ateneo. In caso di valutazione negativa, la richiesta di attribuzione dello scatto può essere reiterata dopo che sia trascorso almeno un anno accademico.” Non è illegittima per violazione dell’art. 1, co. 929, L. 27 dicembre 2017, n. 205 la previsione di cui all’art. 2, co.3 del D.M. n. 1 marzo 2018 n.197 attuativo che dispone la riduzione dell’indennità compensativa una tantum de qua (in misura oscillante tra il 20 e il 30% e il 40 e il 50% a seconda che i benefici di cui alla Legge Gelmini siano stati percepiti in una ovvero due annualità) “per coloro che nel periodo 2011-2013 hanno beneficiato degli incentivi una tantum di cui all’articolo 29, comma 19, della legge 30 dicembre 2010, n. 240;” poiché la mancata previsione i tale decurtazione dell’importo una tantum nella L. n. 205/2017, non contravviene all’impianto e alla ratio dell’art. 1, co. 629 della L. n. 205/2017, che si presenta come improntato ad un carattere restrittivo e limitativo della provvidenza da esso stabilita, apprezzabile sotto il profilo soggettivo, prevedendo la norma che il beneficio va riconosciuto solo ai docenti universitari che alla data di entrata in vigore della legge (1.1.2018) fossero ancora in servizio e non in quiescenza e sotto il profilo oggettivo, emergente alla sua dichiarata natura di mera “parziale compensazione” e non di integrale ristoro del pregiudizio derivato ai docenti universitari dal blocco degli scatti stipendiali. ​​​​​​​E ciò non solo per l’armonia e la consonanza normativa appena illustrata, ma anche considerando che i docenti che avevano fruito di utilità economiche premiali in un lasso temporale solo parzialmente coincidente con il periodo del blocco degli scatti stipendiali, erano stato già beneficati dal legislatore e in parte ristorati. 
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Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di decreto in materia di dati e informazioni relativi alla titolarità effettiva di imprese ai fini dell’antiriciclaggio
Numero 00458/2021 e data 19/03/2021 Spedizione REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato Sezione Consultiva per gli Atti Normativi Adunanza di Sezione del 23 febbraio 2021 e del 9 marzo 2021 NUMERO AFFARE 00252/2021 OGGETTO: Ministero dell'economia e delle finanze. Schema di decreto del ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il ministro dello sviluppo economico, recante disposizioni in materia di comunicazione, accesso e consultazione dei dati e delle informazioni relativi alla titolarità effettiva di imprese dotate di personalità giuridica, di persone giuridiche private, di trust produttivi di effetti giuridici rilevanti ai fini fiscali e di istituti giuridici affini al trust. LA SEZIONE Vista la nota di trasmissione della relazione prot. n. 1572 in data 11 febbraio 2021, con la quale il Ministero dell'economia e delle finanze ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto; Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Giuseppa Carluccio; Premesso 1. Con nota dell’11 febbraio 2021, prot. n. 1572, il Ministero dell’economia e delle finanze ha trasmesso lo schema di decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, recante norme di attuazione dell’art. 21 del d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231 (“Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione”, d’ora in poi DA), come novellato dall’art. 2, comma 1, lett. f), g) ed h), del d.lgs. 4 ottobre 2019, n. 125 (“Modifiche ed integrazioni ai decreti legislativi 25 maggio 2017, n. 90 e n. 92, recanti attuazione della direttiva (UE) 2015/849, nonché attuazione della direttiva (UE) 2018/843 che modifica la direttiva (UE) 2015/849 relativa alla prevenzione dell'uso del sistema finanziario ai fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo e che modifica le direttive 2009/138/CE e 2013/36/UE”). 1.1. Il Ministro ha esercitato il potere regolamentare conferitogli dall’art. 21, comma 2, lett. d), e lett. f), ultimo periodo (u.p.), comma 4, lett. c), e lett. d-bis), u.p., e comma 5, del DA, come da ultimo novellato. 2. Lo schema di decreto sottoposto all’esame di questo Consiglio è corredato dalla relazione illustrativa, dall’analisi di impatto della regolazione (AIR), dall’analisi tecnico-normativa (ATN) e dal parere favorevole del Garante per la protezione dei dati personali, espresso in data 14 gennaio 2021. 3. La richiesta di parere ha per oggetto: a) lo schema di decreto, composto da undici articoli, suddivisi in tre sezioni; b) l’allegato tecnico, suddiviso in sei parti, ciascuna delle quali, ad eccezione della VI, suddivisa in paragrafi. 4. L’intervento normativo in argomento, che detta disposizioni attuative, si inserisce nella materia di derivazione eurounitaria della prevenzione dei fenomeni di riciclaggio dei proventi di attività criminosa e di finanziamento del terrorismo nel sistema finanziario. 4.1. L’obiettivo di tale prevenzione, già perseguito con la direttiva 2005/60/CE, a partire dalla direttiva (UE) 2015/849, è stato rafforzato mediante la previsione del “disvelamento” della titolarità effettiva della clientela quando, ad entrare in contatto con gli operatori finanziari, che sono i soggetti obbligati destinatari delle disposizioni antiriciclaggio, non sono persone fisiche, ma società ed altre entità giuridiche, oltre a trust e istituti affini. Il rafforzamento è stato perfezionato ed implementato con la direttiva di modifica (UE) 2018/843. 4.2. Con la direttiva del 2015, e con le incisive integrazioni apportate dalla direttiva del 2018, il “disvelamento” è stato perseguito, non più solo attraverso gli obblighi in capo alla clientela di acquisire e conservare informazioni inerenti la propria titolarità effettiva e attraverso le verifiche degli operatori finanziari rispetto alla loro clientela; bensì, con un nuovo strumento volto alla trasparenza e alla conoscibilità, entro determinate condizioni, dei dati e delle informazioni che concernono la titolarità effettiva della clientela. Lo strumento è costituito da un registro centrale nazionale dove confluiscono tali dati – interconnesso con quelli degli altri Paesi membri – che è il registro dei titolari effettivi dei soggetti clienti da “disvelare”, costituiti dalle “società ed altre entità giuridiche” (art. 30), nonché dai trust e istituti giuridici affini (art. 31). 4.3. La trasparenza e conoscibilità dei dati e delle informazioni concernenti la titolarità effettiva è stata oggetto di una marcata modifica con la direttiva del 2018. Il tratto essenziale in tale direzione è individuabile nella disciplina dell’accesso. 4.3.1. L’accesso verso i dati delle società e delle altre entità giuridiche era previsto: - senza restrizioni rispetto alle Autorità; - nel quadro di un’adeguata verifica della clientela, in favore degli operatori finanziari; - subordinatamente alla dimostrazione di un legittimo interesse, rispetto a qualunque “persona o organizzazione”, con possibili deroghe all’accesso in casi eccezionali di grave rischio per il titolare effettivo. L’accesso verso i dati dei trust e degli istituti affini era previsto solo a favore delle Autorità e dei soggetti obbligati alle stesse condizioni. 4.3.2. Con le modifiche del 2018, ferma la regolamentazione a favore delle Autorità e dei soggetti obbligati: a) l’accesso ai dati delle società e delle altre entità giuridiche è stato previsto “in ogni caso” a favore del “pubblico”; b) l’accesso ai dati dei trust e degli istituti affini è stato previsto a favore di qualunque persona fisica o giuridica richiedente, subordinatamente alla dimostrazione di un legittimo interesse; c) è stata confermata la possibile deroga eccezionale in ragione del grave rischio per il titolare effettivo, estendendola all’accesso ai dati dei trust e affini. 4.3.2.1. In definitiva - salva la permanenza della possibilità di deroghe eccezionali, a tutela del soggetto controinteressato da disvelare - per garantire la conoscibilità e la trasparenza dei dati sulla titolarità effettiva, è stata fatta cadere per il “pubblico” ogni restrizione di accesso ai dati delle società e delle altre entità giuridiche di cui si chieda il disvelamento; mentre, la necessità della dimostrazione dell’interesse alla conoscenza è stata limitata unicamente alla richiesta di accesso delle persone fisiche e giuridiche relativa ai dati di trust e affini. 5. L’Italia ha provveduto alla attuazione della direttiva del 2015 con il d.lgs. n. 90 del 25 maggio 2017, il cui art. 2, comma 1, ha, per quanto di interesse, sostituito l’originario art. 21 del DA. Poi, in esito ad una procedura di infrazione del 2019, ha provveduto all’attuazione della direttiva del 2018 con il d.lgs. 4 ottobre 2019, n. 125, il cui art. 2, comma 1, ha, per quanto di interesse, novellato l’art. 21 del DA, la cui attuazione è ora all’esame della Sezione. 6. Si tratta, quindi, di norme di attuazione di disposizioni legislative di diretta derivazione eurounitaria in una materia connotata dal perseguimento di rilevanti interessi pubblici generali, quali la prevenzione e il contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, attraverso l’accesso alle informazioni sulla titolarità effettiva delle società e di altri soggetti ed istituti giuridici e, nel contempo, dalla necessaria ricerca del giusto equilibrio tra gli interessi pubblici perseguiti e i diritti fondamentali delle persone interessate dalla divulgazione dei dati. Considerato preliminarmente 1. La Sezione rileva che, dalla documentazione in atti, non risulta il concerto espresso formalmente dal Ministro dello sviluppo economico sullo schema di decreto in oggetto. Come è noto, l’atto di concerto può essere sottoscritto solo dal Ministro competente o “d’ordine” del Ministro stesso. Inoltre, il contenuto della nota 8 febbraio 2021, n. 2784 non è proprio quello espressivo di un concerto, limitandosi a rappresentare di “non avere osservazioni da formulare ai fini del prosieguo dell’iter”. 2. In esito all’approfondito esame dei testi sottoposti per il prescritto parere, la Sezione è pervenuta alla convinzione che, stante la valenza eurounitaria della materia normata ed il carattere di novità delle sezioni istituite presso il registro delle imprese esistente, sia opportuno, in uno spirito di collaborazione, coinvolgere l’Amministrazione in una riflessione comune su alcuni profili, con l’obiettivo: a) di pervenire ad una più chiara comprensione delle ragioni poste alla base delle scelte compiute; b) di sottoporre alla stessa una riflessione sul taluni profili che, anche in ragione della rilevanza eurounitaria, non appaiono adeguatamente risolti. 2.1. L’ambito della riflessione comune richiesta si incentra, da un lato su profili trasversali che interessano più disposizioni, dall’altro su profili che riguardano le singole disposizioni. Considerato, rispetto ai profili trasversali Lo schema di decreto e l’Allegato tecnico 1. La relazione allegata allo schema di decreto afferma che il regolamento “si completa di un allegato tecnico”; aggiunge che l’articolato tecnico “individua le modalità e specifiche informatiche ai fini del popolamento e della consultazione delle sezioni”. L’art. 1 dello schema di decreto rubricato “Definizioni”, al comma 1, lett. b), recita: “allegato tecnico: indica l'allegato tecnico al presente decreto di cui costituisce parte integrante”. 2. Rileva l’Adunanza: a) che la gran parte degli articoli dello schema di decreto rinviano all’allegato; b) che la struttura del documento è discorsiva, in forma di appunto e non di articolato; c) che la prima parte contiene l’esposizione delle novità apportate al portale “www.registroimprese.it” con l’implementazione all’indirizzo “www.titolareffettivo.registroimprese.it”, in collegamento con le nuove funzioni derivanti dallo schema di regolamento; d) che alcuni paragrafi: - riproducono disposizioni contenute nello schema di decreto e nel DA; - richiamano disposizioni di rango primario e secondario, in materie che si intrecciano con quella oggetto dello schema di regolamento, a volte integrando quelle richiamate nello schema di decreto (es: art. 3, comunicazione unica di impresa – autocertificazione); - talvolta, al suddetto richiamo si accompagna la soluzione di profili applicativi in concreto delle stesse o la precisazioni di profili applicativi rispetto alla modalità informatica, occasionata dalle disposizioni dello schema di decreto o dall’assetto attuale del portale (es: art. 3, controlli formali, conferma comunicazione dati); e) che sono presenti disposizioni prescrittive proprie del procedimento (es: art. 3, art. 5, art. 6 e art. 7). 3. Un allegato così strutturato, che si snoda per nove pagine, appare non idoneo a costituire parte integrante del decreto, già solo sulla base della considerazione che ogni modifica richiederebbe un nuovo decreto ministeriale concertato. Inoltre, l’inammissibile duplicazione delle norme di rango primario e secondario, in una con la previsione di prescrizioni attuative aggiuntive rispetto a quelle individuate nello schema di decreto, incide quantomeno sulla semplicità e chiarezza, cui dovrebbero mirare le disposizioni, soprattutto se di carattere attuativo; tanto più che i richiami dagli articoli dello schema di decreto all’allegato sono molteplici. Peraltro, la conformazione suddetta dell’allegato appare in contraddizione con quanto l’Amministrazione sostiene nella relazione, secondo la quale conterrebbe “modalità e specifiche informatiche”. 4. La Sezione chiede, pertanto, se vi siano delle ragioni che hanno guidato la scelta dell’Amministrazione nella redazione di un allegato così composito, invece di optare per: - la pubblicazione sul sito di istruzioni operative con vademecum rispetto alle novità apportate al portale; - l’inserimento delle disposizioni prescrittive nello schema di decreto; - la precisa individuazione di previsioni di dettaglio ritenute necessarie, strettamente collegate con specifiche tecniche, e, comunque, in diretto e chiaro collegamento con il corrispondente articolo dello schema. Accesso e consultazione 1. Lo schema di decreto individua la Sezione II con il titolo “Accesso ai dati e alle informazioni”; poi, così rubrica gli articoli che ne fanno parte: art. 5 “Accesso da parte delle autorità”; art. 6 “Accreditamento e consultazione da parte dei soggetti obbligati”; art. 7 “Consultazione da parte di altri soggetti”. 2. L’art. 21 del DA usa sempre il termine “accesso”. Solo nel comma 5, lett. c), è utilizzata l’espressione “modalità di consultazione” in riferimento ai soggetti obbligati. 3. La direttiva del 2015, come modificata nel 2018: a) nell’art. 30 utilizza il termine “accesso” rispetto a tutti i soggetti aventi diritto [§ 2, rispetto alle Autorità; § 5, informazioni “accessibili” rispetto a tutti i soggetti; comma 2, rispetto al “pubblico”; § 9, rispetto al “pubblico” e ai “soggetti obbligati”; nell’art. 31 utilizza il termine “accesso” rispetto alle Autorità (§3) e rispetto a tutti i soggetti (§4)]. 4. A fronte di una chiara scelta legislativa, conforme alla direttiva, la Sezione si chiede se vi siano delle ragioni che hanno indotto l’Amministrazione a pervenire ad un distinguo nella rubrica degli articoli. 4.1. Sebbene la rubrica non svolga un ruolo decisivo nell’interpretazione delle disposizioni, non può negarsi che, con il termine consultazione, il quale individua l’attività di esame dei dati e delle informazioni contenuti nelle sezioni del registro delle imprese, come tale logicamente successiva alla richiesta di accesso, si finisca per offuscare, ponendolo in secondo piano, il diritto di accesso; questo costituisce, invece, il fulcro della novità della legge da attuare. Mentre, l’espresso richiamo alla consultazione, nell’art. 21, comma 5, del DA, si spiega con la circostanza che i soggetti obbligati sono già in possesso dei dati sulla titolarità effettiva, acquisiti dalla clientela mediante le verifiche cui sono tenuti, ed hanno accesso alle sezioni del registro per effettuare un riscontro e segnalare eventuali diversità. 4.2. Peraltro, risultando dalle rubriche un vero e proprio diritto di accesso solo in capo alle Amministrazioni, mentre per i soggetti obbligati vi sarebbe una mera consultazione preceduta dall’accreditamento e per i soggetti diversi solo la consultazione, unitamente alla circostanza che, nel corpo dell’art. 7 e nei relativi paragrafi dell’allegato, accreditamento e diritto all’accesso dei soggetti diversi si sovrappongono, la scelta effettuata dall’Amministrazione può essere fonte di dubbi interpretativi. Infatti, il rischio è che l’accesso appaia riconosciuto solo alle Autorità e che si individui una categoria intermedia di accesso, collegata alle funzioni di verifica, per i soggetti obbligati. Soprattutto, potrebbero sorgere dubbi in riferimento ai soggetti diversi, rispetto ai quali nel corpo dell’articolo e nelle parti dell’allegato richiamate, accreditamento e accesso si sovrappongono, come verrà chiarito nel prosieguo. 4.3. Invece, come appare evidente sulla base della disciplina legislativa, per tutti i soggetti si tratta di diritto di accesso ai dati e alle informazioni presenti nelle sezioni e consultabili, mutando solo i presupposti per l’accesso e l’oggetto dei dati consultabili. Infatti: a) la consultazione è completa per le autorità e i soggetti obbligati, previ, rispettivamente, acquisizioni di credenziali ed accreditamento; b) è completa con modalità di accesso ordinario, senza previo accreditamento al portale, per il “pubblico”, ma limitatamente ai dati delle imprese con personalità giuridica e alle persone giuridiche private per le quali l’accesso è richiesto; - c) è regolamentata, per i privati, compresi quelli portatori di interessi diffusi, rispetto ai trust e agli istituti affini, essendo l’unica condizione quella della dimostrazione di un interesse concreto ed attuale verso un trust o istituto determinato; - d) inoltre, per entrambe le suddette due ultime categorie, l’accesso può essere eccezionalmente escluso a tutela del soggetto da disvelare controinteressato. 4.4. Per queste ragioni, la Sezione reputa opportuno chiedere all’Amministrazione se non sia preferibile, e maggiormente aderente al principio di eliminare ogni ambiguità nei testi normativi, utilizzare il termine “accesso” rispetto a tutti i soggetti aventi diritto, eventualmente utilizzando quello di “consultazione” nel corpo dell’art. 6, proprio perché i soggetti obbligati mettono a confronto i propri dati con quelli delle sezioni del registro. Naturalmente tale scelta inciderebbe anche nella definizione dell’oggetto del decreto (art. 2). I soggetti, diversi dalle Autorità e dai soggetti obbligati, che hanno diritto a richiedere l’accesso 1. La direttiva del 2015, come modificata nel 2018: a) nell’individuare i soggetti che hanno diritto all’accesso ai dati sulla titolarità effettiva delle società e delle altre “entità giuridiche” (art. 30, § 5, lett. c), utilizza il termine “pubblico”; nel comma successivo, dove individua i dati e le informazioni ai quali il “pubblico” deve avere, almeno, accesso, utilizza il termine “le persone”; b) nell’individuare i soggetti che hanno diritto all’accesso ai dati sulla titolarità effettiva dei trust e degli istituti affini [art. 31, § 4, lett. c) e d)], utilizza l’espressione “qualunque persona fisica o giuridica”. 2. L’art. 21 del DA: a) per la prima ipotesi ha mantenuto l’utilizzo del termine “pubblico” (comma 2 lett. f); b) per la seconda ipotesi ha utilizzato la seguente espressione “privati, compresi quelli portatori di interessi diffusi” (comma 4, lett. d-bis). 3. L’art. 7 dello schema di decreto ha utilizzato lo stesso termine “pubblico” per la prima categoria (comma 1) ed ha richiamato la corrispondente previsione normativa (art. 21, comma 4, lett. d-bis) per la seconda; quindi, si è completamente adeguato alle disposizioni legislative da attuare. 4. Rileva la Sezione che l’espressione usata dalla legge (“privati, compresi quelli portatori di interessi diffusi”) per indicare i soggetti che hanno diritto all’accesso ai dati sulla titolarità effettiva dei trust e degli istituti affini, richiamata poi nello schema di decreto, può creare incertezze interpretative. Infatti, la specificazione del termine “privati” dopo la virgola, con l’espressione “compresi quelli portatori di interessi diffusi”, potrebbe ingenerare il dubbio che tra i soggetti privati non siano ricomprese le persone fisiche; mentre è inequivocabile la direttiva nell’indicare “qualunque persona fisica o giuridica”. Così come chiaramente la direttiva specifica il termine “pubblico” con “le persone”, facendo inequivocabilmente riferimento alle persone fisiche. 4.1. Va precisato che tale dubbio interpretativo non è idoneo anche solo ad ipotizzare un contrasto della legge e, quindi, dello schema di decreto che la richiama, con la direttiva europea. 4.2. Tuttavia, proprio in ragione della rilevanza eurounitaria della definizione ai fini del riconoscimento del diritto a chiedere l’accesso, si chiede all’Amministrazione di esprimersi in ordine alla opportunità di individuare nello schema di decreto le categorie degli aventi diritto, interpretando la disposizione legislativa alla luce della normativa europea. 4.2.1. In tale direzione, si potrebbe utilizzare: - l’espressione “qualunque persona fisica” oppure l’espressione “le persone fisiche”, per la prima categoria; - l’espressione “qualunque persona fisica o giuridica, ivi compresa quella portatrice di interessi diffusi”, per la seconda categoria. 4.2.2. La modifica inciderebbe, oltre che sull’art. 7, anche sull’art. 2 dello schema di decreto, attinente all’oggetto. Il procedimento e l’attribuzione della competenza Premesso 1. Il procedimento, secondo quanto emerge dallo schema di decreto e dall’allegato, può così sintetizzarsi nei suoi snodi e tratti essenziali: I) l’acquisizione dei dati e delle informazioni; II) la messa a disposizione dei dati della sezione autonoma (quella dove confluiscono i dati relativi alle imprese con personalità giuridica e alle persone giuridiche private) e della sezione speciale (quella dove confluiscono i dati relativi ai trust e ai soggetti affini) ai soggetti aventi diritto, ai fini della consultazione e rilascio di copie, con ampiezza diversa a seconda che si tratti di autorità e soggetti obbligati o di privati, a loro volta differenziati a seconda del soggetto da disvelare; III) la decisione sulle richieste di accesso, a seconda dei diversi presupposti individuati dalla legge e, poi, dallo schema di decreto. 1.1. I suddetti segmenti essenziali sono così scomponibili e, naturalmente, il secondo e il terzo sono strettamente collegati. 1.2. La comunicazione al registro delle imprese (per il primo popolamento, per la sopravvenienza di nuovi clienti, a regime per le variazioni intervenute, per la conferma con cadenza annuale) dei dati e delle informazioni sulla titolarità effettiva, da parte dei soggetti clienti, già obbligati ad acquisirle sulla base di un obbligo di legge (art. 22, comma 2, del DA), mediante autocertificazione; - l’eventuale indicazione delle ragioni di rischio che deriverebbero dal disvelamento dei dati, ai fini delle ipotesi eccezionali di diniego di accesso; - l’inserimento dei suddetti dati e informazioni nella sezione autonoma e nella sezione speciale del registro delle imprese telematico, costituente una banca dati unica a livello nazionale, gestita da Infocamere; - l’accertamento dell’inadempimento agli obblighi di comunicazione e l’eventuale irrogazione della sanzione. 1.3. La consultazione dei dati, con modalità informatiche dall’intero territorio nazionale, presuppone, secondo la terminologia utilizzata nello schema di decreto: a) l’acquisizione di “credenziali” da parte delle Autorità, sulla base di una prima richiesta di accesso ai fini dell’individuazione del responsabile dell’Area Organizzativa Omogenea e, rispetto alle Autorità preposte al contrasto dell’evasione fiscale, una dichiarazione in ordine alla circostanza che l’accesso e la consultazione dei dati sono effettuati per i soli fini istituzionali; b) l’“accreditamento” dei soggetti obbligati, ai fini della dimostrazione dell’appartenenza ad una o più categorie rientranti dell’art. 3 del DA, mediante autocertificazione; c) l’“accreditamento” del “pubblico”, che voglia accedere ai dati e alle informazioni sulla titolarità effettiva delle imprese dotate di personalità giuridica e delle persone giuridiche private, mediante l’ordinaria modalità di accesso prevista dal gestore del registro delle imprese; d) una richiesta motivata dei soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi diffusi, per accedere alle informazioni attinenti alla titolarità effettiva dei trust e istituti affini; richiesta che attesti, mediante autocertificazione, la sussistenza dei presupposti previsti dalla legge, costituiti da un interesse giuridico rilevante e differenziato, diretto, concreto ed attuale per curare o difendere una situazione giuridicamente tutelata, unitamente a evidenze concrete e documentate della non corrispondenza tra titolarità effettiva e titolarità legale. 1.4. L’accertamento dell’adempimento o meno dell’obbligo di comunicazione e l’eventuale irrogazione della sanzione, la verifica dei presupposti all’accesso, variamente graduata a seconda dei soggetti richiedenti, la verifica della sussistenza o meno delle ragioni di rischio del disvelamento addotte dal controinteressato, costituiscono tutte “attività” che necessitano della esatta individuazione di un’autorità competente. 1.5 Osserva la Sezione che, dall’esame dello schema, come collegato con l’allegato, emergono delle criticità che si reputa opportuno sottoporre all’attenzione dell’Amministrazione. 2. Un primo profilo concerne l’attribuzione della competenza alle Camere di commercio. Negli articoli dello schema, a volte si utilizza l’espressione “Camera di commercio competente” (es., art. 2, comma 3; art. 7, comma 4), altre volte si utilizza il plurale “le Camere di commercio” (es., art. 4, comma 2; art. 6, comma 3). Da ciò si può desumere che l’attribuzione della competenza è riferita alla Camera di commercio territorialmente competente, posto che le camere di commercio, quali enti locali non territoriali, dotati di autonomia funzionale, sono distribuite sul territorio nazionale secondo circoscrizioni in rapporto al numero delle imprese presenti. 2.1. Si richiede all’Amministrazione di chiarire se questo fosse l’intendimento perseguito o se vi siano delle ragioni a supporto della mancata esplicita indicazione della competenza territoriale. 3. Un secondo profilo attiene al ruolo dell’ufficio del Registro delle imprese. 3.1. Coerentemente rispetto alle previsioni dell’art. 21 del DA, che fa riferimento al Registro delle imprese, lo schema di decreto individua nell’ufficio del Registro delle imprese il destinatario delle comunicazioni contenenti i dati e le informazioni sulla titolarità effettiva ai fini della conservazione nella sezione apposita e nella sezione speciale (art. 3), posto che il registro delle imprese “è tenuto dall’ufficio”, secondo quanto previsto dall’art. 2188 codice civile. 3.2. Si richiede alla Amministrazione di rappresentare le proprie eventuali valutazioni poste alla base della scelta di non fare riferimento all’ufficio nella fase decisoria e, in particolare, se le stesse attengono o meno all’esistenza di una specifica disciplina nell’ordinamento riguardante l’iscrizione, regolata da codice civile (artt. da 2188 a 2194) e dal d.P.R. n. 581 del 1995 (artt. 2, 7 e 11). 4. Un terzo profilo attiene al ruolo del gestore del servizio informativo nella verifica dei presupposti all’accesso, variamente graduata a seconda dei soggetti richiedenti. 4.1. Questo profilo, per come risulta dalle disposizioni dello schema integrate ed intrecciate con i corrispondenti paragrafi dell’allegato, è quello che presenta maggiori criticità. 4.2. In generale, può rilevarsi che - a prescindere da quelle attività automatiche propriamente collegate alla gestione di un sistema informativo, quali la ricevuta dell’avvenuta comunicazione - non risulta con chiarezza: a) se le competenze attribuite al gestore siano autonome, oppure se si inseriscano in un modello già in atto, entro il quale i controlli “formali” del gestore precedono quelli “sostanziali” della camera di commercio; b) se siano o meno autonome tutte le volte che si sostanziano in controlli effettuabili direttamente dal gestore, sulla base di dati già inseriti nel sistema informativo e, quindi, con possibili mutamenti nel tempo a seconda dell’evoluzione e dell’approntamento di soluzioni tecnologicamente avanzate. 4.3. Va premesso che questo profilo emerge trasversalmente in riferimento alle autocertificazioni, e per tale motivo si procederà, a titolo esemplificativo, all’enucleazioni di alcune ipotesi in cui tali criticità sembrano emergere. 4.4. Comunicazione dei dati e controlli. 4.4.1. Dalle previsioni dell’allegato tecnico (§ 2.1. e 2.2.) in rapporto all’art. 3 dello schema, sembra potersi evincere che l’Amministrazione ha richiamato modalità diverse: da un lato, per le imprese con personalità giuridica; dall’altro, per le persone giuridiche private e i trust. Infatti, nonostante per entrambe le partizioni si richiami quale modalità la “comunicazione unica di impresa”, esplicitamente per la prima, ed implicitamente per la seconda (attraverso il richiamo del decreto del Ministro dello sviluppo economico 2 novembre 2007), poi si distingue: - per la prima si richiama il d.P.c.m. 6 maggio 2009, emanato ai sensi dell’art. 9, comma 7, del d. l. n. 7 del 2007, che contiene le regole tecniche per l’attuazione della comunicazione unica, seguito dal decreto direttoriale del Ministero dello sviluppo economico 19 novembre 2009; - per la seconda si richiama l’originario modello di comunicazione unica di cui al d.m. del 2 novembre 2007 citato (cit.), sempre emanato ai sensi dell’art. 9, comma 7, cit. 4.4.2. Se si è correttamente intesa la previsione dell’allegato, sarebbe necessaria una distinzione chiara, da prevedersi nello schema di decreto, mediante il diretto richiamo delle disposizioni applicative di rango secondario, già esistenti nell’ordinamento, salva l’introduzione di qualche necessaria e giustificata diversità. 4.4.3. Invece, l’Amministrazione ha adottato una tecnica redazionale fonte di possibili incertezze applicative, prevedendo nell’allegato una serie di disposizioni di dettaglio, chiaramente applicative (il riferimento è ai periodi terzo e dal quinto al settimo del § 2.1., nonché ai periodi dal terzo al sesto del § 2.2.), senza esplicitare se sono state riprese, riproducendole, dalle norme secondarie richiamate in generale e dalle rispettive specifiche tecniche, oppure dalla disciplina generale che deriva dal codice dell’amministrazione digitale, o se, invece, si tratta di disposizioni particolari per l’attuazione in argomento. 4.4.4. Inoltre, nello schema di decreto si prevede l’autocertificazione per la comunicazione dei dati (art. 3, comma 7) ed il controllo formale in capo alla camera di commercio (art. 4, comma 2, secondo periodo), mentre dall’allegato, stante il rinvio al d.P.c.m. 6 maggio 2009, sembra emergere un controllo formale effettuato dal sistema informatico (cfr. art. 10 del d.P.c.m.). 4.5. Accreditamento delle autorità. 4.5.1. Le modalità attraverso cui tutte le informazioni sono rese tempestivamente accessibili alle autorità risultano dalla integrazione dell’art. 5 dello schema di decreto con i paragrafi 4.1. e 5.1 dell’allegato. Come si vedrà meglio nello scrutinio specifico dell’art. 5, secondo le previsioni dell’allegato, presupposto per l’accesso è l’acquisizione delle credenziali e, a tal fine, nella prima richiesta di accesso, è necessario che sia individuato il responsabile dell’Area Organizzativa Omogenea. Inoltre, per le autorità preposte al contrasto dell’evasione fiscale, l’allegato ha previsto, come modalità necessaria, la dichiarazione da parte dell’Autorità richiedente in ordine alla circostanza che l’accesso e la consultazione dei dati sono effettuati per i soli fini istituzionali. Infine, l’accesso è consentito tramite il sito internet, o tramite cooperazione applicativa attraverso servizi standard, o attraverso servizi evoluti di consultazione, previa convenzione con il gestore, secondo standard e criteri di sicurezza e di gestione, ai sensi dell’art. 60, comma 2–bis, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (Codice Amministrazione Digitale). 4.5.2. Sempre dall’allegato (§ 4.1., secondo periodo) risultano controlli formali in ordine alla corrispondenza tra il soggetto richiedente e l’autorità di riferimento e si richiama l’esito positivo di tale controllo formale (§ 5.1., primo periodo) come presupposto per l’accesso alla consultazione. 4.5.3. Si è in presenza, quindi, di controlli previsti come formali, ma manca ogni riferimento al soggetto competente ad effettuarli. In ipotesi, potrebbero essere attribuibili al gestore se, come sembra, si tratta di verifiche e riscontri sulla base di dati rinvenibili nel sistema informativo, nell’ambito dell’accesso regolamentato come “senza alcuna restrizione”. Questo controllo formale si coniugherebbe – secondo le ipotesi contemplate dallo schema e dall’allegato - con l’omessa previsione della richiesta proveniente dall’autorità giudiziaria sulla base delle proprie attribuzioni e con la mera dichiarazione di intenti richiesta alle autorità di contrasto dell’evasione. 4.5.4. Invece, sarebbe incompatibile con una richiesta specifica dell’autorità giudiziaria fatta di volta in volta sulla base delle proprie attribuzioni e con una richiesta mirata da parte delle autorità di contrasto all’evasione, secondo le criticità rilevate nel prosieguo (cfr. osservazioni specifiche sull’art. 5). 4.5.5. Si ritiene, pertanto, opportuno che l’Amministrazione fornisca al riguardo gli opportuni chiarimenti. 4.6. Accreditamento e comunicazioni da parte dei soggetti obbligati 4.6.1. Si tratta della consultazione della sezione autonoma e della sezione speciale, contenenti i dati sulla titolarità effettiva dei clienti, consentita, previo accreditamento, a quei soggetti obbligati (tutti quelli dell’art. 3 del DA) che devono fare la verifica del cliente a fini di antiriciclaggio. La consultazione avviene tramite il sistema di gestione dei soggetti accreditati reso disponibile dal gestore. L’art. 6 dello schema di decreto è caratterizzato da molteplici rinvii all’allegato tecnico (§ 4.2., 4.2.1. e parte VI) Secondo il testo risultante dallo schema di decreto, l’accreditamento (comma 2) al sistema presuppone l’autocertificazione (comma 1), ai sensi degli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000, del soggetto obbligato in ordine alla appartenenza ad una o più categorie previste dall’art. 3 del DA. Su tali autocertificazioni è previsto il controllo delle camere di commercio (comma 3, primo periodo). Nell’allegato è previsto (§ 4.2., terzultimo periodo) che le autorità di vigilanza di settore [art. 1, comma 2, lett. c), del DA] e gli organismi di autoregolamentazione [art. 1, comma 2, lett. aa), del DA] su richiesta della camera di commercio, forniscono informazioni utili per l’espletamento del controllo, anche mediante la stipula di apposite convenzioni. Secondo il testo risultante dallo schema di decreto (comma 4), il soggetto obbligato, con comunicazione al gestore, segnala le eventuali incongruenze rilevate tra le risultanze dei dati contenuti nelle sezioni del registro consultate e le risultanze ottenute nell’ambito della autonoma verifica della clientela cui è tenuto. Nell’allegato (parte VI, secondo periodo) è previsto che i soggetti obbligati effettuino tale segnalazione con apposita autocertificazione, ai sensi degli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000. 4.6.2. Anche in questo caso emerge una ambiguità nella attribuzione delle competenze. Infatti, da un lato, è chiara la spettanza alla camera di commercio del controllo ai fini dell’accreditamento, anche in considerazione della possibilità che la stessa – secondo una prescrizione prevista nell’allegato – coinvolga le autorità di vigilanza; dall’altro, non è altrettanto inequivocabile il ruolo del gestore, cui pure sono espressamente dirette le comunicazioni, con autocertificazione, delle difformità eventualmente riscontrate dal soggetto obbligato tra i dati risultanti dalla propria verifica e i dati rinvenuti nella sezione del registro. Si ritiene, pertanto, opportuno che l’Amministrazione fornisca al riguardo gli opportuni chiarimenti. 4.7. Accesso da parte di altri soggetti 4.7.1. L’accesso da parte di altri soggetti, come disciplinato dall’art. 7 dello schema di decreto e dai relativi paragrafi dell’allegato (§ 4.3., 4.4., 5.3. e 5.4.), è quello dove con più evidenza emerge la mancanza di chiarezza in ordine all’attribuzione delle competenze tra camera di commercio e gestore. Tuttavia, in ragione delle criticità che questo articolo presenta anche in ordine alla regolamentazione dell’accesso e del procedimento, l’esame e le osservazioni si completano con quelle che saranno svolte nella specifica trattazione dell’art. 7. 4.7.2. Con riguardo all’accesso del “pubblico” per conoscere i dati e le informazioni, inerenti la titolarità effettiva delle imprese dotate di personalità giuridica e delle persone giuridiche private, presenti nell’apposita sezione del registro delle imprese, l’art. 7, comma 1, dello schema e l’allegato (§ 4.3. e 5.3., primo periodo), premesso che non occorre il preventivo accreditamento al portale, rinviano alle ordinarie modalità di accesso previste dal gestore per il registro delle imprese ed in vigore all’emanazione del decreto. 4.7.2.1. La Sezione rileva l’indeterminatezza del rinvio effettuato, dal quale non emerge se qualunque controllo, anche solamente rivolto alla identificazione del soggetto richiedente l’accesso, sia o meno attribuito in via esclusiva al gestore o se si tratta di controlli “formali” del gestore che precedono quelli “sostanziali” della camera di commercio. Tale indeterminatezza rileva, tanto più, la sua criticità se si considera che, pur trattandosi di accesso in linea di principio libero, può essere negato in casi eccezionali, qualora la società oggetto di disvelamento avesse rappresentato un rischio apprezzabile nella divulgazione dei propri dati da valutare ai fini dei casi di eccezionale diniego all’accesso da parte dell’organo competente. 4.7.3. Con riguardo all’accesso dei soggetti “privati, compresi quelli portatori di interessi diffusi”, per conoscere i dati e le informazioni attinenti alla titolarità effettiva dei trust e degli istituti affini di interesse, presenti nella sezione speciale del registro delle imprese, dall’art. 7 dello schema (commi 2 e 3) e dall’allegato richiamato (4.4. e 5.4.) emerge la sovrapposizione tra accreditamento al portale e richiesta motivata di accesso e la decisione è riferita alla sola richiesta di accreditamento (comma 2). Peraltro, l’unica previsione nella quale si richiama la camera di commercio (comma 4) contiene solamente un criterio di decisione - individuato nel principio di proporzionalità e nel grado del rischio rappresentato - valevole unicamente per le ipotesi eccezionali in cui l’accesso può essere negato alle richieste del “pubblico” e dei “privati, compresi quelli portatori di interessi diffusi”, in presenza di circostanze eccezionali di rischio che deriverebbero dal disvelamento dei dati, rappresentate dal controinteressato al momento della comunicazione dei dati al registro. 4.7.3.1. In definitiva, si è in presenza di una indeterminatezza del soggetto competente all’accreditamento e alla decisione sull’accesso, sul quale si tornerà nello scrutinio specifico dell’art. 7, rilevando profili attinenti alla mancata autonoma valutazione dell’interesse all’accesso e alla necessità di provvedimenti motivati. 4.7.4. Anche su questi profili, si reputa opportuno che l’Amministrazione esprima chiarimenti e valutazioni. I diritti di segreteria 1. Lo schema di decreto ha dapprima dettato una disposizione di carattere generale (art. 2, comma 1, secondo periodo) in ordine alle “modalità di rilascio di certificati e copie relativi alle informazioni sulla titolarità effettiva consultabili nell'apposita sezione del Registro delle imprese”; poi, ha dettato disposizioni concernenti i diritti di segreteria dovuti: a) dai soggetti che effettuano la comunicazione di dati e informazioni (art. 3, comma 6); b) dai soggetti obbligati (art. 6, comma 2, parte finale primo periodo; c) da parte di altri soggetti (art. 7, comma 1, primo periodo; comma 2, primo periodo; comma 5). 2. La Sezione – anche prescindendo dalla scelta effettuata dall’Amministrazione di frammentare le disposizioni normative attinenti alla stessa materia e dalla diversità della terminologia usata – rileva alcune criticità. 3. La prima è data dalla considerazione che le disposizioni dello schema richiamate si limitano, oltre che a ribadire l’obbligo in capo ai soggetti obbligati, al mero rinvio a norme esistenti nell’ordinamento, costituite dall’art. 18 della l. n. 580 del 1993 e dall’art. 24 del d.P.R. n. 581 del 1995. La stessa tecnica normativa è utilizzata nell’allegato, che si occupa dei diritti di segreteria nella parte V. 3.1. Secondo la valutazione cui è pervenuta la Sezione, le disposizioni dello schema non aggiungono nulla a quanto risulta già previsto dall’art. 21 del DA, che pone l’obbligo in capo ai soggetti ed individua i diritti di segreteria mediante il richiamo all’art. 18 cit.; di conseguenza, le disposizioni in argomento non appaiono avere natura di disposizioni di attuazione. 4. La seconda criticità è data dalla considerazione che le norme, alle quali rinviano l’art. 21 del DA e lo schema, non consentono di individuare chiaramente la disciplina dei diritti di segreteria per copie e certificazioni applicabile alle fattispecie che vengono in questione con l’istituzione di nuove sezioni nel registro delle imprese. Infatti, l’art. 18 cit., nell’ambito della materia del finanziamento delle camere di commercio, demanda ad un decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, di stabilire le “voci e gli importi dei diritti di segreteria sull’attività certificativa… e sulla iscrizione in ruoli, elenchi, registri e albi” oltre alle tariffe relative ai servizi obbligatori. Tale decreto – tra l’altro non reperibile nelle fonti – non è individuato neanche nella relazione. 5. La terza criticità concerne un profilo interpretativo dell’art. 21, comma 6, del DA. Dalla lettera della disposizione in argomento sembra potersi ricavare che i diritti di segreteria, dovuti per gli adempimenti ivi regolati, debbano essere individuati, oltre che modificati e maggiorati nel rispetto dei costi standard, da un decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze; e, quindi, da un apposito decreto da emanarsi. Si intende riferirsi alla parte della norma, secondo cui “I diritti di segreteria…sono stabiliti…con le modalità di cui all’art. 18…”, dove l’art. 18 è richiamato solo per le modalità e non per richiamare il decreto ministeriale emanato sulla base dello stesso e, peraltro, non indicato. 6. Sui profili suddetti si chiede all’Amministrazione di esprimere le proprie valutazioni. Considerato, rispetto ai profili che riguardano le singole disposizioni Art. 2 (Ambito di applicazione e finalità) 1. La Sezione rileva la non omogeneità del contenuto dell’articolo tra il comma 1 primo periodo, che individua l’oggetto, e le restanti disposizioni. 1.1. Come si è detto, il comma 1, secondo periodo, è strettamente collegato ai diritti di segreteria. 1.2. Il comma 2 concerne la limitazione temporale della conservazione dei dati, in conformità al Regolamento (UE) 2016/679 - sul quale si è espresso positivamente il Garante per la protezione dei dati personali nel proprio parere – e stabilisce la decorrenza del termine. 1.3. Il comma 3 individua nella Camera di commercio competente il titolare del trattamento dei dati e delle informazioni acquisiti con il decreto, i quali confluiscono nella apposita sezione e nella sezione speciale istituite nel registro delle imprese. 2. Poiché i commi 2 e 3 attengono al trattamento dei dati e delle informazioni, appare evidente il collegamento con l’art. 10, attinente alla sicurezza del trattamento, anche rispetto alla delimitazione dei soggetti autorizzati dalla camera di commercio ad avere accesso ai dati sensibili attinenti al rischio rappresentato dai controinteressati. 2.1. Pertanto, si chiede all’Amministrazione di esplicitare le ragioni che ne hanno suggerito una diversa collocazione. Art. 3 (Modalità e termini della comunicazione e conferma dei dati e delle informazioni sulla titolarità effettiva) 1. Nello schema di decreto (art. 3, commi da 1 a 5), l’obbligo della comunicazione è individuato: a) con data fissa (30 aprile 2021), finalizzata al popolamento iniziale; b) con termine, 30 giorni, decorrente dalla costituzione, per i soggetti sorti successivamente alla data del popolamento iniziale; c) con termine, 30 giorni, decorrente dall’atto che ha determinato la variazione dei dati e delle informazioni, a regime; d) con cadenza annuale, la conferma dei dati. 2. Nella relazione si afferma che tali termini sono perentori. 3. Rileva la Sezione che nell’art. 21 del DA, che costituisce la fonte del potere regolamentare esercitato con il decreto ministeriale, non si rinviene alcuna esplicita previsione concernente la perentorietà dei termini. Perentorietà che, naturalmente, rileva ai fini della sanzione per l’inadempimento, regolata nell’art. 4, comma 2, dello schema di decreto, a prescindere di quanto si dirà specificamente in ordine a tale ultima previsione. 4. Al fine di pervenire ad una più chiara comprensione delle ragioni poste dall’Amministrazione alla base della ritenuta perentorietà, si richiede una esplicitazione su tale rilevante profilo. 4.1. Nello spirito di collaborazione, si chiede una riflessione sul se il carattere perentorio dei termini possa sistematicamente desumersi dall’art. 21, comma 1, u.p. e comma 3, u.p., dove, con identica previsione, si ricomprende l’omessa comunicazione, di dati e informazioni concernenti la titolarità effettiva, tra le omissioni di comunicazioni punite dall’art. 2630 codice civile, in ragione della struttura della contravvenzione richiamata, la cui forma omissiva presuppone l’individuazione di un termine da parte del legislatore. 4.1.1. In definitiva, se sia sostenibile la tesi che, con la disposizione contenuta nell’art. 21, il legislatore, individuando la medesima sanzione prevista dall’art. 2630 codice civile, che presuppone come perentorio il termine individuato per le comunicazioni presso il registro delle imprese, abbia implicitamente affermato il carattere perentorio del termine, anche se non lo ha direttamente fissato, demandandone la fissazione al decreto ministeriale con il comma 5, lett. a). 5. Con l’occasione, si segnala che il termine previsto per la prima comunicazione è irrealistico; inoltre, lo stesso andrebbe raccordato con le previsioni dell’art. 10 dello schema, secondo le quali per l’operatività del registro, con trattamento dei dati, è necessario un disciplinare tecnico, da predisporsi da parte del gestore e da sottoporsi alla verifica preventiva del Garante per la protezione dei dati personali. 6. Sotto altro profilo, si rileva che, in presenza di un obbligo a regime di comunicare le variazioni rispetto alla comunicazione iniziale, la previsione della conferma annuale dovrebbe decorrere dall’ultima variazione comunicata; ma tale precisazione non emerge dall’art. 3 dello schema, né dall’allegato. 7. Con riferimento, all’art. 3, comma 7, dello schema, si osserva che l’Amministrazione non ha tenuto conto, senza fornire alcun chiarimento e motivazione nella relazione, dell’osservazione del Garante per la protezione dei dati personali, secondo la quale, in riferimento alla previsione di “ogni documentazione utile a comprova”, sarebbe necessario minimizzare i dati da acquisire a quelli assolutamente necessari. Art. 4 (Dati e informazioni oggetto di comunicazione) 1. Lo schema di decreto, al comma 2, primo periodo, prevede il potere delle Camere di commercio di accertare e contestare la violazione dell’obbligo di comunicazione dei dati e delle informazioni (di cui all’art. 3) e di irrogare la relativa sanzione amministrativa, ai sensi dell’art. 2630 codice civile, secondo le disposizioni di cui alla l. n. 689 del 1981. 2. Rileva la Sezione che nell’art. 21 del DA, nel suo complesso e nel comma 5, non si rinviene una disposizione esplicita che fondi il potere regolamentare dei Ministri concertanti rispetto a disposizioni attuative del procedimento per l’accertamento del mancato rispetto dell’obbligo di comunicazione e per l’irrogazione della sanzione. 3. Al fine di pervenire ad una comprensione delle ragioni poste dall’Amministrazione alla base della disposizione dello schema in argomento, si richiede una esplicitazione su tale rilevante profilo. 3.1. Nello spirito di collaborazione, si chiede una riflessione sul se il fondamento legislativo possa desumersi implicitamente dall’art. 21 cit., sulla base di una interpretazione sistematica, anche alla luce delle previsioni cogenti della direttiva europea. 4. L’art. 21 del DA, mediante una formulazione identica rispetto alle comunicazioni che riguardano le imprese con personalità giuridica e le persone giuridiche private (comma 1, u.p.), e i trust e gli istituti affini (comma 3, u.p.), così dispone: “l’omessa comunicazione delle informazioni sul titolare effettivo è punita con la medesima sanzione di cui all’art. 2630 del codice civile”. Lo stesso articolo, con il comma 5, lett. a), demanda al decreto ministeriale l’emanazione di norme attuative, così testualmente disponendo: “a) i dati e le informazioni sulla titolarità effettiva delle imprese dotate di personalità giuridica, delle persone giuridiche private e dei trust e degli istituti giuridici affini, stabiliti o residenti sul territorio della Repubblica italiana da comunicare al Registro delle imprese nonché le modalità e i termini entro cui effettuare la comunicazione;”. Con tale disposizione, si richiama il soggetto destinatario delle comunicazioni – già individuato dall’art. 21, comma 1, nel Registro delle imprese – e si fonda il potere dell’Amministrazione di individuare modalità e termini dell’obbligo di comunicazione previsto dalla legge. 4.1. La direttiva, nel § 1 dell’art. 30 e dell’art. 31, così dispone: “gli Stati membri garantiscono che le violazioni del presente articolo siano soggette a misure o sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive”. 4.2. In definitiva, si potrebbe sostenere che la legge individua il destinatario degli obblighi di comunicazione nel registro delle imprese, che è tenuto dalla camera di commercio, e demanda alle norme attuative la fissazione di modalità e termini entro cui effettuare le comunicazioni; inoltre, individua nell’omessa comunicazione il comportamento rilevante ai fini della sanzione, richiamando l’art. 2630 codice civile. Poiché il procedimento tende naturalmente ad una conclusione con l’accertamento o meno della violazione, se non si rinvenisse il fondamento legislativo al potere di accertare e irrogare la sanzione, il procedimento stesso rimarrebbe monco, perché privo della sua conclusione e, tanto, in contrasto con la direttiva, secondo la quale gli Stati membri garantiscono che le violazioni siano soggette a misure o sanzioni. Art. 5 (Accesso da parte delle autorità) 1. Lo schema di decreto contiene una disposizione finalistica. Infatti, rinviando all’allegato, dispone: a) che le modalità di accesso garantiscano l’univoca individuazione dell’unità organizzativa responsabile dell’autorità richiedente; b) che, per le autorità preposte al contrasto dell’evasione fiscale, le modalità di accesso garantiscano l’utilizzo dei dati e informazioni per tale finalità di contrasto. 1.1. Secondo le previsioni dell’allegato - che in questo caso hanno natura prescrittiva e avrebbero trovato migliore collocazione nello schema di decreto – presupposto per l’accesso è l’acquisizione delle credenziali e, a tal fine, nella prima richiesta di accesso, è necessario che sia individuato il responsabile dell’Area Organizzativa Omogenea. 2. Va premesso, con riferimento alla individuazione delle Autorità, che non c’è identità tra la disposizione legislativa fondante il potere ministeriale di emanare norme di attuazione (art. 21, comma 5, del DA) e la individuazione delle autorità fatta dallo stesso articolo, con gli elenchi nei commi 2 e 4, rispettivamente, per l’accesso verso le società e simili e verso trust e affini, dove gli elenchi sono più ampi rispetto alla sola lett. a) richiamata nell’art. 21, comma 5. 2.1. L’art. 5 dello schema individua le Autorità richiamando l’art. 21, commi 2 e 4, e le relative lettere. Tuttavia, non si ravvisa una violazione della disposizione di legge (comma 5, lett. a) fondante il potere regolamentare, apparendo esistente, piuttosto, un difetto di coordinamento tra il comma 5, lett. a), e gli altri commi dell’art. 21. Tanto, anche sulla base della ratio, quale emerge dalla direttiva comunitaria. Secondo la direttiva, infatti, gli Stati assicurano che le autorità competenti e le FIU abbiano prontamente accesso alle informazioni, provvedono affinché le informazioni siano accessibili in ogni caso, senza alcuna restrizione [art. 30 § 2 e 5, lett. a); art. 31 § 3 e 4, lett. a)] con formulazione identica tra accesso verso società e affini e verso trust e affini. 3. Inoltre, rileva la Sezione che dalle disposizioni attuative, come risultanti dall’allegato, emerge la mancata considerazione di un profilo applicativo rispetto all’ipotesi che l’accesso sia richiesto dalla autorità giudiziaria. In tal caso, infatti, appare non applicabile la previsione che, nella prima richiesta di accesso, sia individuato il responsabile dell’Area Organizzativa Omogenea; così come appare non applicabile la previsione di una “prima richiesta di accesso” una volta per tutte. 3.1. In proposito, l’art. 21 cit. richiede una richiesta proveniente dall’autorità giudiziaria, “conformemente alle proprie attribuzioni istituzionali” (comma 2, lett. c), con l’aggiunta “previste dall’ordinamento vigente” (comma 4, lett. b). 3.2. Pertanto, si chiede all’Amministrazione di far conoscere le proprie determinazioni al riguardo. 4. La Sezione, infine, ravvisa un profilo di maggiore criticità rispetto alla richiesta di accesso proveniente dalle Autorità preposte al contrasto dell’evasione fiscale. 4.1. L’allegato ha previsto, come modalità necessaria, la dichiarazione da parte dell’Autorità richiedente in ordine alla circostanza che l’accesso e la consultazione dei dati sono effettuati per i soli fini istituzionali. In definitiva, appare ritenuta necessaria una mera dichiarazione di intenti. 4.2. Rileva la Sezione che la disposizione legislativa che fonda il potere regolamentare sembra richiedere di più di una semplice dichiarazione di intenti. Infatti, con formulazione identica per l’accesso verso le società e verso i trust - art. 21, comma 2, lett. d), e comma 4, lett. c) – alle Autorità di contrasto all’evasione l’accesso è consentito “secondo modalità…idonee a garantire il perseguimento di tale finalità”. Sembra richiesta, pertanto, la specifica individuazione di modalità idonee ad assicurare l’accesso e la consultazione dei dati e delle informazioni sulla titolarità effettiva per i soli fini istituzionali. 4.2.1. Queste considerazioni appaiono suffragate da un dato di tecnica legislativa. Nell’ipotesi in argomento, il legislatore ha previsto il potere regolamentare concertato in autonomi commi, diversi dal comma 5 e non ha semplicemente richiamato il comma 5, come, invece, ha fatto rispetto ad un’altra ipotesi relativa alla pubblicazione dei dati statistici [art. 21, comma 2, lett. f), u.p. e comma 4, lett. d-bis), u.p.]. 4.3. Anche su questo profilo, si chiede all’Amministrazione di far conoscere le proprie determinazioni. Art. 6 (Accreditamento e consultazione da parte dei soggetti obbligati) 1. Secondo quanto previsto nello schema di decreto (comma 3), i soggetti obbligati accreditati sono obbligati a comunicare al gestore, entro 10 giorni, le modifiche – evidentemente di categoria - o la cessazione dello status di soggetto obbligato. Nel comma 2 si prevede una durata annuale dell’accesso accordato al soggetto obbligato accreditato, decorrente dal primo accreditamento o da quella del suo rinnovo, il quale, in ipotesi, potrebbe avvenire immediatamente prima della scadenza per evitare soluzioni di continuità o, eventualmente, dopo. 2. Rileva la Sezione che nella relazione l’Amministrazione non si sofferma sulla ratio della previsione della durata annuale dell’accesso. 2.1. La ratio sembra potersi rinvenire nella sfiducia in ordine al rispetto dell’obbligo di comunicare le variazioni da parte dei soggetti obbligati e, da tale prospettiva, costituirebbe una utile misura precauzionale per evitare che soggetti accreditati, non aventi più i requisiti, continuino ad avere accesso ai dati e alle informazioni sulla titolarità effettiva. 2.2. Tuttavia, poiché potrebbe costituire un inutile aggravio del procedimento, si chiede all’Amministrazione di rendere palesi le proprie valutazioni. Art. 7 (Consultazione da parte di altri soggetti) 1. Con riguardo all’accesso dei soggetti “privati, compresi quelli portatori di interessi diffusi”, volto a conoscere i dati e le informazioni presenti nella sezione speciale del registro delle imprese ed attinenti alla titolarità effettiva dei trust e degli istituti affini, questo articolo dello schema presenta criticità in ordine alla regolamentazione dell’accesso e alla disciplina del procedimento di decisione. 2. La legge (art. 21, comma 4, lett. d-bis, primi due periodi) riconosce a questi soggetti il diritto all’accesso a condizione che siano: “titolari di un interesse giuridico rilevante e differenziato, nei casi in cui la conoscenza della titolarità effettiva sia necessaria per curare o difendere un interesse corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, qualora abbiano evidenze concrete e documentate della non corrispondenza tra titolarità effettiva e titolarità legale. L'interesse deve essere diretto, concreto ed attuale e, nel caso di enti rappresentativi di interessi diffusi, non deve coincidere con l'interesse di singoli appartenenti alla categoria rappresentata.”. 2.1. Lo schema del decreto (comma 2, primo periodo), nell’individuare le modalità di accesso, prevede una “una richiesta motivata che attesti la sussistenza dei presupposti di cui alla medesima lettera d-bis), primo e secondo periodo, secondo le modalità di cui al punto 4.4. dell'allegato tecnico”. 2.2. L’allegato richiamato, “ai fini dell'accreditamento”, prevede “una richiesta motivata di accreditamento al Portale, presentando apposita autodichiarazione ai sensi degli artt. 46 e 47 del DP.R. 445/2000, che attesti, la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 21, comma 4, lettera d-bis), primo e secondo periodo, del Decreto Antiriciclaggio”. Quindi, procede ad elencare i contenuti dell’autodichiarazione. Questi (pag. 7 dell’allegato), sino alla lett. c ii) possono ricondursi all’identificazione del soggetto richiedente l’accesso e all’identificazione del trust o affine per il quale l’accesso si chiede e, quindi, ai requisiti soggettivi e oggettivi per poter chiedere l’accesso. Per il resto, dalla lett. c iii) alla lett. e), attengono a quanto il richiedente deve dedurre affinché possa essere apprezzata la presenza o meno, oltre che, eventualmente, della effettiva rappresentatività di interessi diffusi, delle condizioni per poter essere autorizzato all’accesso previste dalla legge. All’evidenza, queste condizioni non possono essere oggetto di autocertificazione, costituendo il nucleo centrale della decisione sul diritto all’accesso, prima da parte dell’Amministrazione ed, eventualmente, in sede giurisdizionale. 3. Rileva la Sezione che lo schema di decreto e le relative parti dell’allegato, accomunando l’identificazione dei soggetti richiedenti l’accesso con l’interesse a supporto della richiesta, si potrebbero porre in contrasto con la disciplina legislativa che ha subordinato l’accesso, ai soggetti legittimati e verso alcuni soggetti da disvelare, alla sussistenza di un interesse connotato da particolari requisiti (art. 21, comma 4, lett. d-bis, primi due periodi). Inoltre, si potrebbero porre in contrasto con la disposizione che è fonte del potere regolamentare, atteso che, ai sensi dell’art. 21, comma 5, lett. d), l’amministrazione dovrà individuare il soggetto competente a “valutare la sussistenza dell’interesse all’accesso in capo ai soggetti di cui al comma 4, lett. d-bis)”. In definitiva, si è finito per dettare una disciplina analoga a quella dell’accesso per la consultazione da parte dei soggetti obbligati, dove – nel contesto di un accesso libero per il quale non è necessario dimostrare la sussistenza di un interesse differenziato, concreto ed attuale – l’accreditamento è volto solo alla verifica dell’appartenenza del richiedente ad una o più categorie dell’art. 3 del DA. Invece, sarebbe stato necessario distinguere, ai fini della decisione sulla richiesta di accreditamento, le ragioni a sostegno della richiesta di accesso. In tale ambito si porrebbe la problematica, già individuata nei profili trasversali, dell’attribuzione al gestore di eventuali controlli in ordine alla identificazione, chiarendo se in via esclusiva o nell’ambito di un successivo controllo sostanziale da parte della camera di commercio. 4. Le considerazioni che precedono si collegano strettamente ad un’altra criticità, che attiene alla disciplina del procedimento per la decisione sull’accesso. 4.1. L’art. 7, comma 2, secondo periodo, dello schema, così dispone “Al richiedente viene inviata una comunicazione via PEC contenente l'accettazione o il diniego della richiesta di accreditamento entro il termine di quindici giorni. In mancanza di comunicazione, la richiesta si intende respinta. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241 e i relativi regolamenti attuativi.”. 4.2. L’Amministrazione, quindi, dopo aver fatto coincidere la richiesta di accreditamento al sistema di gestione con la richiesta di accesso alle informazioni - la quale, invece, secondo la legge non è libera, ma subordinata all’accertamento dell’esistenza dell’interesse - l’ha disciplinata unitariamente come decisione, anche mediante silenzio/rigetto, sull’accreditamento, richiamando nell’allegato (§ 5.4. che rinvia § 4.4. ultimo periodo) quell’autodichiarazione contenente insieme richiesta di accreditamento e deduzioni dell’interesse all’accesso. 5. Un difetto di regolamentazione del procedimento per la decisione sull’accesso è ravvisabile anche in riferimento ad un’altra fattispecie (art. 21, comma 2, lett. f, terzo periodo, e art. 21, comma 4, lett. d-bis, terzo periodo). Si tratta di quelle ipotesi in cui, a fronte di richieste di accesso - sia nei confronti delle imprese con personalità giuridica e delle persone giuridiche private, sia nei confronti dei trust e affini – rispettivamente avanzate dal “pubblico” o dai soggetti “privati, anche portatori di interessi diffusi”, il controinteressato (al momento della comunicazione dei dati al registro) ha rappresentato circostanze eccezionali di rischio che deriverebbero dal disvelamento dei dati, sulle quali può fondarsi un eccezionale diniego all’accesso. 5.1. In questi casi, lo schema di decreto (comma 4) si è limitato ad indicare la camera di commercio competente, quale soggetto che decide, e ad individuare, per di più genericamente senza richiedere una dettagliata valutazione delle circostanze eccezionali addotte, un criterio di decisione nel principio di proporzionalità e nel grado del rischio rappresentato. 5.2. Peraltro, venendo in rilievo potenziali lesioni di diritti fondamentali dei titolari effettivi derivanti dall’ostensione, sarebbe stato necessario il coinvolgimento espresso dei controinteressati nella decisione in ordine alla ricorrenza dei casi eccezionali di diniego all’accesso. Invece, anziché una espressa previsione in tal senso nello schema di decreto, si rinviene nell’allegato (§ 2.1., quarto periodo) una disposizione del tipo applicativo, che prevede l’indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata da parte di chi, nel comunicare i dati, rappresenti ragioni di rischio da valutare ai fini dell’eccezionale diniego di accesso, e rinvia all’art. 7, comma 4, dello schema, dove tale coinvolgimento non è invece previsto. 5.2.1. In proposito, va messo in rilievo che il Garante, nel proprio parere, ha positivamente valutato l’introduzione – sulla base delle proprie osservazioni sviluppate nel corso delle interlocuzioni intercorse – di una procedura che consentisse il coinvolgimento dei controinteressati nel procedimento di ostensione in questi casi eccezionali. Atteso che tale coinvolgimento non risulta dallo schema di decreto, si può ipotizzare che lo stesso sia stato omesso nella redazione finale dello schema di decreto per mero errore materiale, oppure che il Garante abbia inteso fare riferimento alla inidonea previsione contenuta nell’allegato, della quale si è detto. 5.3. Rispetto a queste fattispecie, la Sezione ritiene opportuno mettere in risalto un altro profilo di rilievo comunitario. Si tratta dell’individuazione dei soggetti nei confronti dei quali i controinteressati possano addurre rischi eccezionali, con il fine di ottenere un diniego all’ostensione dei dati sulla propria titolarità effettiva. 5.3.1. Dallo schema di decreto risulta chiaramente che, in conformità alle previsioni dell’art. 21 del DA, le eccezionali ragioni di rischio sono opponibili solo all’ostensione chiesta dal “pubblico” e dai soggetti “privati, anche portatori di interessi diffusi”. 5.3.2. Dalla direttiva risulta chiaramente che tali eccezionali deroghe non sono opponibili nei confronti delle Autorità competenti e delle FIU; mentre si ammette l’opponibilità nei confronti di alcune categorie di soggetti obbligati. Tanto risulta chiaramente sia nell’art. 30 che nell’art. 31 (cfr. art. 30, § 9, comma 2; art. 31, § 7-bis, comma 2). In definitiva, è esclusa l’opponibilità rispetto agli enti creditizi, istituti finanziari e a quei soggetti, quali i notai, che sono funzionari pubblici, mentre si ammette rispetto agli altri soggetti risultanti dall’art. 2, § 1, punto 3), quali prestatori di servizi, agenti immobiliari ecc. Il DA non ha recepito le suddette eccezioni alla non opponibilità, mantenendo la generale non opponibilità ai soggetti obbligati. Tanto non determina sicuramente un contrasto con la direttiva, posto che è rimessa agli Stati membri la possibilità di introdurre le deroghe eccezionali al diritto di accesso. Tuttavia, posto che risulta già all’attenzione della Corte di giustizia UE la tematica della opposizione all’accesso fatta valere dai controinteressati, si rimette alle scelte dell’Amministrazione l’opportunità di valutare se, sulla base di un’interpretazione della legge nazionale alla luce della direttiva, possa ammettersi l’opponibilità del rischio rispetto ad alcune categorie di soggetti obbligati individuate nell’art. 2, § 1, punto 3), della direttiva. 6. In entrambe le ipotesi trattate nei due paragrafi che precedono, dalla norma fondante il potere regolamentare discende, non solo l’obbligo di individuare il soggetto competente a pronunciare, ma anche l’obbligo di motivazione. Infatti, ai sensi dell’art. 21, comma 5, lett. d), l’amministrazione dovrà individuare il soggetto competente “a rilevare la ricorrenza delle cause di esclusione dell’accesso” [il riferimento è all’art. 21, comma 2, lett. f), terzo periodo, nonché all’art 21, comma 4, lett. d-bis), terzo periodo] e a “valutare la sussistenza dell’interesse all’accesso in capo ai soggetti di cui al comma 4, lett. d-bis)” [il riferimento è al primo e al secondo periodo]. 6.1. La camera di commercio competente, quindi, si dovrà pronunciare con un provvedimento motivato, in ordine alla sussistenza o meno del rischio che deriverebbe dal disvelamento, rappresentato dal controinteressato, ai fini dell’esclusione eccezionale dell’accesso, e in ordine alla sussistenza o meno dell’interesse all’accesso, emergendo in entrambi i casi valori fondamentali, quali gli interessi pubblici perseguiti, anche attraverso l’accesso pubblico, e i diritti fondamentali delle persone interessate dalla divulgazione dei dati. 6.2. L’esigenza della motivazione emerge anche dalle disposizioni comunitarie. In riferimento alle possibili eccezionali deroghe all’accesso, sia l’art. 30, § 9, primo comma, secondo periodo, sia l’art. 31, § 7-bis, secondo periodo, così dispongono: “Gli Stati membri assicurano che tali deroghe siano concesse previa una valutazione dettagliata della natura eccezionale delle circostanze”. In riferimento alla sussistenza dell’interesse all’accesso, secondo l’art. 31, § 4, primo comma, lett. c) e d), gli Stati membri provvedono affinché le informazioni siano accessibili in ogni caso a qualunque persona fisica o giuridica possa dimostrare un legittimo interesse, che faccia una richiesta scritta motivata in relazione a un trust o istituto affine. 7. Resta da aggiungere che, in collegamento a quanto si è detto in ordine alla valutazione dell’opportunità di indicare la camera di commercio territorialmente competente, l’Amministrazione potrebbe considerare la possibilità di scegliere: a) rispetto alle possibili eccezionali deroghe all’accesso sulla base del rischio rappresentato dal controinteressato, se la competenza vada attribuita alla sede della camera di commercio del controinteressato o a quella del soggetto che ha fatto richiesta di accesso; b) rispetto alla valutazione della sussistenza dell’interesse all’accesso, se la competenza vada attribuita alla sede della camera di commercio del soggetto che ha fatto richiesta di accesso o alla sede dei destinatari della richiesta. 8. Infine, nel testo dello schema andrebbero eliminate le mere riproduzioni di norme di legge. Il riferimento è, ad esempio, all’art. 1 (laddove il Ministero riferisce, con riguardo alle definizioni, che esse “riproducono definizioni già contenute nella normativa primaria di riferimento”) e all’art. 4, comma 1, lett. e), che riproduce in gran parte il contenuto dell’art. 21, comma 2, lett. f), e comma 4, lett. d-bis), del DA. P.Q.M. Sospende l’adozione del parere in attesa che il Ministero dell’economia e delle finanze fornisca le valutazioni, i chiarimenti e gli elementi di conoscenza di cui in motivazione. IL SEGRETARIO Alessandra Colucci
Società – Antiriciclaggio – Decreto in materia di dati e informazioni relativi alla titolarità effettiva di imprese – Parere del Consiglio di Stato              Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di decreto in materia di dati e informazioni relativi alla titolarità effettiva di imprese dotate di personalità giuridica, di persone giuridiche private, di trust produttivi di effetti giuridici rilevanti ai fini fiscali e di istituti giuridici affini al trust (1).      (1) Il Consiglio di Stato ha reso il parere sullo schema di decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, recante norme di attuazione dell’art. 21, d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231 (“Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione”, d’ora in poi DA), come novellato dall’art. 2, comma 1, lett. f), g) ed h), d.lgs. 4 ottobre 2019, n. 125 (“Modifiche ed integrazioni ai decreti legislativi 25 maggio 2017, n. 90 e n. 92, recanti attuazione della direttiva (UE) 2015/849, nonché attuazione della direttiva (UE) 2018/843 che modifica la direttiva (UE) 2015/849 relativa alla prevenzione dell'uso del sistema finanziario ai fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo e che modifica le direttive 2009/138/CE e 2013/36/UE”).  Ha ricordato la Sezione che l’intervento normativo in argomento, che detta disposizioni attuative, si inserisce nella materia di derivazione eurounitaria della prevenzione dei fenomeni di riciclaggio dei proventi di attività criminosa e di finanziamento del terrorismo nel sistema finanziario.   L’obiettivo di tale prevenzione, già perseguito con la direttiva 2005/60/CE, a partire dalla direttiva (UE) 2015/849, è stato rafforzato mediante la previsione del “disvelamento” della titolarità effettiva della clientela quando, ad entrare in contatto con gli operatori finanziari, che sono i soggetti obbligati destinatari delle  disposizioni antiriciclaggio, non sono persone fisiche, ma società ed altre entità giuridiche, oltre a trust e istituti affini. Il rafforzamento è stato perfezionato ed  implementato con la direttiva di modifica (UE) 2018/843.  Con la direttiva del 2015, e con le incisive integrazioni apportate dalla direttiva del 2018, il “disvelamento” è stato perseguito, non più solo attraverso gli obblighi  in capo alla clientela di acquisire e conservare informazioni inerenti la propria titolarità effettiva e attraverso le verifiche degli operatori finanziari rispetto alla loro clientela; bensì, con un nuovo strumento volto alla trasparenza e alla conoscibilità, entro determinate condizioni, dei dati e delle informazioni che concernono la titolarità effettiva della clientela. Lo strumento è costituito da un registro centrale nazionale dove confluiscono tali dati – interconnesso con quelli degli altri Paesi membri – che è il registro dei titolari effettivi dei soggetti clienti da “disvelare”, costituiti dalle “società ed altre entità giuridiche” (art. 30), nonché dai trust e istituti giuridici affini (art. 31).  La trasparenza e conoscibilità dei dati e delle informazioni concernenti la titolarità effettiva è stata oggetto di una marcata modifica con la direttiva del 2018.  Il tratto essenziale in tale direzione è individuabile nella disciplina dell’accesso.  L’accesso verso i dati delle società e delle altre entità giuridiche era previsto: senza restrizioni rispetto alle Autorità; nel quadro di un’adeguata verifica della  clientela, in favore degli operatori finanziari; subordinatamente alla dimostrazione di un legittimo interesse, rispetto a qualunque “persona o organizzazione”, con possibili deroghe all’accesso in casi eccezionali di grave rischio per il titolare effettivo. L’accesso verso i dati dei trust e degli istituti affini era previsto solo a favore delle Autorità e dei soggetti obbligati alle stesse condizioni.  Con le modifiche del 2018, ferma la regolamentazione a favore delle Autorità e dei soggetti obbligati: a) l’accesso ai dati delle società e delle altre entità giuridiche è stato previsto “in ogni caso” a favore del “pubblico”; b) l’accesso ai  dati dei trust e degli istituti affini è stato previsto a favore di qualunque persona fisica o giuridica richiedente, subordinatamente alla dimostrazione di un legittimo interesse; c) è stata confermata la possibile deroga eccezionale in ragione del grave rischio per il titolare effettivo, estendendola all’accesso ai dati dei trust e affini.  In definitiva - salva la permanenza della possibilità di deroghe eccezionali, a tutela del soggetto controinteressato da disvelare - per garantire la conoscibilità e la trasparenza dei dati sulla titolarità effettiva, è stata fatta cadere per il “pubblico” ogni restrizione di accesso ai dati delle società e delle altre entità giuridiche di cui si chieda il disvelamento; mentre, la necessità della dimostrazione dell’interesse alla conoscenza è stata limitata unicamente alla richiesta di accesso delle persone fisiche e giuridiche relativa ai dati di trust e affini.  L’Italia ha provveduto alla attuazione della direttiva del 2015 con il d.lgs. n. 90  del 25 maggio 2017, il cui art. 2, comma 1, ha, per quanto di interesse, sostituito  l’originario art. 21 del DA. Poi, in esito ad una procedura di infrazione del 2019, ha provveduto all’attuazione della direttiva del 2018 con il d.lgs. 4 ottobre 2019, n. 125, il cui art. 2, comma 1, ha, per quanto di interesse, novellato l’art. 21 del DA, la cui attuazione è ora all’esame della Sezione.  Si tratta, quindi, di norme di attuazione di disposizioni legislative di diretta derivazione eurounitaria in una materia connotata dal perseguimento di rilevanti interessi pubblici generali, quali la prevenzione e il contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, attraverso l’accesso alle informazioni sulla titolarità effettiva delle società e di altri soggetti ed istituti giuridici e, nel contempo, dalla necessaria ricerca del giusto equilibrio tra gli interessi pubblici perseguiti e i diritti fondamentali delle persone interessate dalla divulgazione dei dati.
Società
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/giurisdizione-del-giudice-ordinario-nella-controversia-relativa-a-pretese-patrimoniali-attinenti-all-esecuzione-del-rapporto-contrattuale-relativo-ad-
Giurisdizione del giudice ordinario nella controversia relativa a pretese patrimoniali attinenti all’esecuzione del rapporto contrattuale relativo ad una concessione autostradale
N. 00787/2020 REG.PROV.COLL. N. 00811/2017 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 811 del 2017, integrato da motivi aggiunti, proposto da Autostrade per L'Italia s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ernesto Stajano e Daniele Villa, domiciliato presso la Segreteria TAR Emilia Romagna in Bologna, via D'Azeglio, 54; contro Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Bologna, ivi domiciliataria ex lege, via A. Testoni 6; per l'annullamento - in parte qua del provvedimento M_INF-SVCA prot. 0013861-26/07/2017, comunicato in data 3 agosto 2017, del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti – Dipartimento per le infrastrutture, i sistemi informativi e statistici – Direzione Generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali, con il quale è stata approvata la perizia di variante tecnica e suppletiva n. 2 relativa ai lavori “A14 Ampliamento alla terza corsia del tratto Rimini nord – Pedaso. Tratto Rimini nord – Cattolica. Lotto 1B. Perizia di Variante Tecnica n. 2 – cod. SIVCA: 002-001-A014-01-D037-02” ; - di ogni atto presupposto, consequenziale o comunque connesso o coordinato rispetto a quello impugnato, anche non conosciuto. quanto ai motivi aggiunti: - ove occorrer possa, del “Certificato di Collaudo nei rapporti Concedente – Società Concessionaria”, trasmesso a mezzo p.e.c. dalla Commissione di Collaudo all'odierna ricorrente in data 31.10.2017; - di ogni atto presupposto, consequenziale o comunque connesso rispetto a quelli impugnati. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 novembre 2020 il dott. Paolo Amovilli e trattenuta la causa in decisione ai sensi dell’art. 25 del D.L. 28 ottobre 2020 n. 137; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1.-L’odierna ricorrente quale concessionaria dell’attività di costruzione, ampliamento e gestione delle rete autostradale ha impugnato il provvedimento M INF-SVCA prot. 0013861-26/07/2017, del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti – Dipartimento per le infrastrutture, i sistemi informativi e statistici – Direzione Generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali, con il quale è stata approvata la perizia di variante tecnica e suppletiva n. 2 relativa ai lavori “A14 Ampliamento alla terza corsia del tratto Rimini nord –Pedaso. Tratto Rimini nord –Cattolica. Lotto 1B. Perizia di Variante Tecnica n. 2 –cod. SIVCA: 002-001-A014-01-D037-02. Espone che in virtù del rapporto concessorio è tenuta a sottoporre all’Amministrazione concedente l’approvazione dei progetti e delle perizie di variante relativi agli interventi da realizzare nelle tratte autostradali e che nel caso di specie il Ministero ha stralciato dal quadro economico dell’intervento opere per circa 40 milioni di euro. A sostegno del ricorso introduttivo ha dedotto nove articolati motivi di violazione di legge (artt. 1175, 1337, 1366, 1375 c.c.; art. 132, 142-149 d.lgs. 163/2006, artt. 1, 3 e 6 L.241/90, art. 14, 44 e 105 DPR 554/99, art. 23 D.M. 2000 n. 145) e della convenzione regolante i rapporti “inter partes” nonché di eccesso di potere sotto vario profilo, così in sintesi riassumibili: posto che la concessione rimane a tutti gli effetti un contratto sinallagmatico, sarebbe illegittimo il mancato riconoscimento di alcuni oneri per la suddetta perizia la quale secondo il rapporto concessorio che lega la ricorrente al Ministero intimato deve essere approvata da quest’ultimo; la convenzione prevede che gli investimenti avvengano mediante incremento tariffario, qualora l’importo delle opere superi le previsioni individuate nel piano di convalida definitivo, gli extracosti potranno essere ammessi ad investimento in presenza di cause di forza maggiore o fatto del terzo. Viceversa, ove - come nel caso di specie - il costo degli interventi rimanga comunque entro i limiti dei piani di convalida, il MIT non può subordinare il riconoscimento ad investimento agli ulteriori – più rigorosi – requisiti riguardanti l’accertamento della forza maggiore e del fatto del terzo; sarebbe violata anche la disciplina (art. 132 d.lgs. 163/2006) sulle varianti in corso d’opera del Codice appalti “pro tempore” vigente in presenza di errore progettuale, applicabile alla fattispecie. Si è costituito il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti eccependo il difetto di giurisdizione in favore del g.o. prevedendo l’art. 37 della convenzione per tutte le controversie insorgenti tra le parti la competenza del Tribunale di Roma, nonché l’incompetenza territoriale in favore del TAR per il Lazio; ha evidenziato in sintesi la distinzione tra rapporto di appalto tra la ricorrente e le imprese esecutrici e quello tra Ministero concedente e ricorrente concessionaria, dovendo il primo approvare i progetti della ricorrente; contesta il diritto del concessionario al compenso in quanto la maggior spesa necessaria per il finanziamento della variante sarebbe riconducibile ad errore progettuale e non a forza maggiore o fatto del terzo. Con motivi aggiunti la ricorrente ha esteso l’impugnativa al certificato di collaudo nei rapporti concedente - società concessionaria”, trasmesso a mezzo p.e.c. dalla Commissione di Collaudo all'odierna ricorrente in data 31 ottobre 2017 con cui sono stati ritenuti collaudabili agli effetti dei rapporti concedente - concessionaria i lavori nell’importo netto di € 278.500.341,70, contraddicendo peraltro quanto già accertato nell’ambito delle valutazioni espletate nel certificato reso nei rapporti stazione Appaltante-appaltatore. In prossimità della discussione nel merito parte ricorrente ha chiesto verificazione ed ha replicato alle suindicate eccezioni in rito. A suo avviso la controversia riguarderebbe la contestazione del legittimo esercizio del potere autoritativo di controllo da parte del Ministero, quale rapporto non paritetico, citando in proposito il precedente dell’adito TAR (sentenza n. 1028/2019) che ha ravvisato in caso analogo la giurisdizione esclusiva del g.a. in materia di pubblici servizi, non potendosi la giurisdizione subire deroghe a livello pattizio. Quanto alla competenza territoriale del Tribunale locale essa andrebbe affermata in ossequio al criterio degli effetti cioè dell’efficacia spaziale seppur involgendo la controversia l’applicazione di convenzione su base nazionale. All’udienza pubblica del 12 novembre 2020 uditi i difensori da remoto, come da verbale d’udienza, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1.-E’ materia del contendere la legittimità degli atti con cui il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha approvato la perizia di variante tecnica e suppletiva n. 2 relativa ai lavori “A14 Ampliamento alla terza corsia del tratto Rimini nord –Pedaso. Tratto Rimini nord –Cattolica. Lotto 1B. Perizia di Variante Tecnica n. 2 –cod. SIVCA: 002-001-A014-01-D037-02. Lamenta Autostrade per L’Italia quale concessionaria dell’attività di costruzione, ampliamento e gestione delle rete autostradale il mancato riconoscimento da parte del concedente di oneri derivanti dalla variante, contestando la pretesa necessità di accertare la dipendenza da causa di forza maggiore o fatto del terzo, non superandosi le previsioni individuate nel piano di convalida. 2.- Preliminarmente va esaminata l’eccepita questione di giurisdizione. 3. - Secondo il noto criterio del “petitum” sostanziale ai fini dell’individuazione del giudice munito di giurisdizione (ex multis Cassazione sez. unite 8 luglio 2020, n. 14231; id. 23 aprile 2020, n. 8098; Consiglio di Stato sez. III, 24 marzo 2020, n. 2071) parte ricorrente al di là della formale domanda di annullamento di atti amministrativi deduce rivendicazioni di ordine economico lamentando soprattutto la violazione di norme convenzionali (artt. 4, 11, 21, 29, 33 e allegato B) del c.c. (1175, 1337, 1366, 1375) oltre che di diritto privato speciale (art. 132, 142-149 d.lgs. 163/2006). La controversia attiene pertanto a pretese di carattere patrimoniale aventi natura di diritti soggettivi nell’ambito del rapporto contrattuale tra il ministero concedente e la società concessionaria distinto da quello di appalto che lega quest’ultima ai vari operatori economici a cui vengono di volta in volta affidata la realizzazione degli interventi. 4. - Posto che le norme sulla giurisdizione non sono derogabili in via pattizia (Consiglio di Stato sez. VI, 24 novembre 2011, n.6211) si che l’art. 37 della convenzione citato dalla difesa erariale va inteso riferito alle sole controversie di natura civilistica, occorre dunque stabilire se la controversia possa rientrare nella fattispecie di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, comma 1 lett. c), c.p.a. secondo cui appartengono al g.a. “le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennita', canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, ovvero ancora relative all'affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonche' afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilita'”come invero ritenuto di recente dall’adito Tribunale Amministrativo (sentenza n. 1028/2019). 5. - In prima approssimazione la giurisdizione esclusiva del g. a. sulle controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici o di pubblici servizi, secondo la giurisprudenza, viene meno in quelle ipotesi in cui la materia del contendere si concentri su profili e pretese di natura patrimoniale, relative esclusivamente all'attuazione del rapporto contrattuale o concessorio, senza che venga in gioco l'esercizio di poteri riconducibili, anche indirettamente, alle funzioni pubblicistiche dell'amministrazione (T.A.R. Sardegna sez. I, 25 maggio 2020, n.292). Nella fase contrattuale, conseguente a quella pubblicistica di affidamento della concessione, concernente l'esecuzione del rapporto la giurisdizione spetta al giudice ordinario quale giudice dei diritti e resta disciplinata dal codice civile (Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 20 marzo 2020, n.203) oltre che oggi dalle norme (artt. 174-178) contenute nel vigente Codice contratti pubblici approvato con d.lgs. 50/2016 in attuazione della direttiva 2014/23/UE. La giurisdizione esclusiva del g.a. viene in rilievo ove il riconoscimento del diritto di credito passi attraverso l’adozione di un provvedimento amministrativo, sussistendo discrezionalità in ordine al riconoscimento del credito vantato dal concessionario (Consiglio di Stato sez. V, 9 settembre 2013, n. 4469). 6. - Ciò premesso, l’odierna materia del contendere ha oggetto profili di natura patrimoniale derivanti dall’attuazione del rapporto concessorio, senza che venga in diretto rilievo l’esercizio di poteri riconducibili alle funzioni pubblicistiche dell’amministrazione, si che l’eccezione sollevata dalla difesa erariale è fondata. La verifica spettante al concedente dell’inerenza della variante nei limiti delle previsioni individuate nel piano di convalida non appare infatti di per sè implicante valutazioni di carattere discrezionale amministrativo né tecnico, risultando vincolata alle previsioni convenzionali (art. 21) oltre che all’esecuzione a regola d’arte nel rispetto della normativa del Codice dei contratti. 7. - Va pertanto dichiarato il difetto di giurisdizione in favore del g.o. Quanto alla conseguente “traslatio iudicii”, occorre salvaguardare il principio della salvezza degli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta al giudice privo di giurisdizione nel processo davanti al giudice che ne risulta munito, secondo le disposizioni di cui all’art 11 c. p. a. Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di lite, in considerazione della complessità delle questioni esaminate. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia-Romagna Bologna (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara il proprio difetto di giurisdizione in favore del g.o., innanzi alla quale la causa potrà essere riassunta nei termini di legge. Spese compensate Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 12 novembre 2020 tenutasi da remoto mediante videoconferenza con l'intervento dei magistrati: Andrea Migliozzi, Presidente Marco Morgantini, Consigliere Paolo Amovilli, Consigliere, Estensore Andrea Migliozzi, Presidente Marco Morgantini, Consigliere Paolo Amovilli, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Giurisdizione – Concessione amministrativa - Concessione autostradale - Pretese patrimoniali attinenti all’esecuzione del rapporto contrattuale – Controversia – Giurisdizione giudice ordinario.      Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, quale giudice dei diritti, la controversia avente ad oggetto la rivendicazione di pretese patrimoniali attinenti all’esecuzione del rapporto contrattuale sotteso ad una concessione autostradale, disciplinata dalla relativa convenzione (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che - secondo il noto criterio del petitum sostanziale ai fini dell’individuazione del giudice munito di giurisdizione (Cass. civ., S.U., 8 luglio 2020, n. 14231; id. 23 aprile 2020, n. 8098; Cons. St., sez. III, 24 marzo 2020, n. 2071) nella specie sussiste il difetto di giurisdizione dell’adito giudice amministrativo perché parte ricorrente, al di là della formale domanda di annullamento di atti amministrativi, deduce rivendicazioni di ordine economico lamentando soprattutto la violazione di norme convenzionali (artt. 4, 11, 21, 29, 33 e allegato B) del c.c. (1175, 1337, 1366, 1375) oltre che di diritto privato speciale (art. 132, 142-149, d.lgs. n. 163 del 2006). La controversia attiene pertanto a pretese di carattere patrimoniale aventi natura di diritti soggettivi nell’ambito del rapporto contrattuale tra il ministero concedente e la società titolare di concessioni autostradali, distinto da quello di appalto che lega quest’ultima ai vari operatori economici a cui vengono di volta in volta affidata la realizzazione degli interventi. Posto che le norme sulla giurisdizione non sono derogabili in via pattizia (Cons. St., sez. VI, 24 novembre 2011, n. 6211), la Sezione si è interrogata sul se la controversia possa rientrare nella fattispecie di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, comma 1, lett. c), c.p.a. secondo cui appartengono al giudice amministrativo “le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, ovvero ancora relative all'affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché' afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità'”. Ha ricordato che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici o di pubblici servizi, secondo la giurisprudenza, viene meno in quelle ipotesi in cui la materia del contendere si concentri su profili e pretese di natura patrimoniale, relative esclusivamente all'attuazione del rapporto contrattuale o concessorio, senza che venga in gioco l'esercizio di poteri riconducibili, anche indirettamente, alle funzioni pubblicistiche dell'amministrazione (Tar Sardegna sez. I, 25 maggio 2020, n. 292). Nella fase contrattuale, conseguente a quella pubblicistica di affidamento della concessione, concernente l'esecuzione del rapporto la giurisdizione spetta al giudice ordinario quale giudice dei diritti e resta disciplinata dal codice civile (Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 20 marzo 2020, n. 203) oltre che oggi dalle norme (artt. 174-178) contenute nel vigente Codice contratti pubblici. ​​​​​​​La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo viene in rilievo ove il riconoscimento del diritto di credito passi attraverso l’adozione di un provvedimento amministrativo, sussistendo discrezionalità in ordine al riconoscimento del credito vantato dal concessionario (Cons. St., sez. V, 9 settembre 2013, n. 4469). ​​​​​​​
Giurisdizione
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Criterio di calcolo delle offerte da accantonare nel c.d. taglio delle ali
N. 01177/2020REG.PROV.COLL. N. 00921/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale ha pronunciato la presente SENTENZA ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm.sul ricorso numero di registro generale 921 del 2020, proposto dal Commissario del Governo contro il dissesto idrogeologico nella Regione Siciliana, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale, domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale, 6; contro Mondello Costruzioni s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giovanni Mandolfo e Andrea Scuderi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Pi.Sa.Ni. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Massimo Frontoni, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Prima) n. 2555/2020, resa tra le parti, concernente Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Mondello Costruzioni s.r.l. e di Pi.Sa.Ni. s.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 16 dicembre 2020, tenutasi ex art. 4 del d.l. n. 84 del 2020 e ex art. 25 del d.l. n. 137 del 2020, il Cons. Sara Raffaella Molinaro e uditi per le parti gli avvocati Carlo Comandè su delega di Massimo Frontoni, Giovanni Mandolfo e Andrea Scuderi e vista la richiesta di passaggio in decisione senza discussione presentata dall'Avvocatura dello Stato con nota di carattere generale a firma dell’Avvocato distrettuale; Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.; 1. La controversia riguarda la gara indetta dalla struttura commissariale per l’affidamento dei lavori di consolidamento e mitigazione del rischio idrogeologico nel centro storico del Comune di Santa Lucia del Mela (CIG: 814390964E). 2. La gara è stata aggiudicata alla Mondello Costruzioni s.r.l. con decreto del Commissario di Governo contro il dissesto idrogeologico nella Regione Siciliana n. 1120 del 30 giugno 2020. 3. PI.SA.NI. s.r.l., partecipante alla procedura, ha impugnato il suddetto atto, congiuntamente al verbale di gara n. 1 del 25 marzo 2020 e al silenzio sull’istanza di riesame in autotutela 27 marzo 2020, chiedendone l’annullamento, l'accoglimento della domanda di conseguire l'aggiudicazione dell'appalto e la stipula del conseguente contratto (tutela in forma specifica) e, nell'ipotesi in cui nelle more del giudizio venisse stipulato il contratto, la declaratoria di inefficacia del contratto stesso e l'accoglimento della conseguente domanda di subentro, nonchè l'eventuale applicazione di sanzioni alternative ex art. 123 c.p.a. e l'accoglimento della domanda di condanna della stazione appaltante al risarcimento per equivalente monetario. 4. Il Tar, con sentenza 12 ottobre 2010, n. 2555, ha accolto il ricorso annullando i provvedimenti impugnati. 5. Ha proposto appello il Commissario di Governo con ricorso n. 921 del 2020. 6. Nel giudizio di appello si sono costituiti PI.SA.NI. s.r.l. e Mondello Costruzioni s.r.l.. 7. Nella camera di consiglio del 16 dicembre 2020 le parti sono state avvisate della possibilità che il Collegio decida la sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a. 8. L’appello non è meritevole di accoglimento. 9. La controversia trae origine dal fatto che in quel 10% dei minori ribassi da accantonare (24 su 233 offerte, oltre al 10% delle offerte di maggior ribasso) sono presenti due offerte, Amata s.r.l. e CIPA s.p.a., entrambe recanti un ribasso pari al 24,8770%, e ricadenti all’interno dell’ala dei minori ribassi. Si disputa pertanto sulla modalità per applicare le regole sull’accantonamento delle ali in caso di presenza, all’interno delle ali, di due o più offerte identiche. Il bando di gara, al punto 17, stabilisce che la soglia di anomalia sarà “individuata ai sensi dell’art. 97, commi 2, 2-bis e 2-ter del Codice”. Oggetto di esame è quindi la portata precettiva dell’art. 97, comma 2, lett. a) del d. lgs. n. 50 del 2016 in punto di accantonamento del 10% delle offerte posizionate nelle ali di minor e maggio ribasso, non essendo invece stata richiamata dalle parti la tematica dei rapporti fra la normativa regionale sul punto, contenuta nell’art. 4 della l.r. n. 13 del 2019, e la disciplina nazionale, comunque da risolvere nel senso dell’applicabilità della regola di fonte statale (CGARS, decreto 14 novembre 2020, n. 795). Il tema se nell’effettuare l’accantonamento delle ali - propedeutico al calcolo delle medie e alla determinazione della soglia di anomalia - l’Amministrazione sia tenuta a considerare come unica offerta solo le offerte con uguale ribasso a cavallo delle ali ovvero anche le offerte con uguale ribasso all’interno delle ali si è posta, a livello nazionale, nella vigenza dell’art. 86, comma 1, del d. lgs. n. 163/2006 e dell’art. 121, comma 1, del d.p.r. n. 207/2010. Detta questione è stata risolta dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 5 del 19 settembre 2017), che ha aderito al prevalente orientamento secondo cui le offerte di identico ammontare debbono essere accantonate sia nel caso in cui si collochino al margine delle ali che all’interno delle ali (cd. blocco unitario). Dopo l’entrata in vigore del d. lgs. n. 50 del 2016, benché l’iniziale formulazione letterale dell’art. 97 non fosse identica al previgente combinato disposto di cui all’art. 86, comma 1, del d. lgs. n. 163 del 2006 e all’art. 121 del d.p.r. n. 207 del 2010, la giurisprudenza si è attestata nel ritenere che il principio del cd. blocco unitario continuasse a trovare applicazione anche nel vigore del codice del 2016, avendo la nuova norma contenuto e ratio del tutto analoghi a quella precedente, sì da non giustificare, in assenza di norma di inequivoco tenore diverso, il ricorso al diverso criterio c.d. assoluto (Cons. St., sez. V, 6 agosto 2018, n. 4821). Successivamente, in seguito alle modifiche intervenute a opera dell’art. 1, comma 20, lett. u), n. 3), del d.l. 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 giugno 2019, n. 55 (vigenti ratione temporis in base al successivo comma 21), è superata la constatazione dell’Adunanza plenaria (19 settembre 2017, n. 5) circa la diversità di disciplina fra “vecchio” e “nuovo” codice dei contratti pubblici. In base al vigente art. 97, comma 2, lett. a), del d. lgs. n. 50 del 2016 quando, nell’effettuare il calcolo delle offerte da includere nel taglio delle ali, “siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare”, con formulazione analoga a quella contenuta nell’art. 121 del d.p.r. n. 207 del 2011, sul quale si è pronunciata l’Adunanza plenaria con la sentenza sopra richiamata del 2017. La mancanza di una restrizione esplicita della fattispecie, riferita genericamente alle “una o più offerte di eguale valore”, e la locuzione “da accantonare” - diversamente da “accantonate”, che imporrebbe di considerare un elenco già dato di offerte ordinate per valore percentuale, rispetto al quale alla sola estremità potrebbe trovarsi un’offerta identica - manifestano l’intenzione del legislatore di adottare il cd. blocco unitario per le offerte con identico ribasso sia poste a cavallo delle ali, sia all’interno delle ali. Né depone in senso contrario la circostanza che l’art. 97, comma 2, lett. a, faccia riferimento a ”tutte le offerte ammesse” in quanto l’espressione è riferite alla successiva fase della verifica di anomalia del calcolo della media aritmetica dei ribassi non alla fase dell’accantonamento, oggetto della presente controversia. Le offerte con identico ribasso poste all’interno delle ali devono pertanto, ai fini dell’accantonamento prodromico al calcolo della media, essere considerare secondo la regola del blocco unitario di cui all’art. 97 del d. lgs. n. 50 del 2016, non ravvisandosi i presupposti del deferimento all’Adunanza plenaria patrocinato da parte appellante e dalla controinteressata in mancanza di contrasti all’interno della giurisprudenza del Consiglio di Stato e considerato il tenore letterale dell’attuale formulazione dell’art. 97, comma 2, lett. a), sulla quale si è già pronunciata la medesima con la sopra richiamata sentenza n. 5 del 2017. La pronuncia gravata merita quindi conferma dal momento che ritiene applicabile al caso di specie la suddetta regola, così sanzionando i provvedimenti amministrativi impugnati nei quali si esprime la (illegittima) scelta dell’Amministrazione di conteggiare distintamente le offerte aventi identico ribasso all’interno delle ali. 10. In conclusione, l’appello deve essere respinto e la sentenza impugnata confermata. 11. La particolarità della vicenda giuridica giustifica la compensazione delle spese nel presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, lo respinge. Spese compensate- Così deciso dal C.G.A.R.S. con sede in Palermo nella camera di consiglio del giorno 16 dicembre 2020, tenutasi da remoto e con la contemporanea e continua presenza dei magistrati: Rosanna De Nictolis, Presidente Nicola Gaviano, Consigliere Sara Raffaella Molinaro, Consigliere, Estensore Giuseppe Verde, Consigliere Maria Immordino, Consigliere Rosanna De Nictolis, Presidente Nicola Gaviano, Consigliere Sara Raffaella Molinaro, Consigliere, Estensore Giuseppe Verde, Consigliere Maria Immordino, Consigliere IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Offerta al prezzo più basso – Taglio delle ali – Calcolo delle offerte da accantonare nel c.d. taglio delle ali – Criterio – Art. 97, d.lgs. n. 50 del 2016 - Individuazione.      In sede di gara pubblica le offerte con identico ribasso poste all’interno delle ali devono, ai fini dell’accantonamento prodromico al calcolo della media, essere considerare secondo la regola del blocco unitario di cui all’art. 97, d.lgs. n. 50 del 2016 (1).    (1) Ha ricordato il Cga che il tema se nell’effettuare l’accantonamento delle ali - propedeutico al calcolo delle medie e alla determinazione della soglia di anomalia - l’Amministrazione sia tenuta a considerare come unica offerta solo le offerte con uguale ribasso a cavallo delle ali ovvero anche le offerte con uguale ribasso all’interno delle ali si è posta, a livello nazionale, nella vigenza dell’art. 86, comma 1, d.lgs. n. 163/2006 e dell’art. 121, comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010. Detta questione è stata risolta dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 5 del 19 settembre 2017), che ha aderito al prevalente orientamento secondo cui le offerte di identico ammontare debbono essere accantonate sia nel caso in cui si collochino al margine delle ali che all’interno delle ali (cd. blocco unitario). Dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016, benché l’iniziale formulazione letterale dell’art. 97 non fosse identica al previgente combinato disposto di cui all’art. 86, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006 e all’art. 121, d.P.R.  n. 207 del 2010, la giurisprudenza si è attestata nel ritenere che il principio del cd. blocco unitario continuasse a trovare applicazione anche nel vigore del codice del 2016, avendo la nuova norma contenuto e ratio del tutto analoghi a quella precedente, sì da non giustificare, in assenza di norma di inequivoco tenore diverso, il ricorso al diverso criterio c.d. assoluto (Cons. St., sez. V, 6 agosto 2018, n. 4821). ​​​​​​​  Successivamente, in seguito alle modifiche intervenute a opera dell’art. 1, comma 20, lett. u), n. 3), d.l. 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 giugno 2019, n. 55 (vigenti ratione temporis in base al successivo comma 21), è superata la constatazione dell’Adunanza plenaria (19 settembre 2017, n. 5) circa la diversità di disciplina fra “vecchio” e “nuovo” codice dei contratti pubblici. In base al vigente art. 97, comma 2, lett. a),  d.lgs. n. 50 del 2016 quando, nell’effettuare il calcolo delle offerte da includere nel taglio delle ali, “siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare”, con formulazione analoga a quella contenuta nell’art. 121, d.P.R. n. 207 del 2011, sul quale si è pronunciata l’Adunanza plenaria con la sentenza sopra richiamata del 2017.  La mancanza di una restrizione esplicita della fattispecie, riferita genericamente alle “una o più offerte di eguale valore”, e la locuzione “da accantonare” - diversamente da “accantonate”, che imporrebbe di considerare un elenco già dato di offerte ordinate per valore percentuale, rispetto al quale alla sola estremità potrebbe trovarsi un’offerta identica - manifestano l’intenzione del legislatore di adottare il cd. blocco unitario per le offerte con identico ribasso sia poste a cavallo delle ali, sia all’interno delle ali. Né depone in senso contrario la circostanza che l’art. 97, comma 2, lett. a, faccia riferimento a ”tutte le offerte ammesse” in quanto l’espressione è riferite alla successiva fase della verifica di anomalia del calcolo della media aritmetica dei ribassi non alla fase dell’accantonamento, oggetto della presente controversia. 
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/misure-restrittive-della-libera-circolazione-in-campania
Misure restrittive della libera circolazione in Campania
N. 00416/2020 REG.PROV.CAU. N. 01048/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Quinta) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 1048 del 2020, proposto da Alfredo Imparato, rappresentato e difeso dall'avvocato Alfredo Imparato, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Regione Campania non costituito in giudizio; per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, -- dell’Ordinanza n. 15 del 13 marzo 2020 del Presidente della Giunta regionale della Campania (BURC n. 35 del 13 marzo 2020); -- del Chiarimento n. 6 del 14 marzo 2020 del Presidente della Giunta regionale della Campania (BURC n. 38 del 14 marzo 2020); Visti il ricorso e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm.; Visto l’art. 84 del decreto - legge 17 marzo 2020, n. 18; Considerato che non sussistono i presupposti per accordare la richiesta misura cautelare in quanto: + l’ordinanza 15/2020 richiama plurime disposizioni legislative che fondano la base legale del potere di adozione di misure correlate a situazioni regionalmente localizzate, il che esclude ogni possibile contrasto di dette misure con quelle predisposte per l’intero territorio nazionale; + sul versante del profilo istruttorio e giustificativo rileva il testuale riferimento (ordinanza 15/2020) al ‹‹rischio di contagio, ormai gravissimo sull’intero territorio regionale›› ed al fatto che i ‹‹dati che pervengono all’Unità di crisi istituita con Decreto del Presidente della Giunta regionale della Campania, n. 45 del 6.3.2020 … dimostrano che, nonostante le misure in precedenza adottate, i numeri di contagio sono in continua e forte crescita nella regione;›› (Chiarimento n. 6 del 14 marzo 2020); Considerato peraltro aspetto che, nella valutazione dei contrapposti interessi, nell’attuale situazione emergenziale a fronte di limitata compressione della situazione azionata, va accordata prevalenza alle misure approntate per la tutela della salute pubblica; P.Q.M. Respinge l'istanza di misure cautelari monocratiche. Fissa per la trattazione collegiale la camera di consiglio del 21 aprile 2020. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Napoli il giorno 18 marzo 2020. IL SEGRETARIO
Covid-19 – Campania – Misure restrittive della libera circolazione - Ordinanza n. 15 del 13 marzo 2020 del Presidente della Giunta regionale della Campania Impugnazione – Comparazione di interessi – Non va sospesa.             Deve essere respinta l’istanza di sospensione dell’Ordinanza n. 15 del 13 marzo 2020 del Presidente della Giunta regionale della Campania (e dei relativi chiarimenti n. 6 del 14 marzo 2020), contenente misure restrittive della libera circolazione per fronteggiare l’emergenza sanitaria connessa all’epidemia Covid-19, dovendosi accordare prevalenza - nella valutazione dei contrapposti interessi, nell’attuale situazione emergenziale a fronte della limitata compressione della situazione azionata -  alle misure approntate per la tutela della salute pubblica (1).   (1) Il decreto ha evidenziato che l’ordinanza n. 15 del 13 marzo 2020 del Presidente della Giunta regionale della Campania richiama plurime disposizioni legislative che fondano la base legale del potere di adozione di misure correlate a situazioni regionalmente localizzate, il che esclude ogni possibile contrasto di dette misure con quelle predisposte per l’intero territorio nazionale. Sul versante del profilo istruttorio e giustificativo rileva il testuale riferimento (ordinanza n. 15 del 13 marzo 2020) al «rischio di contagio, ormai gravissimo sull’intero territorio regionale» ed al fatto che i «dati che pervengono all’Unità di crisi istituita con Decreto del Presidente della Giunta regionale della Campania, n. 45 del 6 marzo 2020 … dimostrano che, nonostante le misure in precedenza adottate, i numeri di contagio sono in continua e forte crescita nella regione;» (Chiarimento n. 6 del 14 marzo 2020).
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/termine-per-chiedere-l-iscrizione-alla-white-list-costituzionalit-c3-a0-della-disciplina-della-prevenzione-sottesa-al-diniego-di-iscrizione-alla-whi-1
Termine per chiedere l’iscrizione alla White list - Costituzionalità della disciplina della prevenzione sottesa al diniego di iscrizione alla White list
N. 04061/2021REG.PROV.COLL. N. 09013/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9013 del 2020, proposto da -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Luigi Maria D'Angiolella, con domicilio eletto presso lo studio Studio Corrias Lucente in Roma, via Sistina, n. 121; contro Ministero dell'Interno, Ministero della Difesa, Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona dei rispettivi ministri pro tempore, non costituiti in giudizio; Ufficio Territoriale del Governo Caserta, in persona del Prefetto pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente l’annullamento del provvedimento di rigetto della domanda di iscrizione in White list dell'UTG di Caserta del -OMISSIS- e degli atti preordinati, connessi e conseguenziali. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Ufficio Territoriale del Governo Caserta; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 aprile 2021 svoltasi in videoconferenza, secondo quanto disposto dall’art. 25, comma 1, D.L. 28 ottobre 2020, n. 37, il Consigliere Paola Alba Aurora Puliatti e presenti, ai sensi di legge, mediante deposito di note di udienza, gli Avvocati delle parti; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1.- Con ricorso al TAR per la Campania, sede di Napoli, n.r.g. -OMISSIS-, la società ricorrente ha impugnato il provvedimento della Prefettura di Caserta del -OMISSIS- che rigettava l'istanza per l'iscrizione in White list, all’esito del procedimento avviato in data -OMISSIS-, nonché gli atti istruttori presupposti. 2.- Con la sentenza in epigrafe, il TAR ha rigettato il ricorso e compensato le spese di giudizio tra le parti. Il TAR ha ritenuto che il termine di 90 giorni di cui dispone il Prefetto per pronunciarsi sulla domanda di iscrizione in Whit list è ordinatorio e non sussiste la violazione del giusto procedimento. Il diniego di iscrizione è retto dagli stessi principi delle informative antimafia e si fonda su presupposti analoghi; pertanto, è possibile desumere tentativi di ingerenza mafiosa da indizi gravi precisi e concordanti, anche risalenti nel tempo, quali quelli riscontrati nella fattispecie, qualora non siano rinvenuti elementi nuovi, idonei a dimostrare un effettivo cambiamento e il venir meno del pericolo di infiltrazione mafiosa. 3.- Con l’appello in esame, la società ricorrente lamenta l’erroneità e ingiustizia della sentenza di cui chiede la riforma. 4.- Si è costituita in giudizio la Prefettura di Caserta chiedendo il rigetto dell’appello. 5.- Alla pubblica udienza dell’8 aprile 2021, la causa, a seguito di scambio di memorie, è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1.- L’appello è infondato. 2.- La ricorrente deduce, con il primo motivo, la violazione della l. 241/90, dell’art. 1, co. 53 e 54 della l. 190/2012 e dell’art. 3 DPCM 2013, artt. 78 e ss. del Cod. antimafia, il difetto di motivazione e di istruttoria, la violazione degli artt. 97 e 41 della Costituzione. 2.1.- Con il secondo motivo, lamenta la violazione dell’art. 6 della CEDU in relazione alla ragionevole durata del processo e al principio della certezza della pena, di necessaria applicazione nel caso di procedimenti di fatto sanzionatori come quello in esame. Il procedimento non è stato concluso entro 90 giorni, come dispone l’art. 3, DPCM 18.04.2013; anzi, il lungo tempo trascorso (-OMISSIS-) non può essere senza significato, né si può far ricadere sul privato l’ulteriore onere di esperire il “rimedio processuale di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a”, come sostenuto dal giudice di primo grado. 2.2.- Col terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 52, della L. 190/2012 e del DPCM 18.4.2013, la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 del D.lgs. n. 159/2011. Il provvedimento di diniego di iscrizione alla White list è stato motivato con riferimento alla normativa applicabile ai provvedimenti interdittivi e, segnatamente, all’art. 91 del D.lgs. n. 159/2011, nonostante la chiara ed evidente differenza tra i due provvedimenti. 2.3.- Con il quarto motivo, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 83 e ss. del D.lgs. n. 159/2011 e della L. 190/2012, contraddittorietà, irragionevolezza e illogicità manifesta, arbitrarietà, sviamento di potere, assoluto difetto di istruttoria, violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 41 Cost.. Le conclusioni cui è giunto il TAR circa i fatti narrati dalla Prefettura non rispetterebbero il principio di attualità e si tratterebbe di questioni, comunque, senza alcun rilievo ai fini antimafia. Inoltre, i fatti non hanno mai avuto alcun rilievo giudiziario, neanche minimo, e sono stati ritenuti irrilevanti dalla Procura che ha a suo tempo indagato nell’ambito dell’inchiesta “-OMISSIS-”, tanto che nessun componente della -OMISSIS-, né ieri né oggi, è mai stato indagato e destinatario di alcun avviso di garanzia dagli -OMISSIS- all’attualità, men che meno di sentenze di alcun genere (a differenza di altre imprese di settore citate nel provvedimento). Le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia non sono mai state riscontrate né confermate dalla Procura. Il provvedimento è chiaramente sintomatico della forzatura su circostanze in cui si fa riferimento ad espressioni e/o circostanze che non sono con certezza attribuibili a -OMISSIS- e che, anzi, sono confondibili con fatti riferibili ad altri soggetti. La società ricorrente non avrebbe mai fornito -OMISSIS-, né per i lavori -OMISSIS-, né al -OMISSIS-, ed ha dimostrato la propria estraneità dagli appalti relativi alle opere in questione; tuttavia, il Tar ha ritenuto irrilevante tale deduzione. La sentenza erroneamente ha ritenuto irrilevante il rilievo che nella -OMISSIS- del provvedimento impugnato si sovrapporrebbero in modo non corretto la ricorrente -OMISSIS- e la -OMISSIS-, in quanto verrebbe attribuita alla prima la vendita di -OMISSIS- che invece veniva fornito solo dalla seconda, e l’intercettazione riferita a “ -OMISSIS- -OMISSIS-” risulterebbe incomprensibile; pertanto, mancherebbe del tutto il presupposto anche di “mero indizio” con riferimento a tale circostanza, stante la confusione del riferimento. Non sarebbero condivisibili le conclusioni del TAR concernenti il fermo di polizia -OMISSIS- e la riferibilità dei fatti rappresentati dal -OMISSIS- all’-OMISSIS-, in particolare l’accondiscendenza verso la condotta estorsiva. La presunta mancata denunzia all’Autorità delle estorsioni subite da parte del -OMISSIS-, diversamente da quanto si legge nella sentenza, non è un elemento tale da far ritenere applicabile l’art. 84, IV comma, del codice antimafia, visto che lo stesso si riferisce alle interdittive e non alle iscrizioni nella c.d. White list e, comunque, nella mera ipotesi in cui si dovesse applicare, non si sarebbe comunque concretizzata e tantomeno accertata la fattispecie di reato cui fa cenno l’art. 84, VI comma, cit., che richiede una maggiore complessità di fatti concomitanti, insussistenti nel caso di specie. Peraltro, all’epoca dei fatti, non era il -OMISSIS- -OMISSIS- l’-OMISSIS- né poteva esporre alcuna denunzia non essendovi state richieste estorsive; a fronte di minacce più o meno velate, la -OMISSIS- -OMISSIS- si è sempre doverosamente rivolta ai Carabinieri, come emerge da una denuncia esibita in primo grado a firma del -OMISSIS- -OMISSIS-. Sul decreto di fermo del P.M. (n. -OMISSIS-), la ricorrente evidenzia che all’epoca il -OMISSIS- -OMISSIS- ed il -OMISSIS- furono sentiti dalla P.G. e dichiararono che le cambiali non onorate riguardavano clienti inadempienti. Per le -OMISSIS-, si agì in sede civile per il pagamento delle stesse, anche con azioni esecutive e pignoramenti come dimostrato agli atti. 2.4.- Con riferimento all’ulteriore motivazione del diniego (il ritrovamento di liste di imprenditori soggiacenti in un’indagine -OMISSIS- - sulla base della dicitura “--OMISSIS-” non sarebbe possibile, per la genericità del riferimento, desumere che si sia trattato di -OMISSIS- -OMISSIS- della -OMISSIS- e non del -OMISSIS- della “-OMISSIS-”, pure operante in -OMISSIS-. 2.5.- Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 83 e ss. del D.lgs. n. 159/2011 e della L. 190/2012, l’eccesso di potere per errore sui presupposti, l’illegittimo utilizzo di documentazione non più attuale, il difetto di motivazione, l’arbitrarietà e sproporzione, la violazione dell’art. 41 Cost.. Mancano del tutto indagini atte a dimostrare l’attualità del giudizio di una possibile infiltrazione mafiosa; la Prefettura prima e il Giudice poi, nulla hanno accertato sulla attuale situazione dell’impresa, su frequentazioni, su quanto possa oggi costituire pregiudizio secondo la normativa antimafia. 2.6. - Con il sesto e settimo motivo, la ricorrente deduce la medesima censura di cui ai precedenti motivi, il difetto di istruttoria e di motivazione, la violazione del principio di proporzionalità, la violazione della circolare del Ministero Interni del 27 marzo 2018. La ricorrente critica l’indirizzo giurisprudenziale che, per un verso, giustifica l’emissione dell’informativa sulla base della formula, di derivazione civilistica, del “più probabile che non”, concetto matematico (50% +1) che deve essere ancorato ad elementi certi ed indicati; mentre, per altro verso, ritiene sufficiente anche uno solo degli elementi indiziari tipicamente ricorrenti per ritenere sussistente la presunzione, in palese contraddizione anche con l’art. 3 Cost. Sul punto, recentissimamente, la Corte di Cassazione con sentenza n° -OMISSIS-, ha avuto modo di chiarire che la ragionevole probabilità, però, non deve essere intesa in senso statico (probabilità quantitativa) ma logico (probabilità logica), ossia considerando tutte le circostanze del caso concreto, con la conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata. In altre parole, è necessario effettuare un giudizio controfattuale rispetto agli elementi da cui si desume la conseguenza probabilistica. Nella specie, si è trattato di fatti irrilevanti e non certo attuali: motivazione e istruttoria non sono stati sufficienti. 2.7.- Con l’ottavo e nono motivo di appello, la ricorrente contesta le medesime violazioni sotto ulteriori profili, la violazione degli artt. 41 e 42 Cost., la violazione dell’art. 117 Cost. in riferimento alla violazione dell’art. 1 del protocollo addizionale CEDU, la violazione degli artt. 13 e 25 Cost., la violazione del principio di legalità e/o prevedibilità dei presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione, la violazione e falsa applicazione del criterio probabilistico in materia di polizia e ancora la violazione dei principi CEDU. Secondo un indirizzo più garantista, è possibile pervenire ad una delimitazione obiettiva e ad una definizione rigorosa della fattispecie indicata come "tentativo di infiltrazione mafiosa" e ad una nozione tecnica di tale fattispecie, affermando al riguardo che il c.d. tentativo di infiltrazione mafiosa si concreta nel tentativo da parte di un cd. soggetto mafioso o presunto tale o anche "presunto mafioso per contiguità" di condizionare le scelte di una società o di un'impresa. Quanto all'elemento soggettivo occorre che l'attività sia diretta in modo non equivoco al raggiungimento dello scopo (C.G.A. n. -OMISSIS-). Manca del tutto, nel caso di specie, la motivazione degli elementi specifici che consentono di comprendere il “concreto pericolo di infiltrazione”, così rendendo arbitrario ed illegittimo il provvedimento impugnato che si basa su semplici sospetti inidonei a fondare un giudizio probabilistico e nemmeno una mera “possibilità” di condizionamento. 2.8.- Con il decimo motivo, la società ricorrente denuncia la violazione degli artt. 87 e ss. del codice antimafia, l’eccesso di potere per difetto di istruttoria, illogicità e contraddittorietà, la motivazione carente, la violazione dell’art. 3 della l. 241/1990. Il TAR ha erroneamente rigettato la censura proposta con i motivi aggiunti. La circostanza che l’istruttoria disposta non abbia fatto emergere “alcun rilievo nuovo” a carico della odierna appellante è la dimostrazione della carenza di istruttoria disposta dalla Prefettura di Caserta. Sia il Nucleo di Polizia Tributaria, ma soprattutto la DIA, hanno adottato “atti liberatori” di cui il verbale del Gruppo Interforze non tiene per nulla conto; il Prefetto si è adagiato completamente sulle conclusioni del Gruppo interforze, senza una autonoma espressione di volontà. 2.9.- Con ultimo motivo, la ricorrente solleva questione di costituzionalità degli artt. 89 bis, 91 e 94 codice antimafia per violazione degli artt. 3, 24, 27, 41, 42 e 97 Cost. L’interdittiva prefettizia è ben più afflittiva delle misure di prevenzione applicate dell’autorità giudiziaria ed ha una maggiore pervasività, di fatto “non scade” e, oltre alla libertà di impresa, l’interdittiva prefettizia tocca anche quei valori della persona che riguardano onore, dignità e la stessa agibilità sociale, peraltro con forti limitazioni del sindacato giurisdizionale. La ricorrente richiama i principi enunciati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. -OMISSIS- in materia di misure di prevenzione onde sottolineare che l’interpretazione della normativa in materia di antimafia sarebbe in contrasto con la libertà di iniziativa economica garantita dalla Costituzione (art. 41 Cost.), con la garanzia della libertà personale e con i valori tutelati dalle norme della costituzione rubricate. 3.- Il Collegio premette che, ai sensi dell’art. 1, comma 52, della legge n. 190 del 2012, per le attivita' imprenditoriali (di cui al comma 53) che il legislatore indica come “maggiormente a rischio di infiltrazione mafiosa”, la comunicazione e l'informazione antimafia liberatoria da acquisire indipendentemente dalle soglie stabilite dal codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, è obbligatoriamente acquisita dalle stazioni appaltanti attraverso la consultazione, anche in via telematica, dell’apposito elenco di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori istituito presso ogni Prefettura e che all’'iscrizione nell'elenco si applica l' articolo 92, commi 2 e 3 , del codice antimafia, di cui al decreto legislativo n. 159 del 2011. La Prefettura è tenuta ad effettuare verifiche periodiche circa la perdurante insussistenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa e, in caso di esito negativo, dispone la cancellazione dell'impresa dall'elenco. 3.1.- L'iscrizione nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa (cd. White list) è disciplinata dagli stessi principi che regolano l'interdittiva antimafia, in quanto si tratta di misure volte alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione (Consiglio di Stato sez. III, -OMISSIS-). Questa Sezione ha chiarito che le disposizioni relative all'iscrizione nella cd. White list formano un corpo normativo unico con quelle dettate dal codice antimafia (-OMISSIS-). 3.2.- Anche in relazione al diniego di iscrizione nella White list - iscrizione che presuppone la stessa accertata impermeabilità alla criminalità organizzata - il Prefetto ha l'obbligo di pronunciarsi in via espressa sulla domanda di iscrizione presentatagli dall'impresa interessata, valutando discrezionalmente la sussistenza o meno del tentativo di infiltrazione mafiosa. In questo senso, milita il tenore dell'art. 3, commi 2 e 3, del d.p.c.m. 18 aprile 2013, aggiornato dal successivo d.p.c.m. 24 novembre 2016, che così dispone: "2. L'iscrizione è disposta dalla Prefettura competente all'esito della consultazione della Banca dati nazionale unica se l'impresa è un soggetto ivi censito ed è possibile rilasciare immediatamente l'informazione antimafia liberatoria ai sensi dell'art. 92, comma 1, del Codice antimafia. La Prefettura comunica il provvedimento di iscrizione per via telematica ed aggiorna l'elenco pubblicato sul proprio sito istituzionale ai sensi dell'art. 8. 3. Qualora dalla consultazione della Banca dati nazionale unica risulti che l'impresa non è tra i soggetti ivi censiti ovvero gli accertamenti antimafia siano stati effettuati in data anteriore ai dodici mesi ovvero ancora emerga l'esistenza di taluna delle situazioni di cui agli articoli 84, comma 4, e 91, comma 6, del Codice antimafia, la Prefettura competente effettua le necessarie verifiche, anche attraverso il Gruppo interforze di cui all'art. 5, comma 3, del decreto del Ministro dell'interno 14 marzo 2003. Nel caso in cui sia accertata la mancanza delle condizioni previste dall'art. 2, comma 2, la Prefettura competente, nel rispetto di quanto stabilito dall'art. 10 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, adotta il provvedimento di diniego dell'iscrizione, dandone comunicazione all'interessato. Il diniego dell'iscrizione è altresì comunicato ai soggetti di cui all'art. 91, comma 7 bis, del Codice antimafia. Diversamente, la Prefettura competente procede all'iscrizione dell'impresa. La Prefettura competente conclude il relativo procedimento nel termine di novanta giorni a decorrere dalla data di ricevimento dell'istanza di iscrizione". 4.- In fatto, va rilevato che la -OMISSIS-, il cui rappresentante è -OMISSIS- -OMISSIS-, -OMISSIS- di -OMISSIS-, è una società che opera nel settore del -OMISSIS-, inserito dal Legislatore (art. art. 1, co. 53, l. 190/2012) tra i settori particolarmente a rischio di infiltrazioni mafiose. Il provvedimento impugnato è motivato con riguardo alle specifiche risultanze della relazione redatta dal Gruppo Interforze in data -OMISSIS-, e confermata successivamente all’esame delle osservazioni prodotte dalla ricorrente, da cui risulta che: -nella sentenza “-OMISSIS-” n. -OMISSIS- della Corte d’Assise, II sez., di -OMISSIS- del -OMISSIS- vengono riportate alcune testimonianze rese da -OMISSIS- sul conto della società e della -OMISSIS- -OMISSIS-, secondo cui “già negli -OMISSIS- (la stessa) lavorava grazie all’intercessione del -OMISSIS- che ripartiva le commissioni di maggiore entità sia tra i -OMISSIS- che le altre società di -OMISSIS- riconducibili a ….Tutti i citati poi assicuravano all’organizzazione la comoda percezione di una percentuale su ogni lavoro loro assegnato o -OMISSIS- a titolo estorsivo”; -dall’o.c.c. del GIP di Napoli del -OMISSIS- è emerso che -OMISSIS- -OMISSIS-, -OMISSIS- della società ricorrente, versava periodicamente somme a titolo estorsivo alla -OMISSIS-, senza aver mai denunciato; -nel decreto di fermo del PM n. -OMISSIS- n.r.g., emesso dalla DDA di Napoli il -OMISSIS-, emerge che a titolo estorsivo -OMISSIS- sono state date alla società ricorrente da -OMISSIS- e -OMISSIS-, affiliati alla -OMISSIS-, per il pagamento di forniture di -OMISSIS- ricevute per la propria attività -OMISSIS-; -nel decreto di fermo del P.M. nr. -OMISSIS-, emesso dalla DA di Napoli il -OMISSIS-, sono riportate due liste rinvenute all’-OMISSIS-, sulle quali erano trascritti i nomi delle attività commerciali della città di -OMISSIS-, verosimilmente a libro paga, tra le quali risulta la -OMISSIS- -OMISSIS-. 4.1.- Il provvedimento prefettizio, poi, controdeduce specificamente alle osservazioni presentate dalla ricorrente ai sensi dell’art. 10 bis L. 241/1990, concludendo nel senso della rilevanza degli elementi indiziari riferiti dalle Forze investigative, sintomatici di permeabilità a forme di condizionamento dell’attività imprenditoriale. 5.- La sentenza appellata ha rigettato le censure mosse dalla società ricorrente con argomentazioni, condivise dal Collegio, che le critiche svolte con l’atto di appello in esame non hanno inficiato. 6.- Sul termine per la conclusione del procedimento e sugli effetti pregiudizievoli della sua eccessiva durata, si concorda sulla considerazione che, in assenza di una norma che qualifichi espressamente come perentorio il termine di conclusione del procedimento, la violazione di quest’ultimo non comporta la consumazione del potere in capo all’Autorità procedente e la conseguente illegittimità del provvedimento adottato tardivamente. Il TAR si è soffermato a considerare che l’interessato potrebbe attivarsi avverso l’inerzia amministrativa attraverso gli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, senza che ciò possa considerarsi equivalente all’imposizione di un “onere” ulteriore in capo al richiedente. Né potrebbe assimilarsi il termine per la conclusione del procedimento in questione con il termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio, non avendo la misura interdittiva, né il diniego di iscrizione in White list, natura giuridica di “sanzione” in senso tecnico e neppure “di fatto”, trattandosi piuttosto dell’esito di un accertamento del possesso da parte dell’imprenditore che aspira a contrattare con la pubblica amministrazione del fondamentale requisito di impermeabilità al pericolo di ingerenze mafiose. Non è pertinente, pertanto, il richiamo alle garanzie previste nel procedimento amministrativo di natura sanzionatoria, in particolare circa la durata del procedimento. Vale la pena ricordare che in questa materia la Corte UE, riconoscendo la specialità del procedimento finalizzato all’adozione delle informative antimafia, del tutto diverso da quello sanzionatorio, ha ritenuto, perfino, che l’assenza di una necessaria interlocuzione procedimentale non costituisce un vulnus al principio di buona amministrazione, perché il diritto al contraddittorio procedimentale e al rispetto dei diritti della difesa può soggiacere a restrizioni che "rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi " (sentenza della Corte di Giustizia UE, 9 novembre 2017, in C-298/16, § 35 e giurisprudenza ivi citata). 6.1.- Il terzo, sesto, settimo, ottavo e novo motivo di appello, che possono trattarsi congiuntamente per i vari profili connessi sottoposti al Collegio, non hanno pregio alla luce delle norme e della consolidata giurisprudenza già ricordata al precedente punto 3.1. Va qui ribadito che l'iscrizione nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa (cd. White List) è disciplinata dagli stessi principi che regolano l'interdittiva antimafia, in quanto si tratta di misure volte alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione (Consiglio di Stato sez. III, -OMISSIS-); pertanto valgono le medesime regole normative e i principi interpretativi ripetutamente affermati dalla Sezione con riguardo alle informative antimafia. 6.2.- Quanto alla contestazione riferita alla ricostruzione dei fatti e al loro valore indiziante, secondo la regola del “più probabile che non”, nonostante si tratti di fatti risalenti nel tempo e che non hanno costituito oggetto di sentenze penali di condanna, il Collegio rinvia per brevità ai sensi dell’art. 88, comma 2, lett. d) c.p.a. alla copiosa giurisprudenza di questa Sezione sull’argomento (Consiglio di Stato, sez. III, -OMISSIS-). In particolare, sul significato di questa regola di giudizio, quanto al grado di incisività probatoria rispetto alla regola opposta “dell'oltre il ragionevole dubbio”, fornisce elementi di chiarimento la pronuncia di questa Sezione -OMISSIS-(al pari della analoga -OMISSIS-). In materia di interdittive antimafia, la valutazione del rischio di inquinamento mafioso deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un'ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso, sulla base, oltre che della regola causale del "più probabile che non", anche dei dati di comune esperienza, evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso) e che risente della estraneità al sistema della prevenzione antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio. Occorre non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali - secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale - sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d'altro lato, detti elementi non vanno considerati in modo atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Consiglio di Stato, sez. III, -OMISSIS-). E’ stato efficacemente affermato che la “funzione di "frontiera avanzata" dell'informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi “(Consiglio di Stato, sez. III, -OMISSIS-). 6.3.- Gli elementi posti a base dell'informativa possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o possono anche essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione (Consiglio di Stato, sez. III, -OMISSIS- cit.; -OMISSIS-; -OMISSIS-, -OMISSIS-). 6.4.- Quanto alla possibilità di attribuire rilevanza a fatti risalenti nel tempo, va osservato che l'attualità dell’indizio (o del fatto di reato o del tempo dell’indagine penale) non è condizione richiesta dalla norma e che, anche sul piano logico, il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica la perdita del requisito dell'attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa, purché dall'analisi del complesso delle vicende esaminate emerga, comunque, un quadro indiziario idoneo a giustificare il necessario giudizio di attualità e di concretezza del pericolo di infiltrazione mafiosa nella gestione dell'attività di impresa (Consiglio di Stato sez. III, -OMISSIS-; -OMISSIS-; id. -OMISSIS-). Con riguardo a tale profilo dell’attualità e concretezza del pericolo desumibile da fatti risalenti, il Collegio osserva che l'infiltrazione mafiosa, per la natura stessa delle organizzazioni criminali dalla quale promana e per la durevolezza dei legami che essi instaurano con il mondo imprenditoriale, ha una stabilità di contenuti e, insieme, una mutevolezza di forme, economiche e giuridiche, capace di sfidare il più lungo tempo e di occupare il più ampio spazio disponibile (Cons. Stato, Sez. III, n. -OMISSIS-). 6.5.- Venendo al proprium della informativa oggetto di appello, non vi è dubbio che deve ritenersi confermata la completezza istruttoria, l'adeguatezza motivazionale e l'attendibilità delle conclusioni alle quali è pervenuta l'Amministrazione prefettizia, avuto riguardo: - alle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia, considerate attendibili dalla Corte d’Assise di -OMISSIS- e poste a fondamento della sentenza “-OMISSIS-”, da cui risulta che il -OMISSIS- aveva il controllo del territorio e spartiva i lavori negli --OMISSIS- tra la società ricorrente e le altre -OMISSIS- del settore -OMISSIS- dell’-OMISSIS-, dietro pagamento di pizzo (-OMISSIS-), non rilevando, per quanto sopra detto, che nessuno dei componenti della società ricorrente sia stato condannato; - all’o.c.c. n. -OMISSIS- con la quale veniva disposta la custodia cautelare in carcere di numerosi esponenti dei -OMISSIS- per un’estorsione aggravata dal contesto mafioso, avvenuta “-OMISSIS- ai danni di -OMISSIS- -OMISSIS- “-OMISSIS-” della società all’epoca dei fatti, il quale versava periodicamente somme di denaro a titolo estorsivo alla -OMISSIS-, senza aver denunciato gli episodi estorsivi; contrariamente a quanto sostiene l’appellante, trova applicazione anche all’iscrizione in White list l’art. 84 del d.lgs. 159/2011, che considera come sintomatica l’omessa denuncia di episodi estorsivi subita dalla Società e, inoltre, dalla relazione del Gruppo Interforze risulta che -OMISSIS- -OMISSIS- (-OMISSIS-) ha poi acquistato dal -OMISSIS- le altre quote sociali insieme al -OMISSIS- (-OMISSIS-), il -OMISSIS-, e successivamente fino al -OMISSIS- egli ha rivestito la carica di -OMISSIS- -OMISSIS-; -al decreto di fermo del P.M. in data -OMISSIS- (episodio estorsivo delle -OMISSIS- date alla società ricorrente dai -OMISSIS-) di cui si contesta il presupposto della fornitura di -OMISSIS- (sia per i lavori -OMISSIS-, che in favore del -OMISSIS-) dichiarandosi l’estraneità agli appalti relativi alle opere in questione; tuttavia, tale contestazione dell’appellante contrasta con le dichiarazioni rese da -OMISSIS- -OMISSIS- e -OMISSIS- -OMISSIS-, riportate nella -OMISSIS- del provvedimento impugnato; - al decreto di fermo del P.M. in data -OMISSIS-, in cui sono riportate le liste coi nomi di attività commerciali di -OMISSIS-, rinvenute all’-OMISSIS-: dalla -OMISSIS- del provvedimento si evince che sia l’esame diretto del documento, sia l’interrogatorio in data -OMISSIS- del -OMISSIS- non lasciano “ragionevolmente dubitare” che si tratti di “contabilità di entrate e uscite del gruppo di -OMISSIS- del -OMISSIS-” e tra i soggetti nei cui confronti venivano perpetrate estorsioni risulta anche “ -OMISSIS-”; la Relazione Interforze chiarisce che il riferimento non è generico, come contesta l’appellante, in quanto nel fermo la parte offesa è compiutamente identificata dalla P.G. operante ed avallata dall’AG in -OMISSIS-, nato ad -OMISSIS- il -OMISSIS-, all’epoca -OMISSIS- e non -OMISSIS- della -OMISSIS- -OMISSIS-. 6.6.- Col quinto motivo di appello, la società lamenta il difetto del requisito di attualità non solo per la risalenza nel tempo degli episodi riferiti quali elementi indizianti, ma anche per l’assenza di accertamenti sulla attuale situazione dell’impresa, su frequentazioni, su quanto possa oggi costituire pregiudizio secondo la normativa antimafia. Il Collegio, oltre le osservazioni già svolte al precedente punto 5.2, rileva che l’ultimo indizio valorizzato dal provvedimento impugnato è tratto dal decreto di fermo del PM n. -OMISSIS- DDA Napoli e risale al -OMISSIS-; ma, altresì, va considerato che l’attualità del pericolo desunto dalla pluralità degli elementi indiziari raccolti permane fino a fatti nuovi ulteriori di segno contrario atti a dimostrare il discostamento dalla situazione precedentemente emersa. La società è attualmente inserita nel medesimo contesto, operante nel medesimo settore, e ne fanno parte i medesimi soggetti (-OMISSIS- -OMISSIS- e -OMISSIS-), mentre l’amministrazione -OMISSIS- è affidata al -OMISSIS-composto dal -OMISSIS-, -OMISSIS- -OMISSIS- – -OMISSIS- – dal -OMISSIS- e da -OMISSIS- (cfr.Visura Camera di Commercio, -OMISSIS-). Deve concludersi, in accordo con le valutazioni della Prefettura, che il quadro indiziario del pericolo di infiltrazioni delineato, per il contesto sociale e territoriale, lascia ragionevolmente presumere anche nell’attualità la vicinanza e il condizionamento della società ricorrente da parte delle organizzazioni criminali operanti nella zona, la cui forza intimidatrice è tristemente nota. 6.7.- Con riguardo alla contestazione mossa col decimo motivo di appello, non risponde al vero che la Prefettura si sia adagiata sulle risultanze del Gruppo Interforze senza tener conto degli “atti liberatori” sia il Nucleo di Polizia Tributaria, ma soprattutto della DIA. Va rilevato, innanzitutto, che ai sensi dell’art. 93, D.lgs. 159/2011 per l'espletamento delle funzioni volte a prevenire infiltrazioni mafiose, il Prefetto dispone accessi ed accertamenti nei -OMISSIS- delle imprese interessate all'esecuzione di lavori pubblici, avvalendosi dei gruppi interforze di cui all'articolo 5, comma 3, del decreto del Ministro dell'interno 14 marzo 2003, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 54 del 5 marzo 2004 e che la relazione acquisita, in esito agli accertamenti disposti, costituisce la base delle valutazioni prefettizie (art. 93, comma 3). Inoltre, dagli atti della DIA (Direzione Investigativa Antimafia) -OMISSIS-, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, si evince che non v’è alcun elemento da segnalare “oltre quelli già noti alla Prefettura” (-OMISSIS-). 6.8. - Infine, il Collegio non ritiene apprezzabili le argomentazioni svolte a sostegno della eccezione di incostituzionalità al fine di ritenerne la non manifesta infondatezza. L’appellante richiama a sostegno della propria tesi la giurisprudenza della Corte Costituzionale riguardante le misure di prevenzione personali, che più volte si è pronunciata nel senso che l’autorità di pubblica sicurezza non può agire sulla base del mero arbitrio e, da ultimo, è intervenuta con la sentenza -OMISSIS-, dichiarando costituzionalmente illegittimi l’art. 4, comma 1, lettera c) e l'art. 16 d.lg. 6 settembre 2011, n. 159, nella parte in cui stabiliscono che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli artt. 20 e  24, si applichino anche ai soggetti indicati nell'art. 1, comma 1, lett. a). La Corte ha ritenuto che la descrizione contenuta nella lett. a) citata («coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi»), anche se considerata alla luce della giurisprudenza che ha tentato sinora di precisarne l'ambito applicativo, non soddisfa le esigenze di precisione imposte dall'art. 42 Cost. e, in riferimento all'art. 117, comma 1, Cost., dall'art. 1 del Prot. addiz. CEDU per ciò che concerne le misure patrimoniali del sequestro e della confisca. Il principio di legalità in materia di prevenzione, principio certamente sussistente anche in materia di documentazione antimafia, implicherebbe, ad avviso dell’appellante, che l’applicazione della misura, ancorché legata nella maggioranza dei casi ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in fattispecie di pericolosità previste e descritte dalla legge. La disciplina antimafia, analogamente, sarebbe da ritenere costituzionalmente illegittima per insufficiente determinazione della fattispecie di “tentativo di infiltrazione mafiosa”. 6.9. - L’appellante opera un parallelismo non condiviso dal Collegio tra le misure di prevenzione patrimoniali, da un lato, e l’informativa antimafia e il diniego di iscrizione in White list, dall’altro. Se per un verso tutta la giurisprudenza formatasi sull’argomento dell’informativa antimafia è ferma nel ripudio del mero sospetto come presupposto per l’adozione della stessa (principio questo che la Corte Costituzionale pone alla base della richiamata decisione concernente le misure di prevenzione patrimoniali); tuttavia, ogni ipotesi di raffronto si arresta di fronte alla intrinseca diversità tra le fattispecie. L’informativa, pur realizzando una misura di prevenzione in senso lato, in quanto soglia anticipata di tutela dell’ordinamento rispetto alle ingerenze della malavita organizzata nella gestione delle imprese che contrattano con lo Stato e gli enti pubblici, al fine evidente di non consentire alcuna forma di “sostegno” da parte dello Stato neppure indiretto agli affari illeciti dei clan mafiosi, tuttavia è misura finalizzata a produrre effetti nel limitato settore della capacità di agire dell’appaltatore quale soggetto contraente nei contratti pubblici (e/o nelle concessioni). Né è appropriato l’uso dell’espressione, utilizzata dall’appellante, secondo cui l’informativa antimafia “comporta la morte dell’impresa”, essendo la limitazione circoscritta ai soli rapporti economici con la P.A., nulla impedendo all’imprenditore di continuare la propria attività nei rapporti con privati. Al contrario, la misura di prevenzione colpisce il soggetto destinatario (e tra questi anche gli “indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso”, a partire dalla L. n. 575 del 1965), raggiunto dal giudizio di pericolosità sociale, con l’imposizione di una serie di obblighi, di fare e di non fare, in varie forme restrittive della sua personalità, di carattere ben più esteso e penetrante, limitandone pesantemente la disponibilità di beni di proprietà o la libertà personale, di iniziativa economica, di circolazione e residenza, etc., e per tali ragioni sia la Corte EDU che la Corte Costituzionale hanno mostrato particolare attenzione ai requisiti di qualità della “base legale” della restrizione e alla tutela dei diritti fondamentali dei destinatari, che non possono essere esposti ad uno “spazio di incontrollabile discrezionalità” e che devono essere individuati come soggetti pericolosi sulla base di “elementi di fatto”, non in modo generico, giustificandosi, tra l’altro, proprio in ragione di tale pervasività, l’opera di progressiva giurisdizionalizzazione di tali misure. Scopo essenziale delle misure di prevenzione personali è il controllo, per il futuro, della pericolosità sociale del soggetto interessato (anche se non la punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato - cfr. Corte EDU, sentenza 23 febbraio 2017, de Tommaso contro Italia, paragrafo 143); ratio delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale - confisca e sequestro – (che la Corte Cost. definisce “strumento di contrasto alla criminalità lucrogenetica” ) è quello di “sottrarre alla criminalità organizzata beni e denaro di origine illecita (dimostrata attraverso un classico schema presuntivo), evitando al tempo stesso di subordinare l'ablazione patrimoniale alla necessità di dimostrare, nell'ambito di un processo penale, la precisa derivazione di ogni singolo bene o somma di denaro da un particolare delitto”, sulla base della ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita (Corte di cassazione, -OMISSIS- -OMISSIS-). Così chiarita la ratio delle misure oggetto della pronuncia di incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. -OMISSIS- e ribadita la differenza rispetto alla ratio dell’informativa antimafia, che è quella di fornire al Prefetto la possibilità di sconsigliare alla P.A. l’instaurazione di un rapporto con la società sulla base di un prudente apprezzamento, con ogni intuibile conseguenza sul piano della diversa incisività degli effetti nella sfera dei diritti fondamentali, è palese la non sostenibilità della violazione dei principi costituzionali invocati dall’appellante. 7.- In conclusione, l’appello va rigettato. 8.- Le spese di giudizio si compensano tra le parti, attesa la novità in parte delle questioni trattate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta e, per l’effetto conferma la sentenza impugnata. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 aprile 2021 con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere, Estensore Solveig Cogliani, Consigliere Umberto Maiello, Consigliere Franco Frattini, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere, Estensore Solveig Cogliani, Consigliere Umberto Maiello, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Informativa antimafia - White list - Termine – Natura ordinatoria – Conseguenza.  Informativa antimafia - White list - Disciplina - Artt. 89 bis, 91 e 94 d.lgs. n. 159 del 2011 – Violazione artt. 3, 24, 27, 41, 42 e 97 Cost. – Manifesta infondatezza.         Il privato, che ha chiesto alla Prefettura iscrizione in White list può attivarsi in caso di inerzia dell’amministrazione con l’azione ex art. 117 c.p.a. avverso il silenzio e serbato, non avendo il termine per concludere il procedimento natura perentoria  (1).        È manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 24, 27, 41, 42 e 97 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 89 bis, 91 e 94 d.lgs. n. 159 del 2011, sollevata sul rilievo che l’interdittiva prefettizia sarebbe più afflittiva delle misure di prevenzione applicate dall’autorità giudiziaria ed avrebbe una maggiore pervasività, toccando anche quei valori della persona che riguardano onore, dignità e la stessa agibilità sociale, peraltro con forti limitazioni del sindacato giurisdizionale; la questione, infatti, si fonda su un non corretto parallelismo tra le misure di prevenzione patrimoniali, da un lato, e l’informativa antimafia e il diniego di iscrizione in White list, dall’altro (2).    (1) La Sezione ha ricordato che, ai sensi dell’art. 1, comma 52, l. n. 190 del 2012, per le attività imprenditoriali (di cui al comma 53) che il legislatore indica come “maggiormente a rischio di infiltrazione mafiosa”, la comunicazione e l'informazione antimafia liberatoria da acquisire indipendentemente dalle soglie stabilite dal codice di cui al d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, è obbligatoriamente acquisita dalle stazioni appaltanti attraverso la consultazione, anche in via telematica, dell’apposito elenco di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori istituito presso ogni Prefettura e che all’'iscrizione nell'elenco si applica l' art. 92, commi 2 e 3 , del codice antimafia, di cui al d.lgs. n. 159 del 2011. La Prefettura è tenuta ad effettuare verifiche periodiche circa la perdurante insussistenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa e, in caso di esito negativo, dispone la cancellazione dell'impresa dall'elenco. L'iscrizione nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa (cd. White list) è disciplinata dagli stessi principi che regolano l'interdittiva antimafia, in quanto si tratta di misure volte alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione. La Sezione ha altresì ricordato che le disposizioni relative all'iscrizione nella cd. White list formano un corpo normativo unico con quelle dettate dal codice antimafia. Anche in relazione al diniego di iscrizione nella White list - iscrizione che presuppone la stessa accertata impermeabilità alla criminalità organizzata - il Prefetto ha l'obbligo di pronunciarsi in via espressa sulla domanda di iscrizione presentatagli dall'impresa interessata, valutando discrezionalmente la sussistenza o meno del tentativo di infiltrazione mafiosa.    Quanto all’inutile decorso del termine previsto per evadere l’istanza del privato di iscrizione in White list, la Sezione ha chiarito che la violazione del termine, non qualificato da alcuna norma come perentorio, non comporta la consumazione del potere in capo all’Autorità procedente e la conseguente illegittimità del provvedimento adottato tardivamente. Né potrebbe assimilarsi il termine per la conclusione del procedimento in questione con il termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio, non avendo la misura interdittiva, né il diniego di iscrizione in White list, natura giuridica di “sanzione” in senso tecnico e neppure “di fatto”, trattandosi piuttosto dell’esito di un accertamento del possesso da parte dell’imprenditore che aspira a contrattare con la pubblica amministrazione del fondamentale requisito di impermeabilità al pericolo di ingerenze mafiose. Non è pertinente, pertanto, il richiamo alle garanzie previste nel procedimento amministrativo di natura sanzionatoria, in particolare circa la durata del procedimento. Vale la pena ricordare che in questa materia la Corte UE (9 novembre 2017, in C-298/16, § 35), riconoscendo la specialità del procedimento finalizzato all’adozione delle informative antimafia, del tutto diverso da quello sanzionatorio, ha ritenuto, perfino, che l’assenza di una necessaria interlocuzione procedimentale non costituisce un vulnus al principio di buona amministrazione, perché il diritto al contraddittorio procedimentale e al rispetto dei diritti della difesa può soggiacere a restrizioni che "rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi".    (2) Ha affermato la Sezione che l’informativa, pur realizzando una misura di prevenzione in senso lato, in quanto soglia anticipata di tutela dell’ordinamento rispetto alle ingerenze della malavita organizzata nella gestione delle imprese che contrattano con lo Stato e gli enti pubblici, al fine evidente di non consentire alcuna forma di “sostegno” da parte dello Stato neppure indiretto agli affari illeciti dei clan mafiosi, tuttavia è misura finalizzata a produrre effetti nel limitato settore della capacità di agire dell’appaltatore quale soggetto contraente nei contratti pubblici (e/o nelle concessioni). Né è appropriato l’uso dell’espressione secondo cui l’informativa antimafia “comporta la morte dell’impresa”, essendo la limitazione circoscritta ai soli rapporti economici con la P.A., nulla impedendo all’imprenditore di continuare la propria attività nei rapporti con privati. Al contrario, la misura di prevenzione colpisce il soggetto destinatario (e tra questi anche gli “indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso”, a partire dalla l. n. 575 del 1965), raggiunto dal giudizio di pericolosità sociale, con l’imposizione di una serie di obblighi, di fare e di non fare, in varie forme restrittive della sua personalità, di carattere ben più esteso e penetrante, limitandone pesantemente la disponibilità di beni di proprietà o la libertà personale, di iniziativa economica, di circolazione e residenza, etc., e per tali ragioni sia la Corte EDU che la Corte Costituzionale hanno mostrato particolare attenzione ai requisiti di qualità della “base legale” della restrizione e alla tutela dei diritti fondamentali dei destinatari, che non possono essere esposti ad uno “spazio di incontrollabile discrezionalità” e che devono essere individuati come soggetti pericolosi sulla base di “elementi di fatto”, non in modo generico, giustificandosi, tra l’altro, proprio in ragione di tale pervasività, l’opera di progressiva giurisdizionalizzazione di tali misure. Scopo essenziale delle misure di prevenzione personali è il controllo, per il futuro, della pericolosità sociale del soggetto interessato (anche se non la punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato - cfr. Corte EDU, sentenza 23 febbraio 2017, de Tommaso contro Italia, paragrafo 143); ratio delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale - confisca e sequestro – (che la Corte cost. definisce “strumento di contrasto alla criminalità lucrogenetica” ) è quello di “sottrarre alla criminalità organizzata beni e denaro di origine illecita (dimostrata attraverso un classico schema presuntivo), evitando al tempo stesso di subordinare l'ablazione patrimoniale alla necessità di dimostrare, nell'ambito di un processo penale, la precisa derivazione di ogni singolo bene o somma di denaro da un particolare delitto”, sulla base della ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita. ​​​​​​​Così chiarita la ratio delle misure oggetto della pronuncia di incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 24 del 2019 e ribadita la differenza rispetto alla ratio dell’informativa antimafia, che è quella di fornire al Prefetto la possibilità di sconsigliare alla P.A. l’instaurazione di un rapporto con la società sulla base di un prudente apprezzamento, con ogni intuibile conseguenza sul piano della diversa incisività degli effetti nella sfera dei diritti fondamentali, è palese la non sostenibilità della violazione di principi costituzionali.
Informativa antimafia
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L’Adunanza plenaria pronuncia sulla clausola di salvaguardia ex art. 92, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 applicata alla concessione di finanziamenti pubblici
N. 00023/2020REG.PROV.COLL. N. 00017/2019 REG.RIC.A.P. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 17 di A.P. del 2019, proposto da Agea - Agenzia per le erogazioni in agricoltura, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; contro Azienda Agricola Ofanto, soc agricola a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Giuseppe Iacoviello, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Ufficio Territoriale del Governo Potenza, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; e con l'intervento di ad opponendum:-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Cirino Gallo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata (Sezione Prima) n. 00707/2018, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Azienda Agricola Ofanto e di Ufficio Territoriale del Governo Potenza; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 luglio 2020 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati, presenti alla discussione da remoto, l'avvocato dello Stato Lorenza Vignato, l'avvocato Giuseppe Iacoviello, e l'avvocato Cirino Gallo; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con sentenza non definitiva 23 dicembre 2019 n. 8672, la Terza Sezione del Consiglio di Stato ha deferito alla Adunanza Plenaria il seguente quesito: “se il limite normativo delle “utilità conseguite”, di cui all'inciso finale contenuto sia nell'art. 92 comma terzo, sia nell'art. 94 secondo comma del D. Lgs. n.159/2011, è da ritenersi applicabile ai soli contratti di appalto pubblico, ovvero anche ai finanziamenti e ai contributi pubblici erogati per finalità di interesse collettivo”. 1.1. La sentenza espone che la vicenda trae origine dalla delibera della Giunta Regionale n. 1014 del 27 luglio 2012 con la quale la Regione Basilicata, nell’ambito del Bando relativo all’attuazione della Misura 121 - Pif Aglianico del Vulture, ha ritenuto finanziabile la domanda di aiuto avanzata dall’Azienda Ofanto s.r.l., finalizzata all’acquisto di attrezzature e macchinari per la costruzione e l’ampliamento di una cantina vinicola aziendale, per la somma di € 251.342,50. A seguito dell’esito positivo dell’istruttoria, l’AGEA ha liquidato alla Ofanto s.r.l. la somma complessiva di € 248.756,99, ripartita in diverse tranches. In previsione dell’erogazione del contributo la Regione aveva richiesto il rilascio dell’informativa antimafia in data 26 dicembre 2012 e successivamente in data 22 dicembre 2014, senza tuttavia ricevere alcuna risposta da parte della Prefettura competente. Solo con nota prot. n. 87158 del 23 maggio 2017, la Regione Basilicata ha comunicato all’Organismo pagatore che l’azienda finanziata era stata attinta da una informativa antimafia positiva, emessa dalla Prefettura di Potenza in data 10 febbraio 2016. Per l’effetto, in attuazione dell’art. 92, comma 3, d.lgs. 159/2011, l’AGEA ha adottato il provvedimento prot. n. 52438 del 21 giugno 2017, con il quale ha disposto la revoca dei contributi concessi per l’attuazione della Misura 121, intimandone la restituzione. Con lo stesso provvedimento, l’AGEA ha altresì revocato e chiesto in restituzione i contributi erogati per la Domanda Unica, relativi alle campagne agrarie 2015 e 2016, dell’importo complessivo di € 1.014,02. L’Azienda Ofanto s.r.l. è stata destinataria di tre interdittive antimafia: - la prima del 10 febbraio 2016; - la seconda del 25 maggio 2017; - la terza (confermativa delle precedenti) emessa nel corso del 2018. Le prime due interdittive sono state impugnate con distinti ricorsi, la terza con ricorso per motivi aggiunti nell’ambito del secondo giudizio. Infine, un terzo giudizio è stato instaurato avverso gli atti di revoca dei finanziamenti. Le tre cause sono state definite dal TAR per la Basilicata, sez. I, con la sentenza n. 707/2018, con la quale sono stati rigettati i primi due ricorsi e accolto il terzo. 1.2. L’AGEA ha proposto appello avverso la sentenza ora citata, contestando l’interpretazione degli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, d.lgs. 159/2011 e la conseguente statuizione di illegittimità dei provvedimenti di revoca dei finanziamenti. 2. Questo Consiglio di Stato, con la sentenza parziale che ha disposto anche la rimessione all’Adunanza Plenaria, ha, in particolare: - rigettato l’appello incidentale proposto dalla Azienda Ofanto s.r.l.; - respinto le eccezioni preliminari di inammissibilità sollevate dalla parte appellata avverso l’appello dell’AGEA; - respinto i motivi assorbiti in primo grado e riproposti dalla parte appellata. 2.1. Nell’esaminare l’appello principale, la sentenza ha ricordato che, nel corso del giudizio di primo grado, l’Azienda Agricola Ofanto S.r.l. ha impugnato le determinazioni di revoca dei finanziamenti relativi alla Misura 121, chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi: i) la revoca sarebbe illegittima anzitutto per violazione dell’art. 92, d.lgs. 159/2011, in quanto AGEA non ha tenuto conto delle opere già eseguite e dei benefici collettivi prodottisi attraverso l’impiego dei contributi erogati, così disattendendo il principio, condiviso da ampia parte della giurisprudenza, secondo il quale la clausola di salvaguardia prevista dagli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2 d.lgs. 159/2011, deve ritenersi operante non solo per gli appalti di lavori pubblici ma anche per i finanziamenti pubblici destinati ad aziende private. In entrambi i casi sarebbe infatti rinvenibile quell’elemento dell’utilità pubblicistica che fonda la ratio dell’effetto conservativo avuto di mira dalla norma; ii) la revoca sarebbe illegittima anche per la violazione dell’art. 7, L. 241/1990, non essendo stata preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento; iii) infine, sarebbe stata resa una falsa applicazione dell’art. 92, d.lgs. 159/2011, poiché AGEA ha revocato anche contributi erogati in data antecedente all’emissione dell’informazione antimafia positiva, ed è intervenuta allorché l’opera oggetto di finanziamento (costruzione ed ampliamento di cantina aziendale per la produzione e commercializzazione dei vini) era stata compiutamente realizzata. 2.2. Il Tar Basilicata ha accolto il ricorso in relazione al primo capo di censura, così motivando: “il Collegio condivide l'orientamento giurisprudenziale, richiamato dall'azienda agricola ricorrente, … TAR Napoli Sez. I Sentenze n. 3237 del 13.6.2017 e n. 52 del 3.1.2018, secondo cui gli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, D.Lg.vo n. 159/2011, nella parte in cui fanno "salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite ed il rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite, vanno applicati, oltre che alle revoche dei contratti di appalto pubblico, le cui utilità sono stabilmente acquisite dalla Pubblica Amministrazione, anche alle revoche dei finanziamenti e/o contributi pubblici, che vengono corrisposti per finalità di interesse collettivo (…)”. A supporto della interpretazione prescelta, il Tar ha inoltre evidenziato la necessità di tenere “conto del bilanciamento tra l’interesse pubblico, di impedire l’erogazione di denaro pubblico in favore di soggetti economici privati, condizionati dall’infiltrazione mafiosa, ed il principio di affidamento, in quanto si tratta di soggetti che non sono indiziati di appartenenza alla criminalità organizzata, che devono essere sanzionati per le loro condotte illecite, ma solo di persone sottoposte al rischio dell’infiltrazione mafiosa, che va prevenuta con la non futura erogazione del pubblico denaro, ma non con la restituzione di quello già speso, come, nella specie, il contributo di € 249.771,01, erogato per l’ammodernamento dell’azienda agricola ricorrente mediante l’acquisto di attrezzature e macchinari per la cantina”. 2.2.1. L’interpretazione del giudice di primo grado è stata censurata dall’attuale appellante, sia perché ritenuta contraria alla ratio della clausola di salvaguardia di cui agli artt. 92 e 94 del d.lgs. 159/2011; sia perché segnalata in evidente contrasto con la recente e più condivisibile lettura delle medesime disposizioni fornita dalla terza sezione del Consiglio di Stato, nella decisione n. 5578 del 28 settembre 2018. Sotto il primo aspetto, l’appellante argomenta circa la necessità di valorizzare canoni di interpretazione restrittiva in tutte le ipotesi in cui vengano in rilievo disposizioni derogatorie ai principi ispiratori della normativa antimafia. Sotto il secondo aspetto, la parte appellante evidenzia come proprio il dato letterale della clausola di salvaguardia, di cui all’art. 92 comma 3 d.lgs. 159/2011, abbia indotto la terza sezione del Consiglio di Stato, nella già citata sentenza n. 5578/18, a farne applicazione limitata al caso della revoca del contratto, escludendo dalla portata della disposizione la diversa ipotesi della revoca del finanziamento. Nondimeno, consapevole del fatto che una opposta soluzione interpretativa è stata proposta da altra parte della giurisprudenza (da ultimo nelle pronunce del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia n. 3 e n. 19 del 2019), l’amministrazione appellante ha avanzato istanza di deferimento del ricorso all’esame dell’Adunanza Plenaria, onde pervenire al risultato di una univoca interpretazione delle clausole di cui agli artt. 92 comma 3 e 94 comma 2, d.lgs. 159/2011. 2.2.2. Con un secondo motivo, svolto in via subordinata, l’appellante assume che anche un’interpretazione “estensiva” della clausola di salvaguardia imporrebbe, comunque, una verifica del fatto che le risorse concesse siano state impiegate in modo effettivamente vantaggioso per l’interesse pubblico e rispondente alle finalità sottese al programma di finanziamento; valutazione che, nel caso di specie, sarebbe stata del tutto omessa da parte del primo giudice. La censura viene poi argomentata anche con riferimento al fatto che dalle prove in atti non si desume alcun concreto elemento dimostrativo del riconoscimento, da parte pubblica, di una tale utilità pubblicistica, e che non risulta in alcun modo provato che l’esecuzione della specifica e controversa misura di sostegno abbia fornito un qualche apporto alla realizzazione degli scopi generali che il programma di finanziamento aveva di mira. 2.2.3. Infine, con un terzo motivo, l’appellante invoca l’annullamento della sentenza impugnata nella parte in cui ha annullato la revoca dei contributi relativi alla campagna 2015 – 2016, nonostante questa specifica determinazione amministrativa (pure inserita nel medesimo provvedimento controverso) risultasse del tutto estranea al petitum del ricorso intentato dalla società Ofanto. 2.3 L’appellata Azienda Ofanto richiama anche nella presente sede di appello l’orientamento giurisprudenziale espresso, in contrasto con quello della Sezione III, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia con le pronunce n. 3 e 19 del 2019; e sottolinea i riflessi di utilità collettiva derivanti dal programma di investimento compiutamente realizzato con le risorse erogate in attuazione della Misura 121- Pif Aglianico Del Vulture. 3. Tanto premesso, la sentenza non definitiva, nell’argomentare le ragioni che la inducono a rimettere la questione all’Adunanza Plenaria, sottolinea come, nel caso di specie: “si tratta di definire l’ambito delle conseguenze connesse all'adozione di una informativa interdittiva in relazione alla pregressa percezione di benefìci economici di fonte pubblica che hanno incentivato un'iniziativa imprenditoriale ormai interamente realizzata. I tratti distintivi del caso oggetto di indagine, dunque, attengono al fatto che: i) il programma finanziato è stato interamente eseguito senza che sia stato mosso alcun rilievo alla sua corretta realizzazione; ii) l'informativa interdittiva è intervenuta soltanto dopo il completamento dell'opera finanziata (si tratta dell'ipotesi di c.d. "informativa sopravvenuta"). A tali fini, l’art. 92, co. 4 sembrerebbe giustificare sempre e comunque l'adozione del provvedimento di revoca in ragione della sola adozione dell'interdittiva e indipendentemente dai profili temporali della vicenda; il comma 3, a parziale correzione del comma 4, parrebbe connotare in termini di sostanziale “corrispettività” le poste reciproche tra privato e amministrazione, legittimando l'operatore economico attinto da informativa interdittiva ad invocare il pagamento degli importi corrispondenti alla parte del programma che sia stata concretamente realizzata, entro il limite, tuttavia, delle "utilità conseguite". La sentenza rileva come si pongano due opposti orientamenti giurisprudenziali. 3.1. In base a un primo orientamento (cd. estensivo), la norma innanzi richiamata dovrebbe essere intesa nel senso di consentire lo ius ritentionis da parte dell'operatore attinto da informativa interdittiva in tutti i casi in cui il programma beneficiato da finanziamento pubblico sia stato correttamente realizzato e quindi risulti soddisfatto, anche in via indiretta, l'interesse generale sotteso all'erogazione. Si propone, quindi, una nozione ampia e onnicomprensiva del concetto di "utilità conseguite", svincolandone il riferimento dalle utilità economiche direttamente ritraibili dall'amministrazione concedente - come nel caso dei contratti di appalto, in cui è più evidente il nesso di corrispettività fra l'erogazione di risorse pubbliche e l'acquisizione di utilità sotto forma di beni e servizi; ed estendendolo anche a quei vantaggi di ordine generale che sono sottesi a qualunque iniziativa privata finanziata dall'amministrazione e che, per ciò stesso, non possono che mirare al conseguimento di scopi di interesse pubblico. Si assume, in sostanza, che poiché ogni attività della PA che importa erogazione di provvidenze economiche è finalizzata (sia pure di riflesso) a scopi di interesse pubblico e questi ultimi si sostanziano in benefici collettivi, immediatamente o mediatamente riconducibili all’esercizio del potere, la nozione di “utilità conseguite” andrebbe estesa anche a quei vantaggi generali perseguiti attraverso l’esecuzione di programmi oggetto di finanziamento o di contributo pubblico. 3.2. In base ad un secondo orientamento (cd. restrittivo), la nozione di "utilità conseguite" non sarebbe dilatabile sino al punto da ricomprendervi anche l'ipotesi del finanziamento andato a buon fine mercé l'integrale realizzazione del programma finanziato, e ciò in quanto in tale evenienza l'interesse pubblico risulterebbe essere soltanto “indiretto” (Cons. Stato, sez. III, nn. 1108 e 5578 del 2018). In tal senso, si sottolinea la differenza che sussiste tra i rapporti contrattuali, come quelli derivanti dalla stipula di contratti di appalto, in cui è più evidente il nesso di corrispettività sussistente fra le reciproche prestazioni; e le erogazioni di benefìci pubblici derivanti da atti unilaterali, in cui la reciprocità degli impegni e la corrispettività delle prestazioni offerte risulta certamente più attenuata. Ed anche il termine “utilità” deve essere colto in un senso più limitato e strettamente patrimoniale, tale, dunque, da applicarsi alle sole opere o ai soli servizi che accrescono il patrimonio dell’Amministrazione e che per quest’ultima rappresentano un valore economicamente valutabile: dal che discende l’applicabilità della disciplina di salvezza di cui all’art. 92 comma 3 ai soli contratti di appalto nei quali la pubblica Amministrazione è parte committente. 3.3. Il Giudice remittente rileva come l’art. 92 comma 3 contenga “indici testuali e sistematici che depongono a favore della seconda delle due tesi sopra illustrate (l’orientamento restrittivo)”. E ciò sia per argomenti di carattere semantico-testuale, sia per argomenti di tipo logico – sistematico. Quanto ai primi: a1) - l’elemento lessicale della “utilità conseguita”, più che alludere all’effetto conseguente alla mera esecuzione di una attività programmata, sembra rinvenire la sua specifica accezione nell’effetto positivo, residuale e incrementale, che ridonda all’esito di tale attività e si riconduce alla sfera giuridica dell’accipiens, singolarmente considerato; a2) - di contro, è lecito ritenere che se la disposizione normativa avesse inteso premiare con lo ius retentionis un impiego delle risorse erogate conforme alla destinazione programmata, essa si sarebbe limitata a rendere testualmente questo concetto, senza introdurre la più stringente (e a questo punto surrettizia) nozione di “utilità conseguite”; a3) - il valore disgiuntivo da attribuire all’espressione “o recedono dai contratti”, contenuta sia nell’art. 92 comma terzo, sia nell’art. 94 secondo comma del codice antimafia, rende poi l’inciso finale dei due commi più verosimilmente riferibile ai soli “contratti” e non anche alle autorizzazioni ed alle concessioni, ovvero ai contributi, ai finanziamenti ed alle agevolazioni (v. Cons. Stato, Sez. III, sentenza n. 5578 del 2018); a4) - anche il concetto di “esecuzione” delle “opere” dal quale l’amministrazione trae “utilità”, sembra riferibile ad una condizione di reciprocità delle prestazioni corrispettive, scarsamente compatibile con l’ipotesi di un’erogazione o di un finanziamento destinato a beneficio riflesso non di uno specifico ente od apparato della P.A, ma della indistinta collettività pubblica”. Quanto ai secondi: b1) “il comma 3 dell’art. 92 . . . riconosce al soggetto attinto dall’informativa antimafia non già il diritto a ritenere l’erogazione nella misura corrispondente al valore dell’investimento realizzato, come sarebbe logico se la sola conformità allo scopo programmato realizzasse la “utilità” pubblica insita nel programma di finanziamento, in quanto tale meritevole di preservazione”; al contrario “ciò che il comma 3 riconosce al soggetto interdetto è, diversamente, il diritto a vedersi corrisposto un compenso limitato all’utilità conseguita dall’amministrazione, onde evitare che quest’ultima, dall’esecuzione dell’opera, possa trarre un ingiustificato arricchimento (v. Cass., sez. un, n. 28345/2008). L’investimento realizzato “in conformità al programma” di finanziamento non coincide quindi con la “utilità conseguita”, che è nozione riferibile ad una parte specifica e da questa apprezzabile attraverso il filtro selettivo di una valutazione di “convenienza”, tipica dell’operatore economico-giuridico “individuale”; b2) “l’interpretazione che considera come utilità da preservare l’investimento realizzato “in conformità al programma” di finanziamento, sottende una tacita o implicita abrogazione dell’art. 92 comma 3 (e della clausola di salvezza ivi contenuta), in quanto il mancato raggiungimento dello scopo pubblico per il quale il finanziamento viene erogato costituisce ragione di per sé sufficiente per farne discendere la revoca, senza alcuna necessità di attingere allo strumentario offerto dalla normativa antimafia (così Cons. Stato, sez. III, n. 5578/2018)”; b3) “sul piano applicativo, lo ius retentionis appare razionalmente giustificabile nel contesto di prestazioni corrispettive, preventivamente concordate dalle parti in quanto rispondenti ai loro specifici interessi. La stabilizzazione dei relativi effetti costituisce, in siffatto contesto, una scelta di minor costo e di sicuro vantaggio rispetto a quella del ripristino dello status quo ante; ed il mantenimento delle prestazioni eseguite preserva l'equilibrio contrattuale senza che si renda necessaria alcuna restituzione. Nell’ipotesi del contributo pubblico, al contrario, l’utilità riflessa che da tale investimento può refluire a vantaggio della collettività è in molti casi condizionata dall’ampiezza della platea dei soggetti privati che aderiscono ai programmi di finanziamento, dalla reiterazione di analoghe contribuzioni nel tempo e dalla convergente e sistematica esecuzione delle misure facenti capo ad una medesima azione strategica. Ne viene che le ricadute positive - apprezzabili ex post sotto forma di benefici generali, indiretti e di lunga durata, poiché riguardanti ampi settori della dimensione collettiva (l’ambiente, l’agricoltura, l’imprenditoria, etc..) - possono essere stimate solo attraverso parametri macroeconomici ad esse congruenti, proporzionati alla tipologia, all’estesa latitudine degli interventi programmati e alla loro distribuzione nel lungo periodo. Si tratta di dati che inevitabilmente eccedono il singolo progetto finanziabile e rendono assai evanescente o difficilmente percepibile il riflesso di “utilità su scala collettiva” che lo stesso è in grado di generare”. b4) inoltre, “anche un’interpretazione “estensiva” della clausola di salvaguardia imporrebbe, in ogni caso, una verifica in concreto del fatto che le risorse concesse siano state impiegate in modo effettivamente vantaggioso per l’interesse pubblico e rispondente alle finalità sottese al programma di finanziamento”. 3.4. Agli argomenti desumibili dall’esegesi dell’art. 92 comma 3, il Giudice remittente aggiunge ulteriori considerazioni. 3.4.1. La prima di queste attiene all’incidenza del fattore “temporale” sul carattere “precario” del beneficio erogato, che tale (cioè precario) rimane sino al definitivo compimento del programma agevolato. “Sul punto, il più restrittivo dei due orientamenti ermeneutici sostiene che la pretesa restituzione delle somme erogate è giustificata proprio dal carattere ontologicamente “provvisorio” del beneficio erogato e dal fatto che tale provvisorietà è destinata a protrarsi sino al momento della definitiva chiusura del programma agevolato (Tar Catania, n. 2132/2017). Il provvedimento di revoca viene infatti adottato in attuazione dell’art. 92, comma 3, d.lgs. 159/2011, stando al quale i contributi, i finanziamenti, le agevolazioni e le altre erogazioni di cui all'articolo 67 sono corrisposti sotto “condizione risolutiva” di una eventuale informazione antimafia positiva intervenuta successivamente al pagamento. Poiché, quindi, i contributi risultano “concessi in via provvisoria”, l’atto cd. di “revoca” non rappresenta affatto (come farebbe pensare il nomen) un nuovo provvedimento, di secondo grado, adottato in autotutela dall’Amministrazione, nell’esercizio di un potere discrezionale; ma un mero atto ricognitivo che constata l’avvenuta verificazione della “condizione risolutiva” afferente al contributo ancora “precario”. Per l’effetto, risulta improprio ogni richiamo agli artt. 21-quinquies e 21-nonies L. n. 241/1990 – che riguardano rispettivamente i provvedimenti di revoca (in senso proprio) e di annullamento adottabili giustappunto nell’esercizio di un potere di autotutela; e altresì inappropriato risulta ogni riferimento al principio dell’affidamento, che mai potrebbe sorgere a fronte dell’originario provvedimento di concessione “in via provvisoria” del contributo (Tar Catania, sez. IV, n. 2132/2017). Soltanto rispetto alla produzione in via definitiva degli effetti del provvedimento di concessione e, quindi, solo al compimento di tutte le procedure di contabilizzazione e di chiusura della procedura di finanziamento, potrebbe essere invocato un effetto di “stabilizzazione” del beneficio astrattamente opponibile al potere interdittivo”. A fronte di tali argomentazioni, “il più estensivo orientamento obietta che, anche a voler condividere l'ottica della provvisorietà del beneficio economico, tale condizione iniziale dovrebbe pur sempre avere una durata definita nel tempo, affinché "ciò che nasce provvisorio diventi il prima possibile definitivo; pena, altrimenti, l'impossibilità di qualunque previsione e di qualunque calcolo da parte di cittadini ed imprese". Dunque, il sopraggiungere dell'informativa negativa non potrebbe sortire effetti preclusivi nei confronti di un rapporto di durata che si sia ormai in massima parte dispiegato, raggiungendo gli obiettivi prefissati dalla stessa amministrazione. Questa soluzione viene ritenuta particolarmente calzante al caso dei rapporti cd. “esauriti”, o che tali sarebbero dovuti essere da tempo e non lo siano divenuti per ragioni imputabili alla pubblica amministrazione. Sottesa all’impostazione in esame è la preoccupazione che i ritardi e le inefficienze dell’azione amministrativa vengano premiati e persino incentivati, andando a ledere le garanzie fondamentali delle parti private”. 3.4.2. Una seconda argomentazione riguarda la compatibilità delle diverse opzioni con quanto affermato dall'Adunanza plenaria con la sentenza n. 3 del 2018, secondo la quale il provvedimento di c.d. "interdittiva antimafia' determina, in capo al soggetto (persona fisica o giuridica) che ne è colpito, una particolare forma di incapacità ex lege, parziale (in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la pubblica amministrazione) e tendenzialmente temporanea, con la conseguenza che al soggetto stesso è precluso avere con la pubblica amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall'art. 67, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. Il Giudice rimettente si chiede “se l'adesione al più estensivo dei richiamati orientamenti giurisprudenziali (che ammette la ritenzione delle somme percepite in forza di un programma di finanziamento interamente realizzato) risulti compatibile con la linea di estremo rigore che caratterizza oramai la giurisprudenza dell'Adunanza plenaria, la quale riconnette all'adozione dell'informativa interdittiva una sorta di incapacità giuridica parziale a carico del soggetto che ne è colpito”. A tal proposito, la sentenza non definitiva rileva come il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, con sentenza n. 3/2019, “pur non disattendendo in modo espresso le statuizioni rese dall'Adunanza plenaria, ne sterilizza l’effettiva incidenza, giustificando tale soluzione in ragione della peculiarità del caso di specie esaminato” e ciò in quanto i princìpi di diritto di cui alla sentenza n. 3 del 2018 (che prendono le mosse dalla ritenuta incapacità giuridica parziale ad accipiendum in capo all'operatore attinto da un'informativa interdittiva) non potrebbero comunque valere "per i rapporti esauriti o che sarebbero dovuti esserlo da tempo e che non lo sono stati per ragioni imputabili alla pubblica amministrazione". Se così non fosse – si sostiene - il complessivo regime normativo in tema di comunicazioni e informazioni antimafia determinerebbe inammissibili profili di incertezza e insicurezza nei traffici giuridici; e detta incertezza si protrarrebbe di fatto sine die anche laddove - come nel caso scrutinato dalla sentenza n. 3/2019 - sia decorso un tempo rilevante e la stessa amministrazione abbia adottato nel tempo informative di carattere liberatorio nei confronti dell'operatore economico. Sul punto, il Giudice remittente rileva una contraddizione tra la pronuncia n. 3/2018 di questa Adunanza Plenaria e la citata giurisprudenza del Consiglio di giustizia amministrativa, ed afferma: “da un lato (Adunanza Plenaria), si assume che l'adozione di un'informativa interdittiva nei confronti di un operatore determina sempre e comunque in capo allo stesso uno stato di parziale incapacità giuridica, sì da determinare "la insuscettività .. ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che determinano (sul proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione”. Da parte del giudice d’appello siciliano si osserva, di contro, che la forma di incapacità elaborata dall’Adunanza plenaria conosce taluni limiti di ordine pubblico economico come, ad esempio, quelli conseguenti all'integrale realizzazione del programma beneficiato, al lungo tempo trascorso ovvero al rilascio in favore della medesima impresa di precedenti informative di carattere liberatorio”. Osserva il Collegio remittente che “tali limiti di ordine pubblico non risultano adeguatamente tracciati e motivati nei loro presupposti, ma rimessi ad una valutazione “casistica” ed “equitativa” formulabile dal giudice in relazione alle singole fattispecie esaminate”. Viene precisato: a) “Quanto al carattere “esaurito” del rapporto giuridico, esso, come si è visto, non è predicabile nel caso in cui le risorse siano state impiegate solo in parte ovvero il programma finanziato sia ancora in corso di conclusione. Peraltro, l’eventuale “esaurimento” del rapporto, anche laddove effettivamente sussistente, non dissolverebbe ogni dubbio interpretativo, se è vero che nel ragionamento svolto dall’Adunanza Plenaria l’effetto inabilitante dell’interdittiva è tale da travolgere retroattivamente qualunque utilità promanante dalla pubblica amministrazione, persino se riconosciuta al privato con sentenza passata in giudicato (di per sé insensibile ad ogni sopravvenienza, eccettuate quelle che non si siano verificate prima della sua notifica)” b) “gli argomenti di contrasto all’ipotesi di uno ius retentionis esteso anche all’erogazione di contributi pubblici paiono superabili - a giudizio di questo Collegio - solo a condizione di ampliare la portata della clausola di salvezza delle “utilità conseguite” di cui all’art. 92 comma 3, poiché in questa specifica eventualità l’eccezione al generale effetto “inabilitante” del provvedimento antimafia potrebbe giustificarsi sulla base del dettato normativo e non richiederebbe, pertanto, alcun intervento di ortopedia correttiva dei principi affermati dall’Adunanza plenaria”;; c) “una siffatta lettura estensiva appare . . . difficilmente coniugabile con il principio secondo il quale le disposizioni che introducono una eccezione o deroga ad un principio generale devono soggiacere ad una regola di stretta interpretazione. Nell’ambito della normativa antimafia, l’effetto inabilitante conseguente alla interdittiva è regola generale nei rapporti con la pubblica amministrazione – o come tale si connota nella lettura che ne ha reso nel 2018 l’Adunanza plenaria; mentre la salvezza prevista dall’art. 92 comma 3 d.lgs. 159/2011 è una eccezione a tale effetto inabilitante oltre che alla regola generale della retroattività della revoca del rapporto in essere tra parte pubblica e parte privata. Ne viene che detta eccezione è apprezzabile nei ristretti e tassativi limiti delle ipotesi in essa espressamente contemplate”. 4. Sulla base di tutte le argomentazioni esposte – e rilevato il contrasto di giurisprudenza – la Sezione Terza ha deferito il ricorso in appello (per la parte non già decisa con la sentenza non definitiva) all’Adunanza Plenaria perché la stessa possa, in particolare, pronunciarsi sul seguente quesito: “se il limite normativo delle “utilità conseguite”, di cui all'inciso finale contenuto sia nell'art. 92 comma terzo, sia nell'art. 94 secondo comma del D. Lgs. n.159/2011, è da ritenersi applicabile ai soli contratti di appalto pubblico, ovvero anche ai finanziamenti e ai contributi pubblici erogati per finalità di interesse collettivo”. 4.1. E’ intervenuta in giudizio la ditta individuale -OMISSIS- Domenico Antonino, che ha precisato come il proprio interesse ad intervenire ad opponendum nel presente giudizio è un interesse diretto e non correlato alla sola circostanza che lo stesso sia parte in un giudizio pendente avanti al Consiglio di giustizia amministrativa”, poiché tale Giudice, dopo avere riservato in decisione la controversia della quale la ditta -OMISSIS- è parte, “ha rimesso la causa sul ruolo motivando che vi è necessità, ai fini della decisione, di attendere la decisione” dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (ord. n. 336/2020). Infine, all’udienza pubblica di discussione, la causa è stata riservata in decisione. DIRITTO 5. L’Adunanza Plenaria deve, innanzi tutto, dichiarare l’inammissibilità dell’intervento ad opponendum della ditta -OMISSIS-. Quest’ultima afferma di spiegare il proprio intervento sulla base dell’art. 28, co. 2, cpa, in base al quale “chiunque non sia parte del giudizio e non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni, ma vi abbia interesse, può intervenire accettando lo stato e il grado in cui il giudizio si trova”. Afferma, in particolare, di avere “certamente un interesse diretto rispetto al giudizio in cui interviene ad opponendum rispetto all’appello proposto dall’appellante AGEA atteso che il proprio giudizio . . . vertente sul medesimo principio di diritto . . . è stato rinviato per la decisione” in attesa della pronuncia di questa Adunanza Plenaria (v. pag. 3 atto di intervento del 30 giugno 2020). Orbene, come questa Adunanza Plenaria ha già avuto modo di affermare (sentenze 27 febbraio 2019 n. 4; 30 agosto 2018 n. 13 e 4 novembre 2016 n. 23), non è sufficiente a consentire l'istanza di intervento la sola circostanza per cui il proponente tale istanza sia parte in un giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella divisata nell'ambito del giudizio principale. Osta, infatti, in modo radicale a tale riconoscimento l'obiettiva diversità di petitum e di causa petendi che distingue i due procedimenti, sì da non configurarsi in capo al richiedente uno specifico interesse all'intervento nel giudizio ad quem. Si è chiarito (Ad. Plen. n. 23/2016 cit.) che "laddove si ammettesse la possibilità di spiegare l'intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi, si finirebbe per introdurre nel processo amministrativo una nozione di interesse del tutto peculiare e svincolata dalla tipica valenza endoprocessuale connessa a tale nozione e potenzialmente foriera di iniziative anche emulative, in toto scisse dall'oggetto specifico del giudizio cui l'intervento si riferisce". Non a caso, del resto, in base ad un orientamento del tutto consolidato della giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (da ultimo, Sez. IV, 30 giugno 2020 n. 4134; Sez. V, 1 aprile 2019 n. 2123; Cons. giust. amm., 1 aprile 2019 n. 301), nel processo amministrativo l'intervento, ad adiuvandum o ad opponendum, può essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale. Le considerazioni innanzi esposte non mutano per il solo fatto che il Giudice innanzi al quale pende il giudizio, in cui è parte chi (successivamente) spiega intervento innanzi all’Adunanza Plenaria, abbia ritenuto di disporre la sospensione del medesimo, in attesa della enunciazione del principio di diritto, cui conformare la propria successiva pronuncia. Si tratta, in questo caso, di sospensione disposta dal Giudice, ai sensi degli articoli 79, co. 1, cpa e 295 cpc., che, per un verso, è sorretta da ponderate ragioni di opportunità e, per altro verso, non incide direttamente sul thema decidendum, ma consente al medesimo Giudice di vagliare gli approdi cui perviene l’Adunanza Plenaria in funzione nomofilattica. Ciò, per di più, senza che la pronuncia attesa possa inevitabilmente condizionare l’esito del giudizio in cui è parte chi ha spiegato intervento, ben potendo il Giudice di tale controversia non condividere il principio di diritto enunciato e disporre ai sensi dell’art. 97, co. 3 cpa. Per le ragioni esposte, l’intervento deve essere, dunque, giudicato inammissibile. 6. L’Adunanza Plenaria ritiene che la salvezza del “pagamento delle opere già eseguite e il rimborso del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”, di cui agli articoli 92, co. 3, e 94, co. 2, del d. Lgs. n.159/201 (così precisata la questione di diritto ad essa sottoposta) vada riferita solo al recesso dai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, con esclusione, dunque, delle ipotesi riconnesse alla concessione di finanziamenti pubblici o simili. Occorre precisare, preliminarmente, che la questione deferita all’esame dell’Adunanza Plenaria dalla Sezione nei seguenti termini - “se il limite normativo delle “utilità conseguite”, di cui all'inciso finale contenuto sia nell'art. 92 comma terzo, sia nell'art. 94 secondo comma del D. Lgs. n.159/2011, è da ritenersi applicabile ai soli contratti di appalto pubblico, ovvero anche ai finanziamenti e ai contributi pubblici erogati per finalità di interesse collettivo” - abbisogna di una diversa e più ampia formulazione. Le disposizioni considerate prevedono, in modo sostanzialmente simile, che i soggetti di cui all’art. 83, nel caso di informazione antimafia interdittiva, “revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti, fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”. Stabilire, dunque, se “il limite normativo” delle “utilità conseguite” si riferisca solo ai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, oppure anche ai finanziamenti e contributi pubblici, così come richiede il Giudice del deferimento, presuppone innanzi tutto stabilire se la salvezza “del pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente” si riferisca solo ai predetti contratti o anche ai finanziamenti. Difatti, è la “salvezza” del pagamento il vero “limite” normativo (ovvero l’eccezione agli effetti della revoca e del recesso dai contratti), contribuendo invece il limite delle “utilità conseguite” solo alla definizione del “quantum” di una salvezza già verificata sussistente. In sostanza, è solo nei casi in cui si riconosce la salvezza del pagamento (“an” dell’eccezione alla revoca e al recesso) che può poi verificarsi il limite (il “quantum”) del pagamento da disporre, di modo che, sul piano logico-giuridico – e proprio per dare compiuta risposta alla questione di diritto deferita – occorre: - in primo luogo, stabilire se la “salvezza” del pagamento, nei termini normativamente previsti, si applichi solo ai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture ovvero anche alle concessioni di finanziamenti e contributi (essendo più propriamente questa la questione da risolvere); - in secondo luogo, e solo in caso di esito positivo della prima verifica, occorre stabilire - al fine di definire il quantum di un pagamento già riconosciuto (salvato) nell’”an” - cosa si intenda per utilità conseguita. Che poi quest’ultimo aspetto possa costituire argomento a sostegno della soluzione ermeneutica è fuor di dubbio, ma si tratta di argomento “di rinforzo” per una o l’altra soluzione, laddove il problema dell’ambito di applicazione della norma di eccezione (e dunque la vera questione oggetto di esame da parte dell’Adunanza Plenaria) riguarda la salvezza del pagamento, e non già, almeno in prima battuta, il significato e la misura delle utilità conseguite dall’amministrazione con riguardo all’interesse pubblico. 7. Tanto precisato in ordine alla questione sottoposta al presente giudizio, occorre ricordare che, con sentenza 6 aprile 2018 n. 3, questa Adunanza Plenaria ha già avuto modo di affermare, formulando il “principio di diritto”, che il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” determina una particolare forma di incapacità giuridica in ambito pubblico, e dunque la insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che, sul loro cd. “lato esterno”, determinino rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione. Come è stato affermato, si tratta di una incapacità prevista dalla legge a garanzia di valori costituzionalmente garantiti – in equilibrata ponderazione tra libertà di impresa e tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale (Cons. Stato, sez. III, 9 febbraio 2017 n. 565, ricordata anche da Corte cost., n. 27 marzo 2020 n. 57) - e conseguente all’adozione di un provvedimento che giunge all’esito di un procedimento normativamente tipizzato e nei confronti del quale sono previste indispensabili garanzie di tutela giurisdizionale del soggetto di esso destinatario. Tale incapacità è: - parziale, in quanto limitata ai rapporti giuridici con la pubblica amministrazione (di modo che può parlarsi di una sorta di “incapacità giuridica pubblica”), ed anche nei confronti di questa limitatamente a quelli di natura contrattuale, ovvero intercorrenti con esercizio di poteri provvedimentali, e comunque limitatamente ai precisi casi espressamente indicati dalla legge (art. 67 d. lgs. n. 159/2011); - tendenzialmente temporanea, potendo venire meno per il tramite di un successivo provvedimento dell’autorità amministrativa competente (e la temporaneità della misura e dunque delle sue conseguenze in termini di incapacità assume un carattere particolarmente rilevante ai fini della compatibilità costituzionale: Corte cost., n. 57/2020 cit.). 7.1. Il legislatore ha adottato, dunque, un sistema di estremo rigore, onde evitare che le pubbliche amministrazioni (o, più precisamente, i soggetti indicati all’art. 83, co. 1 e 2 del d. lgs. n. 159/2011) possano entrare in contatto con soggetti colpiti da cause di decadenza, di sospensione o di divieto, di cui all’art. 67, ovvero che siano destinatari di un tentativo di infiltrazione mafiosa; e ciò al fine di evitare che tali soggetti possano condizionare le scelte e gli indirizzi delle amministrazioni pubbliche, ledendo i principi di legalità, imparzialità e buon andamento riconosciuti dall’art. 97 Cost., ovvero possano incidere sul leale e corretto svolgimento della concorrenza tra imprese ovvero ancora possano appropriarsi a qualunque titolo di risorse pubbliche (beni, danaro o altre utilità). Di qui la costruzione della condizione del soggetto destinatario della informazione antimafia come una forma di incapacità (nei sensi innanzi descritti), il che comporta – alla luce della disciplina speciale di cui al d. lgs. n. 159/2011 - l’insuscettività di avere rapporti, in particolare patrimoniali, con la pubblica amministrazione (nei sensi e limiti innanzi precisati) e la nullità dei negozi eventualmente posti in essere – in violazione dell’interdittiva - da o con il soggetto incapace. 7.2. Tale forma di incapacità, di natura temporanea (che dura, come si è detto, fino all’adozione di un diverso provvedimento da parte dell’autorità competente), non può essere nemmeno esclusa nel caso di rapporti intrattenuti con la pubblica amministrazione che avrebbero dovuto essere esauriti da tempo e che non lo sono stati per ragioni imputabili alla stessa pubblica amministrazione (ad esempio, un ritardo nella rendicontazione e, dunque, nell’emissione del provvedimento di definitiva attribuzione dell’ausilio finanziario, così desumendo dall’ipotesi dell’esclusione l’impossibilità del recupero di somme già erogate ovvero della mancata erogazione di somme a fronte di opere oggetto di finanziamento già eseguite dal privato). Si è affermato (Cons. giust. amm. 4 gennaio 2019 n. 3) che, in difetto di esclusione in tali casi dell’incapacità derivante dall’interdittiva antimafia, “i ritardi e le inefficienze dell’azione amministrativa sarebbero premiati e persino incentivati, ledendo le garanzie fondamentali delle parti private . . . e contribuendo a determinare un senso di incertezza ed insicurezza nei traffici commerciali e nella serietà degli impegni giuridici, che concorre a definire il grado di legalità di un Paese”. Con riferimento a tali considerazioni , occorre osservare, innanzi tutto, che la interdittiva antimafia attiene ad una valutazione del soggetto in quanto tale, al di là del singolo rapporto intrattenuto con l’amministrazione pubblica, e che, ove sopravvenuta, riverbera le proprie conseguenze ab externo su tale rapporto. Non si tratta, dunque, del riconoscimento alla pubblica amministrazione di un potere autoritativo, unilateralmente e discrezionalmente (se non liberamente) esercitato onde influire sul rapporto instaurato con il privato, bensì dell’accertamento dell’insussistenza della capacità del soggetto (per pericolo di infiltrazioni mafiose) ad essere titolare di rapporti con la pubblica amministrazione. Benché intervenga in occasione di uno specifico rapporto con l’amministrazione, tale accertamento ha per oggetto fenomeni a questo esterni (e non afferenti al contenuto del provvedimento o del negozio giuridico), i quali coinvolgono, più in generale, la persona (fisica o giuridica) del privato, determinando una forma di incapacità del soggetto. Ne consegue che l’accertamento del fenomeno di infiltrazione mafiosa, stante la sua descritta natura, non può essere imputato (anche se eventualmente intervenuto al di là del termine previsto) di “determinare un senso di incertezza e di insicurezza nei traffici commerciali e nella serietà degli impegni giuridici”. E ciò in quanto corre una evidente differenza tra l’intervento unilaterale sull’oggetto del rapporto giuridico (che potrebbe determinare, ancor di più ove non temporizzato, una “incertezza e insicurezza nei traffici commerciali e nella serietà degli impegni giuridici”) e la verifica della sussistenza della capacità di chi, anche di quel rapporto, è parte. E in aggiunta a ciò va ricordato come le norme evidenzino in modo chiaro e netto la precarietà del rapporto instaurato con il privato non ancora provvisto di dichiarazione antimafia, e dunque a provvisorietà degli effetti derivanti dagli atti adottati. Nel caso considerato, è la pubblica amministrazione a dover essere tutelata da soggetti che presentano le caratteristiche dell’infiltrazione mafiosa. Né si tratta di “premiare” o “incentivare” – per il tramite della impossibilità di adempiere le obbligazioni pecuniarie dell’amministrazione nei confronti del soggetto incapace – “i ritardi e le inefficienze dell’azione amministrativa”, bensì di non pregiudicare l’interesse pubblico e valori costituzionalmente tutelati e riconosciuti procedendo o continuando ad attribuire o consentendo di ritenere benefici economici ad un soggetto che si è accertato essere suscettibile di infiltrazioni mafiose. D’altra parte, come è noto, l’ordinamento prevede plurimi strumenti di tutela, amministrativa e giurisdizionale (si pensi, tra gli altri, a quanto previsto dall’art. 2 della legge n. 241/1990 ovvero all’azione avverso il silenzio inadempimento della pubblica amministrazione, prevista dagli articoli 31 e 117 cpa), che consentono al privato in rapporto con la pubblica amministrazione di uscire dallo stato di incertezza derivante dal ritardo dell’azione amministrativa. L’affermazione della incapacità conseguente a informativa antimafia interdittiva, nei limiti innanzi ricordati, non può incontrare, dunque, un limite costituito da quei rapporti con la pubblica amministrazione che, ancorché non esauriti, sarebbero dovuti esserlo da tempo ma che non lo sono per causa imputabile ad eventuali ritardi della stessa amministrazione. Fermo quanto innanzi affermato, l’incapacità non può incontrare limiti di ordine pubblico economico (integrale realizzazione del programma beneficiato, lungo tempo trascorso, rilascio in favore della medesima impresa di precedenti informative di carattere liberatorio), posto che – come condivisibilmente affermato dal Giudice remittente - “tali limiti di ordine pubblico non risultano adeguatamente tracciati e motivati nei loro presupposti, ma rimessi ad una valutazione “casistica” ed “equitativa”, formulabile dal giudice in relazione alle singole fattispecie esaminate”. Limiti, dunque, che – oltre a non trovare conforto nelle previsioni normative – contribuirebbero a rendere incerte le conseguenze dell’interdittiva antimafia e, in primis, l’ambito stesso dell’incapacità nei confronti della pubblica amministrazione. 8. Da quanto esposto consegue che – a fronte dell’estremo rigore risultante dal complessivo sistema normativo disciplinante l’informazione antimafia e le sue conseguenze (posto, lo si ribadisce, a tutela di essenziali valori costituzionali) – costituiscono norme di eccezione, e come tali di stretta interpretazione (ex art. 14 disp. prel. cod. civ.: v. Cons. Stato, sez. IV, 28 ottobre 2011 n. 5799), quelle che, pur in presenza di una riconosciuta situazione di incapacità, consentono la conservazione da parte di un soggetto destinatario di informazione interdittiva di attribuzioni patrimoniali medio tempore eventualmente acquisite ovvero la possibilità di procedere alla loro dazione da parte delle pubbliche amministrazioni. Pertanto, l’esame ermeneutico degli articoli 92, co. 3 e 94, co. 2 del d lgs. n. 159/2011, nella parte in cui questi consentono la salvezza del “pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite” – da accertare se con riferimento ai contratti da cui si recede ovvero anche ai finanziamenti o simili medio tempore erogati – deve rispondere alla regola di stretta interpretazione propria delle norme di eccezione. 9. In aggiunta a quanto ora esposto, occorre rilevare che gli articoli più volte citati disciplinano, di per sé, non già la situazione “ordinaria” di particolari rapporti giuridici con le pubbliche amministrazioni, bensì una situazione che costituisce già essa stessa “deroga” all’ordinario procedimento volto alla adozione di atti ovvero alla costituzione di rapporti contrattuali. 9.1. La disciplina ordinaria, infatti, prevede che il rilascio di autorizzazioni, concessioni, ovvero la stipula di contratti o subcontratti (v. art. 91 d. lgs. n. 159/2011), da parte dei soggetti pubblici di cui all’art. 83, deve essere preceduta necessariamente dalla acquisizione dell’informazione antimafia. E ciò proprio al fine di realizzare quelle finalità di tutela di valori costituzionalmente previsti, innanzi ricordate. A fronte di ciò, tuttavia, si è prevista una disciplina (che si è definita “derogatoria”), che consente - nel caso in cui il Prefetto non abbia provveduto a comunicare l’informazione antimafia entro i termini previsti dall’art. 92, co. 2, ovvero nei casi di urgenza (“lavori o forniture di somma urgenza”, come si esprime l’art. 94, co. 2) - ai soggetti pubblici di procedere anche in assenza dell’informazione. Si tratta, in quest’ultimo caso, di un evidente bilanciamento della tutela degli interessi pubblici approntata dalla disciplina antimafia, e segnatamente da quella relativa all’informazione interdittiva, con altri interessi, anch’essi meritevoli di tutela, quali possono essere sia i differenti interessi pubblici alla immediata acquisizione di lavori o forniture o servizi (per la soddisfazione di ulteriori interessi pubblici cui questi ultimi sono destinati), sia gli stessi interessi del privato che entra in contatto con la pubblica amministrazione, il quale non può ricevere pregiudizio dal ritardo dell’azione amministrativa. Tuttavia, nel caso della disciplina “derogatoria”, proprio perché essa consente di procedere alla instaurazione di rapporti con un privato del quale, allo stato, non si conosce la sussistenza della capacità ad avere tali rapporti con la pubblica amministrazione, viene altresì cautelativamente precisato che: - “i contributi, i finanziamenti, le agevolazioni e le altre erogazioni di cui all’articolo 67 sono corrisposti sotto condizione risolutiva” e i soggetti pubblici “revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti” (art. 92, co. 3) - “la revoca e il recesso . . . si applicano anche quando gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto, alla concessione dei lavori o all’autorizzazione del subcontratto” (art. 92, co. 4). In sostanza, ciò che, in contemperamento della pluralità di esigenze connesse alla tutela di interessi pubblici e privati, viene effettuato dai soggetti di cui all’articolo 83 (rilascio di autorizzazioni o concessioni, erogazione di contributi e simili, stipulazione di contratti) avviene sotto la rigida condizione dell’accertamento della stessa capacità del soggetto privato ad essere parte del rapporto con la pubblica amministrazione, con la ovvia conseguenza che – laddove per il tramite dell’informazione antimafia interdittiva tale capacità venga accertata come insussistente – non possono che manifestarsi in termini di nullità sia i provvedimenti amministrativi rilasciati (per difetto di un elemento essenziale del medesimo, ex art. 21-septies l. n. 241/1990), sia il contratto stipulato con soggetto incapace. Giova precisare che ciò che consegue alla interdittiva antimafia non costituice un “fatto” sopravvenuto che determina la revoca del provvedimento emanato ovvero la risoluzione del contratto per factum principis, bensì il (pur tardivo) accertamento della insussistenza della capacità del soggetto ad essere parte del rapporto con l’amministrazione pubblica: quella incapacità che – laddove fosse stata, come di regola, previamente accertata – avrebbe escluso in radice sia l’adozione di provvedimenti sia la stipula di contratti. In questo senso, può concordarsi con quanto affermato dalla sentenza parziale che ha disposto il deferimento, laddove la stessa ritiene che “poiché i contributi risultano concessi in via provvisoria, l’atto c.d. di revoca non rappresenta affatto (come farebbe pensare il nomen) un nuovo provvedimento adottato in autotutela dall’amministrazione nell’esercizio di un potere discrezionale, ma un mero atto ricognitivo che constata l’avvenuta verificazione della condizione risolutiva afferente al contributo ancora precario”. E ciò con la sola precisazione che le disposizioni degli articoli 92 e 94 intendono affermare per il tramite del non appropriato riferimento agli istituti della “revoca” (del provvedimento) e del “recesso” (dal contratto), che l’accertamento dell’intervenuta “condizione risolutiva” altro non è che l’accertamento successivo (consentito dalla legge) dell’incapacità giuridica del soggetto ad essere destinatario di provvedimenti amministrativi ovvero ad essere parte del contratto ad evidenza pubblica. A ciò consegue, quanto ai provvedimenti di concessione di benefici economici, comunque denominati, che l’intervenuto accertamento dell’incapacità del soggetto, cui si riconnette la “precarietà” degli effetti dei medesimi, espressamente enunciata dalle norme, esclude che possa esservi legittima ritenzione delle somme da parte del soggetto beneficiario (ma giuridicamente incapace). Né è possibile ipotizzare, in presenza di un chiaro riferimento normativo alla “precarietà” dei provvedimenti adottati o del provvedimento stipulato, l’insorgere di un “affidamento” in capo al soggetto privato. Allo stesso modo, nelle ipotesi di contratto stipulato con la pubblica amministrazione, l’accertamento dell’incapacità comporta l’insuscettività dello stesso ad essere fonte di obbligazioni in capo alla pubblica amministrazione nei confronti del soggetto incapace. 9.2. A tale assetto degli effetti, discendente dai principi generali e dalla specifica normativa antimafia, è la stessa disciplina antimafia a prevedere talune “eccezioni”: - gli articoli 92, co. 4 e 94, co. 2 (oggetto del quesito deferito a questa Adunanza Plenaria), prevedono testualmente che i soggetti di cui all’art. 83 “revocano le autorizzazioni o le concessioni o recedono dai contratti fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”; - l’art. 94, co. 3 dispone che i soggetti di cui all’art. 83 “non procedono alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente nel caso in cui l’opera sia in corso di ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi”. Si tratta, come è evidente, di norme “di eccezione” ai principi generali, rese necessarie dai “postumi” dell’applicazione di una disciplina essa stessa “derogatoria” (e dunque essa stessa “eccezionale”) rispetto all’ordinario modus procedendi imposto all’amministrazione (quella, cioè, che ha consentito di emanare i provvedimenti e/o di stipulare i contratti in assenza della tempestiva informativa antimafia). Si tratta, dunque, di norme di strettissima interpretazione: - sia in ossequio all’art. 14 delle cd. preleggi; - sia in considerazione del fatto che esse, in concreto, consentono l’inverarsi di attribuzioni patrimoniali in favore di un soggetto incapace, ed altresì (a voler tacere del dirimente aspetto dell’incapacità) prive di una causa di attribuzione positivamente apprezzata dall’ordinamento (non potendo l’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione essere curato e/o realizzato per il tramite di soggetti, oltre che mafiosi, anche solo esposti al rischio di infiltrazione mafiosa); - sia, infine, perché tali attribuzioni intervengono in accertato pericolo per valori primari dell’ordinamento, costituzionalmente tutelati. 9.2.1. Nel primo caso, occorre evidenziare – necessariamente precisando, come si è innanzi anticipato (sub par. 6) l’oggetto del quesito sottoposto all’Adunanza Plenaria – che la norma di eccezione riguarda la “salvezza” del pagamento delle “opere già eseguite” ovvero del “rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente”, mentre il riferimento “nei limiti delle utilità conseguite” riguarda il “quantum” dovuto, di modo che, intanto potrà procedersi alla verifica della “utilità conseguita” (dall’amministrazione o, più in generale, dall’interesse pubblico), in quanto si ritenga ammissibile la predetta salvezza. 9.2.2. Fermo quanto innanzi esposto sui limiti afferenti all’interpretazione della normativa in esame, occorre osservare come anche il dato letterale della disposizione si opponga ad una sua estensione dai contratti di appalto ai finanziamenti. La sentenza non definitiva rileva, condivisibilmente, come il valore disgiuntivo da attribuire all’espressione “o recedono dai contratti”, contenuta nelle due disposizioni in esame, “rende poi l’inciso finale dei due commi più verosimilmente riferibile ai soli contratti e non anche alle autorizzazioni e alle concessioni, ovvero ai contributi, ai finanziamenti ed alle agevolazioni”. A ciò va aggiunto, sempre sul piano dell’esame letterale, che la locuzione “fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute” non può che essere riferita unicamente al caso di contratti per i quali, stante l’informazione antimafia interdittiva, si procede al “recesso”. La disposizione parla chiaramente di “opere già eseguite”, ovvero di “spese sostenute per l’esecuzione del rimanente”, con ciò facendo evidente riferimento, per il tramite dei lemmi “opere” ed “esecuzione” ai contratti di appalti di lavori. Occorre anzi precisare che, intanto è possibile l’applicazione della norma (co. 2, che parla di pagamento di “opere già eseguite”) anche ai contratti di servizi e forniture in quanto il successivo comma 3 dell’art. 94 – nel riferirsi, al fine di escluderli, “alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente”, accomuna gli appalti di lavori (“nel caso in cui l’opera sia in corso di ultimazione”) ai contratti di fornitura di beni e di servizi (laddove la loro prosecuzione sia “ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico” e sempre che “il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi”). Ma occorre ancora, e più risolutivamente, aggiungere a quanto esposto che sia le regole che disciplinano la stretta interpretazione delle norme eccezionali, sia la complessa natura delle attribuzioni patrimoniali riconducibili ai “finanziamenti”, escludono che la norma che dispone la possibilità di pagamenti sia riferibile anche alle “concessioni” e, dunque, a questi ultimi. Questa Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 3/2018 (anche a conferma e rafforzamento della propria decisione n. 9/2012), ha affermato (con enunciazione del principio di diritto) in riferimento all’art. 67, co. 1, lett. g), - secondo il quale non possono erogarsi e riceversi “contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate” – che: “la finalità del legislatore è, in generale, quella di evitare ogni “esborso di matrice pubblicistica” in favore di imprese soggette ad infiltrazioni criminali. In sostanza – ed è questa la ratio della norma – il legislatore intende impedire ogni attribuzione patrimoniale da parte della Pubblica Amministrazione in favore di tali soggetti, di modo che l’art. 67, comma 1, lett. g) del Codice delle leggi antimafia non può che essere interpretato se non nel senso di riferirsi a qualunque tipo di esborso proveniente dalla P.A..”. Nel caso considerato nella presente sede, l’operazione interpretativa che dovrebbe comportare l’estensione – per il tramite della presenza nel testo del riferimento alle “concessioni” - della salvezza del pagamento di quanto realizzato sulla base di finanziamenti, comporta sul piano ermeneutico un duplice passaggio estensivo dell’interpretazione: - in primo luogo, quello di estendere la salvezza del pagamento dal caso di recesso dal contratto (in aderenza al quale è prevista nel testo la salvezza dei pagamenti) anche alle “concessioni” precedentemente citate e, come si è già detto, non collocate nel testo con immediata aderenza alla “salvezza”; - in secondo luogo, quello di operare una interpretazione “selettiva” del termine “concessioni”, ritagliando nel più ampio ambito proprio di tale genus, quelle di esse (e solo quelle) che hanno per oggetto attribuzioni patrimoniali (contributi, finanziamenti e simili) dalle quali dipende la “esecuzione di opere”. Si tratta, a tutta evidenza, di una operazione ermeneutica per così dire “di doppio grado”, molto lontana dai limiti propri della interpretazione delle norme eccezionali e, dunque, non consentita. 9.2.3. Le eccezioni di cui agli articoli 92, co. 3 e 94, co. 2 rappresentano una precisa scelta del legislatore, che si giustifica in ragione di un “bilanciamento” delle conseguenze derivanti da una esecuzione del contratto disposta in assenza di informativa antimafia. Se è pur vero che la stipula del contratto e la sua esecuzione sono avvenute “sub condicione”, è altrettanto vero che appare confliggente con evidenti ragioni di equità, oltre che con i princìpi dell’attribuzione causale, addossare tutto il peso delle conseguenze di ciò in capo al privato contraente, consentendo all’amministrazione, che pure ha tenuto un comportamento non coerente con le disposizioni normative (il ritardo nell’informativa antimafia) di conseguire un indebito arricchimento. Allo stesso modo, sono ragioni evidenti di opportuno perseguimento dell’interesse pubblico - inerente all’acquisizione di un’opera ormai terminata, ovvero inerente alla prosecuzione di una fornitura o di un servizio per i quali la sostituzione del soggetto prestatore non potrebbe intervenire in tempi rapidi – quelle che sorreggono l’art. 94, co. 3, evitando in via eccezionale “revoche” e “recessi”. Ed in quest’ultimo caso, le ragioni che sorreggono la prosecuzione del contratto, proprio perché questa costituisce una forte eccezione alle normali conseguenze dell’interdittiva antimafia, devono essere rappresentate dall’amministrazione con atto congruamente motivato in ordine alla sussistenza dei presupposti previsti dal legislatore. Nel più specifico caso di cui agli articoli 92, co. 3 e 94, co. 2, la salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e del rimborso delle spese già sostenute per l’esecuzione del rimanente, deve essere commisurata “all’utilità conseguita”, intendendosi per tale l’arricchimento derivante al patrimonio dell’amministrazione. 9.3. A quanto ricavabile dal dato letterale e finora esposto, la sentenza non definitiva, con contestuale deferimento, aggiunge anche quanto desumibile dall’uso dell’espressione “utilità conseguite”, onde definire il limite cui sottoporre il pagamento delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente”. E ciò: - sia sul piano dell’interpretazione letterale, sembrando l’espressione riferirsi “ad una condizione di reciprocità delle prestazioni corrispettive, scarsamente compatibile con l’ipotesi di una erogazione o di un finanziamento destinato a beneficio riflesso non di uno specifico ente o apparato della P.A., ma della indistinta collettività pubblica”; - sia sul piano logico sistematico, poiché con l’espressione “utilità conseguita” si intende riconoscere “al soggetto interdetto . . . il diritto a vedersi corrisposto un compenso limitato all’utilità conseguita dall’amministrazione, onde evitare che quest’ultima, dall’esecuzione dell’opera, possa trarre un ingiustificato arricchimento”. Anche il riferimento alle “utilità conseguite” – come misura del “quantum” dovuto dall’amministrazione al privato colpito da interdittiva - contribuisce ad escludere che la norma di eccezione relativa alla salvezza dei pagamenti possa estendersi anche ai finanziamenti ed ai contributi. L’ “utilità conseguita” non corrisponde all’investimento realizzato in conformità al programma di finanziamento. Essa “è nozione riferibile ad una parte specifica e da questa apprezzabile attraverso il filtro selettivo di una valutazione di convenienza, tipica dell’operatore economico-giuridico individuale”; pertanto, essa deve essere intesa in un senso più limitato e strettamente patrimoniale, tale da applicarsi alle sole opere, servizi o forniture che accrescono il patrimonio dell’amministrazione e che per quest’ultima rappresentano un valore economicamente valutabile. Al contrario, nel caso del finanziamento, non può parlarsi di una “utilità” per l’amministrazione, soggettivamente intesa, ma più esattamente di un interesse pubblico che trascende la mera (sia pur completa e corretta) realizzazione del programma (che invece, ove non realizzato, comporta ex se conseguenze quali la revoca sanzionatoria del finanziamento, oltre alla possibile configurazione di un illecito penale). Si tratta di un interesse pubblico per il perseguimento del quale il programma realizzato (e che molto spesso consiste in opere che restano in proprietà del privato) costituisce un mezzo e non un fine. Se è vero che “ogni attività della pubblica amministrazione che importa erogazione di provvidenze economiche è (deve essere) finalizzata a scopi di interesse pubblico e questi ultimi si sostanziano in benefici collettivi, immediatamente o mediatamente riconducibili all’esercizio del potere” (in tal senso, Cgars, n. 3/2019 cit.), appare evidente come non sia possibile ricondurre alla “utilità conseguita”, presente nel testo normativo, anche più generali interessi pubblici, per i quali: - per un verso, l’accertamento appare non rispondere (o non rispondere sempre) a parametri giuridici, bensì a parametri macroeconomici, proporzionati alla tipologia, alla estesa latitudine degli interessi programmati e alla loro distribuzione nel lungo periodo; - per altro verso, essi stessi prescindono da una vera e propria possibilità di “misurazione” in senso giuridico o economico, afferendo ala migliore esplicazione di diritti politici o economici, ovvero ad aspetti di sviluppo sociale o culturale (si pensi alla costruzione di una biblioteca o di un teatro di proprietà privata ma con ausili pubblici, al fine di realizzare la crescita culturale di una comunità). D’altra parte, occorre non dimenticare che il testo normativo (del quale qui si nega l’interpretazione estensiva) prevede “la salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e del rimborso delle spese già sostenute per l’esecuzione del rimanente”; ciò rende valutabile l’utilità conseguita dall’amministrazione anche attraverso un opera incompiuta - perché all’amministrazione resta un bene che comunque ne accresce il patrimonio – ma non rende altrettanto valutabile un interesse pubblico derivante da un programma finanziato ma solo in parte realizzato. Il che comporta ulteriori “distinguo” interpretativi che rendono ancor più evidente l’impossibilità di una lettura estensiva che, già dubbia con queste modalità ermeneutiche per norme ordinarie, è da escludere per norme eccezionali. 10. Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, l’Adunanza Plenaria formula il seguente principio di diritto: “la salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite, previsti dagli articoli 92, comma 3, e 94, comma 2, del d,. lgs. 6 settembre 2011 n. 159, si applicano solo con riferimento ai contratti di appalto di lavori, di servizi e di forniture”. 11. L’Adunanza Plenaria dispone la restituzione del giudizio alla sezione remittente, per ogni ulteriore decisione nel merito e sulle spese ed onorari del giudizio, ivi compresi quelli inerenti alla presente fase. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), pronunciando sull’appello proposto da ACEA - Agenzia per le erogazioni in agricoltura (n. 4345/2019 r.g.): - dichiara inammissibile l’intervento ad opponendum; - enuncia il principio di diritto di cui in motivazione al punto 10; - restituisce per il resto il giudizio alla sezione remittente. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 luglio 2020 con l'intervento dei magistrati: Filippo Patroni Griffi, Presidente Sergio Santoro, Presidente Franco Frattini, Presidente Giuseppe Severini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Bernhard Lageder, Consigliere Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore Giulio Veltri, Consigliere Fabio Franconiero, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere Filippo Patroni Griffi, Presidente Sergio Santoro, Presidente Franco Frattini, Presidente Giuseppe Severini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Bernhard Lageder, Consigliere Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore Giulio Veltri, Consigliere Fabio Franconiero, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere
Processo amministrativo – Intervento – Ad opponendum – Presupposti – Individazione.    Informativa antimafia - Contributi e finanziamenti - Clausola di salvaguardia ex art. 92, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 – Applicabilità – Esclusione.              Non è sufficiente a consentire l'istanza di intervento ad opponendum la sola circostanza per cui il proponente tale istanza sia parte in un giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella divisata nell'ambito del giudizio (1).              La salvezza del pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite, previsti dagli artt. 92, comma 3 (secondo cui i contributi, i finanziamenti, le agevolazioni e le altre erogazioni di cui all'art. 67 sono corrisposti sotto “condizione risolutiva” di una eventuale informazione antimafia positiva intervenuta successivamente al pagamento), e 94, comma 2, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, si applicano solo con riferimento ai contratti di appalto di lavori, di servizi e di forniture (2).      La questione è stata rimessa dalla sez. III con sentenza non definitiva 23 dicembre 2019, n. 8672.   (1) Cons. Stato, A.P., 27 febbraio 2019, n. 4; id. 30 agosto 2018, n. 13; id. 4 novembre 2016, n. 23. Si è chiarito (Cons. Stato, A.P., n. 23 del 2016) che "laddove si ammettesse la possibilità di spiegare l'intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi, si finirebbe per introdurre nel processo amministrativo una nozione di interesse del tutto peculiare e svincolata dalla tipica valenza endoprocessuale connessa a tale nozione e potenzialmente foriera di iniziative anche emulative, in toto scisse dall'oggetto specifico del giudizio cui l'intervento si riferisce".  Non a caso, del resto, in base ad un orientamento del tutto consolidato della giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (da ultimo, sez. IV, 30 giugno 2020, n. 4134; id., sez. V, 1 aprile 2019, n. 2123; C.g.a. 1 aprile 2019, n. 301), nel processo amministrativo l'intervento, ad adiuvandum o ad opponendum, può essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale. Tali considerazioni non mutano per il solo fatto che il Giudice innanzi al quale pende il giudizio, in cui è parte chi (successivamente) spiega intervento innanzi all’Adunanza Plenaria, abbia ritenuto di disporre la sospensione del medesimo, in attesa della enunciazione del principio di diritto, cui conformare la propria successiva pronuncia. Si tratta, in questo caso, di sospensione disposta dal Giudice, ai sensi degli artt. 79, comma 1, c.p.a. e 295 c.p.c.., che, per un verso, è sorretta da ponderate ragioni di opportunità e, per altro verso, non incide direttamente sul thema decidendum, ma consente al medesimo Giudice di vagliare gli approdi cui perviene l’Adunanza Plenaria in funzione nomofilattica. Ciò, per di più, senza che la pronuncia attesa possa inevitabilmente condizionare l’esito del giudizio in cui è parte chi ha spiegato intervento, ben potendo il Giudice di tale controversia non condividere il principio di diritto enunciato e disporre ai sensi dell’art. 97, comma 3, c.p.a..    (2) L’Adunanza Plenaria ha ritenuto che la salvezza del “pagamento delle opere già eseguite e il rimborso del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”, di cui agli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, vada riferita solo al recesso dai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, con esclusione, dunque, delle ipotesi riconnesse alla concessione di finanziamenti pubblici o simili.  Ha preliminarmente precisato gli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 prevedono, in modo sostanzialmente simile, che i soggetti di cui all’art. 83, nel caso di informazione antimafia interdittiva, “revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti, fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”.  Stabilire, dunque, se “il limite normativo” delle “utilità conseguite” si riferisca solo ai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture, oppure anche ai finanziamenti e contributi pubblici, così come richiede il Giudice del deferimento, presuppone innanzi tutto stabilire se la salvezza “del pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente” si riferisca solo ai predetti contratti o anche ai finanziamenti.  Difatti, è la “salvezza” del pagamento il vero “limite” normativo (ovvero l’eccezione agli effetti della revoca e del recesso dai contratti), contribuendo invece il limite delle “utilità conseguite” solo alla definizione del “quantum” di una salvezza già verificata sussistente.  In sostanza, è solo nei casi in cui si riconosce la salvezza del pagamento (“an” dell’eccezione alla revoca e al recesso) che può poi verificarsi il limite (il “quantum”) del pagamento da disporre, di modo che, sul piano logico-giuridico – e proprio per dare compiuta risposta alla questione di diritto deferita – occorre: in primo luogo, stabilire se la “salvezza” del pagamento, nei termini normativamente previsti, si applichi solo ai contratti di appalto di lavori, servizi e forniture ovvero anche alle concessioni di finanziamenti e contributi (essendo più propriamente questa la questione da risolvere); in secondo luogo, e solo in caso di esito positivo della prima verifica, occorre stabilire - al fine di definire il quantum di un pagamento già riconosciuto (salvato) nell’”an” - cosa si intenda per utilità conseguita.   Che poi quest’ultimo aspetto possa costituire argomento a sostegno della soluzione ermeneutica è fuor di dubbio, ma si tratta di argomento “di rinforzo” per una o l’altra soluzione, laddove il problema dell’ambito di applicazione della norma di eccezione (e dunque la vera questione oggetto di esame da parte dell’Adunanza Plenaria) riguarda la salvezza del pagamento, e non già, almeno in prima battuta, il significato e la misura delle utilità conseguite dall’amministrazione con riguardo all’interesse pubblico.   Ha aggiunto l’Alto consesso che l’incapacità non può incontrare limiti di ordine pubblico economico (integrale realizzazione del programma beneficiato, lungo tempo trascorso, rilascio in favore della medesima impresa di precedenti informative di carattere liberatorio), posto che – come condivisibilmente affermato dal Giudice remittente - “tali limiti di ordine pubblico non risultano adeguatamente tracciati e motivati nei loro presupposti, ma rimessi ad una valutazione “casistica” ed “equitativa”, formulabile dal giudice in relazione alle singole fattispecie esaminate”. Limiti, dunque, che – oltre a non trovare conforto nelle previsioni normative – contribuirebbero a rendere incerte le conseguenze dell’interdittiva antimafia e, in primis, l’ambito stesso dell’incapacità nei confronti della pubblica amministrazione.  Da quanto esposto consegue che – a fronte dell’estremo rigore risultante dal complessivo sistema normativo disciplinante l’informazione antimafia e le sue conseguenze (posto, lo si ribadisce, a tutela di essenziali valori costituzionali) – costituiscono norme di eccezione, e come tali di stretta interpretazione (ex art. 14 disp. prel. cod. civ.: Cons. Stato, sez. IV, 28 ottobre 2011, n. 5799), quelle che, pur in presenza di una riconosciuta situazione di incapacità, consentono la conservazione da parte di un soggetto destinatario di informazione interdittiva di attribuzioni patrimoniali medio tempore eventualmente acquisite ovvero la possibilità di procedere alla loro dazione da parte delle pubbliche amministrazioni.  Pertanto, l’esame ermeneutico degli artt. 92, comma 3 e 94, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui questi consentono la salvezza del “pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite” – da accertare se con riferimento ai contratti da cui si recede ovvero anche ai finanziamenti o simili medio tempore erogati – deve rispondere alla regola di stretta interpretazione propria delle norme di eccezione.  Ha aggiunto l’Adunanza plenaria che ciò che, in contemperamento della pluralità di esigenze connesse alla tutela di interessi pubblici e privati, viene effettuato dai soggetti di cui all’art. 83 (rilascio di autorizzazioni o concessioni, erogazione di contributi e simili, stipulazione di contratti) avviene sotto la rigida condizione dell’accertamento della stessa capacità del soggetto privato ad essere parte del rapporto con la pubblica amministrazione, con la ovvia conseguenza che – laddove per il tramite dell’informazione antimafia interdittiva tale capacità venga accertata come insussistente – non possono che manifestarsi in termini di nullità sia i provvedimenti amministrativi rilasciati (per difetto di un elemento essenziale del medesimo, ex art. 21-septies, l. n. 241 del 1990), sia il contratto stipulato con soggetto incapace.  Giova precisare che ciò che consegue alla interdittiva antimafia non costituice un “fatto” sopravvenuto che determina la revoca del provvedimento emanato ovvero la risoluzione del contratto per factum principis, bensì il (pur tardivo) accertamento della insussistenza della capacità del soggetto ad essere parte del rapporto con l’amministrazione pubblica: quella incapacità che – laddove fosse stata, come di regola, previamente accertata – avrebbe escluso in radice sia l’adozione di provvedimenti sia la stipula di contratti.   In questo senso, può concordarsi con quanto affermato dalla sentenza parziale che ha disposto il deferimento, laddove la stessa ritiene che “poiché i contributi risultano concessi in via provvisoria, l’atto c.d. di revoca non rappresenta affatto (come farebbe pensare il nomen) un nuovo provvedimento adottato in autotutela dall’amministrazione nell’esercizio di un potere discrezionale, ma un mero atto ricognitivo che constata l’avvenuta verificazione della condizione risolutiva afferente al contributo ancora precario”.   E ciò con la sola precisazione che le disposizioni degli articoli 92 e 94 intendono affermare per il tramite del non appropriato riferimento agli istituti della “revoca” (del provvedimento) e del “recesso” (dal contratto), che l’accertamento dell’intervenuta “condizione risolutiva” altro non è che l’accertamento successivo (consentito dalla legge) dell’incapacità giuridica del soggetto ad essere destinatario di provvedimenti amministrativi ovvero ad essere parte del contratto ad evidenza pubblica.   A ciò consegue, quanto ai provvedimenti di concessione di benefici economici, comunque denominati, che l’intervenuto accertamento dell’incapacità del soggetto, cui si riconnette la “precarietà” degli effetti dei medesimi, espressamente enunciata dalle norme, esclude che possa esservi legittima ritenzione delle somme da parte del soggetto beneficiario (ma giuridicamente incapace).  Né è possibile ipotizzare, in presenza di un chiaro riferimento normativo alla “precarietà” dei provvedimenti adottati o del provvedimento stipulato, l’insorgere di un “affidamento” in capo al soggetto privato.  Allo stesso modo, nelle ipotesi di contratto stipulato con la pubblica amministrazione, l’accertamento dell’incapacità comporta l’insuscettività dello stesso ad essere fonte di obbligazioni in capo alla pubblica amministrazione nei confronti del soggetto incapace.  A tale assetto degli effetti, discendente dai principi generali e dalla specifica normativa antimafia, è la stessa disciplina antimafia a prevedere talune “eccezioni”: gli artt. 92, comma 4, e 94, comma 2 (oggetto del quesito deferito a questa Adunanza Plenaria), prevedono testualmente che i soggetti di cui all’art. 83 “revocano le autorizzazioni o le concessioni o recedono dai contratti fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”;  l’art. 94, comma 3, dispone che i soggetti di cui all’art. 83 “non procedono alle revoche o ai recessi di cui al comma precedente nel caso in cui l’opera sia in corso di ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi”.  Si tratta, come è evidente, di norme “di eccezione” ai principi generali, rese necessarie dai “postumi” dell’applicazione di una disciplina essa stessa “derogatoria” (e dunque essa stessa “eccezionale”) rispetto all’ordinario modus procedendi imposto all’amministrazione (quella, cioè, che ha consentito di emanare i provvedimenti e/o di stipulare i contratti in assenza della tempestiva informativa antimafia).   Si tratta, dunque, di norme di strettissima interpretazione.  Ha quindi concluso l’Alto Consenso che nel caso considerato nella presente sede, l’operazione interpretativa che dovrebbe comportare l’estensione – per il tramite della presenza nel testo del riferimento alle “concessioni” - della salvezza del pagamento di quanto realizzato sulla base di finanziamenti, comporta sul piano ermeneutico un duplice passaggio estensivo dell’interpretazione: in primo luogo, quello di estendere la salvezza del pagamento dal caso di recesso dal contratto (in aderenza al quale è prevista nel testo la salvezza dei pagamenti) anche alle “concessioni” precedentemente citate e, come si è già detto, non collocate nel testo con immediata aderenza alla “salvezza”; in secondo luogo, quello di operare una interpretazione “selettiva” del termine “concessioni”, ritagliando nel più ampio ambito proprio di tale genus, quelle di esse (e solo quelle) che hanno per oggetto attribuzioni patrimoniali (contributi, finanziamenti e simili) dalle quali dipende la “esecuzione di opere”.  Si tratta, a tutta evidenza, di una operazione ermeneutica per così dire “di doppio grado”, molto lontana dai limiti propri della interpretazione delle norme eccezionali e, dunque, non consentita.  Le eccezioni di cui agli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, rappresentano una precisa scelta del legislatore, che si giustifica in ragione di un “bilanciamento” delle conseguenze derivanti da una esecuzione del contratto disposta in assenza di informativa antimafia. ​​​​​​​
Informativa antimafia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/opposizione-all-istanza-di-discussione-da-remoto-con-la-presenza-degli-avvocati
Opposizione all’istanza di discussione da remoto con la presenza degli avvocati
N. 00102/2020 REG.PROV.PRES. N. 00242/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna (Sezione Prima) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 242 del 2020, integrato da motivi aggiunti, proposto da Carestream Health Italia S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Andrea Zanetti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Bologna, via Santo Stefano n. 57; contro Azienda Usl di Bologna, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Arianna Cecutta, Giulia Valzania, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Arianna Cecutta in Bologna, via Castiglione n. 29; nei confronti Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico S. Orsola-Malpighi di Bologna, Istituto Ortopedico Rizzoli, Tecnologie Avanzate T.A. S.r.l. non costituiti in giudizio; Samsung Electronics Italia S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Marco Albanese, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Althea Italia S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giorgio Fraccastoro, Alice Volino, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l'annullamento Per quanto riguarda il ricorso introduttivo: per l'annullamento - della determinazione del Sub-Commissario Amministrativo e Direttore dell’U.O.C. Acquisti dell’Azienda Unità Sanitaria Locale di Bologna, n. 456 del 27/02/2020, e relativa comunicazione disposta con nota n. 0021727 in pari data, per la parte in cui è stato aggiudicato a TECNOLOGIE AVANZATE - T.A. S.R.L. il lotto n. 4 relativo all’Acquisto di n. 2 sistemi radiologici mobili per radiografia con flati panel motorizzati, CIG 8014251125, nell’ambito della gara, a procedura aperta, per la fornitura, divisa in lotti, di sistemi portatili di radiologia e radioscopia per esigenze radiologia, blocchi operatori e cardiologie per le esigenze di Istituto Ortopedico Rizzoli, Azienda ospedaliero-universitaria e Azienda USL di Bologna, Azienda USL di Imola, Azienda ospedaliera e USL di Ferrara; - del verbale della seduta del Seggio di gara, del 25 ottobre 2019, e della nota prot. n. 130813 del 25.11.2019, citata nel provvedimento di aggiudicazione, con si è proceduto all’ammissione delle ditte partecipanti alle fasi successive della procedura di gara, entrambi per la parte relativa al lotto 4 e per i motivi di cui al presente ricorso; - dei verbali delle sedute della Commissione Giudicatrice del 23 dicembre 2019 e del 18 febbraio 2020, per la parte relativa alla valutazione delle offerte per il lotto n. 4; nonché per l’accertamento e la declaratoria di inefficacia dei contratti che fossero sottoscritti con Tecnologie Avanzate - T.A. S.r.l. per l’acquisto delle apparecchiature di cui all’aggiudicazione del sopra indicato lotto 4; e per la condanna a disporre in favore della ricorrente il subentro nei suddetti contratti. Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da CARESTREAM HEALTH ITALIA S.R.L. il 8\4\2020 : annullamento dei seguenti ulteriori atti: - determinazione del Sub-Commissario Amministrativo e Direttore dell’U.O.C. Acquisti dell’Azienda Unità Sanitaria Locale di Bologna, n. 677 del 25 marzo 2020 (doc. 16), e relativa comunicazione disposta con nota n. 0033583 del 26 marzo 2020 (doc. 17), con cui in cui è stato deciso di acquistare da TECNOLOGIE AVANZATE - T.A. S.R.L. un ulteriore sistema radiologico mobile, nell’ambito del lotto 4 della gara, a procedura aperta, per la fornitura, divisa in lotti, di sistemi portatili di radiologia e radioscopia per esigenze radiologia, blocchi operatori e cardiologie per le esigenze di Istituto Ortopedico Rizzoli, Azienda ospedaliero-universitaria e Azienda USL di Bologna, Azienda USL di Imola, Azienda ospedaliera e USL di Ferrara; - determinazione del Sub-Commissario Amministrativo e Direttore dell’U.O.C. Acquisti dell’Azienda Unità Sanitaria Locale di Bologna, n. 725 del 27 marzo 2020 (doc. 18), e relativa comunicazione disposta con nota n. 34805 del 30 marzo 2020 (doc. 19), in parte qua e, precisamente, per la parte in cui, relativamente al lotto 4, è stato deciso di lasciare invariati i punteggi attribuiti a Tecnologie Avanzate S.r.l. e a Samsung Electronics Italia S.p.a.; - determinazione del Sub-Commissario Amministrativo e Direttore dell’U.O.C. Acquisti dell’Azienda Unità Sanitaria Locale di Bologna, n. 734 del 27 marzo 2020 (doc. 20), in parte qua e, precisamente, per la parte in cui, relativamente al lotto 4, è stata confermata la posizione di prima in graduatoria di Tecnologie Avanzate S.r.l. e la posizione di seconda in graduatoria di Samsung Electronics Italia S.p.a; - verbale della seduta della Commissione Giudicatrice del 16 marzo 2020 (doc. 21), in parte qua e, precisamente, per la parte in cui, relativamente al lotto 4, la Commissione ha deciso di lasciare invariati i punteggi precedentemente attribuiti a Tecnologie Avanzate S.r.l. e a Samsung Electronics Italia S.p.a. Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da CARESTREAM HEALTH ITALIA S.R.L. il 21\4\2020 : annullamento, previa sospensione, - della determinazione del Sub-Commissario Amministrativo e Direttore dell’U.O.C. Acquisti dell’Azienda Unità Sanitaria Locale di Bologna, n. 900 del 16 aprile 2020 (doc. 24), e relativa comunicazione disposta con nota n. 0042379 del 16 aprile 2020 (doc. 25), con cui in cui è stato deciso di annullare la precedente aggiudicazione in favore di TECNOLOGIE AVANZATE - T.A. S.R.L. del lotto 4 della gara, a procedura aperta, per la fornitura, divisa in lotti, di sistemi portatili di radiologia e radioscopia per esigenze radiologia, blocchi operatori e cardiologie per le esigenze di Istituto Ortopedico Rizzoli, Azienda ospedaliero-universitaria e Azienda USL di Bologna, Azienda USL di Imola, Azienda ospedaliera e USL di Ferrara, e di aggiudicare il medesimo lotto 4 a Samsung Electronics Italia S.p.A.; - del verbale della seduta della Commissione Giudicatrice del 10 aprile 2020 (doc. 26); nonché, per l’annullamento, previa sospensione, - della determinazione del Sub-Commissario Amministrativo e Direttore dell’U.O.C. Acquisti dell’Azienda Unità Sanitaria Locale di Bologna, n. 456 del 27/02/2020 (doc. 1), e relativa comunicazione disposta con nota n. 0021727 in pari data (doc. 2), per la parte in cui è stato aggiudicato a TECNOLOGIE AVANZATE - T.A. S.R.L. il lotto n. 4 relativo all’Acquisto di n. 2 sistemi radiologici mobili per radiografia con flati panel motorizzati, CIG 8014251125, nell’ambito della gara, a procedura aperta, per la fornitura, divisa in lotti, di sistemi portatili di radiologia e radioscopia per esigenze radiologia, blocchi operatori e cardiologie per le esigenze di Istituto Ortopedico Rizzoli, Azienda ospedaliero-universitaria e Azienda USL di Bologna, Azienda USL di Imola, Azienda ospedaliera e USL di Ferrara; - del verbale della seduta del Seggio di gara, del 25 ottobre 2019, (doc. 3) e della nota prot. n. 130813 del 25.11.2019, citata nel provvedimento di aggiudicazione, con si è proceduto all’ammissione delle ditte partecipanti alle fasi successive della procedura di gara, entrambi per la parte relativa al lotto 4 e per i motivi di cui al presente atto; - dei verbali delle sedute della Commissione Giudicatrice del 23 dicembre 2019 (doc. 4) e del 18 febbraio 2020 (doc. 5), per la parte relativa alla valutazione delle offerte per il lotto n. 4; per l’accertamento e per la declaratoria di inefficacia dei contratti che fossero sottoscritti con Samsung Electronics Italia S.p.A. per l’acquisto delle apparecchiature di cui all’aggiudicazione del sopra indicato lotto 4; e per la condanna a disporre in favore della ricorrente il subentro nei suddetti contratti; nonché per l’annullamento, previa sospensione, - della determinazione del Sub-Commissario Amministrativo e Direttore dell’U.O.C. Acquisti dell’Azienda Unità Sanitaria Locale di Bologna, n. 677 del 25 marzo 2020 (doc. 16), e relativa comunicazione disposta con nota n. 0033583 del 26 marzo 2020 (doc. 17), con cui in cui è stato deciso di acquistare da TECNOLOGIE AVANZATE - T.A. S.R.L. un ulteriore sistema radiologico mobile, nell’ambito del lotto 4 della gara, a procedura aperta, per la fornitura, divisa in lotti, di sistemi portatili di radiologia e radioscopia per esigenze radiologia, blocchi operatori e cardiologie per le esigenze di Istituto Ortopedico Rizzoli, Azienda ospedaliero-universitaria e Azienda USL di Bologna, Azienda USL di Imola, Azienda ospedaliera e USL di Ferrara; - della determinazione del Sub-Commissario Amministrativo e Direttore dell’U.O.C. Acquisti dell’Azienda Unità Sanitaria Locale di Bologna, n. 725 del 27 marzo 2020 (doc. 18), e relativa comunicazione disposta con nota n. 34805 del 30 marzo 2020 (doc. 19), in parte qua e, precisamente, per la parte in cui, relativamente al lotto 4, è stato deciso di lasciare invariati i punteggi attribuiti a Tecnologie Avanzate S.r.l. e a Samsung Electronics Italia S.p.a.; - della determinazione del Sub-Commissario Amministrativo e Direttore dell’U.O.C. Acquisti dell’Azienda Unità Sanitaria Locale di Bologna, n. 734 del 27 marzo 2020 (doc. 20), in parte qua e, precisamente, per la parte in cui, relativamente al lotto 4, è stata confermata la posizione di prima in graduatoria di Tecnologie Avanzate S.r.l. e la posizione di seconda in graduatoria di Samsung Electronics Italia S.p.a; - del verbale della seduta della Commissione Giudicatrice del 16 marzo 2020 (doc. 21), in parte qua e, precisamente, per la parte in cui, relativamente al lotto 4, la Commissione ha deciso di lasciare invariati i punteggi precedentemente attribuiti a Tecnologie Avanzate S.r.l. e a Samsung Electronics Italia S.p.a. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visto il d.l. 30 aprile 2020 n. 28, specificatamente l’art. 4 comma 1; Visto il Decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 134 del 22 maggio 2020 recante le regole tecnico- operative per l’attuazione del processo telematico e in ispecie per l’attuazione dell’art. 4 comma del suindicato d.l. n. 28/2020 ; Visto l’art. 55 cod. proc. amm. Vista, in relazione alla celebrazione della camera di consiglio del 10 giugno 2020, la domanda di discussione orale da remoto avanzata dalla AUSL Bologna in data 4 giugno 2020 ( parte resistente Vista la domanda di discussione orale da remoto prodotta da Samsung Electronics Italia spa. In data 4 giugno 2020 ( altra parte resistente – controinteressata - ) Vista altresì l’opposizione alle istanze di discussione da remoto, prodotta in data 5 giugno 2020 da Carestraem Health Italia srl, ( parte ricorrente ) sul rilievo che sia l’intimata AUL Bologna che parte controinteressata hanno depositato memoria difensiva e che le dette controparti hanno tempo per replicare sino all’otto giugno p.v. , venendo così meno, a suo dire, il presupposto in virtù del quale sarebbero state presentate le istanze avversarie ; Rilevato che in base ad una piana e coordinata lettura delle disposizioni legislative disciplinanti la trattazione delle istanze cautelari nella sede collegiale della camera di consiglio ( d.l. n. 28/2020 ; art. 55 cod. proc. amm. ) nonché della relativa normativa di applicazione deve escludersi che la possibilità di replicare fino a due giorni prima della celebrazione della camera di consiglio ( art. 55 comma 5 c.p.a.) alla memoria prodotta dalla parte avversaria comporti la preclusione della discussione orale da remoto della causa in sede cautelare, una volta che sia stata presentata domanda di discussione orale ; che, in particolare l’interesse a sentire le parti ex art. 73 , secondo comma c.p.a appare in base al regime giuridico processuale descritto dalla normativa emergenziale di cui sopra una opzione assolutamente prevalente rispetto al passaggio in decisione della istanza di sospensiva allo stato degli atti ( senza cioè discussione), che la discussione orale costituisce estrinsecazione del diritto di difesa assolutamente incomprimibile; Considerato altresì che, con riferimento alla fattispecie all’esame, la natura della controversia, gli interessi in gioco e lo stato dei fatti depongono inequivocabilmente a ritenere ammissibile oltrechè consigliabile la discussione orale sia pure da remoto ; -che peraltro lo stesso art. 55 del c.p.a dopo aver previsto al comma 5 che le parti possono depositare memorie fino a due giorni prima della camera di consiglio , al successivo comma 7 prevede che i difensori “ sono sentiti ove ne facciano richiesta e la trattazione orale si svolge oralmente e in modo sintetico” ; fatta salva la facoltà delle parti resistenti di chiedere il passaggio in decisione con le modalità e nei termini di cui all’art. 4 comma 1 d.l. n. 28/2020 Tutto ciò rilevato e considerato P.Q.M. a) rigetta l’opposizione alla istanza di discussione orale da remoto proposta dalla ricorrente Carestraem Health Italia srl di cui alla nota difensiva depositata in data 5 giugno 2020 ; b) in accoglimento delle istanze di discussione orale da remoto presentate dalle parti resistenti, dispone la discussione orale da remoto per la trattazione collegiale dell’incidente cautelare di che trattasi alla camera di consiglio del 10 giugno 2020 Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Bologna/ Caserta il giorno 5 giugno 2020. IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Covid-19 – Discussione da remoto con la presenza degli avvocati – Opposizione – Rigetto – Fattispecie.            Deve essere rigettata l’opposizione alla istanza di discussione orale da remoto, presentata sul rilievo che le controparti hanno depositato memoria difensiva e che le dette controparti hanno tempo per replicare, venendo così meno, a suo dire, il presupposto in virtù del quale sarebbero state presentate le istanze avversarie; ed infatti, in base ad una piana e coordinata lettura delle disposizioni legislative disciplinanti la trattazione delle istanze cautelari nella sede collegiale della camera di consiglio (d.l. n. 28 del 2020; art. 55 c.p.a.) nonché della relativa normativa di applicazione deve escludersi che la possibilità di replicare fino a due giorni prima della celebrazione della camera di consiglio (art. 55, comma 5, c.p.a.) alla memoria prodotta dalla parte avversaria comporti la preclusione della discussione orale da remoto della causa in sede cautelare, una volta che sia stata presentata domanda di discussione orale; in particolare l’interesse a sentire le parti ex art. 73, secondo comma, c.p.a appare in base al regime giuridico processuale descritto dalla normativa emergenziale di cui sopra una opzione assolutamente prevalente rispetto al passaggio in decisione della istanza di sospensiva allo stato degli atti (senza cioè discussione) e la discussione orale costituisce estrinsecazione del diritto di difesa assolutamente incomprimibile.
Processo amministrativo
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Rapporto tra convenzione urbanistica e piano di lottizzazione
N. 07237/2021REG.PROV.COLL. N. 05247/2014 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5247 del 2014, proposto dal signor Gian Francesco Biancon, rappresentato e difeso dall’avvocato Elisabetta Fraccalanza, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Federica D’Innocenzo in Roma, via Federico Cesi, n.72, contro il Comune di Scorze', in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Luigi Manzi e Primo Michielan, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via Alberico II, n. 33, il Ministero per i beni e le attività culturali, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, n.12, nei confronti della Società Co.Progetti S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio, per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Sez. I, n. 562/2013, resa tra le parti, concernente la rescissione o l’annullamento di atto di compravendita immobiliare con richiesta di risarcimento danni. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Scorze' e del Ministero per i beni e le attività culturali; Visti tutti gli atti della causa; Vista l’ordinanza del Presidente della sez. IV n. 431 del 18 febbraio 2020; Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 5 ottobre 2021, il Cons. Antonella Manzione e uditi per le parti l’avvocato Elisabetta Fraccalanza e l’avvocato Andrea Manzi, su delega degli avvocati Primo Michielan e Luigi Manzi; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con l’odierno appello il signor Gian Francesco Biancon ha impugnato la sentenza del T.A.R. per il Veneto n. 562 del 15 aprile 2013 con la quale ne è stato respinto il ricorso per la rescissione o l’annullamento della convenzione di lottizzazione stipulata in data 14 febbraio 2005 tra il Comune di Scorzè e la Società Co.Progetti S.r.l., di cui era all’epoca il legale rappresentante, nonché dell’ atto di vendita dell’immobile denominato “Villa Lina”, siglato in data 22 ottobre 2008, con conseguente rigetto della sottesa domanda di risarcimento danni. Il Tribunale adito, assorbite espressamente le numerose eccezioni in rito sollevate dalla difesa civica, ha escluso la sussistenza sia degli invocati presupposti rescissori, sia dell’ipotizzata costrizione psicologica, distintamente per la convenzione di lottizzazione e per il contratto di vendita che nella prima trova fondamento. La rappresentata preoccupazione di subire azioni di rivalsa sul proprio patrimonio è infatti «insuscettibile di integrare gli estremi dello stato di bisogno, il quale richiede una concreta e reale situazione di difficoltà economica per carenza di liquidità tale da incidere sulla libera determinazione a contrarre e impedire di adempiere al pagamento con mezzi normali». La vendita, inoltre, è avvenuta dopo l’annullamento del decreto ministeriale del 17 dicembre 2002, recante il diritto di prelazione sul terreno a favore dell’Amministrazione comunale, e dunque nella piena consapevolezza della sua mancanza di effetti. 2.Il signor Biancon, premessa una ricostruzione della complessa vicenda sottesa ai fatti di causa, ha affidato il gravame a quattro motivi di censura, dei quali i primi due sostanzialmente speculari in quanto rivolti a contrastare rispettivamente per l’atto di vendita (motivo sub 1) e per la convenzione di lottizzazione (motivo sub 2) la ritenuta carenza dei presupposti per la rescissione (punto a) ovvero per l’annullamento per violenza morale (punto b). Il primo giudice infatti avrebbe omesso di pronunciarsi su specifiche censure, travisando i fatti e mal interpretando la disciplina civilistica di riferimento, stante che al contrario sussisterebbero tutti gli elementi costitutivi degli istituti giuridici invocati. Con un terzo motivo di ricorso ha lamentato la violazione dell’art. 112 c.p.c., non avendo il primo giudice valutato i profili di responsabilità da ascrivere al Ministero per i beni culturali e le attività culturali, avuto riguardo alla dichiarata illegittimità del decreto di prelazione (responsabilità extracontrattuale o precontrattuale, intrinseca nell’avvenuto annullamento, come da giurisprudenza europea richiamata allo scopo); nonché al Comune in ragione della violazione di specifici obblighi contrattuali, in particolare quello di risarcire il danno conseguito all’esito vittorioso del ricorso straordinario, espressamente previsto alla lettera “l” della convenzione di lottizzazione e di accettare il prezzo del fabbricato offerto dalla Società in luogo della sua vendita. Infine (motivo sub 4) la sentenza non si sarebbe pronunciata sulla richiesta di indennizzo ex art. 2041 c.c. ovvero ex art. 21 quinquies della l. n. 241 del 1990, seppure espressamente avanzata in via subordinata. Il danno subito ammonterebbe ad € 3.200.000,00, determinati assumendo a parametro di raffronto il prezzo corrisposto dal Comune per l’acquisto di altra area di caratteristica similare denominata “Eredità Daminato”. 3. Si è costituito in giudizio il Ministero per i beni e le attività culturali con atto di stile. 3.1. Si è costituito altresì il Comune di Scorzé, che ha presentato appello incidentale allo scopo di riproporre le originarie eccezioni di rito. In particolare, ha rilevato il difetto di competenza, atteso che le parti avevano espressamente pattuito di deferire ad un arbitro le questioni risarcitorie conseguite all’eventuale annullamento del decreto di prelazione; la carenza di giurisdizione, non rientrando la vendita effettuata nel perimetro dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2), c.p.a.; il proprio difetto di legittimazione passiva, fondandosi la richiesta risarcitoria sull’avvenuto annullamento di un atto ministeriale; la inammissibilità del ricorso di primo grado per mancata notifica alla controinteressata Società Co.Progetti s.r.l., semplicemente “informata” del gravame e per mancata impugnativa dell’atto presupposto, ovvero la delibera di Giunta municipale n. 13 del 27 gennaio 2005, che aveva già approvato l’accordo tra le parti; la sua irricevibilità, per prescrizione, essendo ampiamente decorso il termine annuale per la proposizione dell’azione di rescissione rispetto alla convenzione del 2005, ovvero per la mancanza della c.d. “pregiudiziale amministrativa”, non potendo trovare applicazione al caso di specie l’art. 34 c.p.a. per mancata richiesta esplicita di conversione dell’azione originariamente intrapresa in azione di accertamento. Nel merito, ha chiesto la conferma della sentenza impugnata. 4. Con ordinanza n. 431 del 18 febbraio 2020 il Presidente della sez. IV di questo Consiglio di Stato ha chiesto alle parti di attualizzare la situazione. Entrambe hanno ribadito il proprio interesse alla decisione, l’appellante anche mediante deposito di documentazione inerente i fatti di causa. In vista dell’odierna udienza, esse si sono scambiate memorie e memorie di replica, per ribadire le proprie contrapposte prospettazioni, controdeducendo in particolare sulle eccezioni in rito e sollevandone di ulteriori. Il Ministero per i beni e le attività culturali si è invece limitato a versare in atti il proprio controricorso nel procedimento di primo grado, corredato della documentazione inerente le sorti del d.m. 17 dicembre 2002 fino alla sua caducazione con d.P.R. del 27 luglio 2006, di recepimento del parere del Consiglio di Stato in sede consultiva. 5. Alla pubblica udienza del 5 ottobre 2021, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 6. Il Collegio ritiene opportune alcune puntualizzazioni sui fatti di causa, in quanto indispensabili a delineare la cornice giuridica nella quale collocare la controversia, anche ai fini dello scrutinio delle numerose questioni di rito (ri)proposte dalla difesa civica. 6.1. Il signor Biancon è divenuto proprietario del fabbricato conosciuto come Villa Lina, già costituente parte del più vasto complesso monumentale di Villa Soranzo-Connestabile, con annesso parco, con atto di compravendita del 27 settembre 2002. Con decreto ministeriale del 17 dicembre 2002 veniva disposta la prelazione a favore del Comune, che ne aveva manifestato la volontà, in riferimento alle sole porzioni di giardino e parco ritenute ancora soggette a vincolo diretto. Quale legale rappresentante della Società Co.progetti s.r.l. siglava la convenzione di lottizzazione denominata “Ronchi”, avente ad oggetto la realizzazione da parte della stessa di un vasto complesso immobiliare comprensivo di otto palazzine plurifamiliari, impegnandosi, a scomputo degli oneri di urbanizzazione, a realizzare le opere di urbanizzazione primaria e a cedere sia la villa che il sedime oggetto della prelazione, cui il Comune era interessato per collocarvi propri uffici. Avendo l’appellante impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica il decreto del 2002, alla lettera “l” della convenzione si statuiva espressamente che quale che ne fosse l’esito gli accordi sarebbero comunque stati mantenuti, salva la devoluzione al Sindaco del Comune, individuato come arbitro, della disamina delle «eventuali richieste di risarcimento danni». Pur avendo il Consiglio di Stato in sede consultiva accolto il gravame (Cons. Stato, sez. II, 18 gennaio 2006, n. 7915, le cui considerazioni sono integralmente richiamate in premessa) la vendita, sottoscritta in data 22 ottobre 2008, veniva perfezionata sia con riferimento al fabbricato che al giardino di pertinenza per una superficie pari a mq. 2740. Va infine precisato che in data 4 luglio 2005, ovvero subito dopo la sottoscrizione della convenzione di lottizzazione, il signor Biancon aveva venduto le proprie quote societarie. All’esito del ricorso straordinario aveva poi iniziato a scrivere all’Amministrazione per chiedere la revisione del vincolo gravante sull’immobile nonché il risarcimento del danno asseritamente subito in ragione della accordata prelazione poi dichiarata illegittima. Dal canto suo il Comune, a fronte del mancato adempimento da parte della Società degli obblighi sottoscritti, non riscontrava nei termini le richieste di permesso di costruire avanzate dalla Società rispettivamente in data 21 febbraio 2008 e 13 maggio 2008. 7. Chiarito quanto sopra, possono ora esaminarsi le eccezioni di incompetenza e difetto di giurisdizione, invertendone l’ordine di trattazione in ragione delle priorità rivenienti dalla tassonomia nell’esercizio della potestas iudicandi per come precisata anche dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (v. Cons. Stato, A.P., n. 5 del 27 aprile 2015; cfr. pure Cass., sez. un., 5 gennaio 2016, n. 29). Non senza premettere, tuttavia, che la corretta qualificazione degli atti in controversia incide non tanto e non solo sulla (contestata) competenza a deciderne da parte di questo giudice, ma soprattutto sulla valutazione del merito della causa. Viene dunque all’esame del Collegio la natura di una convenzione di lottizzazione non in generale, ma per la parte in cui contiene l’impegno a cedere un bene estraneo all’operazione urbanistica regolata dalla stessa, nonché, conseguentemente, dell’atto che ha realizzato ridetta cessione, a firma peraltro di un soggetto divenuto formalmente estraneo all’originario rapporto sinallagmatico. 7.1. Rileva al riguardo la Sezione che il fervore del dibattito dottrinario e giurisprudenziale insorto sulla tematica, affine ma connotata da specificità di disciplina giuridica, della cessione volontaria in luogo dell’esproprio, ha fatto emergere la necessità di non risolvere le questioni di giurisdizione - e di conseguente merito- sul piano delle mere astrazioni dogmatiche, suggerendo prudenzialmente di rimettere al vaglio e allo scrutinio in concreto degli atti da parte del giudice l’individuazione dell’atteggiarsi del modello utilizzato, pur se normativamente già previsto, senza attingere soltanto alla categoria concettuale generale del contratto ad oggetto pubblico. E’ dunque rimessa al giudice, a fronte di una fattispecie consensuale pubblica, una precisa operazione ermeneutica che non può prescindere dalla disamina della fase formativa dell’accordo, della sua struttura e dei suoi effetti, senza partire da categorizzazioni preconcette: solo all’esito di tale specifica analisi, è infatti possibile non tanto e non solo l’inquadramento concettuale della singola fattispecie, ma anche e soprattutto l’individuazione degli strumenti rimediali alla stessa applicabili (sul punto, v. Cons. Stato, sez. II, 6 febbraio 2020, n. 941). 8. Proprio in ragione di tale analisi concreta, il Comune di Verzè afferma che la controversia non rientrerebbe nel perimetro dell’art. 133, lett. a), n. 2, c.p.a., che individua tra le materie di competenza esclusiva del giudice amministrativo «la formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo». La eterogeneità contenutistica della specifica obbligazione di cedere il bene, peraltro di proprietà di un terzo, seppure con le precisazioni che seguiranno, ne implicherebbe anche lo stralcio dalla materia urbanistica ed edilizia che il medesimo art. 133 c.p.a., lettera f), autonomamente annovera tra quelle soggette alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (ratione temporis, v. art. 34 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come modificato dall’art. 7 della l. 21 luglio 2000, n. 205). In sintesi, la peculiarità contenutistica della specifica clausola in controversia, dunque, non ne consentirebbe la sussunzione né nell’ambito degli atti di governo del territorio, né in quello degli accordi sostitutivi o integrativi di provvedimento. 9. Non vi sono dubbi che la giurisdizione esclusiva in materia urbanistica abbracci le controversie inerenti tutti i provvedimenti riconducibili alla pianificazione dell’uso del territorio, tra i quali rientrano anche i piani di lottizzazione. Nella fattispecie si discute tuttavia della successiva convenzione di lottizzazione, che costituisce, di regola, il punto di approdo nel quale si formalizzano a livello negoziale i reciproci obblighi dei lottizzanti e dell’Amministrazione dopo che quest’ultima ha favorevolmente accolto la proposta urbanistica dei privati, ove il piano attuativo sia rimesso alla loro iniziativa, ovvero l’adesione alla propria, nel caso inverso. La convenzione, cioè, costituisce atto autonomo e indipendente rispetto al provvedimento di approvazione del piano di lottizzazione, il quale ultimo diventa un presupposto giuridico (e non necessariamente logico, salvo l’ipotesi in cui permangano volontà e presupposti della pianificazione approvata per la lottizzazione) della stipula; essa rappresenta cioè soltanto una delle eventuali attività che possono concretizzarsi dopo l’approvazione del piano. 9.1. Ciò trova piena conferma nei passaggi procedurali che connotano l’odierna vicenda. Lo strumento urbanistico attuativo dell’area classificata dal P.R.G. del Comune di Scorzè come “C2/3”, destinata ad edilizia convenzionata, è stato approvato con deliberazione del Consiglio comunale n. 38 del 26 aprile 2004; l’autorizzazione alla firma del successivo accordo è stata formalizzata nella delibera di Giunta n. 13 del 20 gennaio 2005, atto prodromico a legittimare la rappresentanza legale dell’Ente a trattare con il privato a condizioni predeterminate, come tale presupposto della successiva stipula, ma privo di autonoma lesività in concreto, sicché sotto tale profilo non è degna di pregio l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa civica, a maggior ragione non essendo quella odierna una controversia di tipo meramente caducatorio. 10. La convenzione di lottizzazione, dunque, non può essere assimilata ad un contratto sic et simpliciter di diritto privato, in quanto presuppone pur sempre il formale atto amministrativo con cui il Comune, nell’esercizio della propria potestà di conformazione del territorio, ha approvato la proposta di piano attuativo avanzata dal privato, verificandone peraltro la rispondenza alle prescrizioni discendenti dalla strumentazione urbanistica generale e dalla normativa primaria. Da qui la ricerca del fondamento della riconducibilità delle questioni da essa scaturenti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nel combinato disposto delle lettere a), n. 2) ed f) del comma 1 dell’art. 133 c.p.a., e non solo nell’ultima di tali disposizioni. 10.1. La Sezione peraltro ha già avuto modo di occuparsi della riconducibilità di tale tipologia di atti alla categoria degli accordi sostitutivi o integrativi di provvedimento, effettuando una ricostruzione della materia che ne ha evidenziato anche l’incidenza casistica in tale ambito (cfr. Cons. Stato, sez. II, 19 gennaio 2021, n. 579). A fronte, infatti, di un iniziale disinteresse per l’istituto, sono state successivamente ricondotte sotto l’egida dell’art. 11 della l. n. 241 del 1990, proprio le numerose fattispecie consensuali tipicamente in uso nella materia urbanistica, dove l’immanente esigenza di collocare l’esercizio dello ius aedificandi in una più vasta cornice di buon governo del territorio, rende talvolta conveniente per l’Amministrazione “scendere a patti”, richiedendo sforzi aggiuntivi al privato in termini di dare ovvero di facere, onde orientarne la maggiore libertà di movimento verso i propri obiettivi di programmazione, nel contempo ottimizzando le aspirazioni dello stesso a ricavare i maggiori vantaggi possibili dalla proprietà. La funzione della convenzione urbanistica non è di integrare la disciplina urbanistica, di per sé completa, ma di definire nel dettaglio gli impegni delle parti, e principalmente dei privati, in vista del conseguimento dell’equilibrio nello scambio di utilità. 10.2. Contenuto tipico delle convenzioni di lottizzazione è l’assunzione da parte del lottizzante dell’impegno a farsi carico delle opere di urbanizzazione necessarie alla realizzazione della progettualità approvata a scomputo dei previsti oneri, materia sulla quale non a caso il legislatore era già da tempo intervenuto, ben prima e ben al di fuori delle successive concettualizzazioni generali. L’origine della questione di cui ci si occupa, infatti, va ravvisata nelle previsioni dell’art. 8 della c.d. “legge - ponte”, ossia la l. 6 agosto 1967, n. 765, che ha introdotto nell’ordinamento giuridico l’obbligo, a carico dell’attuatore, di cedere gratuitamente le aree destinate alle opere di urbanizzazione con previsione, altresì, dell’onere di farsi carico di quelle correlate all’intervento approvato secondo i termini e le garanzie stabiliti da apposita convenzione. L’art. 31 della l. n. 1150/1942, novellato a sua volta in parte qua dalla richiamata l. n. 765/1967, ha subordinato il rilascio della concessione edilizia alla presenza dell’urbanizzazione primaria o, comunque, all’impegno del proprietario a realizzarla contemporaneamente all’intervento costruttivo. A chiusura del sistema, l’art. 11 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, ha sancito che i proprietari che si sono dovuti assumere gli impegni urbanizzativi diretti, sono sgravati dall’obbligo di corrispondere la relativa quota di contributo (obbligo esteso, dalla predetta legge n. 10/1977, ad ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale). Tali disposizioni (oggi confluite nell’art. 16 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato con il d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) costituiscono dunque applicazione del principio in forza del quale il contributo per gli oneri di urbanizzazione è alternativo alla realizzazione diretta, d’intesa con l’Amministrazione comunale, delle opere di urbanizzazione; principio già desumibile dall’art. 1 della richiamata l. n. 10 del 1977 secondo cui ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi; partecipazione che potrà attuarsi con la corresponsione in denaro del contributo calcolato ai sensi di legge, oppure mediante realizzazione diretta delle opere, oppure ancora in parte nell’uno e in parte nell’altro modo, purché ne resti escluso che per il medesimo insediamento si partecipi doppiamente agli oneri di urbanizzazione, con il contributo intero in denaro sommato alla completa realizzazione delle opere (per una ricostruzione della storia dell’istituto, v. Cons. Stato, sez. II, 9 dicembre 2019, n. 8377). 11. Non è superfluo peraltro qui evidenziare che con sentenza 15 luglio 2016, n. 179 la Corte Costituzionale ha ravvisato la piena conformità della surriportata disciplina (art. 133, comma 1, lettera a), numero 2), e lettera f) attualmente in vigore rispetto agli artt. 103 e 113 della Costituzione, rimarcando in particolare che «in sede di regolazione della giurisdizione, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato il collegamento funzionale delle convenzioni urbanistiche al procedimento di rilascio dei titoli abilitativi. In quanto inserite nell’ambito del procedimento amministrativo, le convenzioni e gli atti di obbligo stipulati dall’Amministrazione con i privati costituiscono pur sempre espressione di un potere discrezionale della P.A.». Quando l’Amministrazione medesima si avvale per i propri fini dello strumento delle convenzioni urbanistiche, esercita comunque in via mediata il proprio potere sul governo del territorio. 12. La ricostruzione effettuata fa emergere appieno la peculiarità dell’odierna vicenda, ove la cessione dell’immobile denominato “Villa Lina” costituisce una sorta di addendum non funzionale alla realizzazione della progettualità assentita, cui l’appellante dice di essere stato costretto in ragione delle mire variamente esplicitate dal Comune sulla sua acquisizione al proprio patrimonio, tanto da avere ripiegato sull’esercizio della prelazione, originariamente richiesta per l’intero complesso, sul solo terreno circostante il fabbricato, giusta l’indicazione limitativa della competente Soprintendenza regionale, confluita nel decreto ministeriale del 2002, successivamente annullato nel 2006. Da qui da un lato il fondamento dell’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal Comune; dall’altro, le doglianze dell’appellante in ordine al contesto nel quale sarebbe maturato il proprio consenso alla vendita. E’ indubbio, infatti, che di regola la cessione di un bene quale parte di una convenzione accessiva ad un piano urbanistico attuativo è strumentale alla sua finalizzazione alla realizzazione dell’intervento approvato. Ciò non vieta, tuttavia, che la convenzione finisca per essere contenitore di ulteriori scelte della Pubblica amministrazione, nel caso di specie l’acquisizione di un immobile individuato come funzionale alle proprie esigenze organizzative sin dal novembre del 2002, quando, reso edotto della volontà dell’originaria dante causa di vendere all’attuale appellante l’intero complesso, il Comune di Scorzè aveva avanzato una complessiva proposta di prelazione ai sensi dell’art. 13, comma 2, lett. d) del d.P.R. n. 441 del 2000. L’art. 11 della l. n. 241 del 1990, infatti, ha definitivamente positivizzato la capacità negoziale delle amministrazioni pubbliche, individuando nel procedimento il “luogo” tipico nel quale potestà e autonomia negoziale possono trovare un giusto momento di sintesi, sì da asservire la seconda, in quanto modalità ritenuta più conveniente in relazione al singolo caso di specie, al perseguimento dell’interesse pubblico che connota la prima. L’esercizio della potestà pubblicistica non va, dunque, a detrimento della capacità privatistica ma si somma ad essa: vi è un concorso e non un’alternatività di poteri, salva, ovviamente, l’impossibilità di conseguire due volte lo stesso risultato. Laddove, cioè, il responsabile del procedimento valuti che il modulo della negoziazione costituisce lo strumento più idoneo per la composizione degli interessi coinvolti nell’azione amministrativa, può addivenire alla stipula di un contratto cui l’ordinamento giuridico ricollega determinati effetti, ciascuno dei quali a loro volta conseguibile anche con provvedimenti. La significatività dell’istituto sta pertanto proprio nel suo mutuare aspetti necessariamente civilistici mischiandoli a contenuti tipicamente autoritativi, con ciò realizzando un’efficace sintesi -rectius, la miglior sintesi possibile, secondo la valutazione del soggetto pubblico agente- tra l’interesse pubblico sotteso all’intervento, complessivamente inteso, e il necessario incontro tra le volontà, quale metodologia per il suo perseguimento. 13. Ciò posto, calando i princìpi rammentati sopra nel caso di specie, dall’esame degli atti e dei documenti emerge chiaramente come l’accordo intercorso tra le parti nel 2008 non esaurisca la sua “causa” nel trasferimento del terreno al Comune in cambio di un corrispettivo economico. Esso costituisce piuttosto il segmento terminale di una fitta rete di relazioni che ha visto la sovrapposizione di due distinti procedimenti, quello urbanistico e quello concernente le sorti di Villa Lina, il cui unico trait d’union, tutt’affatto neutro, è costituito dal fatto che il signor Gian Francesco Biancon al momento della stipula della convenzione di lottizzazione del 2005 era sia il rappresentante legale della Società lottizzante, sia il proprietario del bene alla cui acquisizione il Comune mirava da anni. La scelta, dunque, di far convergere nella condivisione dei reciproci rapporti di dare e avere anche la cessione di quel bene, seppure nella pendenza del ricorso straordinario proposto sulla possibilità di esercitare la prelazione sui terreni circostanti, è consensuale e di per sé lecita. In nessun modo, infatti, è emersa una qualche coercizione dell’Amministrazione sul privato, beneficiario dell’avallo di un’operazione immobiliare di cospicua consistenza, sì da avere ritenuto evidentemente vantaggioso a quel momento inserire nel calcolo degli oneri a scomputo anche il prezzo di cessione del bene in controversia. La clausola di salvaguardia di eventuali future rivendicazioni risarcitorie, del tutto imprecisate, si palesa dunque a ben guardare estranea al perimetro della attuale causa, malgrado i tentativi dell’appellante di ricondurvela, pretermettendo di riferirne l’esatta origine quale punto di approdo di autonoma trattativa transattiva. Essa infatti si associa comunque all’impegno, declinato alla lettera “j” della medesima convenzione, a «trasferire al Comune di Scorzè a titolo gratuito l’immobile denominato Villa Lina, acquistato per il prezzo di Euro 413.000,00 […] dal signor Gian Francesco Biancon», quale modalità di scomputo degli oneri di urbanizzazione, unitamente a quello di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione primaria. «Nulla sarà dovuto dall’Amministrazione comunale in restituzione», infine, ove l’importo complessivo (dato dalla sommatoria del prezzo di vendita della villa, pattuito in euro 413.000,00, corrispondente alla somma corrisposta dall’appellante alla sua dante causa all’atto dell’acquisto, risalente a soli tre anni prima e costo delle opere da realizzare, quantificato in euro 103.660,56) fosse risultato superiore all’ammontare degli oneri tabellari di urbanizzazione primaria e secondaria. 14. L’art. 133, comma 1, lettera a), n. 2), nel quale è confluito il comma 5 dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990, contestualmente abrogato ad opera dell’art. 4, comma 1, punto 14, dell’allegato 4 al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, fa riferimento non solo alle controversie in materia di formazione e conclusione degli accordi sostitutivi o integrativi di provvedimento, ma anche a quelle riferibili alla loro esecuzione. L’atto di vendita del 2008 costituisce inequivocabilmente l’esecuzione della convenzione di lottizzazione del 2005. Affermata pertanto la giurisdizione del giudice amministrativo con riferimento alla prima, essa non può che estendersi anche, per quanto sopra detto, al secondo, con conseguente rigetto dell’appello incidentale nella parte in cui ripropone la relativa eccezione in rito assorbita nella decisione di merito del primo giudice. 15. Secondo la difesa civica la presenza di una clausola arbitrale nell’ambito della convenzione di lottizzazione, precluderebbe comunque la devoluzione della controversia al giudice amministrativo, dovendo le parti rivolgersi al Sindaco di Scorzè, individuato allo scopo «con decisione inappellabile» per tutte le «eventuali richieste di risarcimento danni» conseguenti all’esito positivo dell’impugnativa del decreto di prelazione (v. capoverso della lettera “l” della convenzione del 2005). 15.1. L’art. 12 c.p.a., nel consentire di devolvere ad un arbitrato rituale le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, sancisce a contrario la nullità della clausola contrattuale che preveda in tali ipotesi un arbitrato irrituale. Secondo l’appellante, la disposizione di cui alla lettera “l” della convenzione costituirebbe proprio una clausola compromissoria irrituale, mancando, per la configurabilità della prima fattispecie, il requisito fondamentale della terzietà ed imparzialità del giudice. 15.2. La distinzione tra arbitrato rituale e irrituale è questione di ermeneutica contrattuale, che va risolta con riguardo al contenuto obiettivo del compromesso o della clausola compromissoria e alla volontà delle parti. Si ritiene che le parti abbiano voluto un arbitrato rituale se hanno inteso attribuire agli arbitri una funzione sostitutiva del giudice, mentre hanno voluto un arbitrato irrituale, se hanno inteso demandare loro la soluzione della controversia mediante un negozio di accertamento o strumenti conciliativi o transattivi, sicché il relativo dictum è destinato a riempire il contenuto, in bianco, di un accordo transattivo sottoscritto dalle parti. Ove permanga un dubbio sulla natura dell’arbitrato voluto dalle parti, prevale la sua riconducibilità all’arbitrato irrituale, dovendo quello rituale, ove non previsto espressamente dalla legge, essere considerato un’eccezione, per la deroga che comporta alla giurisdizione pubblica. E’ indicativo dell’intento delle parti di addivenire ad un arbitrato rituale l’uso di espressioni prettamente processuali, quali “controversie”, “competenza”, “giudizio”, e per converso il mancato uso di espressioni tipiche per individuare l’arbitrato irrituale. 15.2. Nel caso di specie la vaghezza delle espressioni utilizzate nella richiamata clausola (“eventuali richieste di risarcimento danni derivanti” dal provvedimento di prelazione, ove dichiarato illegittimo) non consente di inquadrarne in maniera inequivoca la tipologia. Rileva tuttavia il Collegio come la natura settoriale e specifica della vicenda giuridica antecedente la cessione riferita al solo terreno inedificato non ne consenta la sovrapposizione con la causa petendi dell’odierna controversia. Per quanto, infatti, sia lo stesso appellante ad introdurre in maniera confusa singoli momenti della stessa, sì da farvi convergere, in una continua osmosi tra cause ed effetti, tutte le proprie pregresse rivendicazioni, è palese che l’annullamento della prelazione a favore del Comune in tanto rileva nell’odierno giudizio in quanto la sua pregressa insistenza ha asseritamente condizionato la scelta di cedere la villa, non ex se. A fronte, cioè, di un assetto dominicale sicuramente non soddisfacente per nessuno, che vedeva il privato proprietario della villetta ma non dell’adiacente giardino e il Comune di Scorzè, di converso, nella disponibilità del parco ma non dell’immobile da destinare ad uffici, le parti avevano già siglato un accordo transattivo - denominato “convegno preliminare” - in data 17 aprile 2003, nonché portato avanti una trattativa (essa sì certamente incisa dalle sorti incerte della prelazione) sfociata nella variante al locale Piano particolareggiato (Piano di lottizzazione) denominato “Ronchi” (già approvato nel 2002), esecutivo delle previsioni di P.R.G. per la zona residenziale “C2/3-edilizia convenzionata”, addivenendo alla fine delle trattative ad un aumento dell’indice volumetrico da 1,1 mc/mq a 1,265 mc/mq, per un totale di aumento del 15%, pari a complessivi mc. 25.273. In altre parole, è l’appellante ad avere traslato sul piano delle proprie scelte imprenditoriali la (diversa) vicenda proprietaria, evidentemente ritenendone conveniente la contrapposizione alla ottimizzazione del risultato economico cui aspirava la Società all’epoca rappresentata. Solo una volta ottenuto il risultato auspicato, ed essersi allontanato dalla compagine societaria, ne ha inteso rimettere in discussione le conclusioni. L’originaria autonomia delle due vicende, confluite in un unico procedimento negoziale, rileva ormai solo avuto riguardo alla portata, per nulla chiara nella sua formulazione letterale, della clausola arbitrale, che continua a ritagliare un tassello di negoziazione a parte alla vicenda risarcitoria (eventualmente) da correlare alla prelazione illegittima: identificare tuttavia in quest’ultima, suscettibile di distinta definizione, un vizio tale da comportare la caducazione dell’intera operazione esula dal contenuto degli accordi intercorsi, per come interpretabili alla luce di tutte le precedenti trattative. L’accordo, cioè, ha inteso comunque mettere un punto fermo alle stesse, laddove ha pure previsto che agli impegni si sarebbe comunque dato seguito «qualsiasi sia l’esito del ricorso» (ancora lettera “l” della convenzione). A ciò consegue il rigetto anche in parte qua dell’appello incidentale, con contestuale rigetto della richiesta risarcitoria autonoma dell’appellante laddove vorrebbe individuare l’elemento costitutivo dell’illecito comportamentale ascritto al Comune sia nell’avvenuto annullamento del decreto ministeriale, cui quest’ultimo non è in effetti estraneo per averne compulsato l’adozione manifestando la propria volontà di esercitare la prelazione sul bene, sia, in particolare, nella asserita violazione della clausola arbitrale, la cui azionabilità davanti a questo giudice è da ritenersi esclusa, prima e piuttosto che da ragioni di competenza, dalla ricostruita estraneità contenutistica all’assetto finale delle scelte consensualmente determinate. 16. Il Collegio non ritiene necessario scrutinare le ulteriori censure di rito prospettate dalla difesa civica, stante la già anticipata infondatezza nel merito dell’appello. Vero è che si palesa meritevole di accoglimento, quanto meno avuto riguardo alla convenzione di lottizzazione, anche la eccepita tardività dell’azione. Una volta concluso l’accordo, infatti, i diritti e gli obblighi che sono sorti in funzione della stipula inter partes, hanno determinato o rideterminato una tendenziale condizione di parità tra la parte pubblica e quella privata in ragione del reciproco consenso, reso nella consapevolezza della cornice nella quale esso andava ad inserirsi. La scelta di cedere il bene era già confluita nella convenzione del 2005, di cui l’atto del 2008 costituisce mera esecuzione, sicché se coercizione della volontà vi era stata, è a tale momento che essa andava ascritta, non potendo certo l’annullamento (sopravvenuto) del decreto di prelazione trasformare retroattivamente in coartata la manifestazione di volontà a suo tempo liberamente espressa. A nulla rilevando il fatto che essendosi l’appellante “sganciato” dalla lottizzazione con la vendita delle quote societarie non avrebbe più potuto agire per la rinegoziazione ovvero per la risoluzione consensuale dell’accordo, senza danneggiare la Società lottizzante, le cui difficoltà economiche vengono dallo stesso ascritte proprio alle lungaggini attuative del procedimento edilizio assentito. 17. Prima ancora di valutare la consistenza residua delle argomentazioni addotte dalla parte a sostegno della richiesta di rescissione o annullamento, occorre interrogarsi sulla compatibilità a monte dei rimedi invocati con il paradigma del contratto ad oggetto pubblico. E’ indubbio, infatti, che un ulteriore profilo problematico posto dall’art. 11 della l. n. 241 del 1990 riguarda il rinvio contenuto nel secondo comma ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti. Più precisamente, la norma afferma che «si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili». La giurisprudenza si è nel tempo pronunciata sulla applicabile, ad esempio, dell’art. 1453, in materia di risoluzione per inadempimento (Cons. Stato, sez. IV, 9 novembre 2004, n. 7245), ovvero della clausola penale (Cons. Stato, sez. IV, 3 dicembre 2015, n. 5510). Si sono analogamente ritenuti compatibili con l’istituto i rimedi di cui all’art. 1463 c.c., sulla impossibilità sopravvenuta, ovvero 1467 c.c., sulla eccessiva onerosità sopravvenuta. Il Collegio ritiene che non siano ravvisabili ostacoli alla ritenuta ammissibilità anche dell’azione di rescissione ovvero di annullamento per violenza morale, questione che né il primo giudice, né le parti hanno comunque lambito, sicché non se ne rende necessario un ulteriore approfondimento. 18. L’appello peraltro, riproponendo la sistematica della sentenza impugnata, avanza censure distinte riferibili singolarmente a ciascuno dei due accordi, la convenzione e la vendita, distintamente peraltro per la rescissione e per l’annullamento. Ne è tuttavia possibile un’analisi congiunta stante la già rilevata unitarietà ricostruttiva. Essa ruota sulla coloritura che si è inteso attribuire ai fatti di causa, ovvero l’esistenza di un ambiguo regime giuridico diversificato fra fabbricato e terreno, da un lato, e la difficoltà economica nella quale si sarebbe trovata la Società lottizzante a cagione del rallentamento della lottizzazione convenuta col Comune. 19. Appare dunque opportuno operare una premessa di ordine generale sulle condizioni indispensabili per pervenire all’accoglimento dell’azione di rescissione contrattuale per asserita lesione ultra dimidium, per come contemplate nei primi tre commi dell’art. 1448 c.c. La giurisprudenza della Corte di Cassazione è concorde nel ritenere che i tre requisiti - cioè l’eccedenza di oltre la metà della prestazione rispetto alla controprestazione, l’esistenza di uno stato di bisogno, che funzioni come motivo dell’accettazione della sproporzione fra le prestazioni da parte del contraente danneggiato e, infine, l’avere il contraente avvantaggiato tratto profitto dall’altrui stato di bisogno del quale era consapevole - debbano ricorrere simultaneamente (cfr. ex multis, Cass.civ. , sez. II, 12 giugno 2018, n. 15338). Fra essi non intercede alcun rapporto di subordinazione od alcun ordine di priorità o precedenza, per cui riscontrata la mancanza o l’omessa dimostrazione dell’esistenza di uno dei tre elementi, diviene superflua l’indagine circa la sussistenza degli altri due e l’azione di rescissione deve essere senz’altro respinta (cfr. Cass., sez. I, 13 febbraio 2009, n. 3646). In modo ancor più specifico, i giudici di legittimità hanno statuito che per stabilire se risultino integrati gli estremi della lesione nella compravendita di un immobile, quale quella oggetto dell’odierna controversia, occorre, da un lato, far riferimento al valore che esso presumibilmente avrebbe avuto in una comune contrattazione al tempo della stipulazione e, dall’altro lato, tener presente che, ancorché anche una semplice difficoltà economica o una contingente carenza di liquidità siano idonee ad integrare lo stato di bisogno, si profila comunque necessario che esse si pongano in rapporto di causa ed effetto con la determinazione a contrarre, «nel senso che debba emergere, dall’istruzione della causa, quantomeno una situazione tale da consentire di ritenere, attraverso una motivata valutazione complessiva, che la conoscenza dello stato di bisogno della controparte abbia costituito la spinta psicologica a contrarre» (v., ancora, Cass. Civ., sez. II, 2 settembre 2011, n. 18040). In taluni casi si è addirittura esclusa la possibilità di rescindere il contratto in assenza di un “danno grave alla persona”, attingendo cioè ad una nozione non diversa da quella accolta dall’art. 54 c.p., quale condizione di non punibilità, o dall’art. 2045 c.c., quale motivo di esenzione della responsabilità (Cass., sez.III , ord. 20 aprile 2020, n.7963). Quanto all’approfittamento dello stato di bisogno, esso presuppone la consapevolezza che una parte abbia dello squilibrio tra le prestazioni contrattuali derivante dallo stato di bisogno altrui di cui ha parimenti conoscenza, non essendo a tal fine sufficiente uno squilibrio solo ipotizzato da parte del contraente in posizione di vantaggio (cfr. Cass.civ., sez. VI, 28 gennaio 2015, n. 1651/2015). 20. Il doppio limite all’applicabilità delle disposizioni civilistiche contenuto nell’art. 11, comma 2, della l. n. 241 del 1990, ne implica l’operatività non solo ove non sia diversamente previsto, ma anche avuto riguardo a disposizioni comunque compatibili con la disciplina degli accordi. Ciò comporta che una volta ammesso il ricorso ai principi di diritto comune, essi vanno tuttavia “ricollocati” sotto la lente del superiore interesse pubblico alla stregua del quale è orientata la funzione amministrativa. Il Collegio ritiene opportuno richiamare in proposito i principali snodi logico-argomentativi sui quali si fondano alcuni precedenti del Consiglio di Stato in materia di contratti ad oggetto pubblico, stante che le relative conclusioni costituiscono un imprescindibile filtro di compatibilità alla stregua del quale ponderare l’equilibrio del sinallagma. Si è dunque affermato che: a) «gli impegni assunti in sede convenzionale - al contrario di quanto si verifica in caso di rilascio del singolo titolo edilizio, in cui gli oneri di urbanizzazione e di costruzione a carico del destinatario sono collegati alla specifica trasformazione del territorio oggetto del titolo, con la conseguenza che ove, in tutto o in parte, l’edificazione non ha luogo, può venire in essere un pagamento indebito fonte di un obbligo restitutorio - non vanno riguardati isolatamente, ma vanno rapportati alla complessiva remuneratività dell’operazione, che costituisce il reale parametro per valutare l’equilibrio del sinallagma a base dell'accordo e, quindi, la sostanziale liceità degli impegni assunti»; b) «la causa della convenzione urbanistica, e cioè l’interesse che l’operazione contrattuale è diretta a soddisfare, in particolare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale della convenzione, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato sia quelli della pubblica amministrazione»; c) «non è affatto escluso dal sistema che un operatore, nella convenzione urbanistica, possa assumere oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, trattandosi di una libera scelta imprenditoriale (o, anche, di una libera scelta volta al benessere della collettività locale), rientrante nella ordinaria autonomia privata, non contrastante di per sé con norme imperative» (Cons. Stato, sez. IV, 6 ottobre 2020, nn.5877 e 5878; id, 3 agosto 2020, n. 4892). 21. I presupposti dell’azione di rescissione - e di quella di annullamento - dunque, necessitano di un vaglio ancor più restrittivo siccome permeato degli elementi pubblicistici sopra evidenziati. Il che rafforza le affermazioni del primo giudice in ordine all’insussistenza di qualsivoglia stato di bisogno, tale non essendo né la (presunta) difficoltà psicologica identificata nel «timore di esporre sé e i suoi beni ad eventuali azioni di rivalsa da parte della società Co-Progetti e del curatore fallimentare», né l’esito incerto del ricorso straordinario avverso il decreto del 2002, né, men che meno, la difficoltà economica nella quale versava (non l’appellante, ma ) la Società dante causa, sia perché, appunto, divenuta terza rispetto allo stesso al momento della cessione delle quote, sia perché, piuttosto, di essa egli era in buona parte responsabile, stante che proprio l’inottemperanza all’obbligo assunto ne aveva danneggiato, rallentandolo, l’iter di definizione del progetto edilizio intrapreso. 21.1. Le conclusioni non mutano ove si riguardi all’attuazione complessiva del programma convenzionale e, quindi, all’equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni non escludendo la possibile astratta operatività della figura dell’indebito oggettivo. Tale valutazione va, infatti, comunque condotta non enfatizzando isolatamente gli impegni convenzionali ma, per l’appunto, tenendo conto della complessiva remuneratività dell’operazione e, in generale, del complessivo sinallagma impresso nella convenzione. La clausola arbitrale sul risarcimento (eventuale) da annullamento della prelazione, pertanto, si pone su un piano parallelo rispetto alla ritenuta convenienza di pattuire da subito la cessione (anche) del terreno inedificato circostante la villa, seppure successivamente non ritenuto soggetto a vincolo. La priorità accordata all’acquisizione dell’immobile giustifica la mancata accettazione della prestazione in luogo di adempimento offerta dalla Società per rimediare all’inottemperanza dell’appellante, avendo evidentemente il Comune di Scorzè a sua volta ritenuto conveniente l’avallo dell’edificazione assentita con indici aumentati solo nella misura in cui veniva risolto il distinto e autonomo problema della individuazione di una sede consona per i propri uffici. 22. D’altro canto, il timore di un’azione di rivalsa da parte della Società consegue non ad un illecito comportamento del Comune, bensì alla scelta, lucrativa solo in termini personali, di “sganciare” da subito le proprie sorti da quelle della stessa, cedendo a terzi con scrittura privata autenticata del 4 luglio 2005 la propria quota di partecipazione, corrispondente al 60% del capitale sociale, per il corrispettivo di ben € 2.633.006,87, senza attendere neppure l’esito del ricorso straordinario, sicché risulta ancor più difficile immaginare quale danno possa essergli conseguito all’avvenuta autorizzazione alla prelazione di un bene di cui nel contempo ha assentito alla negoziazione. Legittimamente, dunque, la Società ne compulsava l’adempimento, qualificato come fatto del terzo dall’art. 4 della convenzione ex art. 1381 c.c., pur avendo il Biancon sottoscritto la convenzione anche in proprio, e dunque assumendo i relativi obblighi in prima persona. A conferma di ciò, al momento della ricordata cessione di quote si impegnava nuovamente e per iscritto , in solido con la Co.Progetti, «ad eseguire gli obblighi previsti all’art. 14 della convenzione […] e precisamente al trasferimento gratuito entro dicembre 2007 di Villa Lina (proprietà personale del signor Gian Francesco Biancon parco e fabbricato)». Altrettanto legittimamente, dunque, il Comune di Scorzé dal canto suo non ha inteso dare seguito alla convenzione fino a quando non se ne sia stato ottemperato il contenuto integrale, comprensivo della cessione del bene, essendole del tutto indifferente il mutato rapporto tra Società e suo (ex) rappresentante legale. Costituisce infatti principio consolidato in materia di pattuizioni sugli oneri concessori, applicabile mutatis mutandis al caso di specie, quello in forza del quale non rileva nei rapporti con il Comune l’esistenza di eventuali accordi interni ai debitori ai fini della liberazione del dante causa, nel caso di specie, come chiarito, neppure esistenti. In termini, non sono opponibili all’amministrazione né le vicende pregresse della proprietà né gli accordi tra i soggetti privati coinvolti nella costruzione e nell’utilizzazione dei beni. 23. Va infine condivisa allo scopo di escludere la rilevanza della presunta situazione di incertezza psicologica l’affermazione del primo giudice che ha inteso dare rilievo all’avvenuta stipula del contratto del 2008 quando ormai era stato definito da tempo il contenzioso inerente la prelazione sui terreni inedificati circostanti la villa. A ciò deve altresì aggiungersi che l’appellante era consapevole dei dubbi sulla natura vincolata o meno del bene acquistato sin dal 2002, stante che il relativo atto, la comunicazione del quale ha dato avvio all’esercizio della prelazione da parte del Comune, conteneva esplicita condizione sospensiva in tal senso. 24. Solo poche considerazioni aggiuntive in ordine alla richiesta alternativa di annullamento degli accordi per violenza morale. L’actio quod metus può essere esperita quando vi è stato un costringimento psicologico o fisico, che ha limitato o eliminato del tutto la libertà di scelta del soggetto che la subisce. Essa presuppone, cioè, la minaccia o la percezione della stessa riferibile ad un male ingiusto e notevole. Il Collegio ritiene di avere sufficientemente chiarito come la volontà del Biancon non sia stata in alcun modo coartata né direttamente, né indirettamente, in ragione del contesto nel quale l’operazione si è inserita, dal Comune di Scorzè, che ha piuttosto accondisceso alle richieste dallo stesso avanzate nell’ambito della trattativa urbanistica, salvo poi pretendere dalla Società lottizzante, rimasta suo unico interlocutore in merito, il rispetto degli impegni assunti. 25. A quanto detto consegue il rigetto delle istanze risarcitorie, la cui genericità di formulazione, peraltro, è al limite della ammissibilità, essendosi l’appellante limitato ad individuare nel provvedimento ministeriale illegittimo l’elemento costitutivo della responsabilità (anche) del Comune, agganciandola con evidente salto logico all’impegno a definire mediante arbitrato sindacale eventuali richieste in merito. Il che sarebbe comunque insufficiente ad integrare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie per come da ultimo declinati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato ( Cons. Stato, A.P. 23 aprile 2021, n. 7, che ha definitivamente qualificato come extracontrattuale la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi da illegittimità provvedimentale). 26. Del tutto inconferente, infine, si palesa il richiamo, anche in tale caso in maniera semplicisticamente promiscua, agli artt. 2041 c.c. ovvero 21 quinquies della l. n. 241 del 1990, nella parte in cui fanno riferimento all’obbligo di indennizzo, nel primo caso per indebito arricchimento, nel secondo per la sopravvenuta revoca di un atto amministrativo per ragioni di opportunità. Né, infatti, vi è stata da parte del Comune siffatta indebita locupletatio, essendosi l’Amministrazione limitata a dare seguito a quanto convenzionalmente statuito, né l’Amministrazione è intervenuta in via di autotutela sugli atti di cui è causa. Il richiamo testuale, contenuto nelle premesse della vendita del 2008, al parere del Consiglio di Stato all’esito del ricorso straordinario, non ha infatti in alcun modo inciso sul contenuto della cessione, comunque estesa anche al giardino in quanto in tal senso le parti si erano impegnate, quale che fosse stata la decisione in ordine alla possibilità di acquisire in via di prelazione il solo suolo inedificato. 27. Per tutto quanto sopra detto, il Collegio ritiene di dovere respingere sia l’appello principale che quello incidentale, confermando per l’effetto la sentenza del T.A.R. per il Veneto n. 562 del 2013. 28. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso. 29. La reciproca soccombenza e la complessità delle questioni trattate giustificano la compensazione delle spese del grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e per l’effetto conferma la sentenza del T.A.R. per il Veneto n. 562 del 15 aprile 2013. Respinge l’appello incidentale del Comune di Scorzè. Spese del grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 ottobre 2021 con l’intervento dei magistrati: Diego Sabatino, Presidente Giovanni Sabbato, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere, Estensore Cecilia Altavista, Consigliere Francesco Guarracino, Consigliere Diego Sabatino, Presidente Giovanni Sabbato, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere, Estensore Cecilia Altavista, Consigliere Francesco Guarracino, Consigliere IL SEGRETARIO
Urbanistica – Convenzione urbanistica – Ratio – Autonomia dal Piano di lottizzazione.     La funzione della convenzione urbanistica non è di integrare la disciplina urbanistica, di per sé completa, ma di definire nel dettaglio gli impegni delle parti, e principalmente dei privati, in vista del conseguimento dell’equilibrio nello scambio di utilità; essa pertanto è autonoma e distinta dal Piano di lottizzazione cui accede, in quanto rappresenta solo una delle eventuali attività che possono concretizzarsi dopo l’approvazione di quest’ultimo (1) ​​​​​​​ ​​​​​ (1) In linea generale le convenzioni di lottizzazione sono riconducibili alla categoria degli accordi integrativi di provvedimento, disciplinati dall’art. 11, l. n. 241 del 1990. Come la Sezione ha già avuto modo di precisare, a fronte di un iniziale disinteresse per l’istituto, sono state successivamente ricondotte sotto l’egida dello stesso proprio le numerose fattispecie consensuali tipicamente in uso nella materia urbanistica, dove l’immanente esigenza di collocare l’esercizio dello ius aedificandi in una più vasta cornice di buon governo del territorio, rende talvolta conveniente per l’Amministrazione “scendere a patti”, richiedendo sforzi aggiuntivi al privato in termini di dare ovvero di facere, onde orientarne la maggiore libertà di movimento verso i propri obiettivi di programmazione, nel contempo ottimizzando le aspirazioni dello stesso a ricavare i maggiori vantaggi possibili dalla proprietà (v. Cons. Stato, sez. II, 19 gennaio 2021, n. 579). ​​​​​​Le relative controversie vanno pertanto ricondotte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, giusta la previsione in tal senso dell’art. 133, comma 1, lettera a), n. 2), c.p.a. nel quale è confluito il comma 5 dell’art. 11, l.n. 241 del 1990, contestualmente abrogato ad opera dell’art. 4, comma 1, punto 14, dell’allegato 4 al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Essa si estende anche ai patti, comunque formalizzati, apparentemente di natura esclusivamente privatistica, siglati per dare esecuzione ad obblighi assunti nell’ambito della convenzione, stante che la norma fa riferimento non solo alle controversie in materia di formazione e conclusione degli accordi sostitutivi o integrativi di provvedimento, ma anche a quelle riferibili alla loro esecuzione. ​​​​​​​La funzione della convenzione urbanistica non è di integrare la disciplina urbanistica, di per sé completa, ma di definire nel dettaglio gli impegni delle parti, e principalmente dei privati, in vista del conseguimento dell’equilibrio nello scambio di utilità. Essa pertanto è autonoma e distinta dal Piano di lottizzazione cui accede, in quanto rappresenta solo una delle eventuali attività che possono concretizzarsi dopo l’approvazione di quest’ultimo, che costituisce il presupposto giuridico (e non necessariamente logico, salvo l’ipotesi in cui permangano volontà e presupposti della pianificazione approvata per la lottizzazione) della stipula. E’ comunque possibile, in ragione della sua riconducibilità al paradigma generale dell’accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento, far confluire nella convenzione anche statuizioni pattizie eterogenee rispetto alla finalità di regolazione dell’assetto del territorio che connota la finalità dello strumento urbanistico attuativo ad essa sotteso. E’ pertanto rimessa al giudice, a fronte di una fattispecie consensuale pubblica, a maggior ragione se a contenuto composito, una precisa operazione ermeneutica che non può prescindere dalla disamina della fase formativa dell’accordo, della sua struttura e dei suoi effetti, senza partire da categorizzazioni preconcette: solo all’esito di tale specifica analisi, è infatti possibile non tanto e non solo l’inquadramento concettuale della singola fattispecie, ma anche e soprattutto l’individuazione degli strumenti rimediali alla stessa applicabili (Cons. Stato, sez. II, 6 febbraio 2020, n. 941). Il doppio limite all’applicabilità delle disposizioni civilistiche contenuto nell’art. 11, comma 2, l. n. 241 del 1990, ne implica l’operatività non solo ove non sia diversamente previsto, ma anche avuto riguardo a disposizioni comunque compatibili con la disciplina degli accordi. Ciò comporta che una volta ammesso il ricorso ai principi di diritto comune, essi vanno tuttavia “ricollocati” sotto la lente del superiore interesse pubblico alla stregua del quale è orientata la funzione amministrativa. La giurisprudenza si è nel tempo pronunciata sulla applicabilità, ad esempio, dell’art. 1453 c.c., in materia di risoluzione per inadempimento (Cons. Stato, sez. IV, 9 novembre 2004, n. 7245), ovvero della clausola penale (Cons. Stato, sez. IV, 3 dicembre 2015, n. 5510). Si sono analogamente ritenuti compatibili con l’istituto i rimedi di cui all’art. 1463 c.c., sulla impossibilità sopravvenuta, ovvero 1467 c.c., sulla eccessiva onerosità sopravvenuta. Astrattamente, pertanto, non sussistono ostacoli concettuali alla configurabilità dell’azione di rescissione avverso una convenzione urbanistica. Gli elementi costitutivi dell’istituto, tuttavia, vanno filtrati avuto riguardo alla funzione economico-sociale della convenzione, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato sia quelli della pubblica amministrazione. Non è pertanto affatto escluso dal sistema che un operatore, nella convenzione urbanistica, possa assumere oneri anche maggiori di quelli astrattamente previsti dalla legge, trattandosi di una libera scelta imprenditoriale (o, anche, di una libera scelta volta al benessere della collettività locale), rientrante nella ordinaria autonomia privata, non contrastante di per sé con norme imperative (Cons. Stato, sez. IV, 6 ottobre 2020, nn. 5877 e 5878; id, 3 agosto 2020, n. 4892)
Urbanistica
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/edilizia-scoilastica-e-speciali-poteri-attribuiti-ai-sindaci
Edilizia scolastica e speciali poteri attribuiti ai Sindaci
N. 02556/2022REG.PROV.COLL. N. 10740/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10740 del 2021, proposto dall’Istituto Orfani Don Trombelli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Luigino Biagini e Alessandra De Vido, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro il Comune di San Lazzaro di Savena, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dall’avvocato Roberto Ollari, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Parma, borgo Zaccagni, n. 1; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna (Sezione Prima) 8 novembre 2021 n. 901/2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di San Lazzaro di Savena; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 febbraio 2022 il consigliere Alessandro Verrico e uditi per le parti gli avvocati Luigino Biagini e Roberto Ollari; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con ricorso dinanzi al T.a.r. per l’Emilia Romagana (r.g. n. 685/2020), l’Istituto Orfani Don Trombelli, proprietario di un compendio immobiliare ubicato in via Fondè nn. 27/29 del Comune di San Lazzaro di Savena (identificato al foglio 20 mappale 561 del catasto terreni ed al foglio 20 mappale 561 subalterni da 1 a 15 compreso del catasto fabbricati), adibito per diversi anni in parte a convento ed in parte a scuola elementare, impugnava gli atti della procedura di espropriazione, adottati ai sensi dell’art 7-ter d.l. 8 aprile 2020 n. 22, avente ad oggetto il medesimo compendio, tra i quali: a) la deliberazione del Comune di San Lazzaro di Savena G.c. n. 125 del 29 luglio 2020; b) il decreto sindacale prot. n. 28823 del 5 agosto 2020; c) il decreto sindacale prot. n. 35495 del 23 settembre 2020; d) la deliberazione C.c. n. 21 del 27 luglio 2020; e) la determinazione del dirigente dell’Ufficio per le espropriazioni del Comune di San Lazzaro di Savena n. 665 del 22 settembre 2020. 1.1. Con successivo atto di motivi aggiunti il ricorrente impugnava altresì: f) la determinazione del dirigente dell’Ufficio per le espropriazioni del Comune n. 138 del 2 marzo 2021 (notificata in data 25 marzo 2021), recante “Decreto di esproprio ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 23 del d.p.r. 08.06.2001 n. 327 di porzione del compendio immobiliare denominato Don Trombelli sita in San Lazzaro di Savena via Fondè 27/29”; g) il verbale di immissione in possesso e stato di consistenza prot. 38468 del 13 ottobre 2020. 2. Il T.a.r., con la sentenza 8 novembre 2021 n. 901, ha accolto in parte il ricorso e i motivi aggiunti e ha compensato le spese di giudizio tra le parti. Il Tribunale, in particolare: a) ha ritenuto infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dal Comune di San Lazzaro di Savena, per tardività del conferimento della procura speciale rispetto alla sottoscrizione del ricorso; b) ha ritenuto infondata l’eccezione di inammissibilità del motivo di illegittimità parziale dei provvedimenti impugnati per la parte del compendio immobiliare non adibita a scuola, sollevata dalla difesa comunale sostenendo che il ricorrente avrebbe dedotto lo stesso unicamente con memoria non notificata; c) ha rilevato che il concetto di “aree” indicato nell’art 7-ter del decreto legge 8 aprile 2020, n. 22 (convertito, con modificazioni, dalla legge 6 giugno 2020, n. 41) è comprensivo anche degli edifici già effettivamente adibiti (come nel caso di specie) a scuola; d) ha ritenuto che detta norma speciale abbia inteso prescindere dalla verifica di conformità urbanistica dell’opera di pubblica utilità e dunque dalla necessità di una variante urbanistica, peraltro non risultando contraria ai parametri costituzionali, stante l’effetto transitorio limitato al periodo emergenziale; e) dovendo quindi considerare tale norma speciale di stretta interpretazione, ha ritenuto non ammissibile l’estensione dell’ambito oggettivo di applicazione, nella fattispecie ristretto alla realizzazione di “interventi di edilizia scolastica”, risultando pertanto completamente estranea la porzione dell’edificio (e le relative aree di pertinenza) da sempre destinata a residenza delle suore. In conclusione, il Tribunale, in accoglimento parziale del ricorso introduttivo e dell’atto di motivi aggiunti, ha disposto l’annullamento parziale dei provvedimenti sindacali impugnati e del decreto di esproprio, limitatamente alla porzione residenziale e alle relative aree di pertinenza del compendio immobiliare. 3. L’originario ricorrente ha proposto appello, per ottenere la riforma della sentenza impugnata e l’accoglimento integrale del ricorso originario, con conseguente annullamento del decreto sindacale impositivo del vincolo espropriativo e di contestuale dichiarazione di pubblica utilità, nonché del decreto di esproprio anche per quanto riguarda la parte adibita a scuola. In particolare, l’appellante ha sostenuto le censure riassumibili nei seguenti termini: I) “Errores in iudicando: Violazione dell’art. 7 - ter del D.L. 22/2020 (introdotto, in sede di conversione, dalla L. n. 41 del 6.06.2020) in relazione all’assenza della necessaria e presupposta conformità urbanistica richiesta per le opere pubbliche dagli artt. 8, 9, 10, 12 e 19 del T.U. approvato con d.P.R. 8.06.2001 n. 327” (contro i capi della sentenza che hanno respinto in parte le censure riguardanti l’assenza della necessaria conformità urbanistica dell’opera pubblica). L’appellante ha dedotto che la sentenza impugnata sarebbe errata nella parte in cui ha respinto le censure riguardanti l’asserita assenza della necessaria conformità urbanistica dell’opera, atteso che l’art. 7-ter del d.l. n. 22/2020, che disciplina la procedura utilizzata nel caso di specie, se, da un lato, detta una particolare disciplina acceleratoria, dall’altro non consentirebbe di procedere con un esproprio qualora non vi sia la conformità urbanistica dell’opera. Peraltro, secondo l’appellante, il “silenzio” della norma, in merito alla necessità di predisporre una variante agli strumenti urbanistici comunali qualora l’opera non sia in questi prevista, sarebbe indice del fatto che, anche nella particolare procedura accelerata, sia necessaria la conformità urbanistica dell’opera pubblica, così come il riconoscimento al Sindaco della facoltà di “b) … promuovere gli accordi di programma e le conferenze di servizi, o parteciparvi, anche attraverso un proprio delegato” dovrebbe intendersi riferito agli accordi di programma e alle conferenze di servizi quali schemi procedimentali semplificati utilizzati nel “momento urbanistico” delle procedure espropriative. II) “Errores in iudicando: Violazione dell’art. 7 - ter del D.L. 22/2020 (introdotto, in sede di conversione, dalla L. n. 41 del 6.06.2020) in relazione alla distinzione tra conformità urbanistica e vincolo preordinato all’esproprio di cui all’art. 8 del d.P.R. 327/2001, all’art. 36 bis della L.R. n. 20/2000; errata applicazione dell’art. 7 - ter del D.L. 22/2020 in relazione alla fase di programmazione dell’offerta scolastica ai sensi dell’art. 1 della L. n. 23/1996; - difetto di motivazione” (contro i capi che hanno respinto in parte le censure riguardanti l’assenza della necessaria conformità urbanistica dell’opera pubblica). L’appellante ha lamentato l’erroneità della sentenza di primo grado laddove ribadisce che il decreto sindacale possa essere adottato senza apporre alcuna variante urbanistica, essendosi in tal modo erroneamente sovrapposto il concetto di “conformità urbanistica” a quello di “vincolo espropriativo”, da tenere invece nettamente distinti. Inoltre, secondo l’appellante, l’art. 7-ter non collegherebbe affatto la locuzione “prescindendo da ogni altro adempimento” alla fase impositiva del vincolo, bensì alla diversa fase esecutiva dell’esproprio. III) “Errores in iudicando: violazione dell’art. 7 - ter del d.l. 22/2020 (introdotto, in sede di conversione, dalla l. n. 41 del 6.06.2020) in relazione al principio di legalità e di tassatività dei poteri riconosciuti ai sindaci-commissari; difetto di motivazione; illegittimità costituzionale dell’art. 7 – ter del d.l. n. 22/2020: Violazione dell’art. 97 Cost. e dell’art. 117 Cost. in relazione alla competenza concorrente delle Regioni nelle materie che si “intersecano” con l’edilizia scolastica e con i poteri commissariali riconosciuti ai Sindaci” (avverso i capi che hanno respinto in parte le censure riguardanti l’assenza della necessaria conformità urbanistica dell’opera pubblica). L’appellante ha insistito nel censurare l’assenza della conformità urbanistica dell’opera pubblica, richiamando il principio, ribadito dalla Corte costituzionale, secondo il quale il potere di deroga alla normativa primaria, conferito ad autorità amministrative munite di poteri di ordinanza assume carattere eccezionale, temporalmente delimitato, e non comporta abrogazione o modifica delle norme vigenti, con la conseguenza che i poteri conferiti al Sindaco dall’art. 7-ter d.l. n. 22/2020 dovrebbero ritenersi circoscritti ai limiti previsti dalla legge stessa. L’appellante inoltre ha affermato che, se non fosse possibile la lettura “costituzionalmente orientata” dell’art 7-ter dallo stesso proposta, tale norma dovrebbe ritenersi inficiata di illegittimità costituzionale sotto plurimi profili (artt. 97-117 Cost.). IV) “Errores in iudicando: Ulteriore violazione dell’art. 7 - ter del D.L. 22/2020 (introdotto, in sede di conversione, dalla L. n. 41 del 6.06.2020) sempre in relazione al principio di legalità e tassatività dei poteri riconosciuti ai Sindaci-commissari; incompetenza relativa del dirigente comunale ad assumere il decreto d’esproprio” (contro i capi della sentenza che hanno respinto il terzo motivo del ricorso introduttivo ed il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti). L’appellante ha lamentato l’erroneità della sentenza del T.a.r. laddove ha ritenuto che la portata applicativa dell’art. 7-ter comprenda anche gli edifici e non solo le aree occorrenti all’esecuzione degli interventi di edilizia scolastica. Inoltre, il primo giudice avrebbe errato nell’affermare la competenza del dirigente comunale in relazione all’adozione del decreto di esproprio, vista la competenza del Sindaco nell’ambito della procedura accelerata de qua. V) “Riproposizione del secondo motivo di ricorso: Violazione dell’art. 7 - ter del D.L. 22/2020 (introdotto, in sede di conversione, dalla L. n. 41 del 6.06.2020) in relazione ai contenuti delle varianti urbanistiche localizzative di un’opera pubblica scolastica: violazione dell’art. 36-bis della L.R. n. 20/2000; violazione dell’art. 23 del d.Lgs. n. 50/2016; violazione dell’art. 2 della L. n. 1/1978; errata applicazione del D.M. 18.12.1975 e del D.M. 11.04.2013; difetto di istruttoria”. L’appellante ha riproposto la censura in ordine alla carenza contenutistica dell’approvato progetto di opera pubblica, in quanto, relativamente agli aspetti “urbanistici”, il decreto sindacale avrebbe dovuto in ogni caso contenere gli stessi elaborati richiesti per le variazioni degli strumenti urbanistici comunali, anche in ragione della normativa tecnica ad hoc sull’edilizia scolastica (d.m. 18 dicembre 1975, attuativo della l. n. 412/1975, e le linee guida approvate con il d.m. 11 aprile 2013). VI) “Ancora sul secondo motivo di ricorso: Violazione dell’art. 7 - ter del D.L. 22/2020 (introdotto, in sede di conversione, dalla L. n. 41 del 6.06.2020) in relazione ai requisiti tecnici e funzionali degli edifici scolastici: violazione dell’art. 23 del d.lgs. n. 50/2016; errata applicazione del d.m. 18.12.1975 e del d.m. 11.04.2013; difetto di istruttoria. Riproposizione dell’istanza di verificazione/c.t.u. e dell’eccezione di inammissibilità della documentazione e della memoria avversaria depositata in data 26.09.2021; Riproposizione del quarto motivo di ricorso: Violazione dei principi di proporzionalità e adeguatezza nonché illogicità e irrazionalità dell’azione amministrativa; violazione del principio di precauzione; eccesso di potere”. L’appellante ha riproposto le censure di cui al secondo motivo di ricorso, deducendo che il Comune nell’approvazione del progetto di opera pubblica avrebbe dovuto attenersi e verificare il rispetto della normativa tecnica delle costruzioni e di quella specifica degli edifici scolastici (d.m. 18 dicembre 1975), considerato peraltro che, nel caso di specie, come dimostrato dalla relazione tecnica di parte, l’edificio non rispetterebbe, sotto diversi profili, tale normativa. Infine, l’appellante ha chiesto, in via istruttoria, di disporre una verificazione ovvero una consulenza tecnica. 3.1. Si è costituito in giudizio il Comune di San Lazzaro di Savena, il quale, depositando memoria difensiva, si è opposto all’appello e ne ha chiesto l’integrale rigetto. In particolare, il Comune, dopo aver premesso di accettare la dichiarazione di illegittimità - effettuata dal primo giudice - del vincolo sulla parte dell’immobile di proprietà dell’Istituto appellante non adibita a scuola, ha osservato, in relazione alle censure d’appello, che: a) fin dal 1975 l’immobile in esame è stato dotato di certificato di agibilità ad uso scuola per la porzione a ciò adibita (il piano terra, gli uffici e le scuole della scuola elementare statale comunale Don Trombelli), con la conseguenza che non è stato necessario redigere un progetto di opera pubblica ai sensi dell’art. 23 del d.lgs. n. 50/2016; b) secondo l’art. 7-ter, comma 3, del d.l. n. 22/2020, convertito in l. n. 41/2020, non occorrerebbe alcuna variante urbanistica che preceda il decreto di apposizione del vincolo e la dichiarazione di pubblica utilità, in quanto, con riferimento al decreto di immissione in possesso si precisa che “si prescinde da ogni altro adempimento” e che “vale come atto impositivo del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarativo della pubblica utilità”. Pertanto, non risulterebbe necessario svolgere preliminarmente la fase dell’imposizione del vincolo adottando il normale strumento urbanistico, essa essendo assorbita nel decreto del Sindaco, al quale si attribuisce il potere di apporre il vincolo, prescindendo da ogni altro adempimento. Ad ogni modo, nel caso di specie non occorrerebbe alcuna variante di piano, essendovi piena conformità urbanistica; c) l’apposizione del vincolo (che di solito avviene con l’inserimento dell’opera pubblica nei piani urbanistici o con varianti di questi) determinerebbe essa stessa la conformità urbanistica dell’opera; d) l’Amministrazione risulta aver pienamente rispettato quanto previsto dall’art. 7-ter cit.; e) sarebbe inammissibile la censura di illegittimità costituzionale dell’art. 7-ter cit., non essendo state rispettate a tal fine le forme previste dal nostro ordinamento; f) il termine “area” (indicato dall’art. 7-ter del dl 22/2020) comprenderebbe sia il suolo inedificato che l’edificio ivi costruito, con la conseguenza che nell’ambito di tale disciplina sarebbe compresa anche l’espropriazione di un edificio destinato a scuola, non solo di un’area libera per allargare o per costruire ex novo un tale edificio; g) il Sindaco potrebbe procedere secondo le eccezionali modalità previste dalla norma per l’adozione dei soli provvedimenti espressamente indicati dalla stessa, cioè il decreto di redazione dello stato di consistenza e il verbale di immissione in possesso, dovendosi seguire la normale divisione delle competenze tra organo politico ed amministrativo per le successive fasi della procedura; h) sarebbe inammissibile la censura con cui l’appellante sostiene che il Sindaco abbia illegittimamente firmato gli atti che impongono vincolo e pubblica utilità, per il fatto che lo stesso non abbia partecipato alle operazioni precedenti al decreto di esproprio; g) non sarebbe applicabile alla fattispecie, riguardante un titolo edilizio del 1969, la normativa di cui al d.m. del 1975 relativa esclusivamente alla progettazione di edifici definibili “nuovi” dalla data della sua entrata in vigore, come, del pari, le linee guida di cui al d.m. dell’11 aprile 2013; h) non sussisterebbero carenze in punto di conformità statica e sismica, certificato antincendi e requisiti di cui al d.m. 18 dicembre 1975, a tal fine richiamandosi anche le perizie dei due tecnici di parte (ing. Guidotti per l’appellante; ing. Regazzi per il Comune); i) la relazione dell’ing. Regazzi del 24 settembre 2021 dovrebbe ritenersi ammissibile, perché depositata dal Comune in primo grado alla prima occasione utile in replica alla documentazione prodotta da controparte. 3.2. Con successive memorie ex art. 73 c.p.a. rispettivamente: a) il Comune ha dato atto che con l’art. 55 della legge n. 181 del 29 luglio 2021, di conversione del d.l. n. 77/2021, sono stati prorogati al 31 dicembre 2026 (rispetto al precedente 31 dicembre 2021) i poteri commissariali che l’art. 7-ter, comma 1, alinea, del d.l. n. 22/2020 aveva affidato a Sindaci e Presidenti di Province e Città metropolitane; b) l’appellante ha chiesto di promuovere avanti alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale del citato art. 7-ter sia per contrasto con l’art. 97 Cost., il quale non ammette che le ordinarie attribuzioni di legge vengano derogate con approssimatività, sia per aver interferito con le competenze legislative concorrenti regionali, quanto meno nella materia del governo del territorio, senza aver effettuato, nel corso del procedimento di formazione, un opportuno coinvolgimento di intesa o parere della Conferenza Stato Regioni. L’appellante ha inoltre eccepito l’inammissibilità (“in parte qua”) della memoria di costituzione del Comune, sia in ragione del superamento dei limiti dimensionali, che, da pagina 35 a pagina 50, per la riproduzione del contenuto della tardiva relazione tecnica di parte. 3.3. Con successive memorie di replica rispettivamente: a) il Comune ha dedotto in ordine alla eventuale inammissibilità della propria memoria di costituzione per superamento dei limiti dimensionali e, in via subordinata, ha chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 24 e 3 della Costituzione, della norma che impone detti limiti (art. 13-ter, c. 5, disp. att. c.p.a. ); b) l’appellante, oltre a replicare alle avverse deduzioni, ha eccepito, inter alia, che il certificato di agibilità depositato dalla difesa avversaria, rilasciato dal Comune di San Lazzaro in data 3 ottobre 1991, riguarda solamente l’uso scuola di una piccola parte del complesso immobiliare in questione, corrispondente a 230,00 mq. 4. All’udienza del 17 febbraio 2022 la causa è stata trattenuta in decisione dal Collegio. 5. L’appello è fondato e deve pertanto essere accolto. 6. Preliminarmente, il Collegio rileva che, in ragione della mancata impugnazione nonché della dichiarazione di accettazione del Comune illustrata sub § 3.1, risultano ormai coperte dal giudicato le statuizioni del primo giudice concernenti il rigetto delle eccezioni preliminari di inammissibilità e l’annullamento parziale dei provvedimenti sindacali impugnati e del decreto di esproprio, limitatamente alla porzione residenziale e alle relative aree di pertinenza del compendio immobiliare. 7. Nel merito, risulta prioritario l’esame delle prime tre censure d’appello attinenti all’assenza della conformità urbanistica dell’opera (asseritamente non superabile con l’esercizio dei poteri riconosciuti dalla normativa emergenziale), le quali, in quanto strettamente connesse e in parte sovrapponibili, possono essere trattate congiuntamente. 7.1. Le censure sono fondate. 7.2. La fondatezza di tale censure, capace di sostenere la statuizione di annullamento dei provvedimenti impugnati, consente, in applicazione dei consolidati principi resi sul punto dalla giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5, specie § 9.3.4.3), l’assorbimento, per ragioni di economia processuale, degli ulteriori motivi di gravame, nonché dell’eccezione di inammissibilità della memoria di costituzione del Comune per il superamento dei limiti dimensionali e della relativa questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’articolo 24 e 3 della Costituzione, della norma che impone detti limiti (art. 13-ter, c. 5, disp. att. c.p.a. ). 8. Il Collegio premette che con il decreto legge 8 aprile 2020, n. 22 (recante “Misure urgenti sulla regolare conclusione e l’ordinato avvio dell’anno scolastico e sullo svolgimento degli esami di Stato, nonché in materia di procedure concorsuali e di abilitazione e per la continuità della gestione accademica”), all’art. 7-ter (“Misure urgenti per interventi di riqualificazione dell’edilizia scolastica”), è stata attribuita ai sindaci e ai presidenti delle province e delle città metropolitane, fino al 31 dicembre 2026 (termine modificato con l’art. 55 della legge n. 181 del 29 luglio 2021), la facoltà di esercitare poteri commissariali al fine di garantire la rapida esecuzione di interventi di edilizia scolastica, anche in relazione all’emergenza da COVID-19. In particolare, al comma 3 del citato art. 7-ter, si prevede che “Per le occupazioni di urgenza e per le espropriazioni delle aree occorrenti per l’esecuzione degli interventi di edilizia scolastica, i sindaci e i presidenti delle province e delle città metropolitane, con proprio decreto, provvedono alla redazione dello stato di consistenza e del verbale di immissione in possesso dei suoli anche con la sola presenza di due rappresentanti della regione o degli enti territoriali interessati, prescindendo da ogni altro adempimento. Il medesimo decreto vale come atto impositivo del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarativo della pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dell’intervento”. 8.1. La questione centrale affrontata dall’appello, come visto, attiene all’assenza della necessaria conformità urbanistica dell’opera in esame, atteso che, nella tesi dell’appellante, l’art. 7-ter del d.l. n. 22/2020, se, da un lato, detterebbe una particolare disciplina acceleratoria, dall’altro non consentirebbe di procedere all’espropriazione senza la preventiva adozione della variante allo strumento urbanistico. 8.2. È, invero, preliminare constatare l’incompatibilità urbanistica dell’immobile, non potendo valere in senso contrario le deduzioni avverse di parte comunale, che, in maniera del tutto generica ed assertiva, si fondano sostanzialmente sull’uso per finalità scolastiche protrattosi nel corso degli anni e sulla ammissibilità di esso da parte del RUE (in tal modo richiamando le motivazioni – altrettanto sintetiche - rese sul punto nei provvedimenti impugnati) e rinviando per ulteriori approfondimenti al contenuto della “Relazione tecnico illustrativa”, quale parte integrante del decreto di approvazione del vincolo preordinato all’esproprio (a mezzo della quale veniva fornita una ricostruzione della storia urbanistico-edilizia dell’immobile, che ricalca quanto espresso dalla Giunta comunale di San Lazzaro di Savena con la deliberazione n. 102 dell’8 luglio 2020). L’esercizio di un potere straordinario, riconosciuto da una norma di carattere emergenziale, avrebbe al contrario richiesto da parte dell’Amministrazione una motivazione puntuale ed approfondita, nonché un’appropriata difesa, in ordine ai relativi presupposti, tra i quali - come si dirà – figura la compatibilità urbanistica dell’immobile. Invero, non possono a tal fine ritenersi sufficienti le assertive dichiarazioni dell’Ente comunale, che ha ritenuto non necessaria la “preventiva procedura di variante urbanistica” in ragione della compatibilità urbanistica dell’opera (cfr. “Relazione tecnico illustrativa” cit.; parere favorevole al progetto di opera pubblica, di cui alla delibera della Giunta comunale - proposta n. 1067/2020 - all. n. 12 depositato in data 22 marzo 2021 dal Comune nel giudizio di primo grado; decreto sindacale prot. n. 28823 del 5 agosto 2020, recante l’apposizione del vincolo, la dichiarazione di pubblica utilità e l’approvazione del progetto definitivo). 8.2.1. Ad ogni modo, il Collegio rileva che l’area di proprietà dell’Istituto Don Trombelli è classificata dal vigente Piano strutturale comunale (PSC) del Comune di San Lazzaro di Savena, adottato nel 2008 e approvato nel 2009, quale “Ambito Urbano Consolidato”, in relazione al quale si rimette al Regolamento urbanistico edilizio (RUE) la disciplina delle trasformazioni edilizie e funzionali. In particolare, il RUE, rimasto invariato quanto alla disciplina urbanistica dalla versione del 2009 adottata dopo l’osservazione della proprietà, sottopone l’area ad intervento diretto convenzionato secondo i parametri edilizi indicati nella scheda di riferimento - “I.U.C. 11 - Istituto Don Trombelli - Via Fonde – ambito A.U.C.” e consente, tra gli usi ammessi quelli per attività terziarie (culturali, ricreative; scolastiche; attività di svago e sportive; sanitarie e di istruzione superiore, formazione e ricerca) e la destinazione residenziale. Tale previsione urbanistica, nell’ammettere distinte tipologie di destinazione d’uso insediabili nell’ambito consolidato in questione, non incide nella individuazione della “destinazione urbanistica” dell’area. Invero, per realizzare opere di urbanizzazione secondaria, quale è un edificio scolastico pubblico, è necessario, ai fini espropriativi, la previa destinazione urbanistica dell’area a zona F (“parti del territorio destinato ad attrezzature ed impianti di interesse generale” cfr. art. 2 del D.M. n. 1444/1968) o, secondo la diversa classificazione e terminologia della l.r. 24 marzo 2000, n. 20 (“Disciplina generale sulla tutela e l’uso del territorio”) recepita dal PSC e dal RUE del Comune di San Lazzaro di Savena, quale area destinata alla realizzazione di “Attrezzature e spazi collettivi” (art. A-24 l.r. n. 20/2000) la cui programmazione e localizzazione nei diversi ambiti territoriali è rimessa agli strumenti urbanistici. Tuttavia, la disciplina urbanistica dell’area di proprietà dell’Istituto non subiva, a partire dal 2009, alcuna variazione, restando ferma la citata classificazione di cui al PSC quale “Ambito Urbano Consolidato”. Invero, il Piano operativo comunale (POC), approvato il 20 dicembre 2011, che individuava un comparto “ANS.C.3 c-d –P.8” e contemplava la realizzazione da parte di soggetti attuatori anche di un nuovo polo scolastico, veniva in seguito dichiarato decaduto relativamente a detto comparto, restando di conseguenza meramente ammesso l’utilizzo dell’immobile ad uso scolastico, in virtù delle previsioni del RUE. 8.3. Ciò rilevato, il Collegio osserva, in termini generali, che la conformità urbanistica rappresenta presupposto necessario per la realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità, in relazione alle quali si procede alla espropriazione. Ne consegue che l’eventuale incompatibilità con le previsioni urbanistiche, possibilmente derivante da una localizzazione dell’opera in area con destinazione non conforme, richiede la preventiva adozione di specifica variante allo strumento urbanistico in vigore. 8.3.1. In tal senso sono le seguenti previsioni del d.P.R. n. 327/2001: i) l'opera da realizzare deve essere prevista nello strumento urbanistico generale, o in un atto di natura ed efficacia equivalente, e sul bene da espropriare deve essere stato apposto il vincolo preordinato all'esproprio (art. 8); ii) un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio nel momento in cui diviene efficace l’approvazione della variante (art. 9). L’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, quale fase funzionale a dare attuazione alla localizzazione dell’opera, presuppone pertanto la sussistenza della conformità urbanistica, non potendo quindi prescindersi da tale preliminare attività, ipotizzando che l’apposizione del vincolo valga anche come variante allo strumento urbanistico. 8.3.2. Del resto, la conferma della priorità temporale dell’attività di zoning ad opera dello strumento urbanistico generale rispetto alla (necessariamente) successiva fase dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio deriva altresì dalle previsioni della previgente legge regionale Emilia-Romagna 24 marzo 2000, n. 20, secondo cui: “La localizzazione delle opere pubbliche è operata dagli strumenti di pianificazione urbanistica, ovvero da loro varianti, che ne prevedono la realizzazione. In particolare: a) il PSC provvede alla previsione dell’opera e alla indicazione di massima della sua localizzazione, attraverso la individuazione degli ambiti idonei e dei corridoi di fattibilità. Esso definisce inoltre i requisiti prestazionali dell’opera e le condizioni di sostenibilità della stessa, indicando le opere di mitigazione o compensazione ambientale ovvero le fasce di ambientazione o le altre dotazioni ecologiche e ambientali ritenute necessarie; b) il POC stabilisce la puntuale localizzazione dell’opera, con la conseguente apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, anche apportando rettifiche non sostanziali ai perimetri degli ambiti idonei ed ai corridoi individuati dal PSC. Esso disciplina altresì le modalità attuative dell’opera e le dotazioni o misure che ne assicurano la sostenibilità ambientale e territoriale, in conformità alle previsioni del PSC.” (art. 36 – bis). 8.3.3. In definitiva, il provvedimento di imposizione del vincolo è il primo atto della procedura espropriativa e, in quanto tale, non può avere valenza di variante urbanistica. Esso persegue anche finalità urbanistiche ma nel diverso significato di costituire elemento di raccordo tra il settore dell’urbanistica e quello dell’espropriazione, consentendo l’acquisizione al patrimonio pubblico soltanto di quelle aree che sono state previamente individuate negli strumenti di pianificazione territoriale. 8.4. Come visto, il citato art. 7-ter, comma 3, attribuisce al Sindaco, per le occupazioni di urgenza e per le espropriazioni delle aree occorrenti per l’esecuzione degli interventi di edilizia scolastica, la facoltà di adottare un decreto per la redazione dello stato di consistenza e del verbale di immissione in possesso dei suoli, riconoscendosi a tale provvedimento anche il valore di atto impositivo del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarativo della pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dell’intervento. 8.4.1. La natura di norma speciale della previsione in questione, derivante dalle particolari esigenze legate al periodo emergenziale, impone un’interpretazione rigida della stessa, che non consente di ampliare il relativo ambito di applicazione in virtù del dichiarato intento di accelerazione delle procedure e che, per converso, richiede di circoscrivere gli straordinari poteri riconosciuti ai Sindaci nei limiti di tempo e contenuto previsti dalla legge stessa, in osservanza del principio di legalità sostanziale. Diversamente da quanto sostenuto dall’Amministrazione comunale, non può pertanto ritenersi che il decreto sindacale, oltre ad assumere la particolare efficacia riconosciuta espressamente dalla norma (valore di atto impositivo del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarativo della pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza), possa implicare in via automatica anche la variazione della strumentazione urbanistica, dovendosi ritenere conseguentemente che l’esercizio di tale potere straordinario sia circoscritto ai casi in cui l’adozione della variante non sia necessaria, ossia per le ipotesi di (riscontrata e dimostrata) conformità urbanistica dell’opera. Del resto, una diversa interpretazione consentirebbe, in assenza di una specifica previsione normativa derogatoria, di evitare l’intero iter di approvazione della variante urbanistica (cfr. artt. 9, 10 e 19 d.P.R. n. 327/2001) e, conseguentemente, di omettere il coinvolgimento dell’organo consiliare nella decisione. 8.4.2. Peraltro, in senso contrario non può ritenersi che il legislatore, mediante la locuzione “prescindendo da ogni altro adempimento” di cui all’art. 7-ter, abbia voluto omettere integralmente l’adozione della variante urbanistica, rimettendo ad una libera decisione del Sindaco l’espropriazione per la realizzazione di un’opera pubblica non conforme alla destinazione di zona. Del resto, considerando che l’intera materia espropriativa è governata dal principio di legalità, in assenza di diverse previsioni esplicite, non è sostenibile che tale inciso possa di per sé costituire una idonea base legale per poter prescindere dalla conformità urbanistica. È dunque preferibile l’interpretazione secondo cui con tale locuzione si sia voluto fare riferimento alla diversa fase esecutiva dell’esproprio, in ragione della circostanza che essa risulta inserita nell’ambito della descrizione dei poteri del Sindaco nella redazione dello stato di consistenza. 8.4.3. In definitiva, la norma in esame attribuisce al Sindaco poteri straordinari di incidenza negativa nella sfera giuridica dei destinatari dell’azione amministrativa per finalità connesse all’emergenza sanitaria. Tale norma, in ossequio al principio di legalità che assume connotati più pregnanti in presenza di tale tipologia di poteri, deve essere interpretata in modo letterale e rigoroso, con configurabilità dei soli poteri espressamente nominati e conseguente esclusione dal perimetro applicativo della disposizione in esame di poteri di natura urbanistica. 9. In conclusione, in ragione di quanto esposto in ordine alla fondatezza delle prime tre censure, l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in parziale riforma dell’impugnata sentenza, devono essere accolti integralmente il ricorso di primo grado e il relativo atto di motivi aggiunti. Deve pertanto essere disposto l’annullamento degli atti gravati, restando ferma la possibilità per il Comune di Comune di San Lazzaro di Savena di rieditare il potere espropriativo seguendo le procedure ordinarie. 10. La novità della questione giustifica l’integrale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello (r.g. n. 10740/2021), come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in parziale riforma dell’impugnata sentenza, accoglie integralmente l’originario ricorso (r.g. n. 685/2020) e il relativo atto di motivi aggiunti. Compensa integralmente tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 17 febbraio 2022, con l’intervento dei magistrati: Vincenzo Lopilato, Presidente FF Francesco Gambato Spisani, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere, Estensore Giuseppe Rotondo, Consigliere Michele Conforti, Consigliere Vincenzo Lopilato, Presidente FF Francesco Gambato Spisani, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere, Estensore Giuseppe Rotondo, Consigliere Michele Conforti, Consigliere IL SEGRETARIO
Edilizia – Edilizia scolastica – Art. 7 ter, d.l. n. 22 del 2020 – Ambito di applicazione              L’art. 7-ter, comma 3, d.l. 8 aprile 2020, n. 22 attribuisce al Sindaco, per le occupazioni di urgenza e per le espropriazioni delle aree occorrenti per l’esecuzione degli interventi di edilizia scolastica, la facoltà di adottare un decreto per la redazione dello stato di consistenza e del verbale di immissione in possesso dei suoli, riconoscendosi a tale provvedimento anche il valore di atto impositivo del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarativo della pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dell’intervento; la natura di norma speciale della previsione in questione, derivante dalle particolari esigenze legate al periodo emergenziale, impone un’interpretazione rigida della stessa, che non consente di ampliare il relativo ambito di applicazione in virtù del dichiarato intento di accelerazione delle procedure e che, per converso, richiede di circoscrivere gli straordinari poteri riconosciuti ai Sindaci nei limiti di tempo e contenuto previsti dalla legge stessa, in osservanza del principio di legalità sostanziale; non può pertanto ritenersi che il decreto sindacale, oltre ad assumere la particolare efficacia riconosciuta espressamente dalla norma (valore di atto impositivo del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarativo della pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza), possa implicare in via automatica anche la variazione della strumentazione urbanistica, dovendosi ritenere conseguentemente che l’esercizio di tale potere straordinario sia circoscritto ai casi in cui l’adozione della variante non sia necessaria, ossia per le ipotesi di (riscontrata e dimostrata) conformità urbanistica dell’opera (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che la conformità urbanistica rappresenta presupposto necessario per la realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità, in relazione alle quali si procede alla espropriazione. Ne consegue che l’eventuale incompatibilità con le previsioni urbanistiche, possibilmente derivante da una localizzazione dell’opera in area con destinazione non conforme, richiede la preventiva adozione di specifica variante allo strumento urbanistico in vigore  In tal senso sono le seguenti previsioni del d.P.R. n. 327/2001: i) l'opera da realizzare deve essere prevista nello strumento urbanistico generale, o in un atto di natura ed efficacia equivalente, e sul bene da espropriare deve essere stato apposto il vincolo preordinato all'esproprio (art. 8); ii) un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio nel momento in cui diviene efficace l’approvazione della variante (art. 9).  L’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, quale fase funzionale a dare attuazione alla localizzazione dell’opera, presuppone pertanto la sussistenza della conformità urbanistica, non potendo quindi prescindersi da tale preliminare attività, ipotizzando che l’apposizione del vincolo valga anche come variante allo strumento urbanistico.  Del resto, la conferma della priorità temporale dell’attività di zoning ad opera dello strumento urbanistico generale rispetto alla (necessariamente) successiva fase dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio deriva altresì dalle previsioni della previgente legge regionale Emilia-Romagna 24 marzo 2000, n. 20, secondo cui: “La localizzazione delle opere pubbliche è operata dagli strumenti di pianificazione urbanistica, ovvero da loro varianti, che ne prevedono la realizzazione. In particolare: a) il PSC provvede alla previsione dell’opera e alla indicazione di massima della sua localizzazione, attraverso la individuazione degli ambiti idonei e dei corridoi di fattibilità. Esso definisce inoltre i requisiti prestazionali dell’opera e le condizioni di sostenibilità della stessa, indicando le opere di mitigazione o compensazione ambientale ovvero le fasce di ambientazione o le altre dotazioni ecologiche e ambientali ritenute necessarie; b) il POC stabilisce la puntuale localizzazione dell’opera, con la conseguente apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, anche apportando rettifiche non sostanziali ai perimetri degli ambiti idonei ed ai corridoi individuati dal PSC. Esso disciplina altresì le modalità attuative dell’opera e le dotazioni o misure che ne assicurano la sostenibilità ambientale e territoriale, in conformità alle previsioni del PSC.” (art. 36 – bis).  In definitiva, il provvedimento di imposizione del vincolo è il primo atto della procedura espropriativa e, in quanto tale, non può avere valenza di variante urbanistica. Esso persegue anche finalità urbanistiche ma nel diverso significato di costituire elemento di raccordo tra il settore dell’urbanistica e quello dell’espropriazione, consentendo l’acquisizione al patrimonio pubblico soltanto di quelle aree che sono state previamente individuate negli strumenti di pianificazione territoriale.      Ha aggiunto la Sezione che una interpretazione dell’art. 7 ter d.l. 8 aprile 2020, n. 22 - nella parte in cui attribuisce ai sindaci e ai presidenti delle province e delle città metropolitane, fino al 31 dicembre 2026 (termine modificato con l’art. 55 della legge n. 181 del 29 luglio 2021), la facoltà di esercitare poteri commissariali al fine di garantire la rapida esecuzione di interventi di edilizia scolastica, anche in relazione all’emergenza da COVID-19 - diversa da quella ritenuta dal Collegio una diversa interpretazione consentirebbe, in assenza di una specifica previsione normativa derogatoria, di evitare l’intero iter di approvazione della variante urbanistica (cfr. artt. 9, 10 e 19 d.P.R. n. 327/2001) e, conseguentemente, di omettere il coinvolgimento dell’organo consiliare nella decisione.  Peraltro, in senso contrario non può ritenersi che il legislatore, mediante la locuzione “prescindendo da ogni altro adempimento” di cui all’art. 7-ter, abbia voluto omettere integralmente l’adozione della variante urbanistica, rimettendo ad una libera decisione del Sindaco l’espropriazione per la realizzazione di un’opera pubblica non conforme alla destinazione di zona. Del resto, considerando che l’intera materia espropriativa è governata dal principio di legalità, in assenza di diverse previsioni esplicite, non è sostenibile che tale inciso possa di per sé costituire una idonea base legale per poter prescindere dalla conformità urbanistica.  È dunque preferibile l’interpretazione secondo cui con tale locuzione si sia voluto fare riferimento alla diversa fase esecutiva dell’esproprio, in ragione della circostanza che essa risulta inserita nell’ambito della descrizione dei poteri del Sindaco nella redazione dello stato di consistenza  In definitiva, la norma in esame attribuisce al Sindaco poteri straordinari di incidenza negativa nella sfera giuridica dei destinatari dell’azione amministrativa per finalità connesse all’emergenza sanitaria. Tale norma, in ossequio al principio di legalità che assume connotati più pregnanti in presenza di tale tipologia di poteri, deve essere interpretata in modo letterale e rigoroso, con configurabilità dei soli poteri espressamente nominati e conseguente esclusione dal perimetro applicativo della disposizione in esame di poteri di natura urbanistica 
Edilizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/nomina-del-personale-aggiuntivo-da-parte-dei-vice-ministri
Nomina del personale aggiuntivo da parte dei vice Ministri
Numero 00367/2022 e data 15/02/2022 Spedizione REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato Sezione Prima Adunanza di Sezione del 9 febbraio 2022 NUMERO AFFARE 00638/2021 OGGETTO: Ministero dell'economia e delle finanze - Ufficio legislativo economia. Articolo 1, comma 24-quinquies, del decreto-legge 18 maggio 2006, n. 181, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2006, n. 233, concernente la nomina del personale aggiuntivo da parte dei vice Ministri - Quesito; LA SEZIONE Vista la relazione trasmessa con nota n. prot. 5117 del 27 maggio 2021 con la quale il Ministero dell’economia e delle finanze ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto; Visto il parere interlocutorio della Sezione n. 1423/2021 del 23 agosto 2021; Vista la nota n. prot. 13090 del 10 dicembre 2021, con la quale il Ministero dell’economia e delle finanze ha trasmesso la nota della Presidenza del consiglio dei ministri – Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi n. prot. 14096 del 7 dicembre 2021; Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Paolo Carpentieri; Premesso: 1. Con il quesito in oggetto il Ministero dell’economia e delle finanze ha chiesto il parere di questo Consiglio di Stato “in ordine all'attuale vigenza del richiamato articolo 1, comma 24-quinquies, del decreto-legge 18 maggio 2006 n. 181, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2006, n. 233”, e ciò in quanto “Considerato il quadro sopra delineato e la materia disciplinata dalla disposizione la cui interpretazione è controversa, pare emergere un interesse pubblico generale alla individuazione di indirizzi interpretativi omogenei per l'intera compagine ministeriale”. 2. Il decreto-legge 18 maggio 2006, n. 181, recante Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2006, n. 233, prevede, nel comma 24-quinquies dell’articolo 1 (comma aggiunto dalla legge di conversione), che “Il Ministro, in ragione della particolare complessità della delega attribuita, può autorizzare il vice Ministro, in deroga al limite di cui al primo periodo del comma 24-quater [in base al quale “Ai vice Ministri è riservato un contingente di personale pari a quello previsto per le segreterie dei Sottosegretari di Stato. Tale contingente si intende compreso nel contingente complessivo del personale degli uffici di diretta collaborazione stabilito per ciascun Ministro, con relativa riduzione delle risorse complessive a tal fine previste”] e comunque entro il limite complessivo della spesa per il personale degli uffici di diretta collaborazione del Ministro, come rideterminato ai sensi dello stesso comma, a nominare un consigliere giuridico, che è responsabile dei rapporti con gli uffici di diretta collaborazione del Ministro, o un altro soggetto esperto nelle materie delegate, un capo della segreteria, il quale coordina l'attività del personale di supporto, un segretario particolare, un responsabile della segreteria tecnica ovvero un altro esperto, un addetto stampa o un portavoce nonché, ove necessario in ragione delle peculiari funzioni delegate, un responsabile per gli affari internazionali. Il vice Ministro, per le materie inerenti alle funzioni delegate, si avvale dell'ufficio di gabinetto e dell'ufficio legislativo del Ministero”. 3. La norma sopra indicata, pur non essendo mai stata interessata da disposizioni di abrogazione espressa, sarebbe, secondo l’opinione in precedenti occasioni espressa dal Ministero richiedente (nota dell'Ufficio legislativo economia n. 104 del 5 gennaio 2021 e nota del Vice Capo di Gabinetto del Ministro dell'economia e delle finanze n. 1006 del 26 gennaio 2021), da ritenersi comunque abrogata tacitamente “in ragione dell'evoluzione normativa che ha riguardato la determinazione del numero, delle attribuzioni e dell'organizzazione dei ministeri”. 4. Esclude, invece tale effetto abrogativo il Ministero della salute (nota del Capo di Gabinetto del Ministero della salute del 23 aprile 2021). 5. Il predetto effetto di abrogazione tacita potrebbe ricostruirsi, ad avviso del Ministero richiedente, per effetto delle disposizioni introdotte dall'articolo 1, commi 376 e 377, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, che hanno ridefinito il numero dei ministeri e hanno posto un limite esplicito anche al numero complessivo dei componenti del Governo “a qualsiasi titolo”, comprendendo nella nozione di componente del Governo i Ministri senza portafoglio, i vice Ministri e Sottosegretari. 6. Più in particolare, la legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008), nell’articolo 1, al comma 376 ha stabilito che “Il numero dei Ministeri è stabilito in tredici. Il numero totale dei componenti del Governo a qualsiasi titolo, ivi compresi Ministri senza portafoglio, vice Ministri e Sottosegretari, non può essere superiore a sessantacinque e la composizione del Governo deve essere coerente con il principio sancito nel secondo periodo del primo comma dell'articolo 51 della Costituzione” (il citato comma 376, prima sostituito dal comma 1 dell'art. 1 della legge 13 novembre 2009, n. 172, poi così modificato dal comma 3-bis dell'art. 15 del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 195, aggiunto dalla relativa legge di conversione, è stato infine abrogato dall'art. 4, comma 10, del decreto-legge 9 gennaio 2020, n. 1, recante Disposizioni urgenti per l'istituzione del Ministero dell'istruzione e del Ministero dell'università e della ricerca, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 12). Il successivo comma 377 del citato articolo 1 della legge n. 244 del 2007 ha previsto a sua volta che “A far data dall'applicazione, ai sensi del comma 376, del decreto legislativo n. 300 del 1999 sono abrogate le disposizioni non compatibili con la riduzione dei Ministeri di cui al citato comma 376, ivi comprese quelle di cui al decreto-legge 12 giugno 2001, n. 217, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2001, n. 317, e successive modificazioni, e al decreto-legge 18 maggio 2006, n. 181, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2006, n. 233, e successive modificazioni, fatte comunque salve le disposizioni di cui all'articolo 1, commi 2, 2-bis, 2-ter, 2-quater, 2-quinquies, 10-bis, 10-ter, 12, 13-bis, 19, lettera a), 19-bis, 19-quater, 22, lettera a), 22-bis, 22-ter e 25-bis, del medesimo decreto-legge n. 181 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 233 del 2006, e successive modificazioni”. Tale ultima disposizione di “salvezza” di talune disposizioni del decreto-legge n. 181 del 2006, sottratte dall’effetto abrogativo spiegato dal comma 377 (ora riportato), non contempla il comma 24-quinquies dell’articolo 1 del decreto-legge n. 181 del 2006 della cui applicazione qui si tratta, con ciò autorizzando, in tesi, fondati dubbi sulla sua perdurante e attuale vigenza. 7. Secondo un primo orientamento, riferisce, infatti, il Ministero, sembrerebbe che la menzionata disposizione (articolo 1, comma 24-quinquies) possa ricadere nella sfera applicativa della clausola di incompatibilità disposta dall'articolo 1, comma 377, del decreto-legge n. 181 del 2006 (secondo cui “sono abrogate tutte le disposizioni non compatibili con la riduzione del numero dei ministeri”), sia perché – come detto - il comma 24-quinquies citato non è espressamente annoverato tra le disposizioni del decreto-legge n. 181 del 2006 testualmente sottratte all'effetto abrogativo prodotto dal medesimo articolo 1, comma 377, della legge n. 244 del 2007 (argomento testuale), sia perché la predetta norma, che attribuisce ai vice Ministri il potere di nominare personale aggiuntivo, apparirebbe non rispondente alla generale finalità, propria della riduzione dei ministeri, di ridurre la spesa pubblica, non essendo “scindibile” dalla questione relativa al numero dei ministeri, poiché “una disposizione che preveda la nomina di specifiche figure aggiuntive nell'organizzazione ministeriale potrebbe risultare non in linea con le esigenze di contenimento della spesa” (argomento sistematico). 8. In senso opposto, ha riferito il Ministero dell’economia e delle finanze, è emersa un'opzione interpretativa secondo cui il citato comma 24-quinquies riguarderebbe esclusivamente il profilo dell'organizzazione interna dei ministeri, come tale pienamente compatibile con la finalità della riduzione del numero complessivo degli stessi; tale comma risulterebbe, dunque, escluso dall'effetto abrogativo previsto, per le disposizioni incompatibili, dal sopra menzionato comma 377 dell'articolo 1 della legge n. 244 del 2007 (e considerata altresì la non configurabilità di una finalità comune di contenimento della spesa pubblica, poiché il ricorso da parte dei vice Ministri al contingente aggiuntivo sarebbe comunque consentito entro il “limite complessivo della spesa per il personale degli uffici di diretta collaborazione del Ministro”, secondo quanto previsto dal medesimo comma 24-quinquies, oggetto della presente questione). Infine, ad avviso dell'orientamento che si riporta, l'abrogazione espressa del citato articolo 1, comma 376 - disposta dal recente decreto-legge n. 1 del 2020 - avrebbe comportato anche l'abrogazione tacita del successivo comma 377 (che richiama espressamente il comma 376), in quanto disposizione meramente attuativa e comunque riguardante anch'essa la medesima materia, con conseguente “reviviscenza” dell'articolo 1, comma 24-quinquies, del decreto-legge n. 181 del 2006. 9. Con il parere interlocutorio n. 1423/2021 del 23 agosto 2021 la Sezione, sul rilievo che, come rappresentato dallo stesso Il Ministero richiedente, la questione interpretativa proposta fa “emergere un interesse pubblico generale alla individuazione di indirizzi interpretativi omogenei per l'intera compagine ministeriale”, potendo riguardare tutti i Ministeri che attualmente vedono la presenza di Vice Ministri, ha disposto l’acquisizione dell’avviso sul tema della Presidenza del consiglio dei ministri, date le sue funzioni di coordinamento, ai sensi della legge n. 400 del 1988 e del decreto legislativo n. 303 del 1999, al fine di assicurare unità di indirizzo e omogeneità applicativa e interpretativa per l’intera compagine governativa, “anche al fine di conoscere se vi siano precedenti casi applicativi rilevanti presso altri dicasteri”. 10. Il Ministero dell’economia e delle finanze ha quindi trasmesso, con la nota n. prot. 13090 del 10 dicembre 2021, l’avviso della Presidenza del consiglio dei ministri – Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi n. prot. 14096 del 7 dicembre 2021, che si espressa nel senso “della perdurante vigenza dell'art. 1, comma 24-quinquies, del decreto-legge n. 181 del 2006”. Considerato: 1. Ritiene il Collegio che la soluzione interpretativa preferibile – tra le due opzioni che si contendono il campo, rispetto a un insieme normativo oggettivamente non lineare – sia, come emerso anche dall’avviso espresso dalla Presidenza del consiglio dei ministri, quella che sostiene la perdurante vigenza della norma recata dall’articolo 1, comma 24-quinquies, del decreto-legge 18 maggio 2006 n. 181, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2006, n. 233, in tema di nomina del personale aggiuntivo di staff da parte dei vice Ministri. 2. Depone a favore di questa opzione ermeneutica la sostanziale debolezza, sia sul piano testuale che sul piano logico-sistematico e finalistico, della opposta opzione, sostenuta invece dal Ministero richiedente, intesa a negare l’attuale vigenza della norma suddetta. 3. Sul piano del dato letterale del complesso normativo oggetto di esame, vi è, infatti, da considerare, come bene evidenziato dalla Presidenza del consiglio, che non si rinvengono elementi rivolti in modo diretto ed espresso nel senso dell’abrogazione della norma della cui interpretazione qui si tratta. L’argomento secondo il quale la disposizione abrogativa contenuta nel comma 377 dell’articolo 1 della legge n. 244 del 2007, nella parte in cui ha fatto salve espressamente solo alcune delle disposizioni del decreto-legge n. 181 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 233 del 2006 (quelle di cui all'articolo 1, commi 2, 2-bis, 2-ter, 2-quater, 2-quinquies, 10-bis, 10-ter, 12, 13-bis, 19, lettera a), 19-bis, 19-quater, 22, lettera a), 22-bis, 22-ter e 25-bis), ma non anche quella, di cui qui si tratta, dell’art. 1, comma 24-quinquies, che dovrebbe pertanto ritenersi abrogata, appare obiettivamente non risolutivo, poiché snatura la il carattere di abrogazione solo implicita conferito espressamente dal legislatore alla norma abrogativa, trasformandola in una sorta di abrogazione espressa, mentre la locuzione principale adoperata nella legge - “sono abrogate le disposizioni non compatibili con la riduzione dei Ministeri di cui al citato comma 376” - configura la norma essenzialmente come norma dichiarativa di un effetto abrogativo tacito per incompatibilità, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi (“Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore”). 4. Inoltre, e anche sotto questo profilo vi è concordanza con quanto rilevato nell’avviso espresso dalla Presidenza del consiglio, l’effetto abrogativo de quo è espressamente riconnesso dalla norma (il comma 377) alle disposizioni del comma 376 (peraltro successivamente abrogato), che, come osservato dalla Presidenza del consiglio, “riguardava il "numero totale dei componenti del Governo a qualsiasi titolo, ivi compresi Ministri senza portafoglio, vice Ministri e Sottosegretari" mentre nella specie è questione del personale al servizio dell'ufficio dei vice Ministri, non dunque di componenti del Governo ma di soggetti afferenti agli uffici di diretta collaborazione”. 5. Sul piano sistematico, coglie nel segno il rilievo formulato dalla Presidenza del consiglio, secondo il quale “Anche l'argomento ermeneutico-sistematico, che accomuna questi due profili dell'organizzazione interna e del numero dei Ministeri considerandoli diversi sì ma 'inscindibili' in quanto uniti dalla medesima ratio consistente nella finalità di ridurre la spesa pubblica, non pare particolarmente probante, dato che l'art. 1, comma 24-quinquies, del decreto-legge n. 181 del 2006 prevede espressamente che il Ministro possa autorizzare il vice Ministro a nominare un contingente di personale aggiuntivo, quanto alle figure di seguito indicate, in deroga al limite indicato al comma precedente ma "comunque entro il limite complessivo della spesa per il personale degli uffici di diretta collaborazione del Ministro". Il personale aggiuntivo è dunque nominabile a condizione che sia assicurata la neutralità finanziaria delle relative nomine, quindi a discapito di altre nomine nell'ambito degli uffici di diretta collaborazione”. 6. Sul pano finalistico, infine, il Collegio osserva che, da un lato, presenta un suo rilievo non privo di significato l’osservazione, svolta nel parere del Gabinetto del Ministero della salute, secondo la quale la finalità di contenimento della spesa pubblica appare difficile da configurare, poiché il ricorso da parte dei vice Ministri al contingente aggiuntivo sarebbe comunque consentito entro il “limite complessivo della spesa per il personale degli uffici di diretta collaborazione del Ministro”, secondo quanto previsto dal medesimo comma 24-quinquies; dall’altro lato il riconoscimento della facoltà, per i vice-ministri, di disporre di un proprio staff in parte rafforzato, rispetto ai sottosegretari di Stato, trova una sua giustificazione logica nella previsione stessa della figura del vice-ministro, se e nella misura in cui si ritenga, come evidentemente ha ritenuto il legislatore nel prevedere tale innovativa figura istituzionale, che essa possa, in taluni dicasteri di maggiori dimensioni, rivestire una sua utilità per la migliore esplicazione della funzione di indirizzo politico e il più efficace funzionamento dell’apparato amministrativo. Sicché, anche sul piano finalistico, la tesi interpretativa “restrittiva” sembrerebbe porsi in contrasto con la logica stessa che in definitiva presiede all’introduzione della figura del vice-ministro. 7. Per tutte le esposte considerazioni, il parere della Sezione è nel senso che l’articolo 1, comma 24-quinquies, del decreto-legge 18 maggio 2006, n. 181, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2006, n. 233, debba ritenersi tuttora vigente. 8. Infine, nel condividere il rilievo circa “l'intrinseca ambiguità della questione” contenuto nel parere della Presidenza del consiglio e rilevata l’oggettiva complessità della questione interpretativa qui esaminata, la Sezione, anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 58 del r.d. n. 444 del 1942, sollecita il governo a valutare la possibilità di proporre un’iniziativa legislativa volta a introdurre opportuni correttivi chiarificatori alle disposizioni qui esaminate, al fine di risolvere definitivamente in sede normativa ogni dubbio applicativo. P.Q.M. Nei termini suindicati è il parere della Sezione. IL SEGRETARIO Maria Grazia Salamone
Pubblica amministrazione – Ministeri - Vice Ministri - Personale aggiuntivo di staff  - Nomina - Art. 1, comma 24-quinquies, d.l. n. 181 del 2006 – Applicabilità.                      L’art. 1, comma 24-quinquies, d.l. 18 maggio 2006, n. 181, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 luglio 2006, n. 233, in tema di nomina del personale aggiuntivo di staff da parte dei vice Ministri, deve ritenersi tuttora vigente (1).      (1) Ha ricordato il parere che l’effetto di abrogazione tacita potrebbe ricostruirsi per effetto delle disposizioni introdotte dall'articolo 1, commi 376 e 377, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, che hanno ridefinito il numero dei Ministeri e hanno posto un limite esplicito anche al numero complessivo dei componenti del Governo “a qualsiasi titolo”, comprendendo nella nozione di componente del Governo i Ministri senza portafoglio, i vice Ministri e Sottosegretari.  Secondo un primo orientamento, sembrerebbe che l’art.  1, comma 24-quinquies, d.l. 18 maggio 2006, n. 181 possa ricadere nella sfera applicativa della clausola di incompatibilità disposta dall'art. 1, comma 377, d.l. n. 181 del 2006 (secondo cui “sono abrogate tutte le disposizioni non compatibili con la riduzione del numero dei ministeri”), sia perché – come detto - il comma 24-quinquies citato non è espressamente annoverato tra le disposizioni del d.l. n. 181 del 2006 testualmente sottratte all'effetto abrogativo prodotto dal medesimo articolo 1, comma 377, della legge n. 244 del 2007 (argomento testuale), sia perché la predetta norma, che attribuisce ai vice Ministri il potere di nominare personale aggiuntivo, apparirebbe non rispondente alla generale finalità, propria della riduzione dei ministeri, di ridurre la spesa pubblica, non essendo “scindibile” dalla questione relativa al numero dei ministeri, poiché “una disposizione che preveda la nomina di specifiche figure aggiuntive nell'organizzazione ministeriale potrebbe risultare non in linea con le esigenze di contenimento della spesa” (argomento sistematico).  In senso opposto, ha riferito il Ministero dell’economia e delle finanze, è emersa un'opzione interpretativa secondo cui il citato comma 24-quinquies riguarderebbe esclusivamente il profilo dell'organizzazione interna dei ministeri, come tale pienamente compatibile con la finalità della riduzione del numero complessivo degli stessi; tale comma risulterebbe, dunque, escluso dall'effetto abrogativo previsto, per le disposizioni incompatibili, dal sopra menzionato comma 377 dell'art. 1, l. n. 244 del 2007 (e considerata altresì la non configurabilità di una finalità comune di contenimento della spesa pubblica, poiché il ricorso da parte dei vice Ministri al contingente aggiuntivo sarebbe comunque consentito entro il “limite complessivo della spesa per il personale degli uffici di diretta collaborazione del Ministro”, secondo quanto previsto dal medesimo comma 24-quinquies, oggetto della presente questione). Infine, ad avviso dell'orientamento che si riporta, l'abrogazione espressa del citato art. 1, comma 376 - disposta dal recente d.l. n. 1 del 2020 - avrebbe comportato anche l'abrogazione tacita del successivo comma 377 (che richiama espressamente il comma 376), in quanto disposizione meramente attuativa e comunque riguardante anch'essa la medesima materia, con conseguente “reviviscenza” dell'art. 1, comma 24-quinquies, d.l. n. 181 del 2006.  Ad avviso della Sezione la soluzione interpretativa preferibile – tra le due opzioni che si contendono il campo, rispetto a un insieme normativo oggettivamente non lineare – è quella che sostiene la perdurante vigenza della norma recata dall’art. 1, comma 24-quinquies, d.l. 18 maggio 2006 n. 181, convertito, con modificazioni, dalla l. 17 luglio 2006, n. 233, in tema di nomina del personale aggiuntivo di staff da parte dei vice Ministri.  Depone a favore di questa opzione ermeneutica la sostanziale debolezza, sia sul piano testuale che sul piano logico-sistematico e finalistico, della opposta opzione, sostenuta invece dal Ministero richiedente, intesa a negare l’attuale vigenza della norma suddetta.  Sul piano del dato letterale del complesso normativo oggetto di esame, vi è, infatti, da considerare, come bene evidenziato dalla Presidenza del consiglio, che non si rinvengono elementi rivolti in modo diretto ed espresso nel senso dell’abrogazione della norma della cui interpretazione qui si tratta. L’argomento secondo il quale la disposizione abrogativa contenuta nel comma 377 dell’art. 1, l.  n. 244 del 2007, nella parte in cui ha fatto salve espressamente solo alcune delle disposizioni del d.l. n. 181 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 233 del 2006 (quelle di cui all'art. 1, commi 2, 2-bis, 2-ter, 2-quater, 2-quinquies, 10-bis, 10-ter, 12, 13-bis, 19, lettera a), 19-bis, 19-quater, 22, lettera a), 22-bis, 22-ter e 25-bis), ma non anche quella, di cui qui si tratta, dell’art. 1, comma 24-quinquies, che dovrebbe pertanto ritenersi abrogata, appare obiettivamente non risolutivo, poiché snatura la il carattere di abrogazione solo implicita conferito espressamente dal legislatore alla norma abrogativa, trasformandola in una sorta di abrogazione espressa, mentre la locuzione principale adoperata nella legge - “sono abrogate le disposizioni non compatibili con la riduzione dei Ministeri di cui al citato comma 376” - configura la norma essenzialmente come norma dichiarativa di un effetto abrogativo tacito per incompatibilità, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi (“Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore”). 
Pubblica amministrazione
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N. 04466/2020 REG.PROV.COLL. N. 06221/2015 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6221 del 2015, proposto da Stefano Valbonesi, rappresentato e difeso dagli avvocati Paolo Maria D'Ottavi, Alessandro Lattanzi, Augusto Bonagura, con domicilio eletto presso lo studio Paolo Maria D'Ottavi in Roma, via Lima, 15; contro l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, Ministero dell'Economia e delle Finanze, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; per l'annullamento - del provvedimento prot. n. 152 in data 3 marzo 2015, notificato in data 9 marzo 2015, con il quale è stata disposta, nei confronti del ricorrente, la revoca della concessione della ricevitoria del lotto n. RM985/971, per inottemperanza all’intimazione a versare i proventi del gioco del lotto entro cinque giorni dalla costituzione in mora; - nonché di tutti gli atti presupposti, successivi e conseguenti, ivi compresi: A) le note prot. n. 87901 in data 9 dicembre 2014, prot. n. 91919 in data 29 dicembre 2014, prot. n. 91498 in data 24 dicembre 2014 e prot. n. 5010 e 5016 in data 29 gennaio 2015; B) la circolare prot. n. 2003/13386/COA/LTT in data 31 luglio 2013; C) il provvedimento prot. n. 16042 in data 30 aprile 2015, con il quale è stata disposta la decadenza del ricorrente dalla titolarità della rivendita di generi di monopolio n. 1083; Visto l’art. 84, decreto legge 17 marzo 2020, n. 18; Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e di Ministero dell'Economia e delle Finanze; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 aprile 2020 il dott. Luca Iera e trattenuta la causa in decisione ai sensi dell’art. 84, comma 5, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. L’amministrazione ha accertato che il ricorrente era incorso in ripetute violazioni dell’art. 30 del d.p.r. n. 303 del 1990 che prescrive a carico del ricevitore concessionario del gioco del lotto di versare il saldo del proprio debito verso il concessionario della rete a cui è collegato il gioco del lotto entro il giovedì successivo alla chiusura della settimana contabile. Ad avviso dell’amministrazione il debito non saldato dal ricevitore riguarderebbe cinque settimane del 2014 (settimana del 12-18 novembre 2014; settimana del 19-25 novembre 2014; settimana del 26 novembre 2014 – 2 dicembre 2014; settimana del 3-9 dicembre 2014; settimana del 17-23 dicembre 2014). L’amministrazione diffidava il ricevitore, in data 9 dicembre 2014 e in data 24 dicembre 2014, al pagamento delle somme dovute entro il termine di cinque giorni decorrenti dalle rispettive diffide, con l’avvertenza che in mancanza di puntuale e tempestivo pagamento, sarebbe stata disposta la revoca della concessione. Avviato il contraddittorio con l’interessato, nel corso del procedimento l’amministrazione accertava il versamento delle somme relative a due settimane: in particolare, la somma relativa alla settimana 19 novembre 2014 (sebbene in un importo di poco inferiore al dovuto) venivano versata in data 19 dicembre 2014 e la somma relativa alla settimana 17-23 dicembre 2014 veniva versata in data 30 dicembre 2014. L’amministrazione, con il provvedimento del 29 gennaio 2015, avente ad oggetto la proroga della sospensione della concessione disposta il 29 dicembre 2014, nel dare atto degli avvenuti pagamenti, riscontrava comunque l’omesso versamento nei termini intimati dei pagamenti relativi alle altre settimane (sopra ricordate), a cui si aggiungeva l’omesso versamento della somma dovuta per la settimana 23 dicembre 2014. Quindi con altro provvedimento adottato in pari data (29 gennaio 2015) avviava, a sensi dell’art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241, il procedimento di revoca della concessione atteso il mancato versamento delle somme dovute entro il termine di cinque giorni dalle diffidate di pagamento. In data 3 marzo 2015 veniva disposta la revoca della concessione della ricevitoria del lotto. Nella stessa data (3 marzo 2015) veniva avviato il procedimento di disdetta, ai sensi degli artt. 6, 9, 18, della legge n. 1293 del 1957, del contratto di appalto per la gestione della rivendita di generi di monopolio che si concludeva con la decadenza della titolarità della rivendita ordinaria disposta in data 30 aprile 2015. 2. Il ricorrente impugna gli atti relativi al procedimento di revoca della concessione della ricevitoria del lotto e quelli relativi al procedimento di disdetta della rivendita di generi di monopolio, affidando il ricorso a tre motivi. Con il primo motivo evidenza il corretto pagamento nei termini intimati delle somme dovute e la violazione degli artt. 10 e 10-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, atteso il mancato riscontro, durante il contraddittorio procedimentale, dei pagamenti effettuati. Con il secondo motivo lamenta la violazione delle disposizioni di legge che disciplinano l’esercizio del potere di revoca della concessione della ricevitoria del gioco del lotto, ed in particolare la violazione dell’art. 34 della legge n. 1923 del 1957, dovendosi nella specie applicare semmai una sanzione pecuniaria. Con il terzo motivo fa valere l’illegittimità derivata della revoca della concessione della rivendita ordinaria di generi di monopolio. In data 23 marzo 2020 il ricorrente depositava una memoria difensiva in cui dava atto della cessione dell’azienda in favore di un terzo al quale l’amministrazione “sembrerebbe avere volturato definitivamente le concessioni relative all’attività del Lotto ed alla vendita di Tabacchi, con ciò determinandosi la possibile cessata materia del contendere”. Atteso il deposito tardivo della memoria (la cui scadenza era stabilito per il 21 marzo 2020), chiedeva la rimessione in termini perché non era stato possibile provvedere al rituale deposito a causa dell’attuale emergenza sanitaria e della oscurità del regime della sospensione dei termini processuali introdotto dai recenti provvedimenti normativi emergenziali. In data 31 marzo 2020 la resistente depositava memoria di replica. 3. In data 18 aprile 2020 il ricorrente depositava un’istanza di “differimento” dell’udienza con cui evidenziava che in particolare “stante, altresì, la lesione al diritto di difesa derivante dall’assenza della discussione orale in vista dell’udienza pubblica, vieppiù all’esito delle memorie depositate dall’Amministrazione - e del disposto dell’articolo 31 della Legge n. 1293 del 1957 che, in caso di cessione dell’azienda, prevede l’eventuale rinuncia del venditore alle concessioni per cui è causa - è interesse della scrivente difesa non mandare in decisione il ricorso all’udienza del 22 aprile 2020”. 4. All’udienza del 22 aprile 2020, in via preliminare è stata esaminata l’istanza di differimento depositata in data 18 aprile 2020 in relazione alla tempestività del deposito. L’art 84, comma 5, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, al fine di fra fronte agli impedimenti derivanti dall’attuale situazione di emergenza sanitaria ha stabilito che “Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. Le parti hanno facoltà di presentare brevi note sino a due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione. Il giudice, su istanza proposta entro lo stesso termine dalla parte che non si sia avvalsa della facoltà di presentare le note, dispone la rimessione in termini in relazione a quelli che, per effetto del secondo periodo del comma 1, non sia stato possibile osservare e adotta ogni conseguente provvedimento per l’ulteriore e più sollecito svolgimento del processo. In tal caso, i termini di cui all’articolo 73, comma 1, del codice del processo amministrativo sono abbreviati della metà, limitatamente al rito ordinario”. Il termine stabilito per il deposito dell’istanza di rimessione di cui al terzo periodo del comma 5 dell’art. 84, prevista in relazione a qui termini che la parte non ha potuto osservare “per effetto del secondo periodo del comma 1 [che prevede la sospensione di tutti i termini del processo ai sensi dell’articolo 54, commi 2 e 3, c.p.a.]” e sempre che non si sia avvalsa della facoltà di depositare “brevi note”, è un termine perentorio (art. 39 c.p.a. e art. 152 c.p.c.) espressione del principio di perentorietà dei termini processuali stabiliti dal legislatore per ragioni di interesse generale. La natura perentoria del termine comporta, sotto il profilo processuale, che al suo spirare si determina ex se la decadenza dal potere di compiere l'atto e la rilevabile d’ufficio dal giudice della decadenza in cui è incorsa la parte. La disposizione contenuta nel terzo periodo del comma 5 dell’art. 84 non incide sulla modalità di trasmissione degli atti giudiziari che deve comunque avvenire nelle forme e nei termini della disciplina sul processo amministrativo telematico (PAT) finalizzata, tra l’altro, ad agevolare la trasmissione da remoto degli atti di parte. L’art. 4, comma 4, dell’Allegato 2 al c.p.a., nel testo introdotto dall'art. 7, comma 2, lettera b), della legge n. 197 del 2016, prevede in proposito che “E’ assicurata la possibilità di depositare con modalità telematica gli atti in scadenza fino alle ore 24:00 dell'ultimo giorno consentito. Il deposito è tempestivo se entro le ore 24:00 del giorno di scadenza è generata la ricevuta di avvenuta accettazione, ove il deposito risulti, anche successivamente, andato a buon fine. Agli effetti dei termini a difesa e della fissazione delle udienze camerali e pubbliche il deposito degli atti e dei documenti in scadenza effettuato oltre le ore 12:00 dell'ultimo giorno consentito si considera effettuato il giorno successivo”. La previsione secondo cui “Agli effetti … della fissazione delle udienze camerali e pubbliche”, il deposito degli “atti” in scadenza nell’ultimo giorno consentito effettuato oltre le ore 12:00 “si considera effettuato il giorno successivo”, anch’essa espressione del principio generale di perentorietà dei termini processuali, trova la sua ratio nella finalità di garantire il contraddittorio tra le parti e di consentire la corretta organizzazione dell’attività giudiziaria del Collegio giudicante. Come si evince dal tenore letterale e dall’interpretazione logica e sistematica, la portata della disposizione va riferita, non solo alle udienze che devono ancora essere fissate (ossia calendarizzate) e quindi al computo dei termini che devono intercorrere tra il deposito dell’”atto” e la data dell’udienza in cui sarà trattata la causa, ma altresì alle udienze già calendarizzate (e quindi già note) in relazione alle quali devono essere depositati “atti”, in cui rientrano anche le istanze di parte (soprattutto laddove, come nel caso di specie, l’istanza è prevista in sostituzione delle “brevi note”), entro un termine perentorio da computarsi a ritroso con decorrenza dalla data dell’udienza (come nella previsione dei “due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione” stabilita dall’art. 84, comma 5, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18). In questo senso depongono altresì i principi espressi dal giudice amministrativo sulla tempestività del deposito delle memorie quali “atti” di parte (Cons. St., Sez. III, 24 maggio 2018, n. 3136; Cons. giust. amm., 7 giugno 2018, n. 344). Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale su descritto, l’istanza del ricorrente di differimento dell’udienza calendarizzata per la trattazione odierna (comunicata via pec in data 8 novembre 2019) non si sottrae al rispetto delle regole del PAT, sicchè l’istanza doveva essere trasmessa entro le ore 12:00 del 18 ottobre 2020, mentre è stata trasmessa alle ore 20:23 (ora di arrivo). L’istanza di differimento è pertanto tardiva. Il ricorrente del resto non ha evidenziato alcun impedimento, così accaduto per la memoria, che avrebbe giustificato il deposito tardivo dell’istanza di differimento tale da consentire la rimessione in termini espressamente prevista dal comma 7 dell’art. 84 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 oppure sancita in via generale dall’art. 37 c.p.a.. 5. La controversia è quindi passata in decisione secondo quanto prevede l’art. 84 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18. Il Collegio dispone la rimessione in termini del ricorrente, ai sensi dell’art. 37 c.p.a., con riferimento alla memoria depositata in data 23 marzo 2020 non avendo questi ritualmente depositato l’atto difensivo dovuto ad errore scusabile per la “presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto” rappresentata dall’estensione, o meno, del regime di sospensione dei termini endo-processuali in scadenza “dal 8 marzo al 15 aprile” introdotto dall’art. 84, comma 1, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, che in proposito ha dettato una disciplina in parte diversa rispetto a quella in precedenza contenuta nell’art. 3, comma 1, del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11. 6. Il ricorso non è fondato. La Sezione ha affrontato la tematica della decadenza della concessione della ricevitoria del gioco del lotto da ultimo con la sentenza 10 marzo 2020, n. 3110, le cui motivazioni, a cui si farà riferimento, vengono qui richiamate quale precedente conforme ai sensi dell’art. 74 c.p.a., con le precisazioni che seguono. Ai sensi dell’art. 6 della legge n. 85 del 1990 si applicano, alle concessioni del gioco del lotto, le disposizioni della legge n. 1923 del 1957 relative alla distribuzione e vendita dei generi di monopoli, tra cui in particolare l’art. 34, n. 9, che disciplina la revoca della concessione per violazione abituale delle prescrizioni di legge. Ai sensi dell’art. 30 del d.p.r. n. 303 del 1990, “I raccoglitori sono tenuti a versare al concessionario, entro il giovedì della settimana successiva all'estrazione, il saldo a proprio debito a mezzo di una o più aziende di credito che assicurino il servizio su tutto il territorio nazionale o del servizio postale”. Con la circolare n. 13386 del 31 luglio 2003 sono state fornite concrete indicazioni in ordine al potere di revoca della concessione della ricevitoria del lotto per violazione abituale delle prescrizioni di legge. Si è previsto in particolare, che in mancanza di versamento delle somme dovute entro il doppio termine rappresentata dal giovedì della settimana successiva all’estrazione e dalla decorrenza di cinque giorni dalla diffida ad adempiere comporta, in mancanza di idonee giustificazioni, la decadenza della concessione. Il contratto o disciplinare di concessione sottoscritto dal ricevitore richiama (artt. 1 e 2) la disciplina sulla decadenza della concessione contenuta nell’art. 34 della legge 22.12.1957, n. 1293 e nella circolare n. 13386 del 31 luglio 2003. Vi si prevede in particolare che la “concessione è revocata per gravi violazioni di legge” e “per gravi inosservanze delle modalità stabilite nel presente atto” (art. 1); che “il mancato versamento nel termine di cinque giorni dal ricevimento della lettera raccomandata a/r, con la quale viene intimato l’adempimento, comporta la revoca della concessione, anche a norma dell’art. 1454 c.c.” (art. 2). La revoca (o meglio la decadenza) della concessione disposta per il mancato pagamento nel termine di cinque giorni intimato nella diffida costituisce una peculiare ipotesi di decadenza automatica della concessione che trova la propria fonte nel rapporto negoziale posto in essere, nell’ambito dell’autonomia negoziale, tra il ricevitore e l’amministrazione concedente. Ciò comporta che l’atto di revoca della concessione (o di decadenza) condivide la natura giuridica privatistica dell’atto da cui trae origine e fondamento. La Sezione ha sottolineato come in questo caso il potere di revoca, previsto nell’art. 34 della legge 22.12.1957, n. 1293 e dal contratto di concessione, abbia natura vincolata nell’an e nel quomodo, non avendo l’amministrazione alcuna discrezionalità “in ordine all’adozione del provvedimento di revoca”, né potendo “adottare misure diverse e più tenui”. Si è altresì analizzato (vagliandone la piena coerenza) il funzionamento della previsione risolutoria contenuta nell’art. 2 del disciplinare, affermando che l’effetto caducatorio, attesa la peculiarità del meccanismo convenuto, prescinde dal giudizio di gravità indicato nell’art. 1455 c.c. e costituisce una causa di risoluzione autonoma sia rispetto a quelle per abitualità o recidiva indicate nell’art. 34 della legge 22.12.1957, n. 1293, sia rispetto al meccanismo della risoluzione ex art. 1454 c.c. rubricato “diffida ad adempiere”. Più in particolare, si è affermato come sia proprio il contratto di concessione a prevedere espressamente (art. 2) la diffida ad adempiere al pagamento e a stabilire il termine ulteriore assegnato al debitore per l’adempimento (cinque giorni), nonché la conseguenza del superamento del termine assegnato ossia la revoca della concessione. Tale previsione dimostra come “l’inosservanza di questo secondo termine [quello di 5 giorni dalla diffida] sia stata qualificata come grave, avuto riguardo all’interesse del creditore, tanto da riconnettervi espressamente la conseguenza della cessazione del rapporto. Il disciplinare ha cioè previsto un particolare meccanismo, in forza del quale la violazione del secondo termine per il versamento delle somme – ossia quello di cinque giorni assegnato con la diffida – assume carattere determinante nell’economia del rapporto, conducendo a qualificare l’inadempimento del concessionario in termini di gravità per l’interesse del creditore pubblico”. Sulla base di questo presupposto la Sezione ha ricostruito il meccanismo risolutorio nel modo seguente. “Il meccanismo [dell’art. 2 del disciplinare] così descritto induce a ritenere che le parti non abbiano inteso attribuire al primo termine di pagamento – ossia quello del giovedì della settimana successiva a quella di raccolta del gioco – la valenza propria di termine essenziale, ai sensi dell’articolo 1457 cod. civ., atteso che la violazione di tale termine non determina di per sé un effetto risolutorio, poiché non ne deriva la revoca della concessione. Quanto, invece, al secondo termine – ossia quello di cinque giorni dal ricevimento dell’apposita diffida – la lettura del disciplinare porta a concludere che a questa seconda scadenza sia stata attribuita una rilevanza determinante nell’economia del rapporto, tanto da comportare, in caso di infruttuoso decorso, la revoca della concessione. In conclusione, la revoca della concessione, secondo il meccanismo disegnato dall’art. 2 del disciplinare, prescinde dalla valutazione postuma della gravità dell’inadempimento, basandosi soltanto sul fatto oggettivo del mancato versamento oltre i termini stabiliti nella diffida di pagamento, ritenuto ex ante inadempimento così grave da fare venire meno l’affidabilità del concessionario incarico della gestione del denaro pubblico, recidendo così il fondamentale rapporto fiduciario che lo lega al concedente”. 7. Alla luce del quadro normativo su decritto occorre verificare la legittimità degli atti o della condotta posta in essere dal ricevitore concessionario. I primi due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente attesa la stretta connessione tra loro. Come evidenziato, con la comunicazione del 29 gennaio 2015 l’amministrazione avviava il procedimento di revoca della concessione a seguito della violazione degli artt. 1 e 2 del disciplinare sottoscritto in data 6 agosto 2013 che prevedono, a pena di decadenza, il pagamento delle somme dovute entro il termine di cinque giorni dalla comunicazione della diffida, salvo giustificate ragioni ostative. L’amministrazione evidenziava la “gravità della responsabilità amministrativo-contabile” del concessionario per gli omessi versamenti “in quanto agente contabile (come affermato da consolidata giurisprudenza penale e contabile)”. Nel corso del procedimento il ricevitore, con memoria del 20 febbraio 2015, esponeva che i pagamenti effettuati impedivano di ritenere inverati i presupposti di legge per applicare la revoca della concessione e al più poteva applicarsi, in relazione alla condotta posta in essere, una sanzione amministrativa pecuniaria. Le giustificazioni del mancato versamento non venivano ritenute idonee dall’amministrazione a giustificare il mancato adempimento agli obblighi contrattuali e venivano confutate sulla base della motivazione contenuta nel provvedimento di revoca e alla luce della considerazione che il “concessionario è patrimonialmente responsabile verso l’erario per le somme riscosse”. L’amministrazione quindi disponeva la revoca della concessione della ricevitoria del gioco del lotto ai sensi dell’art. 34 della legge n. 1293 del 1957, dell’art. 6 della legge n. 85 del 1990, dell’art. 30 del d.p.r. n. 303 del 1990, della circolare n. 13386 del 31 luglio 2003, degli art. 1 e 2 del contratto di concessione. Conformemente al dato normativo richiamo nell’atto impugnato, la revoca trova giustificazione nel pagamento in ritardo delle somme dovute in relazione alle quattro settimane di gioco di seguito indicate: a) settimana del 19 novembre 2014 (sebbene parzialmente saldata); b) settimana del 26 novembre 2014; c) settimana del 3 dicembre 2014; d) settimana 24 dicembre 2014. Con riferimento a tre settimane di gioco il versamento si verificava oltre il termine di 5 giorni decorrente dalla diffida comunicata al ricevitore. E precisamente: i) per la settimana del 19 novembre 2014 (atto di contestazione prot. 87901/14 comunicato in data 10.12.2014) la somma dovuta veniva versata in data 19 dicembre 2014 e saldata per la modesta parte residua nel mese di febbraio 2015 (coma da bonifici bancari prodotti); ii) per la settimana del 26 novembre 2014 (atto di contestazione prot. 91498/14 comunicato in data 9.1.2015) e per la settimana del 3 dicembre 2014 (atto di contestazione prot. 91919/14 comunicato in data 31.12.2014) le somme dovute venivano saldate in via integrale in data 9 febbraio 2015 e in data 10 febbraio 2015 (coma da bonifici bancari prodotti). L’importo complessivamente omesso alla scadenza intimata ammonta quindi ad Euro 5.888,86. Con riguardo alla settimana 24 dicembre 2014 il concessionario non può invece ritenersi inadempiente agli obblighi contrattuali, come evidenziato dal ricorrente, atteso che l’amministrazione non ha provveduto ad emettere apposita diffida al pagamento entro cinque giorni, limitandosi a constatare il mancato versamento nei termini di legge. Dunque, l’amministrazione ha correttamente revocato la concessione sulla base del presupposto obiettivo ed inconfutabile rappresentato dal mancato rispetto degli impegni contrattuali. La circostanza che nell’atto impugnato sia riportato il pagamento oltre il termine di cinque giorni della diffida anche per la settimana del 24 dicembre 2014 non inficia la condotta posta in essere dall’amministrazione dal momento che risulta accertato in modo inequivocabile il ritardo colpevole nel versamento relativo alle altre settimane. Fermo quanto sopra, si osserva come l’amministrazione abbia comunque motivato la revoca sulla base del comportamento inadempiente ritenuto ex post grave. L’amministrazione con la nota del 29 gennaio 2015 ha messo in risalto, con adeguata motivazione, la “gravità della responsabilità amministrativa-contabile” del ricorrente che, quale “agente contabile” e soggetto “patrimonialmente responsabile verso l’erario delle somme incassate”, non ha correttamente gestito il denaro pubblico. Il ricevitore infatti non aveva osservato gli obblighi di custodia, di rendicontazione e di versamento, delle somme riscosse dal pubblico e che devevano essere tenute in custodia per conto dell’Erario per essere riversaste tempestivamente in suo favore per il tramite del concessionario della rete del gioco. Le somme raccolte dal ricevitore sono infatti i proventi del gioco del lotto affidato in concessione ed hanno natura erariale, sicchè il loro mancato versamento potrebbe in ipotesi configurare il reato di peculato. Il rispetto della scansione temporale dei versamenti assume inoltre particolare importanza nell’economia del rapporto negoziale in virtù delle stesse caratteristiche del gioco del lotto imperniato sulla raccolta di un montepremi costituito dal totale delle somme giocate, su estrazioni periodiche ravvicinate, sul pagamento puntuale delle vincite e/o sul rimborso delle giocate. Emerge dunque in modo del tutto ragionevole come il mancato versamento nei termini di legge delle somme raccolte, dovute all’Erario, sia stato ritenuto una delle più gravi ed evidenti violazioni che può commettere un ricevitore del lotto che, in quanto tale, ha fatto venire meno il fondamentale rapporto fiduciario con l’amministrazione. La coerente conseguenza della rottura del “rapporto fiduciario” non può che essere quella della revoca della concessione non potendo più il ricevitore del lotto assicurare la necessaria affidabilità e puntualità nella gestione del rapporto. La Sezione ha affermato, nella richiamata sentenza n. 3110/2020, che, in presenza di un simile inadempimento, l’“amministrazione ha quindi valutato in concreto la violazione dell’obbligazione di cui alla concessione, in termini di effettiva e incidente gravità, tenendone conto sia sotto il profilo oggettivo (con riferimento al momento genetico e funzionale del rapporto) che sotto il profilo soggettivo (dell’interesse del creditore all’esatto adempimento). Nonostante la gravità dell’inadempimento riscontrato, l’amministrazione ha comunque assicurato al ricevitore concessionario le garanzie del contraddittorio, consentendo a questi di esporre nel corso del procedimento di revoca le ragioni che avrebbero potuto giustificare l’omesso versamento nei termini”. In conclusione, al di là della corretta qualificazione giuridica delle violazioni di legge fatte valere con i primi due motivi di ricorso (attesa, come detto, la natura privatistica dell’atto contestato), non solo l’amministrazione ha confutato in concreto e con motivazione logica e congrua le argomentazioni difensive esposte nel corso del contraddittorio, ma ha altresì correttamente esercitato il potere di decadenza previsto nel contratto di concessione. 8. Anche il terzo motivo di ricorso non è fondato. Con riferimento alla disdetta del contratto d'appalto o alla revoca della gestione delle rivendite, si osserva, in relazione alla presente controversia, quanto segue. L’ordinamento prevede due distinte cause di disdetta o revoca. La prima è contenuta nell’art. 34, n. 9 e n. 10, della legge n. 1293 del 1957 ai sensi del quale la disdetta o revoca avviene in caso di “violazione abituale” o di “violazione persistente” delle norme relative alla gestione ed al funzionamento delle rivendite, al ricorrere degli specifici presupposti ivi stabiliti. La seconda è contenuta nel combinato disposto degli artt. 6, 13, 18, della medesima legge n. 1293 del 1957. L’art. 18 sancisce che “Alle rivendite si applicano le disposizioni degli artt. 6, 7, 12 e 13”; quindi l’art. 6, n. 9, prevede che “Non può gestire un magazzino chi: […] sia stato rimosso dalla qualifica di gestore, coadiutore o commesso di un magazzino o di una rivendita, ovvero da altre mansioni inerenti a rapporti con l'Amministrazione dei monopoli di Stato, se non siano trascorsi almeno cinque anni dal giorno della rimozione”; infine, l’art. 13 stabilisce che “Il magazziniere decade dalla gestione: a) quando ricorra nei di lui confronti uno dei casi di esclusione previsti dall'art. 6”. Alla luce del quadro normativo su riferito, la decadenza della titolarità della rivendita ordinaria dei generi di monopolio disposta ai sensi degli artt. 6, 13, 18, della legge n. 1293 del 1957, si pone quale atto conseguenziale rispetto all’atto presupposto rappresentato dalla decadenza della concessione della ricevitoria del gioco del lotto (ricorrendo i presupposti di legge previsti per quest’ultima). La decadenza dalla concessione del gioco del lotto, che comporta il venire meno del rapporto di fiducia con l’amministrazione, costituisce causa di per sé idonea a recidere anche il rapporto di fiducia in ordine al diverso rapporto relativo alla rivendita e quindi a cagionare la decadenza della titolarità della stessa. Come si è evidenziato, la perdita del rapporto di servizio con l’amministrazione (nella specie per la decadenza della ricevitoria) comporta la “perdita delle condizioni soggettive della concessione, legittimando, in ragione del venir meno dell’elemento fiduciario, alla revoca del titolo di gestione” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 15 settembre 2015, n. 4313). In altri termini, la decadenza dal primo rapporto comporta, salvo specifiche ragioni contrarie, la decadenza anche dal secondo rapporto, sicchè il venire meno della prima concessione determina in modo conseguenziale il venire meno della seconda. Sulla base di queste diposizioni e del presupposto della revoca della concessione della ricevitoria, l’amministrazione, dopo avere assicurato il contraddittorio con il ricevitore, determinava con l’atto del 30 aprile 2015 la decadenza della titolarità della rivendita ordinaria dei generi di monopolio. L’amministrazione ha quindi fatto correttamente applicazione delle disposizioni normative disponendo la decadenza della rivendita sulla base della decadenza della concessione relativa al gioco del lotto. 9. In conclusione, il ricorso è infondato e va respinto. In considerazione della natura della controversia, nonché dell’indeterminatezza del valore della causa, le spese di giudizio vengono compensate. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 aprile 2020, tenutasi mediante collegamento da remoto in videoconferenza secondo quanto disposto dall’art. 84, comma 6, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, con l'intervento dei magistrati: Francesco Riccio, Presidente Filippo Maria Tropiano, Primo Referendario Luca Iera, Referendario, Estensore Francesco Riccio, Presidente Filippo Maria Tropiano, Primo Referendario Luca Iera, Referendario, Estensore IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Covid-19 – Rimessione in termini ex art. 84, comma 5, d.l. n. 18 del 2020 – Istanza – Termine – Natura perentoria. Processo amministrativo – Depositi - Ore 12.00 – Ambito di applicazione – Udienze calendarizzate e da calendarizzare      Il termine di “due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione”, previsto – a favore parte che non ha presentato brevi note e alla quale, per effetto del secondo periodo del comma 1, non sia stato possibile osservare e adotta ogni conseguente provvedimento per l’ulteriore e più sollecito svolgimento del processo - per il deposito dell’istanza di rimessione di cui al terzo periodo del comma 5 dell’art. 84, d.l. 17 marzo 2020, n. 18, è perentorio (art. 39 c.p.a. e art. 152 c.p.c.) ed è stabilito dal legislatore per ragioni di interesse generale volte a garantire il contraddittorio e consentire la corretta organizzazione dell’attività giudiziaria; allo spirare del termine si determina ex se la decadenza dal potere di compiere l'atto e la rilevabilità d’ufficio dal giudice della decadenza in cui è incorsa la parte (1).      L’art. 4, comma 4, dell’Allegato 2 al c.p.a., secondo cui “Agli effetti … della fissazione delle udienze camerali e pubbliche”, il deposito degli “atti” in scadenza nell’ultimo giorno consentito effettuato oltre le ore 12:00 “si considera effettuato il giorno successivo”, va riferito non solo alle udienze che devono ancora essere fissate (ossia calendarizzate) e quindi al computo dei termini che devono intercorrere tra il deposito dell’”atto” e la data dell’udienza in cui sarà trattata la causa, ma altresì alle udienze già calendarizzate (e quindi già note) in relazione alle quali devono essere depositati “atti”, in cui rientrano anche le istanze di parte (soprattutto laddove previste in sostituzione di “brevi note”, come stabilito dall’art. 84, comma 5, d.l. 17 marzo 2020, n. 18), che devono essere presentate entro un termine perentorio da computarsi a ritroso con decorrenza dalla data dell’udienza (2).   (1) L’art. 84, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 dispone che “Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. Le parti hanno facoltà di presentare brevi note sino a due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione. Il giudice, su istanza proposta entro lo stesso termine dalla parte che non si sia avvalsa della facoltà di presentare le note, dispone la rimessione in termini in relazione a quelli che, per effetto del secondo periodo del comma 1, non sia stato possibile osservare e adotta ogni conseguente provvedimento per l’ulteriore e più sollecito svolgimento del processo. In tal caso, i termini di cui all’articolo 73, comma 1, del codice del processo amministrativo sono abbreviati della metà, limitatamente al rito ordinario”. Ha chiarito la Sezione che la disposizione contenuta nel terzo periodo del comma 5 dell’art. 84 non incide sulla modalità di trasmissione degli atti giudiziari che deve comunque avvenire nelle forme e nei termini della disciplina sul processo amministrativo telematico (PAT) finalizzata, tra l’altro, ad agevolare la trasmissione da remoto degli atti di parte. (2) Nel senso prospettato in sentenza depongono altresì i principi espressi dal giudice amministrativo sulla tempestività del deposito delle memorie quali “atti” di parte (Cons. St., sez. III, 24 maggio 2018, n. 3136; Cons. giust. amm., 7 giugno 2018, n. 344). Data la premessa, la Sezione ha dichiarato tardiva l’istanza di differimento dell’udienza calendarizzata per la trattazione della causa in udienza pubblica in quanto tramessa, mediante il processo amministrativo telematico, oltre il termine delle ore 12:00 dell’ultimo giorno consentito.
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/giurisdizione-del-giudice-amministrativo-nella-controversia-proposta-avverso-il-diniego-di-accesso-opposto-dalla-commissione-parlamentare-d-inchiesta-
Giurisdizione del giudice amministrativo nella controversia proposta avverso il diniego di accesso opposto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia in Sicilia
N. 00154/2022REG.PROV.COLL. N. 00562/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 562 del 2021, proposto da Assemblea Regionale Siciliana, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Palermo, domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale, 6; contro -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Riccardo Rotigliano e Mario Midiri, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Riccardo Rotigliano in Palermo, via Filippo Cordova, n. 95; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Sezione Prima, n. -OMISSIS-. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del signor -OMISSIS-; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nella camera di consiglio del giorno 16 dicembre 2021, il Cons. Roberto Caponigro e uditi per le parti gli avvocati come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il signor -OMISSIS-, in data 25 giugno 2020, ha inviato differenti istanze per l’accesso agli atti ed il rilascio di alcuni documenti alla Commissione parlamentare d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia presso l’Assemblea Regionale Siciliana. La detta Commissione, nella seduta n. 166 del 14 luglio 2020, ha deliberato la trasmissione di alcuni degli atti richiesti, mentre ha specificato che non sarebbero stati rilasciati i documenti afferenti: a) la trascrizione stenografica dell’audizione del dr. -OMISSIS-, resa in data 11 dicembre 2013, in quanto segregata dalla Commissione Antimafia pro tempore della scorsa legislatura; b) il documento (denominato “Relazione per la Commissione Antimafia dell’ARS”) depositato dal dr. -OMISSIS-, nel corso della seduta del 22 ottobre 2019, in quanto considerato atto interno predisposto per la Commissione; c) la trascrizione stenografica dell’audizione del dr. -OMISSIS- e del dr. -OMISSIS- avente ad oggetto attività del Nucleo Ecologico dei Carabinieri (NOE), svolte nella qualità di polizia giudiziaria. Il signor -OMISSIS- ha proposto ricorso al Tar per la Sicilia per l’accesso ai documenti sub b) e sub c) ed il Tar per la Sicilia, Sezione Prima, con la impugnata sentenza n. -OMISSIS-, ha accolto il ricorso nei sensi e nei termini di cui in motivazione. In particolare, il giudice di primo grado ha annullato il provvedimento impugnato e, per l’effetto, ha ordinato all’Assemblea regionale siciliana: l’integrale esibizione della relazione resa dall’ex Assessore regionale per l’energia e i servizi di pubblica utilità, dott. -OMISSIS-, nel corso dell’audizione, in seduta pubblica, del 22 ottobre 2019; l’esibizione della trascrizione dell’audizione degli Ufficiali dei Carabinieri svoltasi nella seduta del 3 dicembre 2019, con eventuale specifica omissione delle parti espressamente riferite a indagini in corso coperte da segreto istruttorio. Di talché, l’Assemblea Regionale Siciliana ha proposto il presente appello, articolando i seguenti motivi: Sul difetto assoluto di giurisdizione. Sussisterebbe il difetto assoluto di giurisdizione, stante l’insindacabilità dell’attività svolta dalla Commissione Parlamentare Antimafia e trasfusa nel parziale diniego contenuto nel provvedimento opposto e la conseguente inapplicabilità dell’istituto dell’accesso agli atti di cui alla legge n. 241 del 1990 per gli atti, i documenti e le delibere emesse dal predetto organo assembleare. Violazione e falsa applicazione degli artt. 22 e 24 l. n. 241 del 1990. Carenza di interesse ad agire. L’interesse del ricorrente all’accesso non sussisterebbe con riferimento sia a quanto disposto dal regolamento interno dell’ARS sia agli artt. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990. Violazione e falsa applicazione degli artt. 22 e 24 l. n. 241 del 1990 e degli artt. 13, 19, 21 ss regolamento interno della Commissione Antimafia. La relazione richiesta dovrebbe considerarsi atto interno della Commissione e, sebbene richiamata nella relazione conclusiva dell’inchiesta sul ciclo dei rifiuti nella Regione Siciliana, essa non è stata allegata ai sensi dell’art. 21, comma 2, del regolamento interno, né è stata pubblicata ai sensi del comma 1 dello stesso articolo 21. Il documento in esame, quindi, dovrebbe essere considerato un atto riservato, detenuto in archivio dalla Commissione secondo quanto disposto dall’art. 19 del regolamento interno. Per quanto concerne la trascrizione stenografica degli Ufficiali del NOE, non vi sarebbe in capo alla Commissione un obbligo di trascrizione di tutti i lavori della stessa, mentre la trascrizione sarebbe funzionale ai lavori e non anche alla loro pubblicità. La pubblicità dei lavori della Commissione, invece, è regolata dall’art. 13 del Regolamento interno, mediante sommari pubblicati nel Bollettino delle Commissioni, fermo restando i limiti di cui all’art. 21. L’audizione degli ufficiali del NOE aveva ad oggetto attività effettuate nello svolgimento di funzioni giudiziarie e, da quanto emerso in sede di audizione, risultavano ancora in corso indagini della Procura della Repubblica di Agrigento, per cui sussisterebbe il segreto istruttorio. Il signor -OMISSIS- ha analiticamente controdedotto, concludendo per il rigetto dell’appello. Alla camera di consiglio del 16 dicembre 2021, la causa è stata trattenuta per la decisione. 2. L’appello è fondato e va di conseguenza accolto. 2.1. L’eccezione di difetto assoluto di giurisdizione deve essere respinta, in quanto infondata. Il giudice amministrativo, in giurisdizione generale di legittimità, è il giudice naturale dell’esercizio della funzione pubblica. L’art. 7, comma 1, ultima parte, dispone che non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del potere politico. Ora, non può sussistere dubbio sul fatto che il parziale diniego opposto dalla Commissione parlamentare all’istanza di accesso agli atti costituisce esercizio di attività amministrativa e non può configurare esercizio di potere politico, sicché non vi sono i presupposti, nemmeno ritraibili da diverse fonti normative che in qualche modo potrebbero determinarne la non assoggettabilità al vaglio giurisdizionale, per escludere la sua sindacabilità dinanzi al giudice amministrativo. Ciò anche in considerazione del fatto che all'Assemblea Regionale Siciliana non spettano poteri di autodichia, le cui previsioni derogatorie rispetto alla giurisdizione comune, in quanto eccezionali, sono insuscettibili di estensione analogica (cfr, da ultimo, Cgars, sentenza n. 1032 del 7 dicembre 2021). Pertanto, diversamente opinando, la pozione giuridica soggettiva di cui è chiesta tutela rimarrebbe, senza alcuna plausibile ragione, priva di tutela giurisdizionale. 2.2. Nemmeno può dubitarsi del fatto che il richiedente abbia adeguatamente evidenziato il proprio interesse personale e diretto all’accesso, avendo rappresentato, nella richiesta di riesame del 7 settembre 2020, che, da quanto risulta nella relazione conclusiva della Commissione sul ciclo dei rifiuti nella Regione siciliana, “il documento consegnato dal dottor -OMISSIS- contiene specifici riferimenti alla mia attività imprenditoriale” e che “ampi stralci di quanto dichiarato dai due ufficiali del NOE compaiono nella Relazione conclusiva della Commissione”. 2.3. Le doglianze di merito proposte dall’ARS, invece, sono fondate. 2.3.1. Il Presidente della Commissione parlamentare di inchiesta e vigilanza sui fenomeni della mafia e della corruzione in Sicilia, Assemblea Regionale Siciliana, con atto sottoscritto “d’ordine” da un Consigliere parlamentare, in riscontro ad istanza di accesso acquisita al protocollo della Commissione in data 25 giugno 2020, ha comunicato al dott. -OMISSIS- quanto segue: - circa le audizioni del dott. -OMISSIS- tenutesi durante la scorsa legislatura, quella svolta nell’ambito della seduta n. 21 dell’11 dicembre 2013 è stata segretata, per cui è allegato il resoconto stenografico dell’audizione svolta nel corso della seduta n. 32 del 19 marzo 2014; - la relazione depositata dal dott. -OMISSIS- a margine dell’audizione innanzi alla Commissione è un atto interno predisposto per la Commissione stessa; - l’audizione del dott. -OMISSIS- e del dott. -OMISSIS- ha ad oggetto attività del Nucleo ecologico dei carabinieri (NOE) effettuate nella qualità di polizia giudiziaria, come emerso anche da recenti indagini della procura di Agrigento; - le intercettazioni cui accenna il dott. -OMISSIS- si riferiscono al proc. pen. n. -OMISSIS-; - i documenti depositati dal dott. -OMISSIS- e dall’ing. -OMISSIS- a margine della seduta n. 122 del 14 novembre 2019 si allegano alla presente. L’interessato ha contestato il diniego di accesso alla relazione depositata dal dottor -OMISSIS- ed alla trascrizione stenografica delle audizioni degli ufficiali del NOE. 2.3.2. Il Collegio, in primo luogo, evidenzia che il thema decidendum della controversia è costituito dall’accertamento del diritto dell’appellato ad accedere agli atti richiesti, vale a dire che l’effettivo oggetto del giudizio è costituito dall’accertamento della spettanza o meno del bene della vita, a prescindere dalla motivazione del diniego parziale e dall’eventuale sussistenza di vizi formali. 2.3.3. L’art. 4 dello Statuto Regionale Siciliano, norma di rango costituzionale, attribuisce all’A.R.S. una riserva di regolamento e, conseguentemente, lascia alla sua autonomia di stabilire, in concreto, il contenuto di detta fonte normativa. Tali fonti regolamentari, in ragione della indicata riserva di regolamento, non possono essere assimilate ai comuni regolamenti adottati dagli organi amministrativi delle PP.AA., ponendosi, rispetto alle fonti primarie, in un rapporto improntato al principio di separazione, piuttosto che di gerarchia, e incontrando il solo limite della Costituzione (e dello Statuto Regionale Siciliano). Il regolamento per l’accesso agli atti ed ai documenti amministrativi dell’Assemblea regionale siciliana è stato pubblicato sulla G.U.R.S n. 28 del 20 giugno 2008. La L.R. Sicilia n. 4 del 1991 ha istituito la Commissione parlamentare di inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia e, all’art. 2, comma 2, ha stabilito che un apposito regolamento interno disciplina le modalità di esercizio delle sue funzioni e regola anche le forme di pubblicità dei lavori, nonché dei suoi atti e dei documenti di cui viene in possesso. La detta Commissione parlamentare, nella seduta n. 4 del 29 maggio 2018, ai sensi dell’articolo 2 della L.R. n. 4 del 1991, ha approvato il vigente regolamento interno. Di talché, al fine di delibare compitamente la controversia in esame, occorre fare riferimento al regolamento per l’accesso agli atti dell’ARS e, soprattutto, al regolamento interno di disciplina della pubblicità degli atti e documenti di cui la Commissione parlamentare viene in possesso che, per la sua specialità, deve ritenersi prevalente rispetto alla disciplina generale. In proposito, anche a voler prescindere dalla circostanza già di per sé dirimente, che il ricorso di primo grado non è stato notificato ai controinteressati, individuabili chiaramente nel dott. -OMISSIS- e negli Ufficiali del NOE dott. -OMISSIS- e dott. -OMISSIS-, il che renderebbe inammissibile il ricorso proposto in primo grado, occorre rilevare la fondatezza nel merito dell’appello proposto dall’Assemblea Regionale Siciliana per le seguenti ragioni: - l’art. 21 del regolamento interno alla Commissione parlamentare, in tema di pubblicazione di atti e documenti, prevede, al primo comma, che “fermo restando quanto previsto nella legge istitutiva e nel presente regolamento riguardo ad atti, delibere e documenti che devono rimanere segreti, l’Ufficio di Presidenza stabilisce quali atti e documenti possono essere pubblicati nel corso dei lavori della Commissione” e, al secondo comma, che “l’Ufficio di Presidenza delibera quali siano gli atti e i documenti da pubblicare in allegato alle relazioni di cui all’articolo 20”, vale a dire alla relazioni presentate a conclusione di singole inchieste o indagini; - l’art. 13, comma 1, del detto regolamento interno dispone che “la pubblicità dei lavori della Commissione è assicurata mediante sommari pubblicati nel Bollettino delle Commissioni, fermo restando i limiti di cui all’articolo 21”. Ne consegue, facendo applicazione di tali norme regolamentari, che, con riferimento alla relazione depositata dal dott. -OMISSIS- a margine dell’audizione, il Presidente, nell’implicito esercizio del potere attribuitogli dal richiamato art. 21 del regolamento, ha ritenuto che tale atto non dovesse essere pubblicato e che, con riferimento all’audizione dei dottori -OMISSIS- e -OMISSIS-, al di là delle considerazioni relative allo svolgimento di indagini presso la Procura di Agrigento, ai sensi dell’art. 13 del richiamato regolamento, la pubblicità deli lavori della Commissione è stata assicurata mediante sommari pubblicati nel Bollettino. In definitiva, si rivelano fondate le doglianze articolate in appello dall’ARS e, conseguentemente, il parziale diniego adottato “d’ordine” del Presidente della Commissione, sulla base del regolamento interno della Commissione parlamentare, si rivela immune dai vizi di legittimità prospettati in primo grado ed accolti dal Tar. 3. L’accoglimento dell’appello proposto dall’Assemblea Regionale Siciliana determina, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, l’integrale rigetto del ricorso proposto in primo grado. 4. Le spese del doppio grado di giudizio, peraltro, attesa la parziale novità delle questioni trattate possono essere integralmente compensate tra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando, accoglie l’appello in epigrafe (R.G. n. 562 del 2021) e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso proposto in primo grado. Compensa le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte appellata, nonché ogni altra persona fisica menzionata nella sentenza. Così deciso in Palermo, nella camera di consiglio del giorno 16 dicembre 2021, con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis, Presidente Raffaele Prosperi, Consigliere Roberto Caponigro, Consigliere, Estensore Maria Immordino, Consigliere Giovanni Ardizzone, Consigliere Rosanna De Nictolis, Presidente Raffaele Prosperi, Consigliere Roberto Caponigro, Consigliere, Estensore Maria Immordino, Consigliere Giovanni Ardizzone, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Giurisdizione – Accesso ai documenti – Diniego - Commissione parlamentare d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia - Giurisdizione del giudice amministrativo.      Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo nella controversia proposta avverso il diniego di accesso ai documenti opposto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia presso l’Assemblea Regionale Siciliana (1)    (1) Ha chiarito il C.g.a. che il giudice amministrativo, in giurisdizione generale di legittimità, è il giudice naturale dell’esercizio della funzione pubblica.   L’art. 7, comma 1, ultima parte, dispone che non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del potere politico.  Ora, non può sussistere dubbio sul fatto che il parziale diniego opposto dalla Commissione parlamentare all’istanza di accesso agli atti costituisce esercizio di attività amministrativa e non può configurare esercizio di potere politico, sicché non vi sono i presupposti, nemmeno ritraibili da diverse fonti normative che in qualche modo potrebbero determinarne la non assoggettabilità al vaglio giurisdizionale, per escludere la sua sindacabilità dinanzi al giudice amministrativo.  Ciò anche in considerazione del fatto che all'Assemblea Regionale Siciliana non spettano poteri di autodichia, le cui previsioni derogatorie rispetto alla giurisdizione comune, in quanto eccezionali, sono insuscettibili di estensione analogica (cfr, da ultimo, Cgars, sentenza n. 1032 del 7 dicembre 2021). ​​​​​​​Pertanto, diversamente opinando, la pozione giuridica soggettiva di cui è chiesta tutela rimarrebbe, senza alcuna plausibile ragione, priva di tutela giurisdizionale.  
Giurisdizione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/richiesta-di-green-pass-e-tutela-del-diritto-alla-riservatezza-sanitaria
Richiesta di green pass e tutela del diritto alla riservatezza sanitaria
N. 05130/2021 REG.PROV.CAU. N. 07460/2021 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 7460 del 2021, proposto da Anna Grazia Costeri, Massimiliano Putzolu, Nicola Pagnini e Vittoria Cassioli, rappresentati e difesi dall'avvocato Francesco Scifo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Salute, Ministero dell'Interno, Ministero dell'Economia e delle Finanze, Garante per la Protezione dei Dati personali - Privacy, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici domiciliano ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12; nei confronti CODACONS, Carlo Dalmasso ed altri, non costituiti in questa fase di giudizio; e con l'intervento di ad adiuvandum:Mariateresa Volpone, rappresentata e difesa dall'avvocato Salvatore Russo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Ottaviano n. 9; per la riforma dell'ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. 04281/2021, resa tra le parti Visto l'art. 62 cod. proc. amm; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero della Salute, del Ministero dell'Interno, del Ministero dell'Economia e delle Finanze e del Garante per la Protezione dei Dati personali - Privacy; Visto l’atto di intervento ad adiuvandum di Maria Teresa Volpone; Vista l’impugnata ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo regionale di reiezione della domanda cautelare presentata dalla parte ricorrente in primo grado; Visto il proprio decreto monocratico di reiezione di misure cautelari provvisorie 13 agosto 2021 n. 4407; Relatore nella camera di consiglio del giorno 16 settembre 2021 il Cons. Ezio Fedullo; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Considerato che con il ricorso di primo grado gli odierni appellanti hanno impugnato il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 17 giugno 2021, contenente le disposizioni attuative dell’articolo 9, comma 10, del decreto legge 22 aprile 2021 n. 52, relative al sistema di prevenzione, contenimento e controllo sanitario dell’infezione SARS-CoV-2, mediante l’impiego della certificazione verde COVID-19 (cd. “Green pass”), chiedendone l’integrale sospensione dell’efficacia; Considerato che gli appellanti lamentano la lesione del loro diritto alla riservatezza sanitaria, il rischio di discriminazioni nello svolgimento di attività condizionate al possesso della certificazione verde, nonché il pregiudizio economico derivante dalla necessità di sottoporsi a frequenti tamponi; Considerato che gli appellanti sostengono il contrasto dell’impugnato DPCM, nonché della normativa primaria su cui esso si basa, con la disciplina dell’Unione europea e con la Costituzione italiana, con particolare riferimento alla protezione dei dati personali sanitari; Ritenuto che la pronuncia cautelare di rigetto, adottata in primo grado, meriti di essere integralmente confermata, quanto alla dichiarata carenza di una adeguata rappresentazione, ad opera della parte ricorrente, del periculum in mora, connotato dagli indispensabili requisiti di gravità ed irreparabilità, atteso che, da un lato, il prospettato rischio di compromissione della sicurezza nel trattamento dei dati sensibili connessi alla implementazione del cd. Green pass appare rivestire carattere meramente potenziale (non potendo ritenersi insito, ai presenti fini e per la sua astrattezza, nella qualificazione come “attività pericolosa” del trattamento dei dati, ex artt. 15 d.lvo n. 196/2003 e 2050 c.c.); Considerato, inoltre, che gli appellanti, dichiarandosi contrari alla somministrazione del vaccino, nel pieno esercizio dei loro diritti di libera autodeterminazione, non subiscono lesioni del diritto alla riservatezza sanitaria in ordine alla scelta compiuta, dal momento che l’attuale sistema di verifica del possesso della certificazione verde non sembra rendere conoscibili ai terzi il concreto presupposto dell’ottenuta certificazione (vaccinazione o attestazione della negatività al virus); Considerato che, in ogni caso, eventuali concrete ed effettive lesioni future del diritto alla riservatezza sanitaria potranno essere contrastate mediante gli strumenti amministrativi e processuali (anche cautelari) ordinari; Evidenziato altresì che il D.P.C.M. impugnato ha ad oggetto la definizione degli aspetti di regolamentazione tecnica dell’istituto del cd. Green pass, in attuazione della disposizione normativa delegante (art. 9, comma 10, d.l. n. 52/2021), essendo ad esso estranei, invece, i contenuti regolatori, inerenti alle attività sociali, economiche e lavorative realizzabili dai soggetti vaccinati, o in possesso di un’attestazione di “negatività” al virus, cui gli appellanti riconducono i lamentati effetti discriminatori: contenuti che sono propri di atti aventi forza di legge (in particolare, dd.ll. n. 105/2021 e 111/2021), la cognizione della cui compatibilità, costituzionale ed unionale, non potrebbe essere devoluta, recta via ed in mancanza di eventuali specifici atti applicativi di cui siano destinatari gli odierni appellanti, al giudice amministrativo adito in sede cautelare, nemmeno al fine di investire delle relative questioni i Giudici (costituzionale ed europeo) competenti, fermi restando gli ulteriori approfondimenti che il giudice di primo grado svolgerà in fase di merito; Rilevato che analoghe considerazioni, in mancanza di puntuali allegazioni intese a specificare il pregiudizio individualmente subito dagli appellanti, coerentemente con la connotazione di posizione giuridica fondamentale dell’interesse fatto valere in giudizio, anche ai fini cautelari, dal giudice amministrativo, devono svolgersi con riguardo all’asserito effetto indirettamente coercitivo nei riguardi della sottoposizione alla somministrazione vaccinale, o al ripetuto test di negatività, asseritamente riconducibile alle norme che limitano ai soli soggetti vaccinati lo svolgimento di determinate attività, non essendo chiarito quali tra queste sarebbero precluse agli appellanti non vaccinati o privi di attestazione di negatività al virus, ai fini della valutazione della gravità ed irreparabilità del relativo ipotetico pregiudizio; Evidenziato infine, con riferimento al piano valutativo del periculum in mora inteso a soppesare comparativamente il danno lamentato dalla parte richiedente la tutela cautelare, da un lato, e l’interesse che l’Amministrazione ha inteso perseguire mediante il provvedimento impugnato, dall’altro lato, che il depotenziamento degli strumenti (quali, appunto, quello incentrato sull’utilizzo del cd. Green pass) destinati ad operare in modo coordinato, anche al fine di garantirne l’efficacia sul piano della regolazione delle interazioni sociali (con particolare riguardo ai contatti tra soggetti vaccinati, o altrimenti immunizzati, e soggetti non vaccinati), con la campagna vaccinale in corso, il quale non potrebbe non conseguire all’accoglimento della proposta domanda cautelare, determinerebbe un vuoto regolativo foriero, nell’attuale fase non del tutto superata di emergenza pandemica, di conseguenze non prevedibili sul piano della salvaguardia della salute dei cittadini, la grande maggioranza dei quali, peraltro, ha aderito alla proposta vaccinale e ha comunque ottenuto la certificazione verde; Considerato, inoltre, che proprio la graduale estensione della certificazione verde ha oggettivamente accelerato il percorso di riapertura delle attività economiche, sociali e istituzionali; Ritenuto, infine, di richiamare e confermare le ragioni, di seguito trascritte, per le quali il Presidente della Sezione, con il decreto n. 3568 del 30 giugno 2021, ha respinto l’appello proposto dagli odierni appellanti avverso il decreto reiettivo dell’istanza di misure cautelari monocratiche adottato dal giudice di primo grado: “Ritenuto che l’istanza cautelare, per quanto ammissibile, non è tuttavia fondata; Considerato infatti: 1) che le contestate prescrizioni del D.P.C.M. impugnato trovano copertura di fonte primaria nel D.L. n. 52/2021 il cui precetto normativo va applicato per come incorporato dalla legge di conversione n. 87/2021; 2) che le prescrizioni stabilite dal Garante per la riservatezza dei dati personali mantengono la loro efficacia nei confronti delle misure applicative di copertura dell’autorità sanitaria nazionale cui spetta il coordinamento delle iniziative occorrenti; 3) che il “green pass” rientra in un ambito di misure, concordate e definite a livello europeo e dunque non eludibili, anche per ciò che attiene la loro decorrenza temporale, e che mirano a preservare la salute pubblica in ambito sovrannazionale per consentire la fruizione delle opportunità di spostamenti e viaggi in sicurezza riducendo i controlli; 4) che la generica affermazione degli appellanti (pag. 7 appello) secondo cui “allo stato delle conoscenze scientifiche” non vi sarebbe piena immunizzazione e quindi si creerebbe un “lasciapassare falso di immunità”, si pone in contrasto con ampi e approfonditi studi e ricerche su cui si sono basate le decisioni europee e nazionali volte a mitigare le restrizioni anti covid a fronte di diffuse campagne vaccinali”; Considerato che il Tribunale valuterà, in sede di merito, l’ammissibilità degli atti di intervento in giudizio delle parti indicate in epigrafe; Ritenuta infine la sussistenza di giuste ragioni per disporre la compensazione delle spese del giudizio cautelare di appello, tenuto conto della novità delle questioni trattate; P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) respinge l’appello cautelare. Spese del giudizio cautelare di appello compensate. La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 settembre 2021 con l'intervento dei magistrati: Marco Lipari, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere, Estensore Marco Lipari, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Covid-19 – Green pass – Violazione del diritto alla riservatezza sanitaria – Esclusione.   La richiesta di green pass non viola il diritto alla riservatezza sanitaria (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che gli appellanti, dichiarandosi contrari alla somministrazione del vaccino, nel pieno esercizio dei loro diritti di libera autodeterminazione, non subiscono lesioni del diritto alla riservatezza sanitaria in ordine alla scelta compiuta, dal momento che l’attuale sistema di verifica del possesso della certificazione verde non sembra rendere conoscibili ai terzi il concreto presupposto dell’ottenuta certificazione (vaccinazione o attestazione della negatività al virus); ​​​​​​​Ha aggiunto che l’impugnato d.P.C.M. 17 giugno 2021, contenente le disposizioni attuative dell’art. 9, comma 10, d.l. 22 aprile 2021 n. 52 ha ad oggetto la definizione degli aspetti di regolamentazione tecnica dell’istituto del cd. Green pass, in attuazione della disposizione normativa delegante (art. 9, comma 10, d.l. n. 52 del 2021), essendo ad esso estranei, invece, i contenuti regolatori, inerenti alle attività sociali, economiche e lavorative realizzabili dai soggetti vaccinati, o in possesso di un’attestazione di “negatività” al virus, cui gli appellanti riconducono i lamentati effetti discriminatori: contenuti che sono propri di atti aventi forza di legge (in particolare, dd.ll. nn. 105 del 2021 e 111 del 2021), la cognizione della cui compatibilità, costituzionale ed unionale, non potrebbe essere devoluta, recta via ed in mancanza di eventuali specifici atti applicativi di cui siano destinatari gli odierni appellanti, al giudice amministrativo adito in sede cautelare, nemmeno al fine di investire delle relative questioni i Giudici (costituzionale ed europeo) competenti, fermi restando gli ulteriori approfondimenti che il giudice di primo grado svolgerà in fase di merito.
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/ordinanza-contingibile-e-urgente-del-presidente-della-regione-calabria-in-materia-di-rifiuti
Ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione Calabria in materia di rifiuti
N. 02409/2021 REG.PROV.COLL. N. 00934/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 934 del 2021, proposto da: Ambito Territoriale Ottimale di Catanzaro, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Alfredo Gualtieri, con domicilio digitale come da p.e.c. da Registri di Giustizia; contro Regione Calabria, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Enrico Francesco Ventrice, con domicilio digitale come da p.e.c. da Registri di Giustizia; nei confronti della Città Metropolitana di Reggio Calabria, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Antonio Miceli, con domicilio digitale come da p.e.c. da Registri di Giustizia; Ambito Territoriale Ottimale di Reggio Calabria, Ambito Territoriale Ottimale di Cosenza, Ambito Territoriale Ottimale di Crotone, Ambito Territoriale Ottimale di Vibo Valentia, non costituiti in giudizio; per l'annullamento - dell’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione Calabria n. 24 del 12.04.2021 nei punti 3), 4) e 5); - del provvedimento “Ripartizione dei volumi di abbanco” del 14.05.2021, prot. n. 220302, emanato in attuazione del punto 4 lett. a) dell’ordinanza n. 24/2021, per la sola parte di interesse dell’A.T.O. di Catanzaro; - della disposizione “Conferimento degli scarti di lavorazione verso la discarica di Lamezia Terme sita in loc. Stretto” del 14.05.2021, prot. n. 221570, che ha stabilito i quantitativi di conferimento per gli Ambiti calabresi nel periodo dal 17 al 31.05.2021; - di tutte le ulteriori analoghe disposizioni di regolazione dei conferimenti degli scarti di lavorazione verso la discarica di Lamezia Terme sita in loc. Stretto per gli Ambiti calabresi che verranno emanate per i successivi periodi. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Calabria e della Città Metropolitana di Reggio Calabria; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 dicembre 2021 il dott. Arturo Levato e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. L’Ambito Territoriale Ottimale per il Servizio Rifiuti di Catanzaro, A.T.O., espone che la Regione Calabria, sulla base delle previsioni di cui al D. Lgs. n. 152/2006 ed in attuazione dell’art. 3-bis D.L. n. 138/2011, convertito dalla L. n. 148/2011, ha recepito la riforma del servizio pubblico locale dei rifiuti, emanando la L.R. n. 14/2014. Rileva quindi che tale legge, all’art. 1, comma 2, lett. b), individua nell'A.T.O. la dimensione territoriale per lo svolgimento da parte dei Comuni, in forma obbligatoriamente associata, delle funzioni di organizzazione e gestione dei rifiuti urbani, e alla lett. c), individua nelle Aree di Raccolta Ottimali, A.R.O., le ripartizioni territoriali, delimitate all'interno degli A.T.O. In riferimento all'organizzazione del ciclo dei rifiuti urbani, ai sensi dell'art. 3, comma 2, L.R. n. 14/2014, l’A.T.O. di Catanzaro coincide territorialmente con la relativa provincia e dall’1.01.2019 la Comunità d’Ambito, costituita tra le amministrazioni della stessa provincia, esercita la competenza relativa all’organizzazione e gestione dell’intero ciclo dei rifiuti. In aderenza alla disciplina di settore -D. Lgs. n. 152/2006 e L.R. n. 14/2014- l’A.T.O. organizza pertanto il servizio di gestione dei rifiuti che comprende, nelle more dell’individuazione del gestore unico del servizio, le operazioni di trattamento, smaltimento e recupero negli impianti in dotazione, residuando ai singoli Comuni il servizio di igiene urbana. L’esponente deduce pertanto di avere predisposto e approvato, in base all’art. 4 comma 9, lett. a) L.R. n. 14/2014, il Piano d'Ambito, quale atto di programmazione della Comunità d'Ambito per la definizione di un sistema adeguato e autosufficiente di gestione dei rifiuti solidi urbani al servizio dei Comuni dell'A.T.O. di Catanzaro, con il seguente il processo di formazione: nella seduta del 17.12.2018 ha approvato le “Linee Guida per l'elaborazione del Piano d'Ambito”; nella seduta del 2.09.2019, con deliberazione n. 11, ha stabilito “di prendere atto dello studio preliminare al Piano di fattibilità per lo sviluppo delle raccolte differenziate nell’Ambito Territoriale Ottimale di Catanzaro”; nella seduta del 29.12.2020, con deliberazione n. 20, ha adottato il “Piano d’Ambito definitivo per il servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani …”; nella seduta del 12.03.2021, con deliberazione n. 4, ha approvato il “Piano d’Ambito definitivo per il servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani …”. Sulla base di quanto programmato nel Piano d’Ambito, l’A.T.O. di Catanzaro ha poi avviato le procedure per l'individuazione del gestore unico, di cui all'art. 202 D. Lgs. n. 152/2006, al quale affidare ai sensi dell’art. 6 L.R. n. 14/2014 l’intero servizio di gestione dei rifiuti. Rileva quindi il deducente che gli interventi infrastrutturali previsti nel Piano Regionale di gestione dei rifiuti, approvato con delibera di Giunta regionale n. 497 del 6.12.2016, e attuati dall’A.T.O sono i seguenti: Ecodistretto di Catanzaro, la procedura di gara è stata aggiudicata l’8.06.2017 e l’A.T.O. di Catanzaro ha proceduto alla consegna in via d'urgenza con avvio, dal 9.06.2020, della gestione transitoria anticipata, sottoscrivendo il contratto di servizio n. 8 dell’1.07.2020; Discarica di servizio all'Ecodistretto di Catanzaro, il Comune di Catanzaro, in qualità di soggetto proponente, ha presentato il progetto definitivo di realizzazione del nuovo invaso di discarica di capacità di mc 200.000, da realizzarsi all'interno dell'attuale polo tecnologico di Catanzaro; Ecodistretto di Lamezia Terme, per la nuova piattaforma impiantistica l’A.T.O. ha redatto lo studio di fattibilità e richiesto alla Regione Calabria il finanziamento per la realizzazione delle opere, rispetto al quale l'Ente regionale con nota prot. n. 361661 del 6.11.2020 ha assentito ad una preliminare intesa; Discarica di servizio all'Ecodistretto di Lamezia Terme, in considerazione della revoca regionale, disposta con delibera di Giunta n. 54 del 18.02.2021, non si potrà procedere alla realizzazione della terza vasca della discarica, prevista per una volumetria di mc 120.000 e gli spazi occorrenti all’A.T.O. potranno realizzarsi con la corrispondente riprofilatura della prima vasca di circa mc 100.000, per la quale con ordinanza contingibile ed urgente del Presidente della Regione n. 24 del 12.04.2021, nelle more dell’ottenimento del provvedimento autorizzatorio unico regionale ex art. 27-bis D. Lgs. n. 152/2006, ne è stata autorizzata la coltivazione. Avverso tale ordinanza e le ulteriori determinazioni attuative in epigrafe meglio indicate insorge, nei limiti del proprio interesse, l’A.T.O. di Catanzaro. In particolare, ad avviso del ricorrente il provvedimento risulterebbe emanato dal Presidente della Regione sul “falso pretesto” del “ritardo delle Comunità d’Ambito e della Città Metropolitana di Reggio Calabria nella redazione dei Piani d’Ambito, nella scelta della forma di gestione a livello di ambito per la fase del trattamento/smaltimento dei rifiuti urbani e di sub-ambito per la fase della raccolta nonché nell’attuazione degli interventi previsti nel Piano Regionale di Gestione dei Rifiuti approvato con la DCR n. 156/2016…”, mentre, alla luce della ricognizione sopra esposta, all’A.T.O. ricorrente non sarebbe imputabile alcun ritardo o inadempimento rispetto alle previsioni di legge. La determinazione, in particolare, è gravata nei seguenti punti: 3), ove è disposto che “in deroga agli artt. 4, 4-bis, 5 e 6 della legge regionale n. 14/2014 i volumi delle discariche pubbliche regionali sono al servizio dell'intero territorio regionale per garantire la ricomposizione degli squilibri territoriali e assicurare condizioni di equità e parità di accesso al trattamento dei rifiuti urbani”; 4), secondo cui il dirigente generale del Dipartimento Tutela dell'Ambiente “a) predispone e invia alle Comunità d’Ambito di Cosenza, Catanzaro, Vibo Valentia, Crotone e alla Città Metropolitana di Reggio Calabria, con urgenza entro 10 giorni dalla emanazione della presente ordinanza, la ripartizione dei volumi di cui al punto 3 della presente ordinanza tra tutti gli ATO Rifiuti, privilegiando il principio di prossimità; b) regola i conferimenti giornalieri dei rifiuti - codici EER 19.12.12, 19.05.03 e 19.05.01 - prodotti dagli impianti di trattamento dei rifiuti urbani pubblici e privati al servizio del circuito pubblico nelle discariche regionali, con la predisposizione di un calendario da inviare ai gestori degli impianti produttori e agli enti di governo di ciascun ATO Rifiuti; c) regola, in particolari condizioni di eccezionalità e urgenza e a soccorso dei territori in difficoltà nei diversi ambiti territoriali, i flussi dei rifiuti urbani in ingresso agli impianti di trattamento pubblici e privati a servizio del circuito pubblico, ubicati anche in ambiti territoriali diversi, previa verifica della disponibilità residua di trattamento giornaliero”; 5), in base al quale le Comunità d'Ambito “a) predispongono, con urgenza entro i 10 giorni successivi alla ricezione della ripartizione di cui al punto 4 lettera a), un piano di emergenza per l'individuazione del fabbisogno residuo di smaltimento dei rifiuti codice EER 19.12.12., 19.05.03 e 19.05.01 per l'anno 2021, finalizzato all'individuazione del deficit da colmare per ciascuno ambito territoriale ottimale, con particolare riguardo alla stagione estiva; b) indicono, con urgenza entro i 15 giorni successivi, le gare per l'affidamento del servizio di trattamento/smaltimento in impianti extraregionali per far fronte al deficit di cui al punto a)”. L’ordinanza porrebbe gravi vincoli per l'A.T.O. di Catanzaro, in quanto: a) non consente l'autosufficienza nella gestione del ciclo integrato dei rifiuti, ai sensi della L.R. n. 14/2014; b) la sottrazione dei volumi nel sito di discarica di Lamezia Terme pregiudica l'espletamento della gara per l'individuazione del gestore unico, ai sensi del D. Lgs. n. 152/2006; c) impone all’A.T.O., nonostante la disponibilità della discarica di Lamezia Terme, di dover ricorrere a discariche extra-regionali, con maggiori gravosi oneri a carico dei cittadini presenti nell’Ambito. L’esponente denuncia pertanto l’illegittimità del provvedimento, poiché viziato da violazione dei principi generali in materia di ordinanze contingibili e urgenti, violazione dell’art. 191 D. Lgs. n. 152/2006, violazione del Piano Regionale gestione rifiuti approvato con delibera di Giunta regionale n. 497 del 6.12.2016, eccesso di potere. 2. Si è costituita, in qualità di Comunità d’Ambito relativa al territorio dell’A.T.O. di Reggio Calabria, la Città Metropolitana di Reggio Calabria, la quale confuta le avverse deduzioni, concludendo per il rigetto del ricorso. 2.1. Con memoria difensiva il ricorrente A.T.O. ha replicato agli assunti espressi dalla Città Metropolitana. 3. Si è altresì costituita in giudizio la Regione Calabria, che eccepisce l’inammissibilità del ricorso per carenza di legitimatio ad processum e carenza di interesse, chiedendo, nel merito, la reiezione della domanda annullatoria. 4. Con ordinanza cautelare n. 382/2021 è stata disposta una sollecita trattazione del merito ai sensi dell’art. 55, comma 10, c.p.a. 5. All’udienza pubblica del 15 dicembre 2021 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 6. Si impone in via preliminare il vaglio delle eccezioni sollevate dalla Regione Calabria. 6.1. Va disatteso il primo rilievo processuale, con cui la difesa regionale prospetta l’inammissibilità del gravame sull’assunto che il presidente della Comunità d’Ambito abbia conferito procura al difensore, in assenza di un atto dal quale si desuma l’autorizzazione ad intraprendere l’azione giudiziale. Invero, l’A.T.O. ha prodotto in giudizio la deliberazione n. 8 del 20.04.2021 dell’assemblea dei Sindaci della Comunità d’ambito di Catanzaro, contenente l’autorizzazione al Sindaco del Comune capofila ad avversare l’ordinanza del Presidente della Regione. 6.2. Parimenti infondata è l’eccezione con cui è dedotta la carenza di interesse processuale del ricorrente, atteso che, per come rilevato in sede cautelare, l’interesse al ricorso è ricavabile dalla circostanza che i Comuni appartenenti all’A.T.O. ricorrente hanno interesse ad evitare l’abbanco di rifiuti provenienti anche da altri A.T.O. nella discarica di Lamezia Terme. 7. Può quindi essere scrutinato il merito del gravame. Per mezzo di un’unica e articolata censura l’esponente sostiene che l’ordinanza n. 24/2021 risulterebbe adottata in violazione dei principi che regolano l’emanazione dei provvedimenti contingibili e urgenti, nonché in violazione dell’art. 191 D. Lgs. n. 152/2006. Rileva, in particolare, che dal settembre 2019 il Presidente della Regione emette provvedimenti d’urgenza per assicurare la gestione dei rifiuti urbani, vanificando l’attività dell’A.T.O. di Catanzaro che, pertanto, dovrebbe farsi carico presso la discarica di Lamezia Terme anche dei rifiuti provenienti dagli altri A.T.O. La determinazione avversata, infatti, risulterebbe preordinata a sopperire a regime alla cronica assenza dell’applicazione degli ordinari strumenti previsti dalla L.R. n. 14/2014 per la gestione dei rifiuti collocati all’interno del territorio regionale, assenza riconducibile alle inadempienze degli altri A.T.O. Con le prescrizioni contestate, pertanto, il Presidente della Regione Calabria non avrebbe disposto, nel rispetto delle funzioni delle ordinanze extra ordinem di cui all’art. 191 D. Lgs. n. 152/2006, immediate, speciali e transitorie forme di gestione dei rifiuti ma avrebbe introdotto interventi di natura programmatica e strutturale per risolvere nel futuro -considerata altresì l’assenza di un termine finale di efficacia- l’atavica situazione di difficoltà degli altri A.T.O. 7.1. Secondo la Città Metropolitana di Reggio Calabria, di contro, la gestione emergenziale deriverebbe dalla pandemia da covid-19, come evincibile anche dalla circolare n. 22276/2020 del Ministero dell’Ambiente, che espressamente consente per tale ragione il ricorso alle ordinanze contingibili ed urgenti di cui all’art. 191 D. Lgs. n. 152/2006. La controinteressata evidenzia al contempo che nessun A.T.O. possa ritenersi pienamente autonomo. 7.1.1. La difesa regionale obietta analoghi rilevi, evidenziando altresì che il ricorrente A.T.O. non avrebbe ottemperato ad alcune richieste avanzate dall’Ente territoriale già con la precedente ordinanza n. 246/2019, funzionale a reperire volumi di abbanco nelle discariche pubbliche e private nel territorio calabrese anche nell’interesse dei comuni catanzaresi. In particolare, l’inerzia dell’A.T.O. si sarebbe registrata sulla richiesta rivolta al Comune di Lamezia Terme di presentare in via d’urgenza la documentazione tecnico-amministrativa inerente alla realizzazione e alla gestione della prima vasca e di presentare il progetto della terza vasca della discarica sita in località Stretto, nonché sulla richiesta rivolta al Comune di Catanzaro di procedere in via d’urgenza ad individuare il progettista dell’ampliamento della discarica in località Alli. Rileva altresì la Regione Calabria che il richiamo, operato dal ricorrente, all’art. 191 D. Lgs. n. 152/2006 risulterebbe incongruente, poiché tale disposizione è posta a base del solo punto 1) dell’ordinanza, mentre i residui capi trovano la propria fonte normativa nell’art. 32, comma 3, L. n. 833/1978. Né, infine, assumerebbe rilievo il potere sostitutivo di cui all’art. 2-bis L.R. n. 14/2014, non essendo uno strumento ordinario e, comunque, risultando incompatibile con l’urgenza di provvedere. 7.2. La censura è fondata. In via preliminare occorre individuare il quadro normativo entro il quale si inserisce la vicenda in esame, rappresentato dalla L.R. n. 14/2004, dal D. Lgs. n. 152/2006 e dalla L. n. 833/1978. In particolare, per quel che è di interesse, l’art. 2, comma 1, L.R. n. 14/2014, rubricato “Competenze della Regione”, conferisce a tale Ente territoriale “… compiti di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo del servizio di gestione dei rifiuti urbani”. Ai sensi del combinato disposto degli artt. 3, comma 1, e 4 L.R. n. 14/2014 gli A.T.O. -quale forma associata dei Comuni presenti in una determinata area territoriale- svolgono invece funzioni di organizzazione e gestione dei rifiuti urbani. Nel delineato quadro di competenze programmatiche e gestionali spettanti, distintamente, alla Regione e ai Comuni in forma aggregata, la prima articolazione amministrativa è deputata, ai sensi dell’art. 2, comma 2, L.R. n. 14/2014 a garantire la coerenza tra la pianificazione regionale e quella d’ambito e la verifica della conformità dei Piani d’ambito al Piano regionale di gestione dei rifiuti, nonché la verifica sui piani e programmi di investimento previsti dal Piano d’ambito, al fine di assicurare il raggiungimento degli obiettivi di settore e di servizio e la presenza degli interventi di interesse strategico regionale. Il comma 2-bis L.R. n. 14/2014, così come introdotto dalla L.R. n. 54/2017, attribuisce inoltre alla medesima Regione “Poteri sostitutivi”, prescrivendo che “in caso di inerzia degli enti locali o delle comunità nell’attuazione delle disposizioni della presente legge, la Regione interviene in via sostitutiva previa diffida ad adempiere, entro un termine non superiore a trenta giorni, intimata dal dipartimento della Giunta regionale competente in materia di politiche dell’ambiente. Decorso tale termine la Giunta regionale nomina un commissario ad acta tra i dirigenti e i funzionari della pubblica amministrazione. Il provvedimento di nomina determina il compenso per l’attività del commissario, con esclusione dei dirigenti regionali, nel limite di 1.500,00 euro onnicomprensivi per ciascun incarico, con oneri a carico dei soggetti inadempienti. Il commissario ad acta conclude il proprio compito entro trenta giorni dalla nomina” L’art. 191 D. Lgs. n. 152/2006, contenente il testo unico in materia ambientale, prevede poi che “1. … qualora si verifichino situazioni di eccezionale ed urgente necessità di tutela della salute pubblica e dell'ambiente, e non si possa altrimenti provvedere, il Presidente della Giunta regionale o il Presidente della provincia ovvero il Sindaco possono emettere, nell'ambito delle rispettive competenze, ordinanze contingibili ed urgenti per consentire il ricorso temporaneo a speciali forme di gestione dei rifiuti, anche in deroga alle disposizioni vigenti, nel rispetto, comunque, delle disposizioni contenute nelle direttive dell’Unione europea, garantendo un elevato livello di tutela della salute e dell'ambiente. Dette ordinanze sono comunicate al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro della salute, al Ministro delle attività produttive, al Presidente della regione e all'ente di governo dell'ambito di cui all'articolo 201 entro tre giorni dall'emissione ed hanno efficacia per un periodo non superiore a sei mesi. … 4. Le ordinanze di cui al comma 1 possono essere reiterate per un periodo non superiore a 18 mesi per ogni speciale forma di gestione dei rifiuti. Qualora ricorrano comprovate necessità, il Presidente della regione d'intesa con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare può adottare, dettando specifiche prescrizioni, le ordinanze di cui al comma 1 anche oltre i predetti termini”. L’art. 32 L. n. 833/1978, infine, stabilisce a sua volta che “1. Il Ministro della sanità può emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all'intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni. … 3. Nelle medesime materie sono emesse dal presidente della giunta regionale o dal sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale”. Tanto chiarito in riferimento alla quadro normativo, occorre osservare che, in termini generali, il potere di ordinanza contingibile ed urgente è circoscritto da stringenti presupposti, poiché per mezzo di esso si introducono delle deroghe al principio di legalità in ragione dell’esigenza di porre rimedio ad impreviste situazioni di emergenza, rispetto alle quali l’ordinamento impone attività immediate e non predeterminate in provvedimenti o altri strumenti già tipizzati dal legislatore. La ristretta area entro cui il descritto potere può essere esercitato ne consente pertanto la configurazione quale extrema ratio. Il potere di ordinanza extra ordinem si articola pertanto su indefettibili e concomitanti presupposti, rappresentati: “a) dall’impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente (urgenza); b) dall’impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo incombente con gli ordinari mezzi offerti dall'ordinamento giuridico (contingibilità); c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem che permettono la compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalle leggi” (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 26 luglio 2016, n. 3369), cosicché “solo in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale” (Consiglio di Stato, Sez. V, 22 marzo 2016, n. 1189). Ciò precisato, rileva il Collegio in prima battuta che la gravata ordinanza è stata adottata in assenza del requisito di contingibilità, da intendersi, secondo quanto sopra chiarito, quale mancanza di ordinari rimedi predisposti a livello normativo o impossibilità di farvi ricorso. La Regione Calabria infatti -nel complessivo quadro normativo sopra tratteggiato- a fronte delle prospettate e risalenti inerzie contestate all’A.T.O. di Catanzaro ha, per come dalla stessa confermato, totalmente omesso di attivare i poteri sostitutivi secondo lo sviluppo procedimentale previsto dall’art. 2-bis L. n. 14/2014, il quale prevede appunto -in caso di contegni omissivi degli enti locali o delle comunità- un intervento in via sostitutiva della Regione, previa diffida ad adempiere entro un termine non superiore a trenta giorni, con successiva ed eventuale nomina di un Commissario ad acta, onerato di concludere il proprio compito entro trenta giorni dalla nomina. L’esercizio dei descritti poteri sostitutivi rappresenta pertanto uno strumento tipizzato ed ordinario, che si colloca in una fase antecedente rispetto all’utilizzo delle ordinanze extra ordinem. Inoltre, la ratio dell’art. 2-bis L. n. 14/2014 è rinvenibile nell’esigenza che -in presenza di distinti livelli di competenza afferenti ad una specifica materia- l’intervento sostitutivo della Regione non si registri ex abrupto, con una radicale e repentina privazione delle cognizioni spettanti all’ l’A.T.O., ma intervenga in conformità al canone di leale collaborazione, che deve informare il rapporto tra distinti soggetti pubblici. Sul piano temporale, poi, occorre osservare che il provvedimento avversato si inserisce nel solco di una serie di analoghe statuizioni emergenziali in precedenza già adottate dal Presidente della Regione e costituite dalle ordinanze: n. 246 del 7.09.2019, n. 14 del 21.03.2020, 45 del 20.05.2020, n. 54 del 3.07.2020, 56 del 21.07.2020, 70 del 2.10.2020, 91 del 30.11.2020. Dalla ricognizione della progressiva emanazione di tali provvedimenti risulta come a far data dal 7.09.2019 sia registrata, senza soluzione di continuità, la sostanziale introduzione a regime di una gestione emergenziale dei rifiuti, in assenza, pertanto, dell’individuazione di un termine finale di efficacia, con relativa elusione dei termini di sei e diciotto mesi di cui all’art. 191 D. Lgs. n. 152/2006, nonché dei consolidati principi ermeneutici -in tema di limitazione dell’efficacia temporale dei provvedimenti contingibili e urgenti- applicabili alle ordinanze emanate ai sensi dell’art. 32 L. n. 833/1978. Sotto distinto e concorrente profilo, da ultimo, non risulta dirimente il richiamo nella gravata ordinanza al regime emergenziale introdotto per la pandemia da covid-19, in base alla circolare del Ministero dell’Ambiente n. 22276/2020, che prevede il ricorso alle ordinanze ex art. 191 D. Lgs. n. 152/2006 per la modifica temporanea dell'autorizzazione, al fine di consentire il conferimento degli scarti derivanti dal trattamento dei rifiuti urbani, differenziati e indifferenziati, privi di possibili destinazioni alternative, a condizione gli scarti non siano classificati come rifiuti pericolosi e, ancora, l’utilizzo di tali ordinanze “ove ciò si renda necessario e limitatamente alla sola fase emergenziale” per il conferimento “in discarica dei rifiuti urbani indifferenziati provenienti dalle abitazioni in cui sono presenti soggetti positivi al tampone, in isolamento o in quarantena obbligatoria”. Per un verso infatti -in disparte il superamento del limite temporale di sei mesi secondo quanto chiarito- l’art. 191 D. Lgs. n. 152/2006 è posto quale fonte dell’ordinanza n. 24/2021, per come prospettato dalla difesa regionale, solo con riguardo al capo 1) della stessa e senza tuttavia alcun puntuale riferimento all’emergenza pandemica, mentre, per altro verso, la Regione Calabria ha recepito, come dedotto dalla difesa del ricorrente A.T.O., le indicazioni contenute nella circolare ministeriale con l’ordinanza n. 28 del 10.04.2020, disciplinando in modo specifico il trattamento dei rifiuti provenienti da covid-19. 8. Il ricorso è pertanto accolto, con annullamento, nei limiti dell’interesse del ricorrente, dell’ordinanza n. 24/2021 in riferimento ai soli capi 3), 4) e 5), rispetto ai quali è accertata l’assenza dei presupposti che legittimano l’esercizio del potere di ordinanza contingibile e urgente, e con conseguente caducazione dei relativi provvedimenti attuativi. 8.1. A fronte dell’accoglimento del ricorso, rileva al contempo il Collegio che si impone la necessità di modulare gli effetti delle sentenza di annullamento, al fine di evitare il rischio che -nelle more dell’adeguamento del regime giuridico di programmazione e gestione dei rifiuti ai dettami di cui alla L. R. n. 14/2004- intervengano, attese le criticità comunque presenti nel territorio regionale, squilibri che alterino in modo pregiudizievole il vigente assetto organizzativo emergenziale ormai delineatosi dal settembre 2019, con potenziali ricadute negative anche nei confronti dell’A.T.O. ricorrente. Sul punto occorre rilevare come la modulazione dell’efficacia di una pronuncia caducatoria sia stata riconosciuta dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato già dal 2011 (Sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755), trovando ulteriore riscontro in più recenti arresti (Consiglio di Stato, Sez. I, 30 giugno 2020 n. 1233). Il fine è quello di evitare l’emanazione di sentenze di annullamento con effetti non vantaggiosi rispetto alla fattispecie esaminata, e ciò mediante il riconoscimento al giudice amministrativo del potere di accertare l’illegittimità di un provvedimento senza che da tale accertamento scaturiscano effetti costitutivi tipici, con esclusione e limitazione della portata retroattiva della decisione. In tale linea si inseriscono anche le recenti pronunce dell’Adunanza Plenaria nn. 17 e 18 del 9.11.2021, per mezzo delle quali -in riferimento al regime di proroga delle concessioni demaniali marittime- è stato fissato al 31.12.2023 il termine ultimo di efficacia dei provvedimenti concessori, per i quali è stata disposta la protrazione degli effetti in contrasto con i principi eurounitari. In ragione di quanto precisato, pertanto, l’accertata illegittimità e il conseguente annullamento dell’ordinanza n. 24/2021, in riferimento ai capi 3), 4) e 5), nonché dei relativi provvedimenti attuativi, dispiegherà i propri effetti a far data dall’1.05.2022. 9. La particolarità della questione trattata consente di compensare le spese di lite. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Prima) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla l’ordinanza n. 24/2021 e i relativi provvedimenti attuativi nei limiti e dal termine di cui in motivazione. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del giorno 15 dicembre 2021 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Pennetti, Presidente Francesca Goggiamani, Referendario Arturo Levato, Referendario, Estensore Giancarlo Pennetti, Presidente Francesca Goggiamani, Referendario Arturo Levato, Referendario, Estensore IL SEGRETARIO
Ordinanza contingibile ed urgenti – Rifiuti - Regione Calabria - Mancanza di termine finale e del requisito di contingibilità – Illegittimità.           E’ illegittima l’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione Calabria in materia di rifiuti, con l’introduzione a regime di una gestione emergenziale dei rifiuti, in assenza, pertanto, dell’individuazione di un termine finale di efficacia, e in mancanza del requisito di contingibilità, cioè degli ordinari rimedi predisposti a livello normativo o impossibilità di farvi ricorso in termini generali (1).      (1) Ha chiarito il Tar che la ristretta area entro cui il potere di  ordinanza contingibile e urgente può essere esercitato ne consente la configurazione quale extrema ratio.  Il potere di ordinanza extra ordinem si articola pertanto su indefettibili e concomitanti presupposti, rappresentati: “a) dall’impossibilità di differire l'intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di un danno incombente (urgenza); b) dall’impossibilità di far fronte alla situazione di pericolo incombente con gli ordinari mezzi offerti dall'ordinamento giuridico (contingibilità); c) dalla precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem che permettono la compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalle leggi” (ex multis, Cons.Stato, sez. V, 26 luglio 2016, n. 3369), cosicché “solo in ragione di tali situazioni si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale” (Cons.Stato, sez. V, 22 marzo 2016, n. 1189). ​​​​​​​La Regione Calabria infatti a fronte delle prospettate e risalenti inerzie contestate all’A.T.O. di Catanzaro ha, per come dalla stessa confermato, totalmente omesso di attivare i poteri sostitutivi secondo lo sviluppo procedimentale previsto dall’art. 2-bis L. n. 14 del 2014, il quale prevede appunto -in caso di contegni omissivi degli enti locali o delle comunità- un intervento in via sostitutiva della Regione, previa diffida ad adempiere entro un termine non superiore a trenta giorni, con successiva ed eventuale nomina di un Commissario ad acta, onerato di concludere il proprio compito entro trenta giorni dalla nomina.  L’esercizio dei descritti poteri sostitutivi rappresenta pertanto uno strumento tipizzato ed ordinario, che si colloca in una fase antecedente rispetto all’utilizzo delle ordinanze extra ordinem.   Inoltre, la ratio dell’art. 2-bis L. n. 14 del 2014 è rinvenibile nell’esigenza che - in presenza di distinti livelli di competenza afferenti ad una specifica materia - l’intervento sostitutivo della Regione non si registri ex abrupto, con una radicale e repentina privazione delle cognizioni spettanti all’ A.T.O., ma intervenga in conformità al canone di leale collaborazione, che deve informare il rapporto tra distinti soggetti pubblici 
Ordinanza contingibile ed urgente
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Autorizzazione ex art. 134 TULPS nell’appalto per l'affidamento dei servizi di vigilanza armata
N. 00198/2021 REG.PROV.COLL. N. 00177/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA ex art. 60 cod. proc. amm.;sul ricorso numero di registro generale 177 del 2021, proposto da Consorzio Leonardo Servizi e Lavori “Società Cooperativa Consortile Stabile”, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Angelo Annibali, Marco Orlando, Antonietta Favale, Matteo Valente, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Regione Autonoma Friuli Venezia-Giulia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Beatrice Croppo, Marina Pisani, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Vedetta 2 Mondialpol S.p.A., Sorveglianza Diurna e Notturna Scarl, Gruppo Servizi Associati, Stabilimento Triestino di Sorveglianza e Chiusura, Corpo Vigili Notturni non costituiti in giudizio; per l'annullamento previa adozione di idonee misure cautelari - del decreto prot. n. 1413/PADES del 10.5.2021 a mezzo del quale la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Direzione Centrale e Patrimonio, Demanio, Servizi Generali e Sistemi informativi ha escluso il ricorrente dalla “gara europea a procedura aperta per la stipula di Convenzioni aventi ad oggetto l'affidamento dei servizi di vigilanza armata, portierato e altri servizi a favore di Amministrazioni della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia” (doc. 1 – decreto di esclusione), comunicato in data 10.5.2021 con nota prot. n. 12087/P (doc. 2 – comunicazione esclusione); - della nota prot. n. 13900/P del 28.5.2021, con cui la Stazione Appaltante ha comunicato il rigetto dell'istanza in autotutela proposta dal ricorrente per l'annullamento dell'esclusione (doc. 3 - riscontro all'istanza di autotutela); - della nota prot. n. 10377 del 21.4.2021, con cui la Regione resistente ha richiesto chiarimenti al Consorzio Leonardo per la verifica della correttezza e della conformità della documentazione amministrativa prodotta in gara (doc. 4 – richiesta chiarimenti); - di tutti i verbali di gara ed in particolare del verbale di seduta pubblica n. 5 del 5.5.2021 (doc. 5 – verbale n. 5); - ove occorrer possa, del bando (doc. 6 - bando), del disciplinare (doc. 7 - disciplinare), capitolato tecnico (doc. 8 - capitolato), della progettazione (doc. 9 - progettazione), e di tutti gli atti di gara, nella parte in cui, pur prevedendo la deroga al limite del subappalto indicata nel comma 2 dell'art. 105 del D.Lgs n. 50/2016, siano applicati nel senso di limitare il subappalto ad una specifica quota; nonchè nella parte in cui individuano come necessaria la notifica della richiesta di estensione provinciale, presentata alla competente Prefettura entro la data di scadenza dell'offerta; - di ogni altro atto presupposto, conseguente o comunque connesso ai precedenti ancorché non noto. nonché per la declaratoria di inefficacia del contratto, se stipulato, e per il risarcimento danni Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Friuli-Venezia Giulia; Visti tutti gli atti della causa; Visti l’art. 6, comma 1, del d.l. 1° aprile 2021, n. 44 (convertito con l. 28 maggio 2021, n. 76), l’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 (convertito con l. legge 18 dicembre 2020, n. 176) e l’art. 4, comma 1, periodi quarto e seguenti del d.l. 30 aprile 2020, n. 28 (convertito con l. 25 giugno 2020, n. 70); Relatore nella camera di consiglio del giorno 23 giugno 2021, tenutasi da remoto attraverso la piattaforma Microsoft Teams, il dott. Luca Emanuele Ricci e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il Consorzio Leonardo Servizi e Lavori - Società Cooperativa Consortile Stabile domanda l’annullamento del provvedimento di esclusione dalla procedura di gara indetta dalla Regione “per la stipula di Convenzioni aventi ad oggetto l’affidamento dei servizi di vigilanza armata, portierato e altri servizi a favore di Amministrazioni della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia” e dei relativi atti presupposti, nonché, nel caso di intervenuta stipula del contratto, la sua declaratoria di inefficacia o il risarcimento del danno. 1.1. Il Consorzio rappresenta di aver preso parte alla procedura e di essersi classificato primo in graduatoria con riferimento al Lotto 3 (“Servizio di vigilanza armata, portierato e altri servizi da eseguirsi a favore delle seguenti Amministrazioni: INSIEL, ERSA, ERPAC, nonché altre Amministrazioni che insistono sul territorio delle soppresse Province di Trieste e di Gorizia”). In fase di controllo dei requisiti, la Regione ha constatato però in capo al Consorzio la carenza del requisito di idoneità professionale di cui al paragrafo 7.1, lettera b) del Disciplinare di gara, cioè il possesso della licenza prefettizia ex art. 134 TULPS per le classi funzionali A (attività di vigilanza) e B (gestione allarmi) di cui all’art. 2 del D.M. n. 269 del 2010, valida per l’intero territorio interessato dalle prestazioni del Lotto. 1.2. Il Consorzio, infatti, ha dichiarato di avvalersi dell’impresa consorziata esecutrice Securitas Metronotte Toscana S.r.l., titolare di licenza prefettizia valida per le province di Firenze, Prato, Pistoia, Arezzo, Bologna. Di tale licenza, l’impresa ha richiesto in tempo utile l’estensione (ai sensi dell’art. 257-ter, comma 5 del Regolamento per l’esecuzione del TULPS) alle province di Trieste e Gorizia, ma non anche alle province di Udine e Pordenone, in cui si collocano altri immobili interessati dalle prestazioni del Lotto 3. 1.3. Conseguentemente, ne è stata disposta l’esclusione “ai sensi dell’articolo 59, comma 4, lettera b) del D.lgs. 50/2016, come richiamato dal Paragrafo 7, punto 2 del Disciplinare di gara, per non essere in possesso della qualificazione richiesta, risultando privo del requisito di idoneità di cui al paragrafo 7.1, lettera b) del Disciplinare di gara”. 2. Avverso il provvedimento, il Consorzio propone i seguenti motivi di ricorso: 2.1. “Violazione e falsa applicazione dell’art. 71 della direttiva 2014/24/UE; Violazione e falsa applicazione degli artt. 83 e 105 d.lgs. n. 50/2016. Difetto e carenza di istruttoria e motivazione. Illogicità ed irragionevolezza. Sviamento. Violazione della par condicio competitorum. Contraddittorietà”. Il ricorrente evidenzia: - che la mancata estensione della licenza anche alle province di Udine e Pordenone da parte della Consorziata esecutrice non può costituire valido motivo di esclusione, avendo questa espressamente dichiarato nel DURC di voler ricorrere al subappalto; - che l’istituto può essere utilizzato, come noto, anche per supplire al possesso del requisito contestato (in forma di subappalto c.d. necessario o qualificante) e senza necessità di indicare, già in sede di offerta, il nominativo del subappaltatore; - che la previsione di un limite alla quota di servizi da affidarsi in subappalto, anche se determinatasi ex post per effetto di una richiesta di chiarimenti, contrasta con l’art. 9 del Disciplinare di gara, oltre che con il diritto europeo e la giurisprudenza della CGUE, che escludono l’applicabilità di limiti quantitativi al subappalto; - che, in ogni caso, la quota subappaltabile deve calcolarsi sul valore complessivo della convenzione alla cui stipula è finalizzata la procedura di gara e non invece, come sostenuto dalla stazione appaltante, con riferimento all’importo del singolo ordinativo di fornitura; - che, procedendo in tal senso, risulta che le prestazioni da svolgere presso le sedi degli Enti di cui al Lotto 3 site in Udine e Pordenone non sono tali da portare al superamento della quota di subappalto dichiarata (pari al 40%), considerato che non tutte le prestazioni da eseguire presso tali immobili richiedono il possesso della licenza prefettizia ex art. 134 TULPS. 2.1.1. In subordine, il ricorrente domanda la rimessione alla CGUE della questione relativa alla compatibilità con il diritto europeo dell’art. 105 d.lgs. n. 50 del 2016, nel caso in cui si ritenga che a tale disposizione consegua la sua esclusione dalla procedura. 2.2. Violazione e falsa applicazione degli artt. 49 (ex art. 43 del TCE) e 56 (ex art. 49 del TCE) del Trattamento sul Funzionamento dell’Unione Europea. Violazione e falsa applicazione dell’art. 83 del D.Lgs. n. 50 del 2016. Violazione e falsa applicazione dell’art. 134 TULPS e dell’art. 257-ter, comma 5, del regolamento di esecuzione del TULPS. Difetto e carenza di istruttoria e motivazione. Contraddittorietà. Illogicità ed irragionevolezza. Sviamento. Violazione della par condicio competitorum. Irragionevolezza manifesta. Il ricorrente afferma: - che la Corte di Giustizia UE (Sez. II, 13 dicembre 2007 – Causa C-465/05) ha sancito la contrarietà con il diritto europeo delle norme italiane che riconoscono all’autorizzazione ad esercitare il servizio di vigilanza privata una validità territoriale limitata e tale orientamento è stato di recente ribadito anche da Cons. Stato, Sez. V, 11 marzo 2021, n. 2087; - che la richiesta di estensione della licenza al Prefetto costituisce un adempimento di natura meramente formale e non comporta alcun controllo effettivo dei requisiti; - che quindi la stazione appaltante non avrebbe potuto legittimamente prevedere nel par. 7 del Disciplinare la necessità di estendere la licenza, né, conseguentemente, escludere il Consorzio. 2.2.1. Anche in questo caso, il ricorrente domanda in subordine che sia rimessa alla CGUE la questione relativa alla compatibilità con il diritto UE dell’obbligo di presentazione dell’istanza di estensione della licenza prefettizia, ove lo stesso fosse desunto dagli artt. 134 TULPS e 257-ter, comma 5, del relativo regolamento di esecuzione. 2.3. In subordine: Violazione e falsa applicazione dei paragrafi 7 e 9 del Disciplinare. Violazione dell’art. 97 della Costituzione. Disparità di trattamento. Difetto di istruttoria e motivazione. Sviamento. Violazione della par condicio competitorum. Irragionevolezza manifesta. In subordine rispetto ai motivi sopra esposti, il ricorrente domanda l’annullamento dell’intera procedura, rilevando: - che, ove si ritenesse corretto l’operato della stazione appaltante nel corso della procedura, dovrebbe necessariamente constatarsi l’oscurità della documentazione di gara, tale da produrre un effetto distorsivo sui principi di concorrenza e di massima partecipazione che governano il settore dei contratti pubblici; - che, infatti, la lex specialis non reca alcuna precisa indicazione degli immobili cui destinare i servizi oggetto dell’appalto, né una specifica quantificazione economica degli stessi; - che, conseguentemente, non è stato possibile per il ricorrente calcolare esattamente la quota da subappaltare, anche ai fini dell’integrazione del requisito di idoneità professionale. 3. La Regione si è costituita con memoria del 21.06.2021, replicando a ciascuno dei motivi formulati. 3.1. Con riferimento al primo motivo, evidenzia: - che il paragrafo 7, lett. b) del Disciplinare di gara richiede ai partecipanti il possesso di una licenza prefettizia, con validità estesa a tutto il territorio interessato dalle prestazioni (in via diretta o per effetto di notifica della richiesta di estensione al Prefetto); - che paragrafo 9, commi 1 e 2 dello stesso Disciplinare impone ai partecipanti la precisa indicazione dell’eventuale quota delle prestazioni che si intendano subappaltare, prescrivendo che, in mancanza, il ricorso al subappalto sarebbe stato vietato; - che il Consorzio ricorrente ha dichiarato che il requisito di partecipazione di cui al par. 7, lett. b) era direttamente in capo all’Impresa Socia Consorziata indicata come affidataria, Securitas Metronotte Toscana S.r.l.; - che, con riferimento al subappalto, il Consorzio si è limitato ad una dichiarazione generica, senza fare alcun riferimento alla necessità di un subappalto “qualificante” rispetto ai servizi di vigilanza armata da svolgersi nelle province di Udine e Pordenone; - che anche nel corso dell’interlocuzione procedimentale con la Stazione appaltante (in sede di chiarimenti, seduta pubblica, istanza di autotutela), il Consorzio Leonardo non ha mai dichiarato l’intenzione di fare ricorso ad un subappalto “qualificante”; - che pertanto l’offerta del Consorzio è illegittima perché mancante dell’indicazione specifica in sede di gara dei servizi che si intendevano subappaltare; - che la quota di subappalto del 40% è stata dichiarata dallo stesso concorrente e non imposta dalla Stazione appaltante; - che valore di tale quota percentuale, nell’ambito di una procedura finalizzata alla stipulazione di un contratto quadro (Convenzione ex art. 26, comma 1 della L. n. 488/1999), non può calcolarsi sull’importo massimo spendibile della Convenzione, ma deve prendere a riferimento l’importo di ciascun ordinativo di fornitura, ovvero l’importo dei contratti d’appalto derivati stipulati dalle singole amministrazioni contraenti; - che guardando ai dati storici di spesa degli Enti interessati dalle prestazioni del Lotto 3, per i relativi servizi, risulta che l’ERPAC ha sostenuto spese maggiori per gli immobili siti in Provincia di Udine rispetto a quella per gli immobili siti a Gorizia, mentre per l’ERSA la spesa per l’immobile sito a Gorizia è di poco superiore a quella per l’immobile sito a Pozzuolo del Friuli (Udine). La quota di subappalto dichiarata non potrebbe, quindi, essere in concreto rispettata. 3.2. Con riferimento al secondo motivo, rileva: - che il comma 5 dell’art. 257-ter del Regolamento di esecuzione del TULPS non contrasta con la pronuncia della Corte di Giustizia, laddove interpretato nel senso di richiedere, ai fini dell’estensione della licenza valida presso altre Province, una semplice comunicazione al Prefetto competente, la cui presentazione legittima immediatamente l’interessato allo svolgimento dell’attività, salvo controlli successivi. In tal senso anche la sentenza del Consiglio di Stato citata dallo stesso ricorrente (Cons. Stato, sez. V, 11 marzo 2021, n. 2087); - che la Stazione appaltante ha declinato il requisito di idoneità professionale di cui al paragrafo 7.1, lettera b) del Disciplinare di gara proprio in conformità a quanto sopra esposto, richiedendo agli operatori già in possesso di una licenza ex art. 134 TULPS per una determinata provincia solo l’intervenuta notifica dell’istanza di estensione per gli ambiti territoriali di ciascun Lotto; - che l’operato della stazione appaltante risulta conforme alle Linee guida ANAC n. 10 recanti “Affidamento del servizio di vigilanza privata” approvate con delibera del Consiglio dell’Autorità n. 462 del 23 maggio 2018; - che la pretesa di ricorrere al subappalto “necessario” su base territoriale si scontra con le espresse previsioni del Disciplinare, nel senso di dividere le prestazioni in lotti funzionali. Appartiene alla discrezionalità tecnica dell’amministrazione la scelta di consentire a ciascuna amministrazione di interfacciarsi con un solo fornitore complessivo, e non un fornitore per ogni sede territoriale, a garanzia dell’omogeneità tecnico-operativa delle prestazioni in tutte le proprie sedi. 3.3. Infine, con riferimento al terzo motivo di ricorso, rileva: - che l’affermata oscurità del bando non trova riscontro nel concreto andamento della procedura, avendo tutti gli altri concorrenti dichiarato il possesso di licenze prefettizie valide sull’intero territorio regionale (o ritualmente estese); - che lo stesso ricorrente ha dimostrato di aver inteso le prescrizioni del Disciplinare, provvedendo a notificare alla Prefettura l’istanza di ampliamento dell’efficacia della licenza alle ex province di Trieste e Gorizia e dichiarando di voler ricorrere al subappalto “qualificante”. 4. Nella camera di consiglio del 23.06.2021 le parti hanno discusso come da verbale. Il collegio ha dichiarato l’intenzione di definire il giudizio con sentenza breve, in conformità all’attuale art. 120 comma 6 c.p.a. (come modificato dal d.lgs. 76 del 2020, convertito con l. 120 del 2020). 5. Il giudizio viene definito nel merito all’esito della trattazione dell’istanza cautelare ai sensi degli artt. 60 e 112, comma 6 c.p.a., come espressamente consentito dalla legge (art. 25, comma 2, d.l. 137 del 2020) anche nel contesto del processo c.d. da remoto. 6. Per ragioni logico-giuridiche appare opportuno invertire l’ordine di esame dei primi due motivi di ricorso che, diversamente dal terzo motivo, non sono oggetto di espressa gradazione da parte del ricorrente. Infatti, qualora si affermasse (in accoglimento del secondo motivo) la contrarietà alla normativa europea della lex specialis (par. 7.1. del Disciplinare), nella parte in cui impone di estendere la validità della licenza ex art. 134 TULPS a tutti i territori del Lotto, sarebbe privata di rilievo ogni questione relativa al subappalto “qualificante”, giacché non vi sarebbe necessità di supplire in tal modo alla riscontrata carenza del requisito di idoneità professionale. 7. Partendo, dunque, dall’esame del secondo motivo, si rileva che il paragrafo 7.1. del Disciplinare di gara, per quanto di interesse nel presente giudizio, richiede agli operatori che eseguiranno i servizi di vigilanza armata il “Possesso della licenza prefettizia ex art. 134 TULPS, per le classi funzionali A (attività di vigilanza) e B (gestione allarmi) di cui all’art. 2 del D.M. 269/2010, che includa tutti i servizi previsti per il lotto/i a cui si intende partecipare”. In particolare, la lex specialis precisa che, qualora la licenza posseduta dall’operatore non sia già valida nell’intero territorio del Lotto (“da intendersi quale l’insieme dei comuni nei quali sono presenti gli edifici / apprestamenti oggetto dei servizi”) cui intende partecipare, questi deve averne domandato l’estensione, notificando “entro la data di scadenza dell’offerta” la relativa comunicazione alle competenti Prefetture. 7.1. La prescrizione da ultimo menzionata è applicativa dell’art. 257-ter del Regolamento di esecuzione del TULPS (R.D. 6 maggio 1940, n. 635), secondo cui “Ai fini dell'estensione della licenza ad altri servizi o ad altre province, il titolare della stessa notifica al prefetto che ha rilasciato la licenza i mezzi, le tecnologie e le altre risorse che intende impiegare, nonché' la nuova o le nuove sedi operative se previste ed ogni altra eventuale integrazione agli atti e documenti di cui all'articolo 257, commi 2 e 3. I relativi servizi hanno inizio trascorsi novanta giorni dalla notifica, termine entro il quale il prefetto può chiedere chiarimenti ed integrazioni al progetto tecnico-organizzativo e disporre il divieto dell’attività qualora la stessa non possa essere assentita, ovvero ricorrano i presupposti per la sospensione o la revoca della licenza, di cui all'articolo 257-quater”. 7.2. Il ricorrente sostiene che tale previsione contrasterebbe con il diritto europeo. Infatti, secondo Corte di Giustizia UE, Sez. II, 13 dicembre 2007 – Causa C-465/05 la norma nazionale che riconosca al provvedimento autorizzatorio ex art. 134 TULPS una validità territoriale limitata, così obbligando il prestatore a richiedere analoghe autorizzazioni per ognuna delle province ove intende esercitare la propria attività, si pone in contrasto con gli artt. 43 e 49 CE (oggi artt. 49 e 56 TFUE) cioè con i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi. Il sistema attualmente vigente continuerebbe però a sottoporre la licenza Prefettizia ad un’illegittima limitazione territoriale, attraverso la diversa – ma analoga, quanto ad effetti – prescrizione della necessaria richiesta di estensione della sua validità ad altre Province. 7.3. In proposito, il Tribunale rileva che l’art. 257-ter del Regolamento è stato introdotto dal D.P.R. 4 Agosto 2008, n. 153 (pubblicato sulla G.U. n. 234 del 06 Ottobre 2008, S.O.) proprio al fine di adattare la normativa interna alla citata pronuncia della CGUE. Nella loro precedente formulazione, infatti, gli artt. 252 e 257 del Regolamento di esecuzione del TULPS imponevano ai soggetti o alle imprese, che intendessero svolgere il servizio di vigilanza nel territorio di più Province, di ottenere distinti provvedimenti autorizzatori da parte di ciascun Prefetto competente per territorio (oltre che di avere una distinta sede operativa per ogni Provincia). L’attuale regime normativo prevede, invece, un meccanismo di “estensione della licenza” (art. 257-ter) mediante notifica di apposita comunicazione al Prefetto che ha rilasciato l’originaria licenza, con possibilità di intraprendere l’attività “trascorsi novanta giorni dalla notifica”. 7.4. Il permanere di un meccanismo di “controllo” su ogni forma di estensione della portata autorizzativa della licenza prefettizia (l’art. 257-ter, comma 5 si riferisce, infatti, anche all’estensione “ad altri servizi”) può giustificarsi in ragione della particolare natura dell’attività, connessa alla sicurezza e all’ordine pubblico, che impone di valutare costantemente l’idoneità tecnico-organizzativa dell’operatore a svolgerla. Come evidenziato dal parere del Consiglio di Stato sullo schema del D.P.R. (Cons. Stato, sez. consultiva atti normativi, 21 aprile 2008, n. 1247) trattasi, infatti, di servizi “che per l’incidenza e la qualità delle prestazioni nonché per l’alto grado di pericolo e di specializzazione operativa erano originariamente riservate alle forza pubblica”. Per questo, tanto in sede di rilascio della licenza che nel corso della sua intera durata, la normativa di settore “assegna un ruolo centrale al progetto organizzativo e tecnico-operativo, che correda la domanda diretta ad ottenere la licenza prescritta dall’articolo 134 T.U.L.P.S., giusta il disposto dei commi 2 e 3 dell’articolo 257”, in quanto “attribuisce all’Autorità di pubblica sicurezza un penetrante sindacato sulla effettiva idoneità tecnica del soggetto richiedente”. 7.5. Sotto questo profilo, dunque, è evidente la ratio della comunicazione di cui all’art. 257-ter, tramite la quale il Prefetto viene portato a conoscenza della volontà dell’operatore di svolgere il servizio in un più ampio ambito territoriale. Egli può così valutare l’idoneità operativa dell’impresa, richiedendo se necessario “chiarimenti ed integrazioni al progetto tecnico-organizzativo e disporre il divieto dell’attività qualora la stessa non possa essere assentita”. Non appare quindi condivisibile l’affermazione del ricorrente, che individua nella notifica un mero adempimento formale, inidoneo a costituire uno strumento di controllo efficace dell’attività di vigilanza. 7.6. In ogni caso, Cons. Stato, sez. V, 11 marzo 2021, n. 2087 ha ritenuto opportuno operare un ulteriore correttivo al descritto regime, considerato comunque confliggente con i principi del TFUE nella parte in cui configura l’estensione in termini di ulteriore provvedimento autorizzativo (pur sottoposto a silenzio assenso): “Si impone, pertanto, la correzione in sede interpretativa (o, meglio, la parziale disapplicazione per il contrasto con il diritto unionale) dell’art. 257- ter , comma 5, cit., eliminando la necessità di ottenere (anche se con il meccanismo del silenzio-assenso) l’autorizzazione prefettizia per estendere l’attività in altre province; e intendendo la «notifica al prefetto» come una comunicazione di inizio attività, non subordinata al decorso dell’ulteriore termine di novanta giorni, salvo il potere del prefetto di inibire l’attività entro il predetto termine di novanta giorni dalla notifica «qualora la stessa non possa essere assentita, ovvero ricorrano i presupposti per la sospensione o la revoca della licenza, di cui all'articolo 257-quater» (art. 257-ter, comma 5, ultimo periodo, del regolamento di esecuzione del TULPS)”. Così ricostruito, il meccanismo estensivo deve dirsi senz’altro conforme al diritto europeo, che non esclude in assoluto l’ammissibilità di una limitazione ad una libertà garantita dai Trattati, quando “giustificata da motivi imperativi d'interesse generale e a condizione, peraltro, di essere proporzionata rispetto allo scopo perseguito” (par. 60 della sentenza della CGUE già citata). Si rivengono, nel caso di specie, sia i motivi di interesse generale (il controllo sull’idoneità tecnico-operativa dell’operatore economico) sia il rispetto del criterio di proporzionalità, risultando l’adempimento richiesto – una mera comunicazione – di minimo impatto sull’attività. 7.7. Proprio in termini di mera comunicazione, con immediato effetto autorizzativo, era configurato dal bando il requisito di idoneità di cui al par. 7.1. per le ipotesi di estensione di una preesistente licenza, richiedendosi solo, come già visto, che fosse effettuata in tempo utile la notifica della richiesta, senza necessità di attendere il termine di 90 giorni. 7.8. La prescrizione della lex specialis appare dunque pienamente conforme al diritto europeo, con conseguente infondatezza del secondo motivo di ricorso. 8. Può esaminarsi a questo punto il primo motivo. Secondo il Consorzio, anche a ritenere legittima la prescrizione del Disciplinare che imponeva una previa istanza di estensione della licenza prefettizia all’intero ambito territoriale, la Stazione appaltante non avrebbe potuto disporre la sua esclusione dalla gara. Infatti, alla parziale carenza del requisito di idoneità professionale (con riguardo alle prestazioni di vigilanza nei territori di Udine e Pordenone) il ricorrente avrebbe potuto porre rimedio attraverso un subappalto di tipo necessario o qualificante, pacificamente ammesso dalla giurisprudenza. La volontà di ricorrere al subappalto, del resto, era stata espressamente dichiarata nel DGUE: “Il Consorzio Leonardo Servizi e Lavori Società Cooperativa Consortile Stabile si riserva la facoltà di subappaltare tutte le attività oggetto di gara, nei limiti di legge consentiti (DLGS 50/2016 e successive modifiche)”. 8.1. Quanto alla successiva dichiarazione in punto di quantificazione della quota di prestazioni da subappaltare (pari al 40%), il Consorzio evidenzia che l’eventuale superamento della percentuale dichiarata – ove si renda necessario per effettuare le prestazioni nei territori di Udine e Pordenone da parte di un operatore munito di licenza – non potrebbe comunque portare alla sua esclusione. L’ordinamento europeo (e in particolare le pronunce Corte di Giustizia UE, sez. V, 26 settembre 2019 – Causa C-63/18 e 27 novembre 2019, Causa C-402/18, peraltro espressamente richiamate dal Disciplinare), impediscono infatti l’imposizione di qualsivoglia limitazione alla quota delle prestazioni subappaltabili. In ogni caso, la quota del 40% dichiarata sarebbe sufficiente a coprire le prestazioni per cui è carente il requisito di qualificazione. 8.2. Il motivo è infondato. Le argomentazioni del Consorzio prendono, infatti, le mosse da assunzioni in punto di diritto che appaiono erronee, sia singolarmente che nella loro consequenzialità, e viziano la tenuta del ragionamento complessivo. Il ricorrente sostiene, in particolare: a) che il subappalto necessario è istituto suscettibile di applicazione generalizzata nell’ambito dei contratti pubblici (si legge a pag. 9 del ricorso: “il subappalto necessario è certamente ammesso nell’ordinamento nazionale”) ed è quindi ammissibile anche nell’appalto di servizi oggetto del presente giudizio; b) che al subappalto necessario il Consorzio poteva, nello specifico, servirsi per supplire all’inidoneità allo svolgimento delle prestazioni di vigilanza nei territori di Udine e Pordenone, affidandole ad altro soggetto munito della necessaria licenza; c) che la riserva ad avvalersi del subappalto espressa dal Consorzio nel DGUE era sufficiente a legittimare il ricorso al subappalto necessario. 9. Quanto all’affermazione di cui al punto a), si rileva che il subappalto necessario o qualificante è istituto concepito con riguardo agli appalti di lavori, cui fanno univocamente riferimento le disposizioni normative che lo prevedono (art. 109 del D.P.R. n. 207 del 2010 e art. 12, commi 1 e 2, del d.l. 47 del 2014, come convertito dalla l. 80 del 2014). Esso consente all’affidatario, che sia in possesso della qualificazione necessaria per eseguire i lavori di categoria prevalente e al contempo sprovvisto della qualificazione obbligatoria in una o più categorie scorporabili, di integrare il requisito mancante facendo ricorso ad un’impresa subappaltatrice, munita della specifica attestazione. 9.1. L’istituto presuppone, quindi, i concetti di “categoria prevalente” e “categoria scorporabile”, che sono delineati dal Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 50 del 2016) con esclusivo riferimento agli appalti di lavori (art. 3, comma 1, lett. oo-bis e oo-ter) e non appaiono di immediata e lineare trasposizione all’appalto di servizi. 9.2. Sul punto, si richiama l’esplicativo passaggio della delibera l’ANAC n. 462 del 27 maggio 2020. Secondo l’Autorità “a differenza degli appalti di lavori, ove il ricorso al subappalto qualificante è consentito a prescindere da un’espressa previsione negli atti di gara, negli affidamenti di servizi e forniture è facoltà delle singole Stazioni appaltanti inserire nella lex specialis clausole che ne consentano l’utilizzo agli operatori economici. Tuttavia, vi è da notare come proprio in relazione agli appalti di servizi e forniture, l’applicazione dell’istituto incontri degli evidenti limiti riconducibili alla difficoltà di stabilire la quota parte di requisiti afferenti alla singola tipologia di prestazioni e quella relativa all’appalto nel suo complesso. La regola generale del ricorso al subappalto necessario è di consentirlo quando il bando di gara individui la prestazione principale e quella/e secondaria/e, ammetta in relazione alle seconde la possibilità di ricorrere al subappalto qualificante, e l’impresa dimostri di soddisfare la specifica disciplina di cui all’art. 12, comma 2, del d.l. 47/2014, ovvero possieda, con riferimento alla prestazione principale, requisiti di qualificazione relativi al complessivo importo contrattuale”. Il ricorso al subappalto necessario nell’ambito di un appalto di servizi è subordinato, dunque, ad un duplice requisito: l’individuazione di diverse categorie di prestazioni da parte della lex specialis (potendosi acquisire mediante subappalto solo la qualifica necessaria per lo svolgimento delle prestazioni “secondarie”) e l’esistenza di un’espressa previsione nel bando volta ad ammetterlo. 9.3. Nello stesso senso si pone la recente giurisprudenza amministrativa (vedi, in particolare, Cons. Stato, sez. V, 4 giugno 2020, n. 3504), che sembra talora declinare il secondo dei descritti requisiti in termini, piuttosto, di mancato espresso divieto di avvalersi del subappalto necessario da parte della legge di gara (si vedano Tar Piemonte, sez. I, 5 gennaio 2021, n. 9 e Tar Lombardia – Milano, sez. IV, 14 gennaio 2021, n. 114). 9.4. Nel Disciplinare della procedura de qua non si riscontrano disposizioni espressamente dedicate al subappalto necessario, in termini di ammissione o di divieto. Anche aderendo all’orientamento più permissivo, tuttavia, non poteva consentirsi il ricorso all’istituto per l’assorbente ragione che, nella suddivisione delle prestazioni operata dalla Stazione appaltante per ciascun Lotto (si veda par. 3 del Disciplinare, pagg. 10-11), l’unica per cui si rendeva necessario uno specifico requisito di idoneità professionale (la licenza ex art. 134 TULPS) è quella qualificata come “principale” e di maggior valore economico (“Servizio di vigilanza armata fissa diurna e notturna, vigilanza ispettiva, telesorveglianza, televigilanza, pronto intervento, Servizio ausiliario di vigilanza a presidio del territorio a sostegno della polizia locale”). 9.5. Pertanto, potendo il subappalto necessario o qualificante, conformemente alla sua ratio e alla sua disciplina positiva, sopperire unicamente alla carenza di requisiti attinenti alle prestazioni “secondarie” (quelle corrispondenti ai “lavori scorporabili” negli appalti di opere pubbliche), la Disciplina dettata dalla lex specialis ne inibiva in radice l’applicazione. 10. Fermo l’assorbente valore delle considerazioni che precedono, ulteriormente infondata in punto di diritto è l’affermazione di cui al punto b). Il ricorrente pretenderebbe, infatti, di ricorrere al subappalto necessario solo di alcune prestazioni, individuate su base territoriale (cioè quelle relative alla vigilanza degli immobili ubicati nelle province di Udine o Pordenone). 10.1. Tale suddivisione, strumentale alle esigenze del Consorzio di recuperare il requisito qualificatorio mancante, non è però in alcun modo prevista dalla lex specialis, che ripartisce invece le prestazioni di tutti i Lotti in tre diverse categorie, in ragione delle loro caratteristiche oggettive e funzionali: “servizio di vigilanza” (prestazione principale), “servizio di portierato” e “altri servizi” (prestazioni secondarie). 10.2. Come già ampiamente argomentato, il subappalto necessario negli appalti di servizi, ove manca una definizione legislativa di prestazioni “principali” e “scorporabili”, deve necessariamente fondarsi sulla suddivisione delle prestazioni – e relativa qualificazione in termini di “principale” e “secondaria” – operata dalla stazione appaltante. In nessun caso l’istituto può consentire al concorrente di scorporare a proprio piacimento le prestazioni. 10.3. Devono, infine, valorizzarsi le argomentazioni spese dalla Regione, che evidenzia come la soluzione proposta dal ricorrente porterebbe le amministrazioni interessate (i cui immobili sono variamente dislocati nel territorio regionale) a doversi interfacciare con diversi fornitori a seconda della sede territoriale, venendo pregiudicata l’omogeneità tecnico-operativa del servizio in tutte le proprie sedi. 11. Infine, è privo di pregio anche l’assunto di cui al punto c). Ai fini del subappalto necessario – ferma la sua inapplicabilità alla gara e, comunque, nelle modalità pretese dal ricorrente – è necessaria, infatti, una dichiarazione in sede di procedura che, pur non dovendo investire anche il nome del subappaltatore, deve quantomeno individuare dal punto di vista oggettivo le prestazioni che si intendono subappaltare (Cons. Stato, A.P., 2 novembre 2015, n. 9). La dichiarazione di cui al DGUE appare, per la sua estrema genericità, del tutto inidonea a tale scopo. 12. Può giungersi, infine, all’esame del terzo motivo di ricorso, rivolto avverso gli atti di gara e strumentale alla caducazione dell’intera procedura. Esso è parimenti infondato. 12.1. Anche la censura di oscurità della lex specialis appare infatti correlata all’istituto del subappalto necessario, giacché ne presuppone l’applicabilità nella gara de qua. Il ricorrente, infatti, rappresenta di essersi “ragionevolmente determinato nel senso di poter subappaltare tutti i servizi da destinare agli immobili siti nelle province di Udine e Pordenone” ma di non aver potuto, a causa dell’oscurità della lex specialis, individuare “già all’atto dell’offerta la quota precisa dei servizi da svolgersi nelle province di Udine e Pordenone e ciò evidentemente in violazione dei principi di certezza del diritto e di parità di trattamento tra i concorrenti”. Pertanto, “laddove si dovesse intendere che invece il limite del 40% era applicabile alla procedura in parola, va rilevato che il ricorrente non avrebbe potuto calcolare in maniera precisa il rispetto della suddetta quota, a causa dell’indeterminatezza della lex specialis; con la conseguenza che il provvedimento di esclusione impugnato è il frutto della contraddittorietà e dell’oscurità degli atti di gara”. 12.2. Risulta evidente dalle argomentazioni sopra esposte che, nella prospettiva del Consorzio, il thema decidendum del giudizio sia quello relativo alla congruità della quota di subappalto dichiarata (pari al 40%) rispetto ai servizi di vigilanza da svolgersi a Udine e Pordenone (o, al più, quello della vincolatività di tale dichiarazione), ferma la possibilità di recuperare il relativo requisito di qualificazione, affidando le prestazioni ad un operatore munito di valida licenza. 12.3. Una volta chiarito, tuttavia, che al subappalto necessario non poteva in alcun modo farsi ricorso (tantomeno scomponendo le prestazioni su base territoriale), perdono consistenza anche le sopra esposte censure, dovendosi conseguentemente ritenere che la mancanza di una precisa elencazione degli immobili posseduti da ciascuno degli Enti, con relativa ubicazione territoriale, sia stata del tutto ininfluente ai fini della massima partecipazione degli operatori alla gara. Del resto, che gli Enti interessati dal Lotto 3 avessero sedi dislocate su tutto il territorio regionale e non solo nelle Province di Trieste e Gorizia (con conseguente necessità di estendere la licenza a tutte le Province della Regione, in conformità al par. 7.1. del Disciplinare) era informazione immediatamente reperibile dall’operatore interessato con uno sforzo minimo di diligenza, ad esempio attraverso la semplice consultazione dei siti internet istituzionali delle amministrazioni 13. Per le ragioni esposte, il ricorso deve essere respinto. 13.1. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli-Venezia Giulia (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna il ricorrente a rifondere all’amministrazione resistente le spese del presente giudizio, che si liquidano nella somma di € 4.000,00 oltre spese generali e accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Trieste nella camera di consiglio del giorno 23 giugno 2021, tenutasi da remoto attraverso la piattaforma Microsoft Teams con l'intervento dei magistrati: Oria Settesoldi, Presidente Manuela Sinigoi, Consigliere Luca Emanuele Ricci, Referendario, Estensore Oria Settesoldi, Presidente Manuela Sinigoi, Consigliere Luca Emanuele Ricci, Referendario, Estensore IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi - Servizi di vigilanza armata - Autorizzazione ex art. 134 TULPS – Deve essere riferita alla provincia nella quale si svolge l’appalto. ​​​​​​​ In sede di appalto per l'affidamento dei servizi di vigilanza armata, portierato e altri servizi, l’operatore economico deve possedere l’autorizzazione riferita alla provincia nella quale si svolge l’appalto (1).   (1) La norma nazionale che riconosca al provvedimento autorizzatorio ex art. 134 TULPS una validità territoriale limitata, così obbligando il prestatore a richiedere analoghe autorizzazioni per ognuna delle province ove intende esercitare la propria attività, non si pone in contrasto con gli artt. 43 e 49 CE (oggi artt. 49 e 56 TFUE) cioè con i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi. Ha chiarito il Tar che l’art. 257-ter del Regolamento è stato introdotto dal d.P.R. 4 agosto 2008, n. 153 proprio al fine di adattare la normativa interna alla citata pronuncia della CGUE. Nella loro precedente formulazione, infatti, gli artt. 252 e 257 del Regolamento di esecuzione del TULPS imponevano ai soggetti o alle imprese, che intendessero svolgere il servizio di vigilanza nel territorio di più Province, di ottenere distinti provvedimenti autorizzatori da parte di ciascun Prefetto competente per territorio (oltre che di avere una distinta sede operativa per ogni Provincia). L’attuale regime normativo prevede, invece, un meccanismo di “estensione della licenza” (art. 257-ter) mediante notifica di apposita comunicazione al Prefetto che ha rilasciato l’originaria licenza, con possibilità di intraprendere l’attività “trascorsi novanta giorni dalla notifica”. ​​​Il permanere di un meccanismo di “controllo” su ogni forma di estensione della portata autorizzativa della licenza prefettizia (l’art. 257-ter, comma 5 si riferisce, infatti, anche all’estensione “ad altri servizi”) può giustificarsi in ragione della particolare natura dell’attività, connessa alla sicurezza e all’ordine pubblico, che impone di valutare costantemente l’idoneità tecnico-organizzativa dell’operatore a svolgerla. Come evidenziato dal parere del Consiglio di Stato sullo schema del d.P.R. (Cons. Stato, sez. consultiva atti normativi, 21 aprile 2008, n. 1247)  trattasi, infatti, di servizi “che per l’incidenza e la qualità delle prestazioni nonché per l’alto grado di pericolo e di specializzazione operativa erano originariamente riservate alle forza pubblica”. Per questo, tanto in sede di rilascio della licenza che nel corso della sua intera durata, la normativa di settore “assegna un ruolo centrale al progetto organizzativo e tecnico-operativo, che correda la domanda diretta ad ottenere la licenza prescritta dall’articolo 134 T.U.L.P.S., giusta il disposto dei commi 2 e 3 dell’articolo 257”, in quanto “attribuisce all’Autorità di pubblica sicurezza un penetrante sindacato sulla effettiva idoneità tecnica del soggetto richiedente”. Sotto questo profilo, dunque, è evidente la ratio della comunicazione di cui all’art. 257-ter, tramite la quale il Prefetto viene portato a conoscenza della volontà dell’operatore di svolgere il servizio in un più ampio ambito territoriale. Egli può così valutare l’idoneità operativa dell’impresa, richiedendo se necessario “chiarimenti ed integrazioni al progetto tecnico-organizzativo e disporre il divieto dell’attività qualora la stessa non possa essere assentita”. Non appare quindi condivisibile l’affermazione del ricorrente, che individua nella notifica un mero adempimento formale, inidoneo a costituire uno strumento di controllo efficace dell’attività di vigilanza. In ogni caso, Cons. Stato, sez. V, 11 marzo 2021, n. 2087 ha ritenuto opportuno operare un ulteriore correttivo al descritto regime, considerato comunque confliggente con i principi del TFUE nella parte in cui configura l’estensione in termini di ulteriore provvedimento autorizzativo (pur sottoposto a silenzio assenso)
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/abbattimento-di-bovini-ai-fini-del-contenimento-del-contagio-e-all-eradicazione-della-brucellosi
Abbattimento di bovini ai fini del contenimento del contagio e all’eradicazione della brucellosi
N. 06625/2021 REG.PROV.CAU. N. 09524/2021 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 9524 del 2021, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Claudio Sgambato, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Regione Campania, A.S.L. Caserta, Izsm, Ministero della Salute, non costituiti in giudizio; per la riforma dell'ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) n. 05979/2021, resa tra le parti Visto l'art. 62 cod. proc. amm.; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Vista la impugnata ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo regionale di reiezione della domanda cautelare presentata dalla parte ricorrente in primo grado; Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 dicembre 2021 il Cons. Antonio Massimo Marra e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza; Premesso che l’odierno appellante adiva questo Giudice per chiedere la riforma della ordinanza pronunciata in primo grado con la quale era stata rigettata l’istanza di annullamento dei provvedimenti mediante i quali l’amministrazione competente aveva ordinato l’abbattimento di 78 capi bufalini; Rilevato che il Tribunale amministrativo regionale rigettava il ricorso tra l’altro in considerazione del fatto che, “sotto il profilo del periculum, nella comparazione degli opposti interessi e in virtù del principio di precauzione, l’interesse economico della parte ricorrente deve considerarsi recessivo rispetto al preminente interesse pubblico al contenimento del contagio e all’eradicazione della brucellosi”; Considerato che la sovraindicata motivazione merita riforma in quanto il benessere degli animali costituisce diritto fondamentale, protetto sia a livello nazionale sia eurounitario ove, in particolare, è inteso come un obiettivo di interesse generale riconosciuto dall’Unione, venendo in rilievo, tra gli altri, i considerando n.n. 2 e 4 del regolamento n. 1099/2009, secondo i quali “(...) È opportuno che gli operatori o il personale addetto all’abbattimento adottino i provvedimenti necessari a evitare e a ridurre al minimo l’ansia e la sofferenza degli animali durante il processo di macellazione o abbattimento, tenendo conto delle migliori pratiche nel settore e dei metodi consentiti dal presente regolamento (…)” e “ Il benessere animale è un valore condiviso [nell’Unione europea] sancito dal protocollo n. 33 sulla protezione ed il benessere degli animali allegato al trattato [CE]. La protezione degli animali durante la macellazione o l’abbattimento è una questione di interesse pubblico” (cfr., da ultimo, Corte di Giustizia, sentenza 17 novembre 2020 resa nella causa C 336/19); Considerato altresì che non sfugge a questo Giudice la costante giurisprudenza, resa a livello nazionale e sovranazionale, in materia di principio di precauzione volto a proteggere e garantire un elevato livello di tutela della salute pubblica; Ritenuto che il principio di precauzione esiga il compimento di un giudizio di proporzionalità tra il fine perseguito (la protezione della salute umana) e il mezzo impiegato (la soppressione della vita dell’animale) e che da tale valutazione debba necessariamente trascendere il profilo dell’interesse economico della parte ricorrente; Considerato, infatti, che nelle fattispecie di cui trattasi, il giudizio non può essere improntato a prospettive meramente patrimonialistiche che sacrifichino senza adeguata ponderazione - ispirata a rigorosa valutazione del principio di precauzione - il valore della vita degli animali; Ritenuto altresì che, nel bilanciamento tra il diritto al benessere dell’animale - da intendersi come valore fondamentale in re ipsa - e il bene supremo della salute pubblica, nel caso di specie, il ricorso debba essere accolto in quanto non risulta adeguatamente valutata ed istruita la possibilità di salvaguardare la salute pubblica mediante misure rispettose del principio di precauzione e tuttavia diverse dall'abbattimento degli animali; Considerato che, nel caso di specie, l'appellante continuerà a mantenere l'isolamento dei capi in questione fatte salve le ulteriori misure che le Autorità sanitarie eventualmente prescriveranno per evitare il diffondersi di eventuali malattie; Ritenuto che, per la particolarità delle questioni trattate, le spese della presente fase cautelare debbano essere compensate; P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) accoglie l'appello cautelare (Ricorso numero: 9524/2021) e, per l'effetto, in riforma dell'ordinanza impugnata, accoglie l'istanza cautelare proposta in primo grado. Compensa le spese del grado cautelare. La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 dicembre 2021 con l'intervento dei magistrati: Michele Corradino, Presidente Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere Antonio Massimo Marra, Consigliere, Estensore Michele Corradino, Presidente Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere Antonio Massimo Marra, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Animali - Brucellosi – Abbattimento – Va sospeso cautelarmente.     Deve essere sospeso in via cautelare il provvedimento con il quale è stato disposto l’abbattimento di 78 capi bufalini ai fini del contenimento del contagio e all’eradicazione della brucellosi, e ciò in quanto il benessere degli animali costituisce diritto fondamentale, protetto sia a livello nazionale sia eurounitario (1).  ​​​​​​​ (1) Ha ricordato l’ordinanza che a livello eurounitario il benessere degli animali è inteso come un obiettivo di interesse generale riconosciuto dall’Unione, venendo in rilievo, tra gli altri, i considerando n.n. 2 e 4 del regolamento n. 1099/2009, secondo i quali “(...) È opportuno che gli operatori o il personale addetto all’abbattimento adottino i provvedimenti necessari a evitare e a ridurre al minimo l’ansia e la sofferenza degli animali durante il processo di macellazione o abbattimento, tenendo conto delle migliori pratiche nel settore e dei metodi consentiti dal presente regolamento (…)” e “ Il benessere animale è un valore condiviso [nell’Unione europea] sancito dal protocollo n. 33 sulla protezione ed il benessere degli animali allegato al trattato [CE]. La protezione degli animali durante la macellazione o l’abbattimento è una questione di interesse pubblico” (cfr., da ultimo, Corte di Giustizia, sentenza 17 novembre 2020 resa nella causa C 336/19;  La Sezione ha ricordato altresì la costante giurisprudenza, resa a livello nazionale e sovranazionale, in materia di principio di precauzione volto a proteggere e garantire un elevato livello di tutela della salute pubblica. Il principio di precauzione esiga il compimento di un giudizio di proporzionalità tra il fine perseguito (la protezione della salute umana) e il mezzo impiegato (la soppressione della vita dell’animale) e che da tale valutazione debba necessariamente trascendere il profilo dell’interesse economico della parte ricorrente.  Nelle fattispecie di cui trattasi, il giudizio non può essere improntato a prospettive meramente patrimonialistiche che sacrifichino senza adeguata ponderazione - ispirata a rigorosa valutazione del principio di precauzione - il valore della vita degli animali.
Animali
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/isolamento-obbligatorio-presso-il-proprio-domicilio-con-divieto-assoluto-di-contatti-con-altre-persone
Isolamento obbligatorio presso il proprio domicilio con divieto assoluto di contatti con altre persone
N. 00279/2020 REG.PROV.CAU. N. 00448/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Prima) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 448 del 2020, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Carmine Curatolo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Belmonte Calabro non costituito in giudizio; nei confronti Regione Calabria non costituito in giudizio; per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, L’E/O LA DECLARATORIA DI NULLITA’ PREVIA SOSPENSIONE CAUTELARE PROVVISORIA DELLA ORDINANZA SINDACALE N.-OMISSIS-DEL 21 APRILE 2020 Visti il ricorso e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm.; Considerato che il ricorrente, al di là della lesione lamentata sul piano della propria sfera giuridica, non indica alcun pregiudizio <<di estrema gravità ed urgenza>> tale da giustificare la richiesta di misure cautelari monocratiche provvisorie; Tenuto altresì conto del fatto che la disposta quarantena obbligatoria, disposta con ordinanza sindacale adottata in data 21/4/20, risulta quasi interamente effettuata e scade dopodomani (4/5/20); Letti gli articoli 56 c.p.a. e 84 del D.L. n.18/20. P.Q.M. Rigetta la suindicata istanza di misure cautelari monocratiche provvisorie. Fissa per la trattazione collegiale la camera di consiglio del 20 maggio 2020 che si svolgerà secondo le modalità indicate nel citato articolo 84, in particolare commi 5 e 6. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all'articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate. Così deciso in Catanzaro il giorno 2 maggio 2020. IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Covid-19 – Obbligo di non uscire dall’abitazione – Quarantena obbligatoria – Quarantena ormai esaurita – Non va sospesa.     Non va sospesa l’ordinanza sindacale n. 18 del 21 aprile 2020 la quale il ricorrente è sottoposto, in via cautelativa, alla misura dell’isolamento obbligatorio presso il proprio domicilio con divieto assoluto di contatti con altre persone, dal giorno 21 aprile 2020 fino al 4 maggio 2020 compreso, con sorveglianza attiva da parte del personale dell’ufficio dei vigili comunali e forze dell’ordine, risultando la quarantena quasi interamente effettuata.
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/durata-della-misura-di-monitoraggio-della-societ-c3-a0-ispirata-da-finalit-c3-a0-di-anticorruzione
Durata della misura di monitoraggio della società ispirata da finalità di anticorruzione
N. 01791/2021REG.PROV.COLL. N. 07797/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7797 del 2020, proposto dal Ministero dell'Interno, (Ufficio Territoriale del Governo Livorno), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; contro -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Simone Leo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Anac - Autorita' Nazionale Anticorruzione non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Seconda) n. -OMISSIS-. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 febbraio 2021, svolta in modalità da remoto, il Cons. Umberto Maiello e dato atto della presenza, ai sensi di legge, degli avvocati delle parti come da verbale dell’udienza; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. In data 22.8.2018, il GIP presso il Tribunale di Livorno applicava la misura interdittiva del divieto di esercitare, per un anno, ruoli direttivi o di rappresentanza anche commerciale delle persone giuridiche e delle imprese nei confronti della signora -OMISSIS- da un rapporto di collaborazione. Tale misura veniva spedita in relazione al delitto di cui agli artt. 110 e 353 bis c.p. per un’imputazione di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente in relazione ad un contratto di fornitura di servizi, stipulato dalla società -OMISSIS- con il Comune di Livorno, della durata di 2 anni del valore complessivo di euro 23.500,00, con scadenza al 31 dicembre 2019. 1.1. L’ANAC, all’esito della svolta istruttoria, con nota del 9 gennaio 2019, inviava al Prefetto di Livorno la proposta di applicazione della misura del sostegno e monitoraggio di cui all'art.32, comma 8, del d.l. n.90/2014 nei confronti della detta società -OMISSIS- in relazione all’affidamento del servizio di chiamate telefoniche automatiche di emergenza – -OMISSIS-– per l’anno 2018, misura che il Prefetto applicava con provvedimento n.65969 del 25.10.2019 nominando un esperto, poi revocato e sostituito con provvedimento -OMISSIS-. Con il decreto prefettizio del 25/10/2019 veniva stabilito che la misura del sostegno e monitoraggio dovesse durare 6 mesi, con scadenza il 25/04/2020, quasi 4 mesi dopo la fine del contratto. 2. Il TAR per la Toscana, sez. II, adito dalla società -OMISSIS-, con la sentenza n. -OMISSIS-, rilevava il difetto di legittimazione passiva dell’Anac e, nel merito, accoglieva il ricorso, salvo che per la domanda risarcitoria, viceversa respinta. 2.1. Segnatamente, il giudice di prime cure riteneva che il ricorso proposto dall’odierna appellata evidenziasse profili di fondatezza quanto alla durata della misura in questione, che, in base ad una complessiva lettura dell’art.32 del d.l. n.90 del 2014, anche alla luce della ratio legis, non poteva travalicare il termine di efficacia del contratto, con scadenza al 31 dicembre 2019. 3. Con il mezzo qui in rilievo il Ministero dell’Interno e l’Ufficio territoriale di Livorno, quale organo periferico del primo, chiedono la riforma della detta decisione. 3.1. Le appellanti, nel proprio costrutto, contrastano, anzitutto, l’osservazione censorea sviluppata in prime cure dalla società -OMISSIS- secondo cui l’art.32 non potrebbe essere applicato al caso de quo perché il soggetto destinatario della misura interdittiva, sig.ra -OMISSIS-, non ha mai ricoperto alcuna carica sociale all'interno di -OMISSIS-essendosi limitata ad una collaborazione esterna, con funzioni squisitamente di supporto (c.d. help desk) agli utenti e/o clienti finali. Sul punto, va osservato che su tale doglianza il TAR non si è pronunciato avendo, viceversa, delibato in senso favorevole alla ricorrente esclusivamente la censura incentrata sulla durata della misura del sostegno e monitoraggio ed assorbendo nella statuizione di accoglimento le residue censure. Non sussiste, dunque, un interesse all’articolazione di uno specifico motivo di gravame in quanto in merito nemmeno vi è stata soccombenza, potendo le suddette deduzioni semmai rilevare a fini difensivi rispetto alla riproposizione, ai sensi dell’articolo 101 comma 2 del c.p.a., della suindicata argomentazione censorea. 3.2. Analoghe conclusioni vanno rassegnate rispetto al distinto profilo – parimenti non confluito nel capo della decisione appellata recante la statuizione di accoglimento – afferente alla presunta mancanza di una approfondita valutazione da parte dell’Autorità procedente sulla gravità dei fatti contestati e, dunque, sulla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento impugnato, rispetto ai quali l’Avvocatura erariale fa rinvio alla relazione prefettizia depositata in atti. 3.3. Di poi, a sostegno dello spiegato gravame, lamentano l’erroneità della sentenza appellata eccependo che la misura del sostegno e monitoraggio, pur essendo geneticamente connessa all’appalto “incriminato” in base ad un criterio di contestualità o di contiguità temporale, riflette un ambito di efficacia che trascende il singolo contratto e ne postula la piena operatività indipendentemente da ulteriori e sopravvenute circostanze attinenti alla stessa commessa pubblica. La suddetta misura, secondo quanto evidenziato dalle stesse linee guida dell’ANAC del 15.7.2014, del 27.1.2015 e dell’11.4.2019, prescinderebbe, dunque, dal contratto e dal suo effettivo periodo di vigenza per andare ad incidere sulla governance dell’impresa, in modo da favorirne il risanamento, sotto il profilo gestionale ed organizzativo. 4. Si è costituita -OMISSIS-che ha concluso per il rigetto del ricorso, riproponendo altresì i motivi rimasti assorbiti nella decisione di primo grado, ed all’uopo deducendo che: - l'art.32 non poteva essere qui applicato in ragione del ruolo della sig. -OMISSIS-, che non avrebbe mai ricoperto alcuna carica sociale all'interno di -OMISSIS-, essendo una mera collaboratrice esterna che svolgeva funzioni squisitamente di supporto (c.d. help desk) agli utenti e/o clienti finali. Non risulterebbe, invero, in alcun modo dimostrato il ruolo di amministratore di fatto della società, solo affermato ma non dimostrato dalle appellanti; - mancherebbe una valutazione sulla particolare gravità della condotta contestata in sede penale; e ciò vieppiù in considerazione della riforma dell'originaria ordinanza cautelare penale: il Tribunale del Riesame di Firenze, ritenendo la misura sproporzionata rispetto alle presunte esigenze cautelari ravvisate dal giudice di prime cure, avrebbe, infatti, ridotto l’iniziale durata di 12 mesi a 5 mesi, con la conseguenza che la misura interdittiva è cessata in data 22/01/2019; - soggiunge la società appellata che, all’esito del giudizio, la sig. -OMISSIS- è stata assolta. 5. All’udienza del 18.2.2021 il ricorso è stato trattenuto in decisione. 6. L’appello è infondato e, pertanto, va respinto. 7. Corretta si rivela, anzitutto, la ricostruzione sistemica operata dal primo giudice del ventaglio delle misure di prevenzione dei fenomeni di corruzione e, più in generale, di indebita interferenza nella gestione della cosa pubblica previste dall’articolo 32 del d. l. n. 90/2014 ai commi 1, 2 e 8 che, condividendo il presupposto alternativo dell'esistenza di attività di indagine giudiziaria per specifici delitti contro l'amministrazione pubblica ovvero dell'accertamento di una situazione di anomalia o di condotte illecite o eventi criminali attribuibili ad un’impresa legata all’Amministrazione da un qualificato rapporto contrattuale (cfr. Cons. St., Sez. III, 10 luglio 2020, n. 4406), risultano ordinate dal legislatore secondo un ordine crescente di gravità in ragione della situazione di irregolarità riscontrata a carico dell’operatore economico. 7.1. Per completezza va evidenziato che al comma 10 è contemplata una fattispecie del tutto distinta (e qui non in rilievo) e che, ispirata da finalità antimafia, si riconnette all’adozione di un’informativa antimafia interdittiva. 7.2. Segnatamente, per quanto qui di più diretto interesse, vale a dire rispetto alle misure ispirate da finalità di anticorruzione, la richiamata disciplina di settore prevede tre tipologie di misure applicabili: la prima, di cui al comma 1, lett. a), consistente nella rinnovazione degli organi sociali, mira alla immediata sostituzione del soggetto coinvolto dalle indagini, la seconda di cui al comma 1, lett. b), consistente nella gestione straordinaria e temporanea dell'impresa, implica una gestione sostitutiva ed è finalizzata alla completa esecuzione della prestazione oggetto del rapporto contratto in relazione al quale sono emerse le fattispecie di reato o gli altri comportamenti illeciti; la terza, definita sostegno e monitoraggio, di cui all’art. 32, comma 8 d.l. 90/2014, di minore impatto persegue una finalità indubbiamente meno invasiva atteso che si risolve nella nomina di uno o più esperti i quali “… forniscono all’impresa prescrizioni operative, elaborate secondo riconosciuti indicatori e modelli di trasparenza, riferite agli ambiti organizzativi, al sistema di controllo interno e agli organi amministrativi di controllo”. 7.3. La misura del tutoraggio presuppone che le indagini penali pendenti coinvolgano “componenti di organi societari diversi”, intesi come componenti di organi societari non necessari (cfr. Cons. St., Sez. III, 10 luglio 2020, n. 4406) ai quali, dunque, non è demandata la responsabilità dell’amministrazione dell’azienda e che, dunque, riflettono un minore livello di infiltrazione criminale nei meccanismi vitali dell’impresa. 8. Il giudice di prime cure ha condivisibilmente agganciato, nell’esegesi delle richiamate disposizioni, l’efficacia delle suddette misure alla durata del contratto cui si correla la singola misura siccome funzionali alla sua corretta gestione ed esecuzione. 8.1. A tale approdo il TAR è giunto non solo in base al tenore letterale dell’articolo 32 ma anche valorizzando, sulla scorta della giurisprudenza di questa Sezione formatasi in relazione alla misura del commissariamento (cfr. Cons., Sez. III, 27 novembre 2017, n. 5568; 28 aprile 2016 n. 1630; 24 luglio 2015 n. 3653), la ratio sottesa al reticolo delle disposizioni argomento e che, a fronte di un'ipotesi di illecito penale che coinvolga un contratto pubblico, mira a coniugare le esigenze, da un lato, di evitare che si determinino soluzioni di continuità o difficoltà nella gestione del contratto che possano condurre a fattispecie di inadempimento contrattuale a danno dell'interesse pubblico e, dall'altro lato, di garantire che il contratto stesso sia gestito ed eseguito in modo conforme ai principi di legalità, trasparenza ed efficienza. 8.2. D’altro canto, le stesse linee guida ANAC, fin dalla loro prima versione del 15.7.2014 (da ultimo aggiornata in data 8.7.2020), indicano la ratio dell’intervento legislativo giustappunto nell’esigenza di fare in modo che, in presenza delle situazioni patologiche descritte dalla norma, “l’esecuzione del contratto pubblico non venga oltremodo a soffrire di tale situazione”, dal momento che “la prioritaria istanza a cui ha corrisposto il legislatore sembra essere quella di porre rimedio all’affievolimento dell’efficacia dei presidi legalitari da cui appaiono afflitte le procedure contrattuali, senza che ne risentano i tempi di esecuzione della commessa pubblica, finendo col coniugare, dunque, entrambe le descritte esigenze”. 8.3 Nella detta prospettiva, il legislatore ha, dunque, introdotto misure di chiaro stampo cautelare che spaziano da interventi che incidono, più o meno direttamente, sulla governance (sostegno e monitoraggio ovvero rinnovo degli organi sociali) a misure ad contractum (commissariamento) che si risolvono nella gestione controllata del contratto. 9. Va, qui, ribadito che l’intero ventaglio delle misure in argomento si pone pur sempre, nonostante la varietà tipologica delle misure in argomento, in funzione dell’obiettivo primario della salvaguardia dell’esecuzione del contratto da un lato e, dall’altro, della tutela del lavoro (cfr. Cons. St., Sez. III, 10 luglio 2020, n. 4406) variando, dunque, le sole modalità attraverso cui il legislatore persegue tale obiettivo. 9.1. Nella specie del tutoraggio è pur vero che il beneficio della misura non ha un’immediata ricaduta sul contratto siccome volto a promuovere un percorso di revisione virtuosa dell’impresa attraverso l’introduzione di un presidio di esperti che, senza incidere sulla composizione ed i poteri degli organi di amministrazione, sono chiamati a riorientarne in senso lato la governance onde ricondurre la gestione complessiva dell’Azienda su binari di legalità e trasparenza con trasversale ricaduta sull’intero assetto organizzativo e gestionale dell’impresa. 9.2. Pur tuttavia, come di seguito meglio evidenziato, tanto i presupposti giustificativi della misura, che le modalità di attuazione non possono che essere permeati dalla finalità di fondo che è quella di assicurare, nella cornice temporale in cui è attivo un legame contrattuale con l’Amministrazione, le condizioni di piena legalità entro cui può e deve svilupparsi tale rapporto. 10. Ed, invero, contrariamente a quanto dedotto dall’appellante, plurimi indici sembrerebbero confermare la imprescindibilità di un rapporto di interdipendenza tra il rapporto contrattuale e le misure previste dal legislatore. 11. Deve, in apice rilevarsi, come lo stesso presupposto giustificativo che qualifica l’intera gamma degli interventi correttivi qui in rilievo impinge nella presenza di "un'impresa aggiudicataria di un appalto per la realizzazione di opere pubbliche, servizi o forniture", di un’impresa che esercita attività sanitaria per conto del SSN in base ad accordi contrattuali previsti dalla disciplina di settore, ovvero di "un concessionario di lavori pubblici" o di "un contraente generale", perimetrando, dunque, la legittimazione passiva delle imprese destinatarie della misura in funzione della intervenuta stipula di un contratto pubblico la cui esecuzione non è stata ancora completamente eseguita. E’, dunque, proprio il perdurante legame che lega l’impresa all’Amministrazione che fonda e giustifica un intervento autoritativo finalizzato a ripristinare una cornice di necessaria legalità entro cui ineludibilmente dovrà svilupparsi tale rapporto. 11.1. In coerenza con tale necessario ancoraggio ad un rapporto contrattuale in essere lo stesso legislatore ha finanche disciplinato il regime delle competenze, individuato l’Autorità procedente nel Prefetto territorialmente competente “in relazione al luogo in cui ha sede la stazione appaltante”, ove vi siano “fatti gravi e accertati” (cfr. articolo 32 comma 1). 11.2. Il suddetto dato, oltretutto, nemmeno è contestato dall’Avvocatura erariale secondo cui, però, e per la sola misura qui in rilievo (del sostegno e monitoraggio), il necessario collegamento al rapporto contrattuale incriminato sarebbe di tipo esclusivamente genetico. In tal senso, ed uniformandosi al contenuto delle linee guida ANAC (cfr. linee guida dell’11.4.2019 e, da ultimo dell’8.7.2020), l’appellante in ragione dell’ambito di incidenza della misura qui in rilievo, riferita direttamente alla governance, rivendica un ambito di efficacia che trascende il singolo contratto e ne postula la piena operatività indipendentemente da ulteriori e sopravvenute circostanze attinenti alla stessa commessa pubblica, consentendone l’applicazione anche oltre la scadenza del rapporto contrattuale ovvero anche nel caso in cui - nelle more del procedimento avviato dall’A.N.AC. - l’esecuzione delle prestazioni contrattuali sia già stata ultimata, il contratto sia stato risolto oppure all’affidamento della commessa incriminata non abbia fatto seguito alcuna stipula contrattuale (perché, ad esempio, l’operatore economico è stato escluso oppure l’aggiudicazione è stata revocata o annullata in autotutela dalla stazione appaltante). In tal modo, però, viene a crearsi un primo profilo di distonia con il quadro regolatorio di riferimento che nel perimetrare l’ambito soggettivo dei possibili destinatari di tali misure – ivi incluso il sostegno e monitoraggio, rispetto al quale trova integrale applicazione il comma 1 dell’articolo 32 in commento – sembra declinare in un contesto di necessaria attualità la posizione qualificante delle imprese che versano nelle condizioni di aggiudicatarie o contraenti. 12. Né può essere obliata la chiara valenza semantica delle proposizioni letterale compendiate al successivo comma 2, nella parte in cui prevede che il Prefetto, accertata l'esistenza dei suddetti presupposti, e valutata la particolare gravità dei fatti”, provveda all'adozione di una delle suddette misure stabilendone la durata “in ragione delle esigenze funzionali alla realizzazione dell'opera pubblica, al servizio o alla fornitura oggetto del contratto e comunque non oltre il collaudo ovvero dell'accordo contrattuale”. Orbene, con specifico riferimento proprio alla misura del tutoraggio, la disposizione di cui comma 8, reca un espresso rinvio al comma 2, all’uopo giustappunto prevedendo che il Prefetto provvede, con decreto adottato secondo le modalità di cui al comma 2, secondo una tecnica di rinvio relazionata, senza esclusioni di sorta, all’insieme delle modalità di esplicazione del potere, ivi inclusi i profili che attengono alla tempistica. 13. Deve, poi, rimarcarsi, in una necessaria lettura di insieme del reticolo delle disposizioni compendiate nell’art. 32, come il legislatore, in attuazione del principio di proporzionalità, abbia graduato le misure da applicare in ragione della gravità della situazione in cui versa l’impresa. E’, infatti, di tutta evidenza la progressiva afflittività che passa dalla misura del tutoraggio – in cui non vi è una diretta compromissione degli organi sociali di gestione dall’azienda – a quella della rinnovazione di tali organi, compulsata dal Prefetto ed attuata dalla stessa Azienda, fino ad arrivare alla misura più incisiva della gestione straordinaria e temporanea dell'impresa che attua, ancorché in via transitoria, un vero e proprio esproprio della governance aziendale. 13.1. E’, dunque, lo stesso recupero di una dimensione di sistema che impone di ravvisare un’unica trama nel pur articolato ventaglio di misure la cui logica non può che essere condivisa e che, nella sua dimensione minima, va individuata nell’esigenza di ripristinare un contesto di legalità in cui possano svilupparsi in maniera corretta e feconda le relazioni contrattuali in corso tra Amministrazione ed impresa. Non può, dunque, essere smarrita in nessuna delle dette misure tale finalistica lettura e ciò indipendentemente dal fatto che, rispetto ai meccanismi operativi, venga in rilievo una misura ad contractum (come nel caso del commissariamento) ovvero una misura che guarda (in modo più o meno incisivo) alla governance dell’azienda. 13.2. D’altro canto, proprio il necessario recupero di una visione di insieme consente di far emergere, nel dinamismo rinveniente dalla valorizzazione del principio di proporzionalità, una graduazione nella risposta correttiva non storicizzata al momento dell’applicazione della misura ma che costantemente deve informare l’intera gestione della fase di prevenzione. Tale sequenzialità in senso dinamico ed elastico dei possibili interventi è esplicitamente prevista alla lettera a) del comma 1 dell’articolo 32 cit. (quanto ai rapporti tra intimazione alla rinnovazione degli organi e straordinaria e temporanea gestione) ma deve ritenersi sottesa anche alla previsione del tutoraggio di guisa che il mancato recepimento delle prescrizioni operative impartite dagli esperti deve inevitabilmente condurre ad un innalzamento del livello di gravità della situazione da correggere con conseguente applicazione di una delle altre più penetranti misure (rinnovazione degli organi e straordinaria e temporanea gestione) rispetto alle quali non è in discussione il limite temporale della completa esecuzione del contratto. Nelle stesse linee guida ANAC del 15.7.2014 si evidenzia che, nel caso in cui l’impresa non si uniformi alle prescrizioni impartite dagli esperti, un simile atteggiamento può integrare i contorni di quelle anomalie che, in virtù del comma 1, legittimano l’adozione della più penetrante misura della straordinaria e temporanea gestione dell’impresa. 13.3. E’, dunque, l’inscindibilità sul piano funzionale dell’articolato sistema di misure che conferma il dato letterale del necessario ancoraggio alla vigenza di un rapporto contrattuale con i pubblici poteri, che costituisce la premessa ed il limite di esplicazione degli interventi qui in rilievo in un regime di “legalità controllata”. Lo sbocco finale del progressivo recupero alla legalità dell’impresa si risolve, dunque, in una forma di gestione separata e “a tempo” di un segmento dell’impresa con un orizzonte temporale contenuto nella durata massima del rapporto contrattuale in essere siccome commisurata alle esigenze connesse alla realizzazione dell’appalto pubblico oggetto del contratto. Ne discende che a tale dato temporale non possono non allinearsi tutte le altre e più contenute misure costituendo quel dato temporale e quell’esigenza il limite che – in coerenza con le premesse (come sopra già evidenziato) - giustifica la compressione dell’autonomia di impresa. 13.4. Opinare diversamente, e cioè svincolando il tutoraggio dalle altre due misure e dai limiti che ne segnano l’ambito operativo, renderebbe, da un lato, tale misura del tutto priva di un concreto orizzonte operativo non essendo rinvenibili altri limiti temporali e, per converso, dall’altro lato, ne risulterebbe fortemente compromessa l’effettività non essendo previste forme coercitive, dirette o indirette, idonee ad assicurare l’effettivo recepimento dei modelli operativi indicati dagli esperti, con l’effetto di vanificarne completamente l’utilità. 13.5. D’altro canto, nemmeno può essere sottaciuto che le misure in argomento incidono sui poteri di amministrazione e gestione dell’impresa, comprimendo la libertà di iniziativa economica, ed è, pertanto, evidente che le limitazioni che ne conseguono devono avere un saldo ancoraggio nella legge, dovendo questa, a sua volta, porsi come sintesi ragionevole di un armonioso bilanciamento di contrapposti, interessi, pubblici ed individuali, presidiati da garanzie costituzionali. 13.6. Ne discende che la latitudine operativa delle disposizioni in commento – ed in particolare i profili che attengono alla durata della misura, da ritenersi necessariamente limitata - non può che rigidamente coincidere con il perimetro delle corrispondenti previsioni di legge non essendo queste suscettive di interpretazione analogica o anche solo estensiva. 14. Né è di ostacolo la circostanza che nelle linee guida confezionate dall’ANAC si privilegi l’opposta opzione ermeneutica che svincola la misura qui in rilievo, anche per i profili che impingono nella durata, dalla efficacia del rapporto contrattuale di riferimento. E’, infatti, di tutta evidenza che le dette linee guida non sono vincolanti, tanto più che la disposizione qui in rilievo non reca alcuna specifica investitura di tipo regolamentare, valendo al più ad orientare in modo uniforme le Prefetture nell’interpretazione ed applicazione della normativa rinveniente dalla disposizione di rango primario (cfr. Cons. Stat., Sezione Consultiva per gli Atti Normativi, Numero 02189/2019 e data 29/07/2019). 15. In ragione di quanto fin qui evidenziato deve ritenersi, pertanto, corretta la statuizione di primo grado dal momento che il termine del contratto tra -OMISSIS- ed il Comune di Livorno risulta fissato al 31/12/2019, mentre, con il decreto prefettizio del 25/10/2019, è stato stabilito che la misura del sostegno e monitoraggio dovesse trovare applicazione per 6 mesi, ossia fino al 25/04/2020, vale a dire quasi 4 mesi dopo la fine del contratto. Le spese, in considerazione della novità della questione scrutinata, possono essere compensate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le persone private, fisiche e giuridiche, menzionate. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 18 febbraio 2021, svolta in modalità da remoto, con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Umberto Maiello, Consigliere, Estensore Franco Frattini, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Umberto Maiello, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Informativa antimafia – Misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio – Art. 32, comma 8, d.l. n. 90 del 2014 – Durata – In pendenza della durata del rapporto contrattuale con l’Amministrazione       La misura del sostegno e monitoraggio, individuata al comma 8 dell’art. 32, d.l. n. 90 del 2014, è agganciata alla durata del contratto cui si correla, siccome funzionale alla sua corretta gestione ed esecuzione, essendo la ratio sottesa di stabilire, nella pendenza del legame contrattuale con l’Amministrazione, le condizioni di piena legalità entro cui può e deve svilupparsi tale rapporto (1).      (1) L’art. 32, d.l. n. 90 del 2014 rispetto alle misure ispirate da finalità di anticorruzione, prevede tre tipologie di misure applicabili: la prima, di cui al comma 1, lett. a), consistente nella rinnovazione degli organi sociali, mira alla immediata sostituzione del soggetto coinvolto dalle indagini, la seconda di cui al comma 1, lett. b), consistente nella gestione straordinaria e temporanea dell'impresa, implica una gestione sostitutiva ed è finalizzata alla completa esecuzione della prestazione oggetto del rapporto contratto in relazione al quale sono emerse le fattispecie di reato o gli altri comportamenti illeciti; la terza, definita sostegno e monitoraggio, individuata al comma 8, di minore impatto persegue una finalità indubbiamente meno invasiva atteso che si risolve nella nomina di uno o più esperti i quali “… forniscono all’impresa prescrizioni operative, elaborate secondo riconosciuti indicatori e modelli di trasparenza, riferite agli ambiti organizzativi, al sistema di controllo interno e agli organi amministrativi di controllo”.  La misura del tutoraggio presuppone che le indagini penali pendenti coinvolgano “componenti di organi societari diversi”, intesi come componenti di organi societari non necessari (Cons. St., sez. III, 10 luglio 2020, n. 4406) ai quali, dunque, non è demandata la responsabilità dell’amministrazione dell’azienda e che, dunque, riflettono un minore livello di infiltrazione criminale nei meccanismi vitali dell’impresa.  ​​​​​L’efficacia delle suddette misure è agganciata alla durata del contratto cui si correla la singola misura siccome funzionali alla sua corretta gestione ed esecuzione. A tale approdo si giunge non solo in base al tenore letterale dell’art. 32 ma anche valorizzando, sulla scorta della giurisprudenza di questa Sezione formatasi in relazione alla misura del commissariamento (Cons. St., sez. III, 27 novembre 2017, n. 5568; id. 28 aprile 2016, n. 1630; id. 24 luglio 2015, n. 3653), la ratio sottesa al reticolo delle disposizioni argomento e che, a fronte di un'ipotesi di illecito penale che coinvolga un contratto pubblico, mira a coniugare le esigenze, da un lato, di evitare che si determinino soluzioni di continuità o difficoltà nella gestione del contratto che possano condurre a fattispecie di inadempimento contrattuale a danno dell'interesse pubblico e, dall'altro lato, di garantire che il contratto stesso sia gestito ed eseguito in modo conforme ai principi di legalità, trasparenza ed efficienza. D’altro canto, le stesse linee guida Anac, fin dalla loro prima versione del 15 luglio 2014, aggiornata in data 8 luglio 2020), indicano la ratio dell’intervento legislativo giustappunto nell’esigenza di fare in modo che, in presenza delle situazioni patologiche descritte dalla norma, “l’esecuzione del contratto pubblico non venga oltremodo a soffrire di tale situazione”, dal momento che “la prioritaria istanza a cui ha corrisposto il legislatore sembra essere quella di porre rimedio all’affievolimento dell’efficacia dei presidi legalitari da cui appaiono afflitte le procedure contrattuali, senza che ne risentano i tempi di esecuzione della commessa pubblica, finendo col coniugare, dunque, entrambe le descritte esigenze”. Nella detta prospettiva, il legislatore ha, dunque, introdotto misure di chiaro stampo cautelare che spaziano da interventi che incidono, più o meno direttamente, sulla governance (sostegno e monitoraggio ovvero rinnovo degli organi sociali) a misure ad contractum (commissariamento) che si risolvono nella gestione controllata del contratto. Nel caso del tutoraggio è pur vero che il beneficio della misura non ha un’immediata ricaduta sul contratto siccome volto a promuovere un percorso di revisione virtuosa dell’impresa attraverso l’introduzione di un presidio di esperti che, senza incidere sulla composizione ed i poteri degli organi di amministrazione, sono chiamati a riorientarne in senso lato la governance onde ricondurre la gestione complessiva dell’Azienda su binari di legalità e trasparenza con trasversale ricaduta sull’intero assetto organizzativo e gestionale dell’impresa. ​​​​​​​Pur tuttavia, tanto i presupposti giustificativi della misura, che le modalità di attuazione non possono che essere permeati dalla finalità di fondo, che è quella di assicurare, nella cornice temporale in cui è attivo un legame contrattuale con l’Amministrazione, le condizioni di piena legalità entro cui può e deve svilupparsi tale rapporto. È, dunque, proprio il perdurante legame che lega l’impresa all’Amministrazione che fonda e giustifica un intervento autoritativo finalizzato a ripristinare una cornice di necessaria legalità entro cui ineludibilmente dovrà svilupparsi tale rapporto. 
Informativa antimafia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/obbligo-di-riesame-su-istanza-del-privato-volta-a-sollecitare-l-autotutela
Obbligo di riesame su istanza del privato volta a sollecitare l’autotutela
N. 02564/2022REG.PROV.COLL. N. 08238/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA ex art. 74 cod. proc. amm.;sul ricorso numero di registro generale 8238 del 2021, proposto da -OMISSIS-, -OMISSIS-, -OMISSIS-, rappresentati e difesi dall'avvocato Benedetto Migliaccio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero della Cultura, Soprintendenza Archeologica Belle Arti Area Metropolitana di Napoli, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato legale, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; nei confronti Comune di Vico Equense, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Sesta) n. -OMISSIS-/2021, resa tra le parti, concernente l’accertamento e la conseguente dichiarazione di illegittimità del silenzio mantenuto dall' Amministrazione in relazione all' istanza presentata dai ricorrenti il 15.7.2020 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Cultura in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12; Vista la impugnata ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo regionale di reiezione della domanda cautelare presentata dalla parte ricorrente in primo grado; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 31 marzo 2022 il Cons. Riccardo Carpino e udito, per le parti, l’Avvocatura generale dello Stato come specificato nel verbale; La controversia origina da una richiesta di condono (prot. n. 6353 del 1° marzo 1995) presentata, ai sensi della l. n. 724/1994, dal dante causa dei ricorrenti relativa alla realizzazione di un fabbricato per civile abitazione su due livelli sito in Vico Equense,-OMISSIS-. Sulla detta istanza la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Napoli ha espresso parere negativo (prot. n. 5359 - P del 20 aprile 2020, in quanto “l’intervento ricade in "zona 1b" (tutela dell’ambiente naturale di 2° grado) del P.U.T. e in "zona A2" (zona di rilevante interesse ambientale) del P.R.G. comunale”. Nella nota prot. n. 17973 del 26 novembre 2019, della citata Sovrintendenza, ex articolo 10-bis l. 241/1990, si rilevava che: - “ai sensi dell’art. 33 della L.47/85 e s.m.i. non sono suscettibili di sanatoria le opere di cui all’art. 1 della suddetta legge [che] siano in contrasto con i vincoli imposti da leggi statali e regionali nonché dagli strumenti urbanistici di tutela di interessi paesaggistici e ambientali qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima delle opere stesse”; - “l’intervento contrasta con le caratteristiche paesaggistiche del sito protetto, in quanto in contrasto con il vincolo di inedificabilità sia pubblica che privata, esistente per la "zona territoriale 1b" (tutela dell’ambiente naturale di 2° grado) L.R. 35/87 (P.U.T.)”. Con nota del 17 giugno 2020, trasmessa rispettivamente il 15 e 17 luglio 2020 alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Napoli ed al Comune di Vico Equense, i ricorrenti hanno chiesto “di accertare in autotutela e dichiarare l’illegittimità, la nullità e, comunque annullare il parere negativo vincolante in relazione al chiesto rilascio dell’autorizzazione paesaggistica protocollo n. 5359 - P del 20 aprile 2020”, facendo rilevare che: - la Soprintendenza avrebbe erroneamente collocato il fabbricato in “zona A2 di PRG in luogo di 1b di PRG”; che il vincolo d’inedificabilità previsto dal PUT in zona 1b non sarebbe assoluto ma relativo; - sarebbero state violate le loro garanzie di partecipazione procedimentale per non avere la Soprintendenza tenuto conto delle osservazioni trasmesse in riscontro al preavviso di parere negativo, con nota del 20 dicembre 2019. Nella citata nota del 17 giugno 2020 le parti ricorrenti hanno anche chiesto di essere preventivamente sentite “per la disamina partecipata del complesso caso di specie e per evitare che ulteriori ripetizioni di errori e gravi disparità di trattamento debbano condurre a costose e defatiganti iniziative giudiziarie”. In mancanza di riscontro alla predetta istanza di annullamento in autotutela, i ricorrenti hanno adito il Tar Campania avverso il silenzio serbato dall’Amministrazione. Il Tar Campania, sez. VII, del 23 agosto 2021, n. 5565/2021 ha respinto il ricorso sulla scorta di un consolidato indirizzo giurisprudenziale, ivi richiamato, cui in questa fase il Consiglio non ritiene di discostarsi. Va in primo luogo rilevato che non sussiste alcun obbligo per l'amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta a ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile dall'esterno l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell'atto amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto (ex multis Cons. Stato, Sent. IV, 4 novembre 2020, n. 6809). Ciò discende dalla inconfigurabilità di un obbligo della p.a. di provvedere a fronte di istanze di riesame di atti sfavorevoli precedentemente emanati, conseguente alla natura officiosa e ampiamente discrezionale - soprattutto nell’an - del potere di autotutela ed al fatto che, rispetto all’esercizio di tale potere, il privato può avanzare solo mere sollecitazioni o segnalazioni prive di valore giuridicamente cogente (Cons. Stato, Sent. IV, 9 luglio 2020, n. 4405). La proposizione dell’esercizio dei poteri di autotutela non è, di per sé, in grado di generare, un obbligo giuridico di provvedere, il cui inadempimento possa legittimare l’attivazione delle tutele avverso i rifiuti, le inerzie o i silenzi antigiuridici; questo principio trova non solo conferma testuale nella lettera dell’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 che prefigura l'iniziativa di annullamento dell’atto in termini di mera “possibilità”, ma si giustifica, alla luce delle esigenze di certezza delle situazioni giuridiche e della correlata regola di inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, non tempestivamente contestati (Cons. Stato, Sent. V, 24 settembre 2019, n. 6420). Parte appellante fonda, peraltro, una parte delle censure, sulle ipotesi individuate dalla giurisprudenza di doverosità dell’autotutela, nelle quali sussistono specifiche ragioni di giustizia ed equità che impongano l'adozione di un provvedimento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 14 maggio 2010, n. 3024; sez.VI, 11 maggio 2007, n. 2318; sez. VI, 9 gennaio 2020 n. 183); in particolare ritiene sussistente l’obbligo di procedere in sede di autotutela sulla scorta della ritenuta erroneità della collocazione dell’immobile ad opera della Sovrintendenza. Va però evidenziato che un richiamo generalizzato alle esigenze di giustizia ed equità per ritenere doverosa l’autotutela, come quello ora proposto da parte ricorrente, comporterebbe l’introduzione di un ulteriore rimedio - giustificabile in casi particolari ove sussistano conclamate esigenze di giustizia di regola normativamente determinati ( CdS VI n. 8920 del 2019 secondo cui i casi normativi definiti d'autotutela doverosa, tra cui quello della decadenza ex tunc del beneficio qual conseguenza del generale principio contenuto nell'art. 75 d.P.R. n. 445/2000 - in base al quale, ove emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione secondo una valutazione autonoma della p.A., il dichiarante decade dai benefici conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera - non sono affatto “eccezioni” alla regola “generale” ex art. 21-novies della l. 241/1990, ma costituiscono forme ben definite d'autotutela doverosa poste a garanzia di supremi valori ed interessi dell'ordinamento contro la consolidazione degli effetti d'un atto illegittimo ed ingiusto e non tempestivamente revocato o annullato, tant'è che l'art. 21-nonies, comma 2-bis, recato dalla novella ex art. 6, comma 1, lett. d), n. 2) della l. 7 agosto 2015 n. 124, ha fatto salve, tra le altre, le sanzioni previste dal capo VI del d.P.R. n. 445/2000, tra cui, appunto, quelle dettate dall'art. 75; ne consegue che sussiste in capo alla p.A. l'obbligo di provvedere a fronte di un'istanza di un terzo diretta all'applicazione del citato art. 75 (fattispecie relativa ad un'istanza con la quale si chiedeva alla p.A. di esercitare l'autotutela doverosa su un permesso di costruire rilasciato sulla base di una falsa dichiarazione della realtà con conseguente applicazione dell'art. 75 d.P.R. n. 445/2000). - rispetto al sistema di impugnativa degli atti ledendo il principio di inoppugnabilità degli stessi e quindi la definizione delle controversie. A riprova dell’eccezionalità del richiamo alle esigenze di giustizia che giustificano l'esistenza di un obbligo di esame dell’istanza di autotutela va rilevato come nella fattispecie esaminata dalla più recente giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. VI, sent.n. 183/2020) si ha riguardo ad ipotesi con “tratti di peculiarità che giustificano la non operatività del principio generale della insussistenza di un obbligo di provvedere sulla domanda di ritiro in autotutela di un precedente provvedimento adottato dall'amministrazione”; nello specifico si trattava di un ordine di demolizione, adottato dal Comune sul presupposto di una sentenza di condanna penale risultando al contempo pendente, in detta sede, incidente di esecuzione diretto alla revoca del medesimo. Appare evidente come invece, nell’ipotesi oggetto del presente gravame, manchi una peculiarità tale da giustificare una deroga al principio della insussistenza dell’obbligo di provvedere sulla domanda di ritiro in autotutela; piuttosto trattasi della prospettazione di “ordinari” vizi relativi alla ritenuta erronea collocazione dell’immobile ed al mancato richiamo nel provvedimento di diniego alle osservazioni proposte, ex art. 10 bis l. 241/1990, da far valere eventualmente con gli ordinari strumenti di tutela e non da esaminare in questa sede. Va quindi ribadito l’insegnamento secondo cui per la consolidata giurisprudenza l'amministrazione non ha l'obbligo di pronunciarsi in maniera esplicita su un istanza diretta a sollecitare l'esercizio del potere di autotutela (che costituisce una manifestazione tipica della discrezionalità amministrativa, di cui è titolare in via esclusiva l'amministrazione per la tutela dell'interesse pubblico) e che il potere di autotutela è incoercibile dall'esterno attraverso l'istituto del silenzio-inadempimento ai sensi dell'art. 117 c.p.a. (cfr. ex multis, Cons. di Stato, V, 4 maggio 2015, n. 2237; Cons. Stato, sez. IV, 26 agosto 2014, n. 4309; 7 luglio 2014, n. 3426; 24 settembre 2013, n. 4714; Sez. IV, 22 gennaio 2013, n. 355; sez. V, 3 ottobre 2012, n. 5199; sez. VI, 9 luglio 2013, n. 3634) salvo i casi normativamente stabiliti di autotutela doverosa e casi particolari legati ad esigenze conclamate di giustizia. Per i motivi sin qui evidenziati il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, rigetta. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Condanna l’appellante al pagamento, in favore della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Napoli, delle spese di giudizio, che liquida in complessivi €.2.500,00#(euro duemilacinquecento/00#), oltre accessori come per legge. Nulla per le spese nei confronti del Comune di Vico Equense, non costituito in giudizio. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 31 marzo 2022 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Silvestro Maria Russo, Consigliere Dario Simeoli, Consigliere Stefano Toschei, Consigliere Riccardo Carpino, Consigliere, Estensore Giancarlo Montedoro, Presidente Silvestro Maria Russo, Consigliere Dario Simeoli, Consigliere Stefano Toschei, Consigliere Riccardo Carpino, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Annullamento d’ufficio e revoca - Annullamento d’ufficio – Su istanza del privato - Riesame - Obbligo – Quando sussiste.         In via generale non sussiste un obbligo di riesame su istanza del privato volta a sollecitare l’autotutela, salvo eccezionali casi di autotutela doverosa per espressa disposizione di legge o per conclamate e rilevanti esigenze di equità e giustizia (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che tale conclusione discende dalla inconfigurabilità di un obbligo della p.a. di provvedere a fronte di istanze di riesame di atti sfavorevoli precedentemente emanati, conseguente alla natura officiosa e ampiamente discrezionale - soprattutto nell’an - del potere di autotutela ed al fatto che, rispetto all’esercizio di tale potere, il privato può avanzare solo mere sollecitazioni o segnalazioni prive di valore giuridicamente cogente (Cons. Stato, sez. IV, 9 luglio 2020, n. 4405). La proposizione dell’esercizio dei poteri di autotutela non è, di per sé, in grado di generare, un obbligo giuridico di provvedere, il cui inadempimento possa legittimare l’attivazione delle tutele avverso i rifiuti, le inerzie o i silenzi antigiuridici; questo principio trova non solo conferma testuale nella lettera dell’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 che prefigura l'iniziativa di annullamento dell’atto in termini di mera “possibilità”, ma si giustifica, alla luce delle esigenze di certezza delle situazioni giuridiche e della correlata regola di inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, non tempestivamente contestati (Cons. Stato, sez. V, 24 settembre 2019, n. 6420).  Ha aggiunto la Sezione che un richiamo generalizzato alle esigenze di giustizia ed equità per ritenere doverosa l’autotutela, come quello ora proposto da parte ricorrente, comporterebbe l’introduzione di un ulteriore rimedio - giustificabile in casi particolari ove sussistano conclamate esigenze di giustizia di regola normativamente determinati - rispetto al sistema di impugnativa degli atti ledendo il principio di inoppugnabilità degli stessi e quindi la definizione delle controversie.    A riprova dell’eccezionalità del richiamo alle esigenze di giustizia che giustificano l'esistenza di un obbligo di esame dell’istanza di autotutela va rilevato come nella fattispecie esaminata dalla più recente giurisprudenza (Cons.Stato, sez. VI,.n. 183 del 2020) si ha riguardo ad ipotesi con “tratti di peculiarità che giustificano la non operatività del principio generale della insussistenza di un obbligo di provvedere sulla domanda di ritiro in autotutela di un precedente provvedimento adottato dall'amministrazione”; nello specifico si trattava di un ordine di demolizione, adottato dal Comune sul presupposto di una sentenza di condanna penale risultando al contempo pendente, in detta sede, incidente di esecuzione diretto alla revoca del medesimo   
Annullamento d’ufficio e revoca
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/alla-corte-di-giustizia-ue-alcune-questioni-sugli-impianti-di-produzione-di-elettricit-c3-a0-e-sulle-assegnazioni-di-quote-co2
Alla Corte di Giustizia Ue alcune questioni sugli impianti di produzione di elettricità e sulle assegnazioni di quote CO2
N. 00827/2022 REG.PROV.COLL. N. 06397/2021 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Bis) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 6397 del 2021, proposto da Fenice Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Riccardo Montanaro, Laura Ferrua Magliani, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comitato Nazionale per la Gestione della Direttiva 2003/87/Ce e per il Supporto Gest_ Attiv_Progetto Kyoto, Ministero dello Sviluppo Economico, non costituiti in giudizio; Ministero della Transizione Ecologica, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; nei confronti Hera Spa, Fca Italy Spa, non costituiti in giudizio; Fca Italy S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Claudio Vivani, Francesca Triveri, Silvia Giani, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l'annullamento - della Deliberazione n. 42/2021, emanata dal COMITATO Nazionale per la Gestione della Direttiva 2003/87/CE e per il Supporto nella Gestione delle Attività di Progetto del Protocollo di Kyoto, pubblicata in data 12 aprile 2021, avente ad oggetto “Aggiornamento della tabella nazionale di allocazione di cui all'articolo 11 della direttiva 2003/87/CE come modificato dalla Direttiva 2018/410/UE di cui alla Delibera 143/2019”, nella parte in cui non attribuisce alcuna quota gratuita di emissione all'impianto autorizzato di Mirafiori (aut. n. 26); - della nota trasmessa a mezzo pec dal Comitato ETS in data 21 ottobre 2020, relativa all'impianto Mirafiori autorizzazione n. 26; nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e conseguente. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Transizione Ecologica e della Fca Italy S.p.A.; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 dicembre 2021 il dott. Salvatore Gatto Costantino e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; L’oggetto del procedimento principale e i fatti pertinenti Con il ricorso in epigrafe la società Fenice – Qualità per l’ambiente S.p.a., ha chiesto al Tribunale di annullare la deliberazione del Comitato Nazionale per la Gestione della Direttiva 2003/87/CE e per il Supporto nella Gestione delle Attività di Progetto del Protocollo di Kyoto, prot. n. 42/2021 del 12 aprile 2021, pubblicata sul sito del Ministero della Transizione Ecologica in data 12 aprile 2021, nella parte in cui, con riferimento al quinquennio 2021-2025 (cd. Fase 4) assegna 0 (zero) quote di emissione a titolo gratuito, con riferimento all’impianto di Mirafiori (IT000000000000023), oggetto di autorizzazione n. 26, ivi compresa la nota del Comitato ETS del 21 ottobre 2020, nonché di ogni altro atto presupposto, conseguente e comunque connesso. La FENICE – Qualità per l’ambiente S.p.a., società operante nel settore delle attività ambientali e delle energie alternative, premesso di gestire tra impianti con potenza termica nominale totale superiore a 20 MW a servizio di impianti industriali di terzi, tra i quali quello sopra indicato, ha rappresentato che: a) l’impianto in argomento rientra nell’ambito di applicazione di tale sistema ETS di cui alla direttiva 2003/87/CE, come modificata dalla direttiva 2009/29/UE e, più recentemente, dalla direttiva 2018/410/UE (la “Direttiva ETS”), recepita nel nostro ordinamento dal D.lgs. 9 giugno 2020, n. 47 (il “D.lgs. 47/2020”); b) nel mese di giugno 2019, in qualità di gestore del detto impianto, in quanto partecipante all’EU ETS, la società ha trasmesso al Comitato la documentazione inerente alla richiesta di assegnazione di quote gratuite di emissione con riferimento alla quarta fase (2021-2025), utilizzando il portale AGES e compilando il modello NIMS (National Implementation Measures) in cui sono stati inseriti i dati sull’andamento storico delle emissioni e delle attività per l’impianto autorizzato, in particolare rispetto al periodo 2014-2018. Il sistema ha quindi generato automaticamente, sulla base dei detti dati, una simulazione delle quote gratuite spettanti che prevedeva l’assegnazione all’impianto “Mirafiori” di una certa quantità di queste quote; c) nel corso della procedura, nel mese di marzo 2020, sono pervenute alla ricorrente, direttamente dalla Commissione Europea, richieste di chiarimenti, tramite questionario da compilare sul portale AGES, con le quali si richiedeva di specificare se l’impianto in questione, essendo stato qualificato come produttore di energia elettrica, fosse cogenerativo ad alto rendimento (High Efficiency CHP) secondo la Direttiva 2012/27/EU. La società provvedeva, quindi, a riscontrare tali richieste dichiarando che il sito Mirafiori non è, allo stato attuale, cogenerativo ad alto rendimento; e) con mail del 26 maggio 2020, la Commissione europea ha rilevato che secondo l’elenco all’uopo previsto (“the NIMs list”), l’impianto in questione è un generatore di elettricità, con richiesta, dunque, di confermare se l’impianto è dotato di cogenerazione ad alto rendimento (HE CHP) come definito dalla Direttiva 2012/27/EU. Ai sensi dell'articolo 10 bis, paragrafo 4, della direttiva ETS dell'UE, l'assegnazione può essere riconosciuta; in assenza di HE CHP, la Commissione ha evidenziato la necessità di rimuovere l’impianto dalla NIMs list (“If there is no HE CHP, please remove this installation's allocation from the NIMs List”). Tale indicazione è stata trasmessa dal Comitato ETS alla società, la quale, nel fornire riscontro, ha precisato che il sito di Mirafiori è in realtà costituito da una pluralità di fonti di combustione diverse dalla cogenerazione, con conseguente spettanza dell’assegnazione di quote gratuite all’impianto nel suo complesso; f) la società ricorrente ha specificato in giudizio che nell’impianto di Mirafiori esistono una pluralità di fonti di energia termica diverse dalla cogenerazione che, come tali, dovrebbero beneficiare dell’assegnazione delle rispettive quote, essendo la componente di produzione di energia elettrica assolutamente marginale e comunque scorporabile dalle altre fonti di combustione. La ricorrente precisa che attualmente l’unico impianto di produzione di energia elettrica presente e attivo sul sito produttivo risulta essere una turbina a vapore per la quale non è stata richiesta da Fenice la qualifica CAR secondo il DM 4 agosto 2011. La centrale termoelettrica utilizza come combustibile solo gas naturale ed ha una potenzialità termica pari a 382, 1 MWt ed una elettrica pari a 59,86 MWe. L’impianto ha goduto nella terza fase (periodo 2013-2020) della assegnazione di quote a titolo gratuito; g) successivamente agli approfondimenti svolti ed alle ulteriori interlocuzioni intercorse, il Comitato ETS, con nota endoprocedimentale trasmessa a mezzo p.e.c. in data 21 ottobre 2020, ha comunicato alla società l’esito dell’istruttoria condotta in accordo con la Commissione Europea, riferendo che l’impianto in questione si qualificherebbe dunque come “produttore di elettricità” e, pertanto, non sarebbe idoneo a beneficiare delle quote di emissione a titolo gratuito; f) il Comitato ETS, con la deliberazione prot. n. 42/2021 del 12 aprile 2021 (la “Deliberazione”) ha aggiornato la tabella nazionale di cui all’art. 11 della Direttiva ETS e non ha attribuito nessuna quota di emissione all’impianto “Centrale termoelettrica Mirafiori”. Alla luce dei suddetti fatti la ricorrente ha lamentato di essere rimasta ingiustamente non assegnataria di alcuna quota di emissione e contro l’atto ha, quindi, dedotto i seguenti motivi di ricorso: 1) Violazione ed erronea applicazione di leggi e norme regolamentari: art. 3 Legge 241/1990. Eccesso di potere per errore e difetto dei presupposti, travisamento, difetto ed errore di motivazione, contraddittorietà. Ingiustizia manifesta; 2) Violazione ed erronea applicazione di leggi e norme regolamentari: art. 10 bis Legge 241/1990. Eccesso di potere per errore e difetto dei presupposti, travisamento, difetto ed errore di motivazione, contraddittorietà. Ingiustizia manifesta; 3) Violazione ed erronea applicazione di leggi e norme regolamentari: art. 97 Costituzione; art. 11 Preleggi. Eccesso di potere per errore e difetto dei presupposti, travisamento, difetto ed errore di motivazione, contraddittorietà. Ingiustizia manifesta. 4) Violazione ed erronea applicazione di leggi e norme regolamentari: Direttiva 2003/87/CE; Direttiva 2018/410/UE; D.Lgs. 9 giugno 2020, n. 47. Eccesso di potere per errore e difetto dei presupposti, travisamento, difetto ed errore di motivazione, contraddittorietà. Ingiustizia manifesta.. Il Ministero della Transizione Ecologica si è costituito in giudizio, chiedendo il rigetto del ricorso, in quanto infondato, deducendo circa l’infondatezza delle censure di difetto di motivazione e violazione delle garanzie di giusto procedimento; evidenzia, in particolare, che la società ricorrente avrebbe partecipato attivamente alla raccolta dati che ha preceduto la deliberazione di esclusione; quest’ultima sarebbe scaturita da valutazioni della Commissione, rispetto alle quali la decisione del CTS sarebbe meramente vincolata; nel merito, non sussisterebbero i presupposti per l’assegnazione di quote gratuite, attesa la circostanza che l’impianto di cui trattasi non rientra nelle ipotesi eccezionali in cui è possibile riconoscere tali quote ad impianti di produzione di energia elettrica come meglio definiti dalla giurisprudenza dell’Unione. Nel corso della Camera di Consiglio del 20 luglio 2021 il Tribunale ha sollevato d’ufficio un possibile profilo di inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione, ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a. e, il giorno seguente, ha emesso l’ordinanza cautelare n. 8749/2021 con cui ha assegnato alle parti un termine di venti giorni per articolare le proprie deduzioni. Le parti hanno ottemperato alla suddetta ordinanza, concludendo la ricorrente circa la sussistenza della giurisdizione amministrativa, mentre il Ministero della Transizione Ecologica ha sostenuto il difetto di giurisdizione. Con ordinanza n. 4895 del 9 settembre 2021, emessa in esito alla camera di consiglio celebrata in data 8 settembre 2021, il Tribunale ha fissato la data dell’udienza pubblica del 17 dicembre 2021 per la definizione del giudizio, ordinando al Ministero resistente “la produzione delle note trasmesse dalla Commissione UE al Comitato ETS e di tutte le interlocuzioni intercorse tra tali organi, incluso l’elenco di cui all’art. 11, par.1, comma 1 della direttiva (UE) 2018/410”. In data 11 ottobre 2021 il Ministero resistente ha prodotto documentazione in adempimento della sopra indicata ordinanza. Si è costituita in giudizio anche la società FCA Italy spa, in qualità di cointeressata, concludendo per l’accoglimento del ricorso, in adesione alle deduzioni articolate dalla società Fenice – Qualità per l’ambiente S.p.a.. All’udienza pubblica del 17.12.2021 la causa è stata, infine, trattenuta in decisione. La normativa di riferimento Il sistema di scambio di quote di emissione dell’UE (European Union Emissions Trading Scheme - UE ETS) è una delle pietre angolari su cui si fonda la politica dell'UE per contrastare i cambiamenti climatici e uno strumento essenziale per ridurre in maniera economicamente efficiente le emissioni di gas a effetto serra. È il primo mercato mondiale della CO2 e continua a essere il più esteso. Tale sistema, attivo in 31 Paesi (i 28 dell'UE, più l'Islanda, il Liechtenstein e la Norvegia) coinvolge le emissioni prodotte da oltre 11.000 impianti ad alto consumo di energia (centrali energetiche e impianti industriali) e dalle compagnie aeree che collegano tali Paesi e circa il 45% delle emissioni di gas a effetto serra dell'UE ed opera secondo il principio della limitazione e dello scambio delle emissioni. Viene fissato un tetto alla quantità totale di alcuni gas serra che possono essere emessi dagli impianti che rientrano nel sistema e questo tetto si riduce nel tempo di modo che le emissioni totali diminuiscano. Entro questo limite, le imprese ricevono o acquistano quote di emissione che, se necessario, possono scambiare. Le imprese possono anche acquistare quantità limitate di crediti internazionali da progetti di riduzione delle emissioni di tutto il mondo. La limitazione del numero totale garantisce che le quote disponibili abbiano un valore. Alla fine di ogni anno le società devono restituire un numero di quote sufficiente a coprire le loro emissioni se non vogliono subire pesanti multe. Se un’impresa riduce le proprie emissioni, può mantenere le quote inutilizzate per coprire il fabbisogno futuro, oppure venderle a un’altra impresa che ne sia a corto. Lo scambio crea flessibilità e garantisce che le riduzioni delle emissioni avvengano quando sono più convenienti. Un solido prezzo della CO2 favorisce inoltre gli investimenti in tecnologie pulite e a basso rilascio di CO2. La Direttiva 2003/87/CE (Direttiva ETS – successivamente modificata dalla direttiva 2009/29/CE e, da ultimo, dalla direttiva 2018/410/UE), che è la base del sistema ETS prevede, quindi, che dal 1° gennaio 2005 gli impianti grandi emettitori dell’Unione Europa non possano funzionare senza un’autorizzazione alle emissioni di gas serra. Ogni impianto autorizzato deve compensare annualmente le proprie emissioni con quote (European Union Allowances – EUA, equivalenti a 1 tonnellata di CO2eq) che possono, come detto, essere comprate e vendute dai singoli operatori interessati. Gli impianti possono acquistare le quote nell’ambito di aste pubbliche europee o riceverne a titolo gratuito. In alternativa, possono approvvigionarsene sul mercato. La Direttiva ETS stabilisce che dal 2013 gli impianti di produzione di energia elettrica e gli impianti che svolgono attività di cattura, trasporto e stoccaggio del carbonio (CCS) devono approvvigionarsi all’asta di quote per l’intero del proprio fabbisogno (assegnazione a titolo oneroso). Al contrario, gli impianti afferenti i settori manifatturieri hanno diritto all'assegnazione a titolo gratuito, sulla base del loro livello di attività e di standard di riferimento (benchmark) elaborati dalla Commissione europea e validi a livello europeo. I settori ad elevato rischio di carbon leakage, ossia esposti al rischio delocalizzazione a causa dei costi del carbonio verso paesi con politiche ambientali meno rigorose, beneficiano di un’assegnazione di quote a titolo gratuito pari al 100% del proprio benchmark di riferimento. L’articolo 10 bis, paragrafo 6, della direttiva ETS prevede che gli Stati membri possano adottare “misure finanziarie a favore di settori o sottosettori considerati esposti a un rischio elevato di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio a causa dei costi connessi alle emissioni di gas a effetto serra trasferiti sui prezzi dell’energia elettrica, al fine di compensare tali costi e ove tali misure finanziarie siano conformi alle norme sugli aiuti di Stato applicabili e da adottare in tale ambito”. Tali norme sono pubblicate sulla Gazzetta ufficiale dell'Unione europea n. 158 del 5 giugno 2012. In Italia, col decreto legislativo n. 216/2006 e successivamente col decreto legislativo n. 30/2013 il Comitato Nazionale per la gestione della direttiva 2003/87/CE e per la gestione delle attività di progetto del Protocollo di Kyoto (Comitato ETS) è stato individuato come l’Autorità nazionale competente per l’attuazione dell’ETS. Il Comitato ETS è un organo interministeriale presieduto dal Ministero dell’Ambiente e partecipato dai Ministeri dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture. Tra le altre funzioni, il Comitato ETS determina il quantitativo annuo di quote da assegnare a titolo gratuito ai gestori eleggibili conformemente alle norme unionali, con particolare riferimento alle regole per l’assegnazione gratuita delle quote (art. 24 D.lgs. 47/2020). Il Comitato ETS, in quanto autorità nazionale preposta all’attuazione della direttiva europea 2003/87/CE e della successiva Direttiva 2018/410 è dotato di compiti istruttori e decisionali (cfr. artt. 4 e ss., D.lgs. 47/2020). Al riguardo, si rammenta che i membri del Comitato ETS sono scelti, ai sensi dell’art. 4, comma 3, del D.lgs. 47/2020, “tra persone di elevata qualifica professionale e comprovata esperienza nei settori interessati dal presente decreto”. Inoltre, ai sensi dell’art. 4, comma 6, del vigente D.lgs. 47/2020, proprio al fine di espletare una corretta attività istruttoria preliminare (prima di emettere le deliberazioni definitive sugli impianti fissi), è stata istituita un’apposita “Segreteria tecnica”, composta da cinque funzionari del Ministero della Transizione Ecologica, aventi competenze di settore tali da poter gestire le complessità e le criticità del sistema ETS. Il Comitato cura l’inoltro alla Commissione EU dell’apposito elenco di cui all’art. 11, paragrafo 1, della direttiva 2003/87/CE. L'elenco di cui al paragrafo 1 contiene le seguenti informazioni per ciascun impianto esistente che richiede l'assegnazione gratuita di quote: a) l'identificativo dell'impianto e dei suoi limiti, utilizzando il codice identificativo dell'impianto del catalogo delle operazioni dell'Unione europea (EUTL); b) informazioni sulle attività e informazioni sull'ammissibilità per l'assegnazione gratuita; c) l'identificativo di ogni sottoimpianto dell'impianto; d) per ogni sottoimpianto, il livello annuale di attività e le emissioni annue in ogni anno del periodo di riferimento pertinente; e) per ogni sottoimpianto, informazioni che consentano di stabilire se appartiene ad un settore o sottosettore ritenuto esposto a un rischio elevato di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio in conformità all'articolo 10 ter, paragrafo 5, della direttiva 2003/87/CE, compresi i codici PRODCOM dei prodotti che vi vengono prodotti, se del caso; f) per ogni sottoimpianto, i dati comunicati in conformità dell'allegato IV. Non appena ricevuto l'elenco di cui al paragrafo 1, la Commissione esamina l'inclusione di ogni impianto nell'elenco e i relativi dati comunicati in conformità del paragrafo e, qualora la Commissione non rifiuti l'inclusione dell'impianto nell'elenco, i dati sono usati per il calcolo dei valori riveduti dei parametri di riferimento di cui all'articolo 10 bis, paragrafo 2, della direttiva 2003/87/CE. Su richiesta, ogni Stato membro mette a disposizione della Commissione le relazioni ricevute contenenti i dati relativi all'impianto e ai suoi sottoimpianti e le relazioni di verifica. Il sistema ETS UE ha dimostrato che fissare un prezzo per la CO2 e scambiarla può funzionare: le emissioni degli impianti che partecipano al sistema stanno diminuendo come auspicato, di poco più del 5% rispetto all'inizio della fase 3 (2013-2020). Nel 2020 le emissioni dei settori disciplinati dal sistema saranno inferiori del 21% rispetto al 2005. Il sistema riguarda i seguenti settori e gas e presta particolare attenzione alle emissioni delle quali è possibile effettuare misurazioni, relazioni e verifiche con un elevato grado di precisione: • anidride carbonica (CO2) derivante da ◦produzione di energia elettrica e di calore ◦settori industriali ad alta intensità energetica, comprese raffinerie di petrolio, acciaierie e produzione di ferro, metalli, alluminio, cemento, calce, vetro, ceramica, pasta di legno, carta, cartone, acidi e prodotti chimici organici su larga scala ◦aviazione civile •ossido di azoto (N2O) derivante dalla produzione di acido nitrico, adipico e gliossilico e gliossale •perfluorocarburi (PFC) derivanti dalla produzione di alluminio. La partecipazione all'ETS UE è obbligatoria per le imprese che operano in questi settori, ma: •in alcuni settori sono inclusi soltanto gli impianti al di sopra di una certa dimensione; •alcuni impianti di dimensioni ridotte possono essere esclusi qualora le amministrazioni mettano in atto misure fiscali o di altro genere che ne riducano le emissioni di un quantitativo equivalente; •nel settore dell’aviazione, fino al 31 dicembre 2023 il sistema ETS UE si applica unicamente ai voli tra aeroporti situati nello Spazio economico europeo (SEE). Con riferimento al periodo in corso (di seguito anche “quarta fase ETS”), che copre gli anni dal 2021 al 2030, le interazioni tra la Commissione, gli Stati membri e gli operatori economici coinvolti, finalizzate a raccogliere le informazioni utili a determinare i soggetti beneficiari di assegnazione e il quantitativo di quote gratuitamente assegnate a ciascuno di essi (procedimento noto come “raccolta dati”), sono iniziate nella prima metà del 2019. Le informazioni richieste agli impianti ricadenti nel campo di applicazione della direttiva, nonché le modalità e le procedure di invio dei dati alla Commissione da parte degli Stati membri (tramite le rispettive autorità nazionali competenti, che per l’Italia è il Comitato ETS), sono previste dal Regolamento delegato (UE) 2019/331 della Commissione del 19 dicembre 2018. L’articolo 14 del Regolamento (recante “Misure nazionali di attuazione”) individua i seguenti passaggi, necessari per la predisposizione dell’elenco degli operatori beneficiari di assegnazione gratuita: - l’autorità nazionale competente presenta alla Commissione un elenco mediante modello elettronico predefinito, contenente tutte le principali informazioni relative agli impianti sottoposti (elementi identificativi, descrizione delle attività, livelli di attività per ogni sottoimpianto, emissioni annue nel periodo di riferimento, codici prodcom per ogni prodotto, par. 2); - l’elenco viene sottoposto a controlli di completezza e coerenza da parte della Commissione e, dopo eventuali revisioni ed esclusioni, viene usato per definire i quantitativi annuali preliminari di quote gratuite per ciascun impianto. L’oggetto della controversia La società, alla quale non è stata assegnata alcuna quota gratuita, ritiene che tale circostanza sia dipesa dall’errata considerazione della peculiare situazione di fatto in cui si trova l’impianto termoelettrico gestito da Fenice. L’art. 10 bis, comma 3 della Dir. 2003/87/CE sarebbe stato erroneamente applicato all’impianto di Fenice sulla base di un’erronea interpretazione della sentenza della Corte di Giustizia del 20 giugno 2019, causa C-682/17 nella quale è stata fornita l’interpretazione della nozione di “impianto di produzione di elettricità”, che si concretizza nella immissione “in modo continuativo, dietro corrispettivo, nella rete elettrica pubblica una parte, seppur esigua, dell’energia elettrica generate”. L’impianto di cui alla presente fattispecie non potrebbe essere considerato come “produttore di elettricità” nel senso reso esplicito dalla sentenza della Corte di Giustizia del 20 giugno 2019, causa C 682/17, poiché quest’ultima non ha preso in esame lo specifico caso di impianti (come quello d’interesse) nei quali sono compresenti più fonti. Infatti, la società evidenzia che nella centrale termoelettrica di Mirafiori (autorizzazione n. 26) erano presenti, storicamente, diversi impianti di cogenerazione, ora dismessi, di cui alcuni considerati ad alto rendimento. Attualmente l’unico impianto di produzione di energia elettrica presente e attivo sul sito produttivo risulta essere una turbina a vapore per la quale non è stata richiesta da Fenice la qualifica CAR secondo il DM 4 agosto 2011. La centrale termoelettrica utilizza come combustibile solo gas naturale ed ha una potenzialità termica pari a 382, 1 MWt ed una elettrica pari a 59,86 MWe. L’impianto ha goduto nella terza fase (periodo 2013-2020) della assegnazione di quote a titolo gratuito. La Commissione Europea e il Comitato avrebbero dunque dovuto distinguere l’energia termica prodotta dalla centrale termica (che avrebbe potuto ricevere quote gratuite) da quella prodotta dall’impianto di cogenerazione non ad alto rendimento. Infatti, indipendentemente dal contenuto delle comunicazioni intercorse tra la ricorrente e il Comitato e tra quest’ultimo e la Commissione, tale suddivisione sarebbe stata facilmente verificabile ed individuabile da diversi documenti in possesso delle Autorità. In particolare, all’interno dei moduli NIMS raccolta dati 2014-2018: - il calore in uscita dall’unità di cogenerazione è indicato nel foglio D riga 93; - Il calore totale dell’impianto è invece indicato nel foglio E, riga 84. È dunque evidente che la differenza tra i due valori indica il calore proveniente dalla Centrale termica (tutto ciò che non è calore da cogenerazione) che era idoneo a ricevere le quote gratuite di emissione. I dati di riferimento risulterebbero: - dalle autorizzazioni ETS in cui viene dettagliatamente descritto ogni impianto e le fonti presenti; - dai Piani di monitoraggio caricati sul portale Emission Trading del Mite dove emerge chiaramente la suddivisione dell’impianto tra cogenerazione e altre fonti di calore. Quanto all’attribuzione della giurisdizione in ordine alla definizione della presente controversia, secondo parte ricorrente il Comitato Nazionale per la Gestione della Direttiva 2003/87/CE e per il Supporto nella Gestione delle Attività di Progetto del Protocollo di Kyoto non è un’istituzione dell’Unione Europea bensì “un organo interministeriale presieduto dal Ministero dell’Ambiente e partecipato dai Ministeri dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture” (TAR Lazio - Roma, Sez. II-bis, sent. n. 9951/2019 del 24 luglio 2019). È il Comitato ETS a determinare l’inserimento dell’impianto all’interno dell’elenco ed a deliberare – come espressamente statuito dall’art. 25, comma 6, del D.lgs. 47/2020 – l'assegnazione finale delle quote assegnate a titolo gratuito a ciascuno degli impianti ricompresi in detto elenco. Lo stesso agisce come organo del MTE e, trattandosi di organo nazionale e non eurounitario, tutti gli atti emanati dallo stesso sono dotati di efficacia provvedimentale e spetta allo Stato membro – e nella specie al giudice amministrativo – sindacarne la legittimità. Pertanto, il controllo sulla legittimità degli atti di organi degli Stati membri è espressamente precluso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, salvo che nel caso in cui il provvedimento sia solo formalmente adottato da un organo nazionale ma, in ultima analisi, risulti sostanzialmente il prodotto di un processo deliberativo esitato a livello sovranazionale, nel qual caso, come affermato nella pronuncia della Corte di Giustizia (Grande Sezione) del 3 dicembre 2019 nella causa pregiudiziale C-414/18 (ICCREA contro Banca d'Italia), il privato che dallo stesso si veda leso può impugnarlo entro i prescritti termini di decadenza innanzi al Tribunale dell’Unione Europea, al pari di un provvedimento adottato direttamente dagli organi UE. Costituendosi in giudizio, l’Amministrazione ha dedotto che al fine di comprendere il merito della decisione della Commissione occorre partire dalla sentenza della Corte di Giustizia del 20 giugno 2019, causa C 682/17, nella quale è stata fornita l’interpretazione della nozione di “impianto di produzione di elettricità” o “electricity generator” di cui all’articolo 3, lettera u), della direttiva 2003/87/CE. Nella sentenza si legge che “un impianto che nell’ambito della sua attività di combustione di carburanti in impianti di potenza termica nominale totale superiore a 20MW di cui all’allegato I della direttiva, produce elettricità destinata essenzialmente ad essere impiegata per il fabbisogno dell’impianto stesso, deve essere considerato un “impianto di produzione di elettricità” ai sensi dell’articolo 3, lettera u) della direttiva (“electricity generator”), qualora, da un lato, in tale impianto venga effettuata allo stesso tempo un’attività non rientrante nel campo di applicazione ETS, e dall’altro, lo stesso impianto immetta in modo continuativo, dietro corrispettivo, nella rete elettrica pubblica (alla quale l’impianto deve essere allacciato in modo permanente per motivi tecnici) una parte, sia pure esigua, dell’energia elettrica generata”. E la conseguenza della qualificazione di un impianto come “electricity generator” è il venir meno del diritto all’assegnazione di quote a titolo gratuito per ogni eventuale sottoimpianto, ad eccezione di alcuni casi espressamente previsti in direttiva, ovvero il teleriscaldamento e la cogenerazione ad alto rendimento definita dalla direttiva 2012/27/UE del Parlamento europeo e del Consiglio in caso di domanda economicamente giustificabile, rispetto alla generazione di energia termica o frigorifera. Con riferimento ai “sottoimpianti oggetto di parametro di rifermento calore” all’interno di un impianto qualificato come “electricity generator”, nella già citata sentenza si legge che: “un impianto di produzione di elettricità ai sensi dell’articolo 3, lettera u) della direttiva 2003/87 non ha il diritto che gli siano assegnate quote di emissioni a titolo gratuito per il calore prodotto nell’ambito dell’attività in esso svolta di combustione di carburanti in impianti di potenza termica totale superiore a 20 MW di cui all’allegato I di tale direttiva, qualora detto calore sia utilizzato per fini diversi rispetto alla produzione di elettricità, dal momento che un siffatto impianto non soddisfa le condizioni poste dall’articolo 10-bis, paragrafi 4 e 8 della direttiva” (par. 126 della sentenza). Le conseguenze operative di tale sentenza sono che un impianto qualificabile come “electricity generator”, come Fenice-Mirafiori, non ha diritto ad assegnazione gratuita, perché non rientra in nessuna delle casistiche che fanno eccezione a tale esclusione. L’Amministrazione rammenta che la Commissione presentava, in data 23 aprile 2020, un powerpoint del gruppo esperti CCEG – Climate Change Expert Group che chiariva gli aspetti appena indicati. In tale quadro di riferimento, a seguito dell’avvenuto caricamento dei dati (file BDR) da parte di Fenice con riferimento all’impianto aut. n. 26 in data 25 giugno 2019, la Commissione formulava tre successive richieste di chiarimenti in altrettante “interazioni” con il Comitato ETS. All’esito delle interlocuzioni, la Commissione riteneva che non trattandosi di impianto di cogenerazione ad alto rendimento, non ricorresse nessuna delle fattispecie menzionate dall’articolo 10-bis, par. 3, costituenti eccezioni alla regola che vieta l’assegnazione di quote a titolo gratuito agli electricity generator in quanto l’impianto aut. n. 26 è qualificabile come impianto di produzione di elettricità, e quindi ricade nel divieto di cui all’articolo 10-bis, par. 3 della direttiva. A fronte di tale argomentata e netta posizione della Commissione europea, il Comitato ETS si limitava ad informarne l’operatore con PEC del 21 ottobre 2021, anche alla luce del già ricordato articolo 11 della direttiva, secondo cui “Gli Stati membri non possono assegnare quote a titolo gratuito ai sensi del paragrafo 2 agli impianti per i quali la Commissione ha respinto l’iscrizione nell’elenco di cui al paragrafo 1”. Precisa la difesa dell’Amministrazione che, dalla ricostruzione degli scambi avvenuti sulla piattaforma DECLARE messa a disposizione dalla Commissione per il caricamento dei dati, la società Fenice non soltanto ha attivamente partecipato all’attività istruttoria, in contraddittorio con il Comitato ETS e indirettamente con la Commissione, ma ha avuto l’occasione di replicare alle criticità riscontrate dalla Commissione europea ed era ben a conoscenza delle ragioni per le quali in ultimo la stessa ha deciso di non includerla tra gli impianti beneficiari di assegnazione di quote a titolo gratuito. Pertanto, in punto di giurisdizione, l’Amministrazione evidenzia che la Commissione conserva per legge un potere valutazione conclusiva vincolante nei confronti degli Stati, ai sensi dell’articolo 11, par. 2 della direttiva 2003/87/CE (“Gli Stati membri non possono assegnare quote a titolo gratuito ai sensi del paragrafo 2 agli impianti per i quali la Commissione ha respinto l’iscrizione nell’elenco di cui al paragrafo 1”). Nel caso di specie è stata la Commissione a chiedere l’annullamento dell’allocazione/assegnazione gratuita relativa all’impianto della ricorrente, e il Comitato ETS ha dovuto dare seguito a tale richiesta della Commissione, con atto totalmente vincolato. Pertanto, secondo l’Amministrazione, l’esclusione dell’impianto della società ricorrente dalla tabella nazionale di allocazione di cui all’articolo 11 della direttiva 2003/87/CE, e il conseguente mancato riconoscimento di quote a titolo gratuito, risultano essere atti del tutto vincolati alle valutazioni compiute dalla Commissione. Ne deriverebbe la insussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo italiano sulla controversia che spetterebbe alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea; l’impugnazione degli atti del Comitato, senza un’autonoma censura delle presupposte vincolanti valutazioni operate dalla Commissione (che apparterrebbe alla cognizione della Corte di Giustizia), dovrebbe ritenersi comunque inammissibile. Le questioni pregiudiziali Così esposte le principali problematiche poste dalla presente controversia e le posizioni assunte dalle parti, vertendosi in tema di interpretazione del diritto comunitario, si ritiene, per la rilevanza degli interessi coinvolti e per la complessità dei valori in gioco, di sottoporre al Giudice comunitario i seguenti quesiti: 1) Se la deliberazione assunta dal Comitato Nazionale per la Gestione della Direttiva 2003/87/CE e per il Supporto nella Gestione delle Attività di Progetto del Protocollo di Kyoto, in considerazione della procedura di adozione e, in particolare, del meccanismo di interlocuzione con la Commissione europea previsto dal Regolamento delegato (UE) 2019/331 in merito all’inclusione degli impianti all’interno dell’elenco per l’assegnazione di quote CO2 possa formare oggetto di autonoma impugnazione innanzi al Tribunale dell’Unione europea ai sensi dell’art. 263, comma 4, TFUE laddove l’atto impugnato sia produttivo di effetti giuridici vincolanti e riguardi direttamente l’operatore economico ricorrente; 2) Se, in caso contrario, possa il privato operatore economico direttamente leso dall’esclusione dalle assegnazioni di quote CO2 sulla scorta dell’istruttoria condotta di concerto dalla Commissione europea e dal Comitato Nazionale per la Gestione della Direttiva 2003/87/CE e per il Supporto nella Gestione delle Attività di Progetto del Protocollo di Kyoto impugnare la decisione assunta dalla Commissione europea di rifiutare l’inclusione dell’impianto nell’elenco ai sensi dell’art. 14 comma 4 del dal Regolamento delegato (UE) 2019/331 innanzi al Tribunale dell’Unione europea ai sensi dell’art. 263, comma 4, TFUE; 3) Se la nozione di «impianto di produzione di elettricità» ai sensi dell’Articolo 3(u) della Direttiva 2003/87/CE, come risultante dalla sentenza della Corte (Quinta Sezione) 20 giugno 2019, nella causa C-682/17, ExxonMobil Production Deutschland GmbH contro Bundesrepublik Deutschland, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Verwaltungsgericht Berlin (Tribunale amministrativo di Berlino, Germania), con decisione del 28 novembre 2017, ricomprenda anche situazioni in cui l’impianto produca in minima parte energia elettrica cogenerativa, non ad alto rendimento, caratterizzandosi per una pluralità di fonti di energia termica diverse dalla cogenerazione aventi le caratteristiche per il riconoscimento delle quote gratuite di emissione; 4) Se una tale interpretazione della definizione di «impianto di produzione di elettricità» sia compatibile con i principi generali di diritto dell’Unione del rispetto delle condizioni concorrenziali tra operatori in caso di concessione di incentivi e di proporzionalità della misura laddove esclude totalmente un impianto connotato da una pluralità di fonti di energia, senza scorporazione dei valori di emissione riferiti alle fonti di calore diverse dalla cogenerazione aventi pieno titolo a ricevere i benefici previsti. Ai sensi della Nota informativa riguardante la proposizione di domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali» 2011/C 160/01 in G.U.C.E. 28 maggio 2011 e delle nuove Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale 2016/C 439/01 in G.U.C.E. 25.11.2016, vanno trasmessi alla Cancelleria della Corte mediante plico raccomandato gli atti del giudizio in copia, comprensivi della presente ordinanza. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Bis): 1) rimette, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea le questioni pregiudiziali indicate in motivazione; 2) dispone che, a cura della Segreteria, siano trasmessi gli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea; 3) sospende il processo fino alla definizione del giudizio sulle questioni pregiudiziali e con riserva, all’esito, di ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2021 con l'intervento dei magistrati: Elena Stanizzi, Presidente Salvatore Gatto Costantino, Consigliere, Estensore Virginia Arata, Referendario Elena Stanizzi, Presidente Salvatore Gatto Costantino, Consigliere, Estensore Virginia Arata, Referendario IL SEGRETARIO
Energia elettrica - Impianti di produzione di elettricità – Assegnazione di quote di anidride carbonica - Rimessione alla Corte di Giustizia Ue.       Sono rimesse alla Corte di Giustizia Ue le questioni se la deliberazione assunta dal Comitato Nazionale per la Gestione della Direttiva 2003/87/CE e per il Supporto nella Gestione delle Attività di Progetto del Protocollo di Kyoto, in considerazione della procedura di adozione e, in particolare, del meccanismo di interlocuzione con la Commissione europea previsto dal Regolamento delegato (Ue) 2019/331 in merito all’inclusione degli impianti all’interno dell’elenco per l’assegnazione di quote CO2 possa formare oggetto di autonoma impugnazione innanzi al Tribunale dell’Unione europea ai sensi dell’art. 263, comma 4, TFUE laddove l’atto impugnato sia produttivo di effetti giuridici vincolanti e riguardi direttamente l’operatore economico ricorrente; se, in caso contrario, possa il privato operatore economico direttamente leso dall’esclusione dalle assegnazioni di quote CO2 sulla scorta dell’istruttoria condotta di concerto dalla Commissione europea e dal Comitato Nazionale per la Gestione della Direttiva 2003/87/CE e per il Supporto nella Gestione delle Attività di Progetto del Protocollo di Kyoto impugnare la decisione assunta dalla Commissione europea di rifiutare l’inclusione dell’impianto nell’elenco ai sensi dell’art. 14 comma 4 del dal Regolamento delegato (Ue) 2019/331 innanzi al Tribunale dell’Unione europea ai sensi dell’art. 263, comma 4, TFUE; se la nozione di «impianto di produzione di elettricità» ai sensi dell’Articolo 3(u) della Direttiva 2003/87/CE, come risultante dalla sentenza della Corte (Quinta Sezione) 20 giugno 2019, nella causa C-682/17, ExxonMobil Production Deutschland GmbH contro Bundesrepublik Deutschland, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Verwaltungsgericht Berlin (Tribunale amministrativo di Berlino, Germania), con decisione del 28 novembre 2017, ricomprenda anche situazioni in cui l’impianto produca in minima parte energia elettrica cogenerativa, non ad alto rendimento, caratterizzandosi per una pluralità di fonti di energia termica diverse dalla cogenerazione aventi le caratteristiche per il riconoscimento delle quote gratuite di emissione; se una tale interpretazione della definizione di «impianto di produzione di elettricità» sia compatibile con i principi generali di diritto dell’Unione del rispetto delle condizioni concorrenziali tra operatori in caso di concessione di incentivi e di proporzionalità della misura laddove esclude totalmente un impianto connotato da una pluralità di fonti di energia, senza scorporazione dei valori di emissione riferiti alle fonti di calore diverse dalla cogenerazione aventi pieno titolo a ricevere i benefici previsti.    (1) V. anche ordd. 25 gennaio 2022, nn. 828, 829 e 836.  Ha ricordato la Sezione che il sistema di scambio di quote di emissione dell’UE (European Union Emissions Trading Scheme - UE ETS) è una delle pietre angolari su cui si fonda la politica dell'UE per contrastare i cambiamenti climatici e uno strumento essenziale per ridurre in maniera economicamente efficiente le emissioni di gas a effetto serra. È il primo mercato mondiale della anidride carbonica (CO2) e continua a essere il più esteso.  Tale sistema, attivo in 31 Paesi (i 28 dell'UE, più l'Islanda, il Liechtenstein e la Norvegia) coinvolge le emissioni prodotte da oltre 11.000 impianti ad alto consumo di energia (centrali energetiche e impianti industriali) e dalle compagnie aeree che collegano tali Paesi e circa il 45% delle emissioni di gas a effetto serra dell'UE ed opera secondo il principio della limitazione e dello scambio delle emissioni.  Viene fissato un tetto alla quantità totale di alcuni gas serra che possono essere emessi dagli impianti che rientrano nel sistema e questo tetto si riduce nel tempo di modo che le emissioni totali diminuiscano.  Entro questo limite, le imprese ricevono o acquistano quote di emissione che, se necessario, possono scambiare. Le imprese possono anche acquistare quantità limitate di crediti internazionali da progetti di riduzione delle emissioni di tutto il mondo. La limitazione del numero totale garantisce che le quote disponibili abbiano un valore.  Alla fine di ogni anno le società devono restituire un numero di quote sufficiente a coprire le loro emissioni se non vogliono subire pesanti multe. Se un’impresa riduce le proprie emissioni, può mantenere le quote inutilizzate per coprire il fabbisogno futuro, oppure venderle a un’altra impresa che ne sia a corto.  Lo scambio crea flessibilità e garantisce che le riduzioni delle emissioni avvengano quando sono più convenienti. Un solido prezzo della CO2 favorisce inoltre gli investimenti in tecnologie pulite e a basso rilascio di CO2.  La Direttiva 2003/87/CE (Direttiva ETS – successivamente modificata dalla direttiva 2009/29/CE e, da ultimo, dalla direttiva 2018/410/UE), che è la base del sistema ETS prevede, quindi, che dal 1° gennaio 2005 gli impianti grandi emettitori dell’Unione Europa non possano funzionare senza un’autorizzazione alle emissioni di gas serra. Ogni impianto autorizzato deve compensare annualmente le proprie emissioni con quote (European Union Allowances – EUA, equivalenti a 1 tonnellata di CO2eq) che possono, come detto, essere comprate e vendute dai singoli operatori interessati. Gli impianti possono acquistare le quote nell’ambito di aste pubbliche europee o riceverne a titolo gratuito. In alternativa, possono approvvigionarsene sul mercato.  La Direttiva ETS stabilisce che dal 2013 gli impianti di produzione di energia elettrica e gli impianti che svolgono attività di cattura, trasporto e stoccaggio del carbonio (CCS) devono approvvigionarsi all’asta di quote per l’intero del proprio fabbisogno (assegnazione a titolo oneroso). Al contrario, gli impianti afferenti i settori manifatturieri hanno diritto all'assegnazione a titolo gratuito, sulla base del loro livello di attività e di standard di riferimento (benchmark) elaborati dalla Commissione europea e validi a livello europeo.  I settori ad elevato rischio di carbon leakage, ossia esposti al rischio delocalizzazione a causa dei costi del carbonio verso paesi con politiche ambientali meno rigorose, beneficiano di un’assegnazione di quote a titolo gratuito pari al 100% del proprio benchmark di riferimento.  L’articolo 10 bis, paragrafo 6, della direttiva ETS prevede che gli Stati membri possano adottare “misure finanziarie a favore di settori o sottosettori considerati esposti a un rischio elevato di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio a causa dei costi connessi alle emissioni di gas a effetto serra trasferiti sui prezzi dell’energia elettrica, al fine di compensare tali costi e ove tali misure finanziarie siano conformi alle norme sugli aiuti di Stato applicabili e da adottare in tale ambito”. Tali norme sono pubblicate sulla Gazzetta ufficiale dell'Unione europea n. 158 del 5 giugno 2012.  In Italia, col decreto legislativo n. 216/2006 e successivamente col decreto legislativo n. 30/2013 il Comitato Nazionale per la gestione della direttiva 2003/87/CE e per la gestione delle attività di progetto del Protocollo di Kyoto (Comitato ETS) è stato individuato come l’Autorità nazionale competente per l’attuazione dell’ETS.  Il Comitato ETS è un organo interministeriale presieduto dal Ministero dell’Ambiente e partecipato dai Ministeri dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture. Tra le altre funzioni, il Comitato ETS determina il quantitativo annuo di quote da assegnare a titolo gratuito ai gestori eleggibili conformemente alle norme unionali, con particolare riferimento alle regole per l’assegnazione gratuita delle quote (art. 24 D.lgs. 47/2020). 
Energia elettrica
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/nella-regione-lazio-l-assistenza-domiciliare-ai-malati-covid-c3-a8-affidata-ai-medici-di-base
Nella Regione Lazio l’assistenza domiciliare ai malati Covid non può essere affidata ai medici di base
N. 11991/2020 REG.PROV.COLL. N. 05520/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5520 del 2020, proposto da Sindacato dei Medici Italiani (S.M.I.), Giuseppina Onotri, Gian Marco Polselli, Cristina Patrizi, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Stefano Tarullo, Alberto Saraceno, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Alberto Saraceno in Roma, via degli Scipioni n. 265; contro Regione Lazio, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Giuseppe Allocca, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Marcantonio Colonna 27; nei confronti Inmi Lazzaro S.p.A.llanzani I.R.C.C.S., Azienda Usl Roma 3, Paola Barbara Goglia non costituiti in giudizio; per l'annullamento - dell'Ordinanza del Presidente della Regione Lazio n. Z00009 del 17.3.2020 (Proposta n. 3999 del 16.3.2020), recante «Ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-2019. Ordinanza ai sensi dell'art. 32, comma 3, della legge 23 dicembre 1978, n. 833 in materia di igiene e sanità pubblica», in BUR Lazio n. 27, Suppl. n. 3 del 17.3.2020; - del provvedimento della Regione Lazio – Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria prot. «Int. 0314552.10-04-2020», recante «Procedura speciale legata all'emergenza COVID. Programma di potenziamento cure primarie. Avviso volto ad acquisire manifestazione di interesse per svolgere attività nella USCAR»; - della Determinazione della Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria - Area Risorse Umane, a firma del Direttore regionale, prot. G04569 del 20.4.2020 (Proposta n. 6125 del 20.4.2020) recante «Approvazione del regolamento di funzionamento USCAR LAZIO» e del Regolamento ivi accluso quale sua parte integrante e sostanziale, in BURL n. 59 del 7.5.2020; - della Determinazione della Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria - Area Risorse Umane, a firma del Direttore regionale, prot. G04586 del 20.4.2020 (Proposta n. 6167 del 20.4.2020), recante «Procedura speciale legata alla Emergenza Covid. Programma di potenziamento cure primarie — USCAR Lazio – approvazione elenchi manifestazione di interesse di medici e infermieri» e degli ivi acclusi «Elenco Medici – Uscar», «Elenco Infermieri – Uscar», e «Allegato C - Ammessi con riserva»; - della Nota della Regione Lazio, Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria – Direzione Regionale per l'Inclusione Sociale prot. 301502 del 9.4.2020, a firma dei Direttori Botti e Guglielmino, avente ad oggetto «Ulteriori indicazioni per prevenire l'infezione da nuovo coronavirus SARS-COV-2 (COVID-19) nelle strutture territoriali residenziali sanitarie, sociosanitarie e socioassistenziali», nonché dell'ivi accluso «Programma di potenziamento delle cure primarie - Emergenza COVID 19»; Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Regione Lazio; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 novembre 2020 il dott. Dauno Trebastoni e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO Sono impugnati: - l’Ordinanza del Presidente della Regione Lazio n. Z00009 del 17.3.2020, recante «Ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-2019. Ordinanza ai sensi dell'art. 32, comma 3, della legge 23 dicembre 1978, n. 833 in materia di igiene e sanità pubblica», in BUR Lazio n. 27, Suppl. n. 3 del 17.3.2020; - il provvedimento della Regione Lazio – Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria prot. «Int. 0314552.10-04-2020», recante «Procedura speciale legata all’emergenza COVID. Programma di potenziamento cure primarie. Avviso volto ad acquisire manifestazione di interesse per svolgere attività nella USCAR»; - la Determinazione della Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria - Area Risorse Umane, a firma del Direttore regionale, prot. G04569 del 20.4.2020 recante «Approvazione del regolamento di funzionamento USCAR LAZIO» e del Regolamento ivi accluso quale sua parte integrante e sostanziale, in BURL n. 59 del 7.5.2020; - la Determinazione della Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria - Area Risorse Umane, a firma del Direttore regionale, prot. G04586 del 20.4.2020, recante «Procedura speciale legata alla Emergenza Covid. Programma di potenziamento cure primarie — USCAR Lazio – approvazione elenchi manifestazione di interesse di medici e infermieri» e degli ivi acclusi «Elenco Medici – Uscar», «Elenco Infermieri – Uscar», e «Allegato C - Ammessi con riserva»; - la Nota della Regione Lazio, Direzione Regionale Salute e Integrazione Sociosanitaria – Direzione Regionale per l’Inclusione Sociale prot. 301502 del 9.4.2020, a firma dei Direttori Botti e Guglielmino, avente ad oggetto «Ulteriori indicazioni per prevenire l’infezione da nuovo coronavirus SARS-COV-2 (COVID-19) nelle strutture territoriali residenziali sanitarie, sociosanitarie e socioassistenziali», nonché dell’ivi accluso «Programma di potenziamento delle cure primarie - Emergenza COVID 19». I ricorrenti sostengono che per effetto dei provvedimenti regionali impugnati i Medici di Medicina Generale - MMG risultano investiti di una funzione di assistenza domiciliare ai pazienti Covid del tutto impropria, che per legge (art. 8 D.L. n. 14/2020 ed art. 4-bis D.L. n. 18/2020) dovrebbe spettare unicamente alle Unità Speciali di Continuità Assistenziale, istituite dal legislatore nazionale d’urgenza proprio ed esattamente a questo scopo. Nel Lazio le USCAR si occuperanno prevalentemente dell’assistenza in situazioni di comunità ed in maniera assolutamente residuale dei soggetti a domicilio che non siano presi in carico da altra forma organizzativa, che peraltro non esiste. E i MMG, gravati di compiti del tutto avulsi dal loro ruolo all’interno del SSR, vengono pericolosamente distratti e di fatto sollevati dal loro precipuo compito che è quello di prestare l’assistenza ordinaria, a tutto detrimento della concreta possibilità di assistere i tanti pazienti non Covid, molti dei quali affetti da patologie anche gravi. Nell’Ordinanza Z00009 del 17.3.2020 si prescrive poi, al punto 10, «di valutare l’eventuale attivazione delle Unità Speciali di continuità Assistenziale per l’assistenza a domicilio nei pazienti COVID positivi». Anche in tale passaggio l’Ordinanza presidenziale sarebbe inficiata da violazione di legge, poiché contempla come meramente «eventuale» l’intervento di assistenza domiciliare delle USCAR laziali. Ma tale tipologia di intervento dovrebbe costituire, secondo la norma primaria dell’art. 8 cit. (così come del successivo art. 4-bis che lo ricalca), non una semplice «eventualità», ossia una mera possibilità di intervento tra le molte, bensì il precipuo ed esclusivo obiettivo delle USCA, ossia l’unico intervento che tali Unità Speciali dovrebbero eseguire. In sostanza, la previsione di una «eventuale attivazione» delle USCAR Lazio per l’assistenza a domicilio disattende apertamente la volontà del legislatore d’urgenza, che pure sul punto non aveva lasciato alcuno spazio di discrezionalità alle Regioni. Alla pubblica udienza del 10.11.2020 la causa è stata posta in decisione. Il ricorso è fondato, e va pertanto accolto. Al fine di decidere il ricorso in esame, è determinante la previsione contenuta nell’art 8, comma 1, del citato D.L. n. 14/2020, secondo cui «Al fine di consentire al medico di medicina generale o al pediatra di libera scelta o al medico di continuità assistenziale di garantire l'attività assistenziale ordinaria, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano istituiscono, entro dieci giorni dall'entrata in vigore del presente decreto, presso una sede di continuità assistenziale già esistente una unità speciale ogni 50.000 abitanti per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero (…)». Nel prevedere che le Regioni “istituiscono” una unità speciale “per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero”, la citata disposizione rende illegittima l’attribuzione di tale compito ai MMG, che invece dovrebbero occuparsi soltanto dell’assistenza domiciliare ordinaria (non Covid). Hanno cioè ragione i ricorrenti quando affermano che il legislatore d’urgenza ha inteso prevedere che i MMG potessero proseguire nell’attività assistenziale ordinaria, senza doversi occupare dell’assistenza domiciliare dei pazienti Covid. E tale previsione è stata replicata in modo identico nell’art. 4-bis del D.L. 17.3.2020 n. 18. Oltretutto, a ulteriore chiarimento della descritta impostazione, al comma 2 del citato art. 4 bis, è specificato pure che “il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta o il medico di continuità assistenziale comunicano all'unità speciale di cui al comma 1, a seguito del triage telefonico, il nominativo e l'indirizzo dei pazienti di cui al comma 1”. Pertanto, l’affidamento ai MMG del compito di assistenza domiciliare ai malati Covid risulta in contrasto con le citate disposizioni, cosicché, assorbite ulteriori censure, il ricorso va accolto, con conseguente annullamento in parte qua dei provvedimenti impugnati. Le spese seguono la soccombenza, e vengono liquidate in dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – Sezione Terza Quater, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo accoglie, nei termini di cui in motivazione, e per l’effetto annulla in parte qua i provvedimenti impugnati. Condanna la Regione al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in € 2.500,00, oltre accessori, e al rimborso del contributo unificato. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 novembre 2020 con l'intervento dei magistrati: Riccardo Savoia, Presidente Dauno Trebastoni, Consigliere, Estensore Paolo Marotta, Consigliere Riccardo Savoia, Presidente Dauno Trebastoni, Consigliere, Estensore Paolo Marotta, Consigliere IL SEGRETARIO
Covid-19 – Lazio – Assistenza domiciliare ai malati Covid - Ordinanza del Presidente della Regione Lazio - Affidamento ai medici di base – Illegittimità.               E’ illegittima l’ordinanza del Presidente della Regione Lazio che affida ai medici di medicina generale il compito di assistenza domiciliare ai malati Covid, atteso che tali funzioni di assistenza sono affidati dagli artt. 8, d.l. n. 14 del 2020 e 4 bis, d.l. m. 18 del 2020 unicamente alle Unità Speciali di Continuità Assistenziale, istituite dal legislatore nazionale d’urgenza proprio ed esattamente a questo scopo (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che nel Lazio le Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCAR) si occupano prevalentemente dell’assistenza in situazioni di comunità ed in maniera assolutamente residuale dei soggetti a domicilio che non siano presi in carico da altra forma organizzativa, che peraltro non esiste.  L’art 8, comma 1, d.l. n. 14 del 2020 ha inteso prevedere che i medici di medicina generale potessero proseguire nell’attività assistenziale ordinaria, senza doversi occupare dell’assistenza domiciliare dei pazienti Covid.  E tale previsione è stata replicata in modo identico nell’art. 4-bis, d.l. n. 18 del 2020.  Oltretutto, a ulteriore chiarimento della descritta impostazione, al comma 2 del citato art. 4 bis è specificato pure che “il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta o il medico di continuità assistenziale comunicano all'unità speciale di cui al comma 1, a seguito del triage telefonico, il nominativo e l'indirizzo dei pazienti di cui al comma 1”. ​​​​​​​
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/istanza-di-tutela-monocratica-ex-art-84-d-l-n-18-del-2020-contenuta-in-memoria-non-notificata
Istanza di tutela monocratica ex art. 84, d.l. n. 18 del 2020 contenuta in memoria non notificata
N. 01641/2020 REG.PROV.CAU. N. 02487/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 2487 del 2020, proposto da Claudio Catalano, rappresentato e difeso dall'avvocato Pasquale Marotta, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Giancarlo Caracuzzo in Roma, via di Villa Pepoli, 4; contro Ministero Universita' e della Ricerca, Cineca, Ministero della Salute, Conferenza Permanente per i Rapporti Stato, Regioni ed Province Autonome di Trento e Bolzano, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, Università degli Studi di Bari, Università degli Studi di Bari (Lingua Inglese), Università degli Studi di Bologna, Università degli Studi di Brescia, Università degli Studi di Cagliari, Università degli Studi di Catania, Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro, Università degli Studi G. D'Annunzio Chieti-Pescara, Università degli Studi di Ferrara, Università degli Studi di Firenze, Università degli Studi di Genova, Università degli Studi di L'Aquila, Università degli Studi di Milano - Bicocca, Univ. degli Studi di Milano Vita Salute San Raffaele, Univ. degli Studi di Milano Vita Salute San Raffaele (Lingua Inglese), Università degli Studi di Milano Cattolica "S.Cuore", Università degli Studi di Milano Cattolica "S.Cuore" (Lingua Inglese), Milano Humanitas University (Lingua Inglese), Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Università degli Studi di Napoli - Federico Ii, Università degli Studi di Napoli - Federico II (Lingua Inglese), Seconda Università degli Studi di Napoli, Seconda Università degli Studi di Napoli (Lingua Inglese), Università degli Studi di Padova, Università degli Studi di Palermo, Università degli Studi di Parma, Università degli Studi di Pavia, Università degli Studi di Pavia (Lingua Inglese), Università degli Studi di Perugia, Università Politecnica delle Marche, Università degli Studi di Roma - "La Sapienza" - Policlinico, Università degli Studi di Roma "La Sapienza" - Polo Pontino, Università degli Studi di Roma - Sant'Andrea, Università degli Studi di Roma - Tor Vergata, Università degli Studi di Roma - Tor Vergata (Lingua Inglese), Università degli Studi di Roma - Campus Bio-Medico, Università degli Studi di Salerno, Università degli Studi di Sassari, Università degli Studi di Torino, Università degli Studi di Torino - Sede Orbassano, Università degli Studi di Udine, Università degli Studi di Varese Insubria, Università degli Studi di Verona, Università degli Studi di Milano (Lingua Inglese), Università degli Studi della Campania "Luigi Vanvitelli", Università degli Studi di Roma - "La Sapienza" - Policlinico (Lingua Inglese), Università degli Studi di Vercelli "Avogadro", Università degli Studi del Molise, non costituiti in giudizio; nei confronti Simona Solari non costituito in giudizio; per la riforma dell' ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) n. 00664/2020, resa tra le parti, concernente APPELLO AVVERSO Ord.za n. 00664/2020, emessa dal TAR Lazio, Sezione Terza, nella Camera di Consiglio del 29/01/2020 e depositata in segreteria in data 05/02/2020, sul ricorso R.G. n. 15297/2019; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi degli artt. 56, 62, co. 2 e 98, co. 2, cod. proc. amm.; Ritenuto che la domanda di concessione di decreto monocratico cautelare è stata presentata in relazione all’art. 84 del d.l.n. 18 del 2020, trattandosi di ricorso, presentato il 12 marzo 2020, pendente nel periodo fra l’8 marzo ed il 15 marzo del 2020 e non deciso; Rilevato che tale istanza è stata presentata con semplice memoria non notificata; Ritenuto che in tali condizioni l’istanza cautelare ordinaria, debitamente notificata, e contenuta nel ricorso introduttivo, non ha potuto essere trattata per effetto dell’intervenuta sospensione dei termini disposta dai decreti legge c.d. Cura Italia ( da ultimo dal dl n. 18 del 2020 ); Rilevato quindi che la memoria non notificata è sufficiente a fondare la procedibilità dell’istanza cautelare, non applicandosi l’art. 56 comma 1 c.p.a. ( e quindi il presupposto dell’estrema gravità ed urgenza ) ma essendo solo stata sollecitata la decisione monocratica già prevista direttamente dalla legge e da emanarsi in presenza dei presupposti di cui all’art.55 cpa e non dell’art. 56 dello stesso codice ma con forma e rito monocratico e da confermarsi in sede collegiale in apposita camera di consiglio da tenersi successivamente alla data di sospensione feriale dei termini ossia successivamente al 15 aprile 2020; Considerato che l’appellante ha partecipato alle prove di ammissione ai corsi di laurea di Medicina e Chirurgia ed Odontoiatria e Protesi dentaria per l’a.a. 2019/2020, svolgendo la prova presso l’Università Federico II di Napoli, ha il punteggio di 39,00 ed è collocato alla posizione n. 14112; Considerato, in conformità ad altri precedenti della Sezione, che può esservi la possibilità di utile collocazione per la parte ricorrente unicamente per effetto dello scorrimento nella graduatoria nella quale è inserita, tenendo eventualmente conto del preannunciato aumento di ulteriori 2000 posti per il prossimo a.a. per le facoltà ad accesso programmato; Considerato pertanto che sussistono allo stato i presupposti per l’accoglimento dell’istanza unicamente ai fini della ricognizione dei posti effettivamente ad oggi da considerare disponibili, anche in relazione alla possibilità di estendere l’aumento di 2000 posti per le facoltà ad accesso programmato ed all’accertamento della possibilità del ricorrente di rientrare utilmente nella relativa graduatoria, sulla base del punteggio ottenuto e secondo l’ordine e la posizione che ne conseguono; Considerato infine che non è più ipotizzabile un problema di minore o insufficiente offerta formativa per inadeguata ricettività strutturale, dal momento che è ormai esplicitamente consentita una più efficace ed economica didattica a distanza, utile a sostituire, se unita ad idonea dotazione tecnologica, la frequenza ai corsi ed alle esercitazioni svolti in modalità frontale: le Università, in particolare, sono autorizzate a predisporre corsi ed esami on-line, e non solo per il periodo dell’emergenza “Covid-19” (v. infatti il DPCM 4 marzo 2020, art. 1 lett. h, secondo cui, “nelle Università e nelle Istituzioni di alta formazione artistica musicale e coreutica, per tutta la durata della sospensione, le attività didattiche o curriculari possono essere svolte, ove possibile, con modalità a distanza, individuate dalle medesime Università e Istituzioni, avuto particolare riguardo alle specifiche esigenze degli studenti con disabilità; le Università e le Istituzioni, successivamente al ripristino dell'ordinaria funzionalità, assicurano, laddove ritenuto necessario ed in ogni caso individuandone le relative modalità, il recupero delle attività formative nonché di quelle curriculari ovvero di ogni altra prova o verifica, anche intermedia, che risultino funzionali al completamento del percorso didattico”; il D.P.C.M. 8 marzo 2020 art. 2 lett. h, secondo cui “sono sospesi fino al 15 marzo 2020 …. la frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore, comprese le Università … ferma in ogni caso la possibilità di svolgimento di attività formative a distanza”; il D.L. 17 marzo 2020, n. 18, art. 120, sul finanziamento delle “Piattaforme per la didattica a distanza”); Ritenuto pertanto che l’istanza può accogliersi ai soli fini della ricognizione dei posti disponibili e dell’eventuale scorrimento nella graduatoria per le sedi optate da parte ricorrente, salva ovviamente la possibilità d’inserimento in sedi deteriori in cui vi sia disponibilità di posti e sempre nei limiti del possibile scorrimento; P.Q.M. Accoglie l’istanza di concessione di decreto monocratico cautelare e per l'effetto ordina il riesame della posizione del ricorrente , nel rispetto delle disponibilità come qualificate in parte motiva, dell’ordine di graduatoria e delle opzioni effettuate. Fissa, per la discussione collegiale, la camera di consiglio del 7 maggio del 2020. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma il giorno 1 aprile 2020. IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Covid-19 – Giudizio cautelare – Decisione ex artt. 56 c.p.a. e 84, comma 1, d.l. n. 18 del 2020 – Decreto monocratico – Richiesta con memoria non notificata - Sufficienza.         La domanda cautelare ex art. 55 c.p.a. fonda la procedibilità dell’istanza cautelare con decreto monocratico ex art. 84, d.l. n. 18 del 2020, riferita a ricorso presentato il 12 marzo 2020 e pendente nel periodo fra l’8 marzo ed il 15 marzo 2020, anche se contenuta in memoria non notificata, essendo volta solo a sollecitare la decisione monocratica già prevista direttamente dal citato art. 84 (1). (1) Ha chiarito il decreto che alla decisione monocratica cautelare di cui all’art. 84, d.l. n. 18 del 2020 non si applica l’art. 56, comma 1, c.p.a., e quindi il presupposto dell’estrema gravita ed urgenza, essendo la stessa da emanare in presenza dei presupposti di cui all’art. 55 c.p.a., anche se con forma e rito monocratico e da confermarsi in sede collegiale in apposita camera di consiglio da tenersi successivamente al 15 aprile 2020
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/impugnabilit-c3-a0-in-secondo-grado-del-decreto-monocratico-cautelare-adottato-dal-presidente-del-tar
Impugnabilità in secondo grado del decreto monocratico cautelare adottato dal Presidente del Tar
N. 00061/2021 REG.PROV.CAU. N. 00079/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 79 del 2021, proposto da Giuseppe Vitarelli, rappresentato e difeso dagli avvocati Giuseppe Vitarelli, Giovanni Marchese, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Presidenza della Regione Siciliana, Presidente della Regione Siciliana, Regione Siciliana non costituiti in giudizio; per la riforma del decreto cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Prima) n. 060/2021, resa tra le parti, che ha respinto la domanda di sospensione dell'ordinanza contingibile e urgente n. 10 del 16.1.2021 del Presidente della Regione Siciliana “in parte qua”. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi degli artt. 56, 62, co. 2 e 98, co. 2, cod. proc. amm.; Considerato che: a) l’appello avverso il decreto monocratico cautelare adottato dal Presidente del Tribunale amministrativo regionale deve ritenersi, di norma, inammissibile sia per ragioni testuali legate alla lettera della legge che per ragioni sistematiche, in quanto né previsto, né configurabile, in via distinta ed autonoma, ai sensi dell’art. 56 c.p.a., e altresì prevedendo il codice di rito l’appellabilità delle sentenze e delle ordinanze (art. 62 e 100, c.p.a.) e non anche dei decreti; b) conseguentemente, la questione di revisione e/o riforma del decreto va trattata - salvo casi del tutto eccezionali di provvedimento che abbia solo veste formale di decreto ma contenuto sostanziale decisorio - nel medesimo grado della misura stessa, o con lo stesso mezzo o in occasione della conseguente camera di consiglio (la cui ordinanza cautelare potrà semmai a letterale tenore dell’art. 62 c.p.a. formare oggetto di appello cautelare); c) tali casi di provvedimenti monocratici impugnabili aventi solo veste formale di decreto o “decreti meramente apparenti” si configurano esclusivamente nel caso in cui la decisione monocratica in primo grado non abbia affatto carattere provvisorio ed interinale ma definisca o rischi di definire in via irreversibile la materia del contendere, come negli eccezionali casi di un decreto cui non segua affatto una camera di consiglio o in cui la fissazione della camera di consiglio avvenga con una tempistica talmente irragionevole da togliere ogni utilità alla pronuncia collegiale con incidenza sul merito del giudizio con un pregiudizio irreversibile (di talché residuino al limite questioni risarcitorie) dovendo in tali casi intervenire il giudice di appello per restaurare la corretta dialettica fra funzione monocratica e funzione collegiale in primo grado; d) siffatta definizione irreversibile della res controversa con decreto monocratico deve comportare un danno irreparabile a diritti fondamentali della persona umana, danno che non discende ex se dalla sola circostanza che il provvedimento impugnato esaurisca i propri effetti – come nel caso di specie - prima della camera di consiglio collegiale in primo grado, e che pertanto in sede collegiale non sia più conseguibile una tutela in forma specifica mediante la rimozione del provvedimento contestato; e) nel caso di specie il ricorso si duole di un danno irreparabile che sarebbe in re ipsa, per la incidenza del provvedimento regionale impugnato sulla libertà di circolazione delle persone - segnatamente nella parte in cui il d.P.Reg.Sic. 10.1.2021 n. 10 dispone che “Non trovano applicazione nel territorio regionale le disposizioni di cui all’art. 3 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 14 gennaio 2021 che autorizzano spostamenti, una volta al giorno, verso una sola abitazione privata nei limiti di due persone …” - in modo difforme dalla legge statale (art. 1, c. 4, lett. a) d.l. n. 2/2021) e dal d.P.C.M. applicabile sul restante territorio nazionale (art. 3, c. 4, d.P.C.M. 14.1.2021), legge e d.P.C.M. che invece anche nelle zone rosse consentono siffatto tipo di spostamenti; f) tuttavia non vi è alcuna prova di un pregiudizio irreparabile in re ipsa per diritti fondamentali della persona, per il solo fatto che vi sia una limitazione ulteriore della libertà di circolazione (restando impregiudicata ogni valutazione sul fumus boni iuris quanto allo scostamento in peius del provvedimento regionale dalla legge statale), atteso che, nella Regione Siciliana, pur non essendo autorizzati gli spostamenti, una volta al giorno, verso una sola abitazione privata nel limite di due persone, restano autorizzati gli spostamenti per lavoro, salute, e per ben più generiche situazioni di “necessità” (tali da comprendere un ampio novero di serie esigenze individuali che possano in concreto prevalere, secondo un ragionevole bilanciamento, sulla primaria esigenza solidaristica, sociale ed economica, di contenimento dei contagi), in definitiva, ciò che resta precluso nella Regione Siciliana, in aggiunta ai divieti nazionali, sono gli spostamenti “non necessari”, la cui inibizione, proprio perché si tratta di spostamenti “non necessari”, non è suscettibile di arrecare alcun pregiudizio grave e irreparabile in re ipsa a diritti fondamentali della persona; g) pertanto non ricorrendo gli eccezionali presupposti che consentono l’appellabilità del decreto monocratico, l’appello è inammissibile. P.Q.M. Dichiara l’appello inammissibile. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Palermo il giorno 23 gennaio 2021. IL SEGRETARIO
         L’appello avverso il decreto monocratico cautelare adottato dal Presidente del Tribunale amministrativo regionale deve ritenersi, di norma, inammissibile sia per ragioni testuali legate alla lettera della legge che per ragioni sistematiche, in quanto né previsto, né configurabile, in via distinta ed autonoma, ai sensi dell’art. 56 c.p.a., e altresì prevedendo il Codice di rito l’appellabilità delle sentenze e delle ordinanze (art. 62 e 100, c.p.a.) e non anche dei decreti; conseguentemente, la questione di revisione e/o riforma del decreto va trattata - salvo casi del tutto eccezionali di provvedimento che abbia solo veste formale di decreto ma contenuto sostanziale decisorio - nel medesimo grado della misura stessa, o con lo stesso mezzo o in occasione della conseguente camera di consiglio, la cui ordinanza cautelare potrà semmai a letterale tenore dell’art. 62 c.p.a. formare oggetto di appello cautelare (1).    (1) Ha chiarito il C.g.a. che le ipotesi di provvedimenti monocratici impugnabili aventi solo veste formale di decreto o “decreti meramente apparenti” si configurano esclusivamente nel caso in cui la decisione monocratica in primo grado non abbia affatto carattere provvisorio ed interinale ma definisca o rischi di definire in via irreversibile la materia del contendere, come negli eccezionali casi di un decreto cui non segua affatto una camera di consiglio o in cui la fissazione della camera di consiglio avvenga con una tempistica talmente irragionevole da togliere ogni utilità alla pronuncia collegiale con incidenza sul merito del giudizio con un pregiudizio irreversibile (di talché residuino al limite questioni risarcitorie) dovendo in tali casi intervenire il giudice di appello per restaurare la corretta dialettica fra funzione monocratica e funzione collegiale in primo grado.  Ha aggiunto il C.g.a. che siffatta definizione irreversibile della res controversa con decreto monocratico deve comportare un danno irreparabile a diritti fondamentali della persona umana, danno che non discende ex se dalla sola circostanza che il provvedimento impugnato esaurisca i propri effetti prima della camera di consiglio collegiale in primo grado, e che pertanto in sede collegiale non sia più conseguibile una tutela in forma specifica mediante la rimozione del provvedimento contestato   che ha respinto la domanda di sospensione. ​​​​​​​
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/agibilit-c3-a0-degli-immobili
Agibilità degli immobili
N. 01328/2021 REG.PROV.COLL. N. 02031/2014 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2031 del 2014, integrato da motivi aggiunti, proposto da Franco Valenti, Mauro Bernardi, Carla Castegnaro, Andrea Gruppioni, Nadia Pezzoli, rappresentati e difesi dagli avvocati Eugenia Brachini, Emanuela Raponi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Barbara Nepi, Raoul Sarghini, Lea Casucci, Marco Bonanni, Graziella Conte, Maurizio Lupardini, rappresentati e difesi dall'avvocato Gloria Citerni, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv.to Riccardo Tagliaferri in Firenze, via degli Artisti n. 20; contro Comune di Scansano in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Luisa Gracili, con domicilio eletto presso lo studio - Studio Associato Gracili in Firenze, via dei Servi 38; AUSL 9 di Grosseto, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio; per l'annullamento con il ricorso originariamente proposto: del provvedimento di "sospensione dell'agibilità" del 26.08.2014 inviata a tutti i ricorrenti tra il giorno 29.08.2014 ed il giorno 10.09.2014; nonché di ogni altro atto connesso, presupposto e/o conseguente. con i motivi aggiunti depositati in data 09.01.2015: del provvedimento di "conferma di sospensione dell'agibilità" del 07.11.2014 inviato a tutti i ricorrenti tra il giorno 12.11.2014 ed il giorno 20.11.2014; nonché di ogni altro atto connesso, presupposto e/o conseguente. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Scansano in persona del Sindaco pro tempore; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza smaltimento del giorno 29 settembre 2021 la dott.ssa Paola Malanetto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO I ricorrenti sono proprietari di varie unità abitative realizzate nel comune di Scansano dalla società Poggio Valentine, nell’ambito di un piano di lottizzazione di iniziativa privata approvato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 52 del 28.9.2000; l’area ricade in zona di PRG T- turistico ricettiva, sottozona T1 – centro turistico di Scansano; il Comune di Scansano e la società Poggio Valentine stipulavano in data 18.3.2003 una convenzione accessiva del piano di lottizzazione; la convenzione prevedeva, a carico della lottizzante, la realizzazione di una serie di opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Nel 2006 la società richiedeva una prima volta l’agibilità per gli edifici residenziali realizzati nel contesto della lottizzazione, agibilità che veniva negata per non essere state completate le opere di urbanizzazione previste in convenzione, tra cui l’allacciamento allo scarico fognario. I proprietari si attivavano quindi in proprio e veniva realizzato un depuratore al quale venivano agganciate le unità abitative; effettuato tale intervento i titolari degli immobili si rivolgevano ad altro professionista, che presentava attestazione di agibilità degli immobili la cui efficacia veniva inibita dall’amministrazione con primo atto del 26.8.2014, impugnato. Lamentano i ricorrenti: 1) violazione di legge, abnormità, violazione del principio di tipicità dell’atto amministrativo; la normativa applicabile consentirebbe al professionista abilitato di attestare sotto la propria responsabilità l’agibilità degli edifici, senza possibilità per l’amministrazione di sospenderne l’efficacia; l’amministrazione avrebbe, al più, potuto attivarsi con i poteri di autotutela previsti dagli artt. 21 quinquies e 21 nonies della l. n. 241/90; 2) violazione di legge, eccesso di potere, illogicità e violazione dell’art. 10 l. n. 241/90; l’inibitoria sarebbe stata instaurata senza il prescritto contraddittorio procedimentale; 3) violazione di legge, eccesso di potere, illogicità; il provvedimento inibisce l’agibilità sulla scorta di una affermata non conformità urbanistica, aspetto che non sarebbe tuttavia rilevante ai fini dell’agibilità stessa; 4) violazione di legge, eccesso di potere, illogicità; il provvedimento effettua esplicito richiamo alla precedente nota del 19.10.2006, con la quale l’agibilità era stata negata alla società costruttrice per mancanza di autorizzazione allo scarico in fognatura; nelle more tuttavia la situazione di fatto sarebbe notevolmente cambiata; 5) violazione dell’art. 1 del primo protocollo aggiuntivo CEDU e dell’art. 1 l. n. 241/90 per lesione della proprietà privata; il provvedimento impugnato lederebbe le prerogative domenicali dei ricorrenti, riducendo il valore economico dei beni di loro proprietà; 6) violazione di legge, difetto di istruttoria, eccesso di potere, illogicità, contraddittorietà delle previsioni con il fine perseguito; il provvedimento stigmatizza la mancata autorizzazione allo scarico e la mancata ultimazione delle opere di urbanizzazione; tratterebbesi tuttavia di elementi superati in fatto; 7) violazione di legge, difetto di istruttoria, eccesso di potere; la realizzazione delle opere di urbanizzazione e l’autorizzazione allo scarico di acque nere non costituirebbero presupposti per il rilascio dell’agibilità, tanto più che si tratterebbe di interventi che avrebbe dovuto porre in essere il comune, avendo escusso la garanzia fideiussoria rilasciata dalla società costruttrice. Hanno quindi formulato richiesta di annullamento del provvedimento impugnato e domanda risarcitoria. A seguito della prima inibitoria il tecnico dei ricorrenti presentava attestazione di “conferma di agibilità”, che veniva nuovamente inibita con atto del 7.11.2014, nuovamente impugnato con atto di ricorso per motivi aggiunti depositato in data 9.1.2015; con tale impugnativa i ricorrenti proponevano avverso la nuova inibitoria identiche censure rispetto a quelle già mosse avverso la prima sospensione di efficacia. Con ordinanza n. 92/2015 di questo TAR l’istanza di misure cautelari veniva respinta. Si è costituito il Comune di Scansano, contestando in fatto e diritto gli assunti di cui al ricorso introduttivo. Ha evidenziato in particolare che, a fronte delle inadempienze della lottizzante, l’amministrazione dichiarava la decadenza dai titoli edilizi e sospendeva l’agibilità degli edifici; la società costruttrice proponeva allora la sottoscrizione di una convenzione integrativa in cui si dichiarava disponibile a completare le opere mancanti (in particolare mancato completamento di opere di sistema fognario, viabilità, illuminazione pubblica, verde pubblico) ma anche la convenzione integrativa non veniva poi perfezionata e l’intervento restava inattuato. In data 28.4.2010 il Comune procedeva alla risoluzione della convenzione, accertava il mancato completamento delle opere e procedeva all’escussione della polizza fideiussoria; stante la resistenza della compagnia di assicurazione si rendeva necessario un giudizio civile innanzi al Tribunale di Grosseto, conclusosi con accordo transattivo del 4.7.2017; incassati a titolo transattivo € 550.000,00, l’amministrazione provvedeva al completamento delle opere. La regolare esecuzione delle opere è stata certificata il 29.6.2021; la regolarità urbanistica sussisterebbe quindi solo a partire da tale data. Fissata udienza di discussione le parti hanno depositato memorie. All’udienza del 29.9.2021 la causa è stata discussa e decisa nel merito. DIRITTO Deve premettersi che, con memoria depositata in data 7.9.2021 per l’udienza di discussione, i ricorrenti hanno formulato istanza di rinvio rilevando come, allo stato dei fatti, il Comune avrebbe realizzato le opere di urbanizzazione ma i ricorrenti sarebbero ancora in attesa del collaudo e dell’autorizzazione allo scarico ai sensi del d.lgs. n. 152/2006 per quanto riguarda il sistema di scarico acque. Per tale aspetto hanno dunque sostenuto di avere interesse a che il Tribunale proceda, in un contesto di giurisdizione esclusiva, all’accertamento di conformità delle opere nelle more realizzate. L’istanza non può trovare accoglimento. Il presente giudizio ha ad oggetto l’impugnazione di due atti di inibitoria dell’efficacia di due – sostanzialmente identiche - dichiarazioni di agibilità degli immobili di proprietà dei ricorrenti, presentate ed appunto inibite dall’amministrazione nella loro efficacia nel 2014. Come noto la domanda in giudizio cristallizza il thema decidendum. Il giudizio amministrativo non rappresenta, anche nelle sue forme di giurisdizione esclusiva, una forma di sorveglianza attiva e permanente sull’attività dell’amministrazione; esso resta cristallizzato dal petitum, rispetto al quale le sopravvenienze possono avere una incidenza, al più, sull’attualità dell’interesse ad agire, non certo giustificare una indefinita ed indefinibile modifica dell’oggetto del contendere, che sarebbe strutturalmente incompatibile con le regole processuali (che vedono il thema dedidendum definito con gli atti introduttivi) e con la ragionevole durata del processo. L’istanza di rinvio non può quindi trovare accoglimento. Resta in fatto pacifico in atti che, rispetto al momento in cui il tecnico dei ricorrenti ha attestato l’agibilità degli edifici inibita dal Comune, la situazione si è ampiamente evoluta; la stessa amministrazione ha realizzato una parte delle opere di urbanizzazione mancanti che sono state collaudate nel corso del 2021. Ragionevolmente questa evoluzione avrebbe potuto condurre ad una declaratoria di sopravvenuta carenza di interesse da parte degli interessati (che dovrebbero, nel loro interesse, attivarsi con una nuova attestazione di parte circa le condizioni degli immobili); posto che tuttavia le parti hanno spiegato ampie difese, in sostanza insistendo sull’assunto che l’inibitoria fosse anche all’epoca ingiustificata ed hanno formulato una domanda risarcitoria si procede all’analisi delle censure. Per semplicità, vista l’identità di contenuto, si farà riferimento ai motivi del ricorso principale con argomenti che, stante appunto l’identità delle questioni, sono validi anche per quanto concerne i motivi aggiunti. Pare preliminarmente opportuno definire il quadro normativo in cui le inibitorie si sono inserite. La prima inibitoria è stata adottata nell’agosto del 2014, la seconda il 7.11.2014 L’art. 25 del d.p.r. n. 380/2001, con riferimento alla richiesta di agibilità, nel testo vigente sino al d.l. 12.9.2014, n. 133, prevedeva al comma 1 la possibilità di formulare richiesta di agibilità soggetta ad un meccanismo di silenzio assenso, ovvero, consentiva, ai commi 5 bis e 5 ter (introdotti in una logica di semplificazione dal d.l. n. 69/2013), quanto segue: “5-bis. Ove l'interessato non proponga domanda ai sensi del comma 1, fermo restando l'obbligo di presentazione della documentazione di cui al comma 3, lettere a), b) e d), del presente articolo e all'articolo 5, comma 3, lettera a), presenta la dichiarazione del direttore dei lavori o, qualora non nominato, di un professionista abilitato, con la quale si attesta la conformità dell'opera al progetto presentato e la sua agibilità, corredata dalla seguente documentazione: a) richiesta di accatastamento dell'edificio che lo sportello unico provvede a trasmettere al catasto; b) dichiarazione dell'impresa installatrice che attesta la conformità degli impianti installati negli edifici alle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico valutate secondo la normativa vigente. 5-ter. Le Regioni a statuto ordinario disciplinano con legge le modalità per l'attuazione delle disposizioni di cui al comma 5-bis e per l'effettuazione dei controlli.” A partire dal 13.9.2014 il testo dei suddetti commi è stato modificato nei termini che seguono: “5-bis. Ove l'interessato non proponga domanda ai sensi del comma 1, fermo restando l'obbligo di presentazione della documentazione di cui al comma 3, lettere a), b) e d), del presente articolo e all'articolo 5, comma 3, lettera a), presenta la dichiarazione del direttore dei lavori o, qualora non nominato, di un professionista abilitato, con la quale si attesta la conformità dell'opera al progetto presentato e la sua agibilità, corredata dalla seguente documentazione: a) richiesta di accatastamento dell'edificio che lo sportello unico provvede a trasmettere al catasto; b) dichiarazione dell'impresa installatrice che attesta la conformità degli impianti installati negli edifici alle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico valutate secondo la normativa vigente. 5-ter. Le Regioni a statuto ordinario disciplinano con legge le modalità per l'effettuazione dei controlli”. In definitiva, in una logica di sempre maggiore semplificazione della materia, il legislatore nazionale ha introdotto nel tempo accanto a forme provvedimentali di riconoscimento dell’agibilità (ancorchè a loro volta semplificate dalla previsione di meccanismi di possibile silenzio assenso) la possibilità di autocertificare con efficacia immediata la sussistenza dei presupposti di legge, grazie all’attestazione da parte di un tecnico abilitato; si tratta quindi di una iniziativa privata di autoresponsabilità, con eliminazione della necessità di una attività provvedimentale. La normativa nazionale ha rimandato a tal proposito ad una ulteriore disciplina regionale, dapprima per la sua stessa fattiva attuazione (“modalità per l’attuazione e per l’effettuazione dei controlli”) e quindi, a partire dal settembre 2014, per la sola disciplina dei controlli. Sino alla l.r. Toscana n. 65/2014 (in vigore dal 27.11.2014), trovava applicazione in materia in regione Toscana la l.r. Toscana n. 2/2005, di interesse per il presente contenzioso, la quale, in tema di abitabilità/agibilità, prevedeva all’art. 86 l’attestazione del professionista con immediata efficacia, salvo interventi di controllo da parte dell’amministrazione. Così ricostruito il quadro normativo applicabile ne consegue che, all’epoca dei due provvedimenti per cui è causa, il professionista incaricato poteva effettivamente, con propria attestazione, dichiarare la sussistenza dei requisiti di agibilità dell’immobile, fatti salvi gli ovvi poteri di controllo dell’amministrazione. Se tale è il quadro normativo, ferme le facoltà del professionista abilitato, non sono tuttavia condivisibili gli assunti di cui al primo motivo di ricorso, dai quali pare desumersi che: a) l’amministrazione avrebbe dovuto attivare un vero e proprio procedimento di autotutela; b) l’amministrazione non avrebbe potuto sconfessare l’autocertificazione del tecnico. Quanto al primo aspetto, non essendo in tale modulo procedimentale semplificato prevista la formazione di alcun atto, ancorchè per silentium, non sussistono margini per provvedimenti di autotutela, fisiologicamente di secondo grado, appunto perché non si tratta di rivalutare atti adottati dall’amministrazione ma, più semplicemente, di controllare una attività privata. Quanto al secondo aspetto, è evidente che la facoltà di attestare con efficacia immediata la sussistenza di presupposti di legge non preclude affatto il controllo (anzi esso è espressamente disciplinato tanto dalla legge nazionale che da quella regionale e, per l’aspetto urbanistico edilizio, è sempre sussistente in capo all’amministrazione comunale), per l’ovvia ragione che la dichiarazione del professionista attesta la sussistenza di determinati requisiti ma, ove in ipotesi inesistenti, siffatti requisiti non si realizzano certo per il solo fatto di essere stati autocertificati, con il risultato che una attestazione a monte della quale non sussistano i presupposti di legge non è idonea a produrre alcun effetto. Tanto è stato prontamente evidenziato dall’amministrazione con le inibitorie impugnate. L’amministrazione è quindi correttamente intervenuta in fase di controllo, riscontrando la mancanza di presupposti in fatto tra quelli legali previsti anche per l’agibilità, il tutto in piana applicazione del disposto del d.p.r. n. 380/2001 e della l. r. Toscana n. 2/2005. Né l’inibitoria di efficacia può essere intesa come una “sospensione sine die”, trattandosi del mero rilievo che l’attestazione di agibilità implicava l’affermazione di esistenza di presupposti (tra cui la conformità urbanistico edilizia espressamente richiesta dall’art. 25 co. 1 del d.p.r. n. 380/2001, la conformità al progetto richiamata dal comma 5 bis del medesimo articolo) in verità non sussistenti; il provvedimento evidenzia chiaramente la problematica contestata e non presenta alcun improprio effetto sine die, né tanto meno impediva ai proprietari di comprendere quali fossero i requisiti oggettivamente mancanti. Il primo motivo di ricorso deve quindi essere respinto. Con il secondo motivo di ricorso si contesta che l’amministrazione non abbia instaurato un contraddittorio preventivo. Ritiene il collegio che la problematica del contraddittorio debba necessariamente essere calata nel particolare modulo procedimentale rappresentato dalla attestazione privata di agibilità (a efficacia immediata) e successivo eventuale esercizio del potere di controllo dei requisiti; in tale contesto, considerata l’efficacia legale immediata della dichiarazione e la circostanza che l’iniziativa muove dal privato, è evidente come l’inibitoria di efficacia assuma ex se le caratteristiche di atto “urgente” poiché volta a paralizzare una efficacia, appunto, immediata ed attestata dal privato senza previa interlocuzione con l’amministrazione la quale, in tesi e come ritenuto nel presente caso, può riscontrare la mera non rispondenza della realtà di fatto alla attestata sussistenza dei presupposti legali. Da aggiungersi, per altro, che la problematica dell’agibilità degli edifici era dibattuta da tempo tra le parti ed era questione sulla quale era in atto un confronto tra comune e proprietari degli immobili (i quali hanno anche in effetti cercato di supplire alle carenze della società costruttrice), sicchè non è certo sostenibile che gli stessi non fossero pienamente edotti delle contestazioni e della posizione dell’amministrazione. Anche il secondo motivo di ricorso deve quindi essere respinto. Quanto al merito (ed in particolare ai motivi 3, 7 di ricorso), come evidenziato dalla difesa dell’amministrazione, il cuore delle contestazioni concerne la necessità o meno della conformità urbanistico edilizia per ottenere l’agibilità. Sul punto, pur a fronte di pregressi variegati orientamenti giurisprudenziali, è recentemente intervenuta la pronuncia Cons. St. sez. II n. 3836/2021 (avente ad oggetto proprio una ipotesi di inadempienza rispetto alla realizzazione di opere di urbanizzazione previste da una convenzione edilizia) che, in modo esaustivo, ha chiarito quanto segue: “Occorre innanzi tutto chiarire come il termine “agibilità” sia stato in passato utilizzato dal legislatore in un’accezione del tutto diversa da quella attualmente riconducibile alla richiamata disciplina urbanistica, con ciò generando una certa confusione interpretativa ed atecnicità di linguaggio, in particolare in relazione a specifiche tipologie di immobili. Ad essa, ad esempio, si fa ancora oggi riferimento in relazione alla certificazione dei requisiti di solidità e sicurezza che devono possedere i teatri e luoghi di pubblico spettacolo ai sensi dell’art. 80 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, T.U.L.P.S, denominata, appunto, “licenza di agibilità”, nell’art. 1, comma 1, n. 9, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, che ha trasferito la competenza al relativo rilascio ai Comuni. L’art. 220 del r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, invece, disciplinava la c.d. “abitabilità”, ovvero la fruibilità degli immobili a fini abitativi. La norma disponeva che «I progetti per le costruzioni di nuove case, urbane o rurali, quelli per la ricostruzione o la sopraelevazione o per modificazioni, che comunque possono influire sulle condizioni di salubrità delle case esistenti debbono essere sottoposti al visto del podestà, che provvede previo parere dell’ufficiale sanitario e sentita la commissione edilizia». Agli stessi tipi di immobili (“abitazioni”) aveva riguardo anche il d.P.R. 22 aprile 1994, n. 425, contenente il Regolamento recante disciplina dei procedimenti di autorizzazione all’abitabilità. L’art. 4, comma 1, dello stesso prevedeva che ai fini del rilascio del documento di cui all’art. 220 del T.U.L.S. il direttore dei lavori attestasse sotto la propria responsabilità, anche «la conformità rispetto al progetto approvato». Con l’entrata in vigore del d.P.R. n. 380 del 2001, la “abitabilità” cede il passo (a seguito dell’abrogazione sia dell’art. 220 del T.U.L.S. che del d.P.R. n. 425/1994) alla omnicomprensiva “agibilità”, siccome riferita a qualsivoglia tipologia di edificio, non solo di natura abitativa. Il relativo termine sopravvive pertanto esclusivamente nel gergo degli operatori del settore, che continuano ad utilizzarlo in relazione agli immobili a destinazione residenziale per distinguerli da quelli con diversa destinazione d’uso, per i quali quello nuovo di “agibilità” si palesa anche etimologicamente più confacente. L’art. 24, dunque, nella sua stesura originaria, vigente al momento dell’odierna controversia, stabiliva che: «Il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente». La presunta tassatività dell’elencazione non tiene tuttavia conto del fatto che il successivo art. 25, che declina il procedimento di rilascio, nell’elencare le declaratorie a corredo della richiesta, menziona espressamente la «conformità dell’opera rispetto al progetto approvato», ovvero, in buona sostanza, la sua regolarità edilizia e, conseguentemente, urbanistica.” Fatta tale analisi delle disposizioni vigenti già all’epoca di interesse per la presente controversia il giudice d’appello ha proseguito ricordando che: “Come emerge dal delineato quadro normativo, quindi, il rilascio del certificato di agibilità, ovvero, oggi, la sua dichiarazione, presuppone una molteplicità di valutazioni ulteriori rispetto a quelle che erano sottese al vecchio certificato di abitabilità, cui il primo pertanto non può essere del tutto assimilato, siccome affermato dal primo giudice. Di ciò è prova proprio nell’art. 26 del d.P.R. n. 380 del 2001. Nel consentire, infatti, al Sindaco di intervenire comunque dichiarando la inabitabilità di un immobile, già certificato come agibile, ai sensi dell’art. 222 del T.U.L.S., il legislatore ha inteso ribadire le differenze tra i due istituti: altro è, infatti, la strutturale conformità del fabbricato a tutti i requisiti richiesti e, in parte, assorbiti nella conformità al titolo edilizio in forza del quale è stato realizzato, altro la sua (sopravvenuta) carenza di requisiti igienici tale da non consentirne l’occupazione a fini abitativi. Anche prima della riforma che ne ha ricondotto il conseguimento ad una mera segnalazione certificata, il procedimento di acquisizione della agibilità si connotava per la sostanziale attribuzione al privato richiedente dell’onere di dimostrare la regolarità di quanto realizzato, salvo poter richiedere comunque al Comune di “certificarne” i contenuti. Solo a seguito della acquisizione della stessa, peraltro, può considerarsi legittimo l’utilizzo in concreto dell’immobile in conformità con la propria destinazione d’uso, seppure il relativo illecito sia punito con una sanzione pecuniaria di non particolare entità. Al fine, dunque, di non procrastinare indebitamente proprio la fruizione del bene, ovvero la sua commerciabilità, il comma 4 dell’art. 25, nella formulazione vigente ratione temporis, prevedeva che decorsi trenta giorni dalla ricezione della domanda, ovvero, in caso di presenza del richiesto parere della A.S.L., sessanta giorni, l’inerzia dell’Amministrazione abbia validità di assenso….Diversamente opinando, ovvero ritenendo certificabile come agibile anche un immobile abusivo, purché conforme ai requisiti igienico-sanitari e di risparmio energetico previsti, si finirebbe per trasformare la relativa qualificazione in una sorta di ulteriore sanatoria cartolare, ovvero, al contrario, per svuotarne completamente la portata, stante che la natura permanente dell’illecito edilizio ad essa sottesa non ne impedirebbe comunque l’assoggettamento al previsto regime sanzionatorio…In sintesi, la violazione di una convenzione accessiva ad un Piano attuativo urbanistico impatta sulla regolarità dei lavori eseguiti, condizionando la validità del titolo. Essendo la agibilità la summa del possesso dei requisiti sia igienico-sanitari che urbanistico-edilizi di un edificio, essa non può essere conseguita nel caso in cui il titolo edilizio sottostante, seppure esistente, non possa considerarsi efficace, sicché non ne è necessario il preventivo annullamento.” In definitiva il giudice d’appello ha, con ampi argomenti storico-sistematici, chiarito come la conformità urbanistica dell’opera sia requisito imprescindibile anche ai fini dell’agibilità di un immobile. Nel caso di specie è del tutto pacifico che l’impresa costruttrice non abbia completato le opere di urbanizzazione, per profili per altro di significativa rilevanza: allacciamento al sistema fognario, viabilità, illuminazione, verde pubblico. Vero è che, trovandosi nella condizione di non avere neppure l’allaccio alla fognatura, i privati proprietari si sono attivati quantomeno per dotare gli immobili di forme di smaltimento delle acque nere; resta il dato, del tutto pacifico in giudizio, che ben dopo l’adozione dei provvedimenti impugnati, le opere di urbanizzazione sono risultate non completate ed ancora oggi, a distanza di svariati anni dalle inibitorie, gli stessi ricorrenti chiedono che si “attenda” il perfezionamento dell’autorizzazione allo scarico. Ne deriva la correttezza dell’inibitoria di efficacia, fondata su un dato di fatto (mancanza di opere di urbanizzazione alcune di impatto anche significativo) del tutto incontestato in giudizio. Sono conseguentemente infondati i motivi 3,7 di ricorso. Anche i motivi 4 e 6 sono infondati in quanto, se è vero che al momento delle inibitorie qui impugnate la situazione in fatto era in parte mutata rispetto a quando l’agibilità era stata negata al costruttore (poichè, come detto, i proprietari si stavano attivando quantomeno per realizzare un sistema di smaltimento delle acque nere), resta incontestato che le opere di urbanizzazione (comprendenti tra l’altro anche sistema viario, illuminazione, verde) non erano complete e non vi era quindi la pur necessaria conformità urbanistico edilizia. Del tutto pacificamente le opere realizzate dal comune sono state completate nel 2021 e l’autorizzazione allo scarico non è ancora perfezionata. Ne consegue l’infondatezza dei due motivi di ricorso. Quanto al 5 motivo di ricorso, con il quale si contestano presunte lesioni del diritto di proprietà, è evidente come i ricorrenti sbaglino sul punto avversario; è indubbio che la mancata corretta attuazione del piano di lottizzazione abbia leso le loro prerogative di proprietari ma è altrettanto indubbio che gli stessi sono stati danneggiati dalla condotta del costruttore e loro dante causa, non certo del comune che ha tempestivamente attivato gli strumenti in suo possesso quali la pronuncia di decadenza dalla convenzione, l’escussione della garanzia fideiussoria, la realizzazione delle opere una volta ottenuti i fondi dall’assicurazione. Né infine, per completezza di argomentazioni, rileva in questa sede disquisire della natura o meno di obbligazioni propter rem e delle conseguenze di tale qualificazione rispetto agli impegni previsti da una convenzione edilizia; fermo infatti che la convenzione è stata sottoscritta dalla società costruttrice e dall’amministrazione e che quest’ultima si è resa inadempiente nei confronti del comune, la problematica delle eventuali responsabilità contrattuali o ambulatorie (per altro proprio nei confronti del comune, contraente leso) in capo al solo costruttore e/o anche agli acquirenti nulla aggiunge al dato di fatto che gli immobili, nel 2014, non presentavano la conformità urbanistico-edilizia e che tale carenza non era in alcun caso addebitabile al comune. I ricorrenti, non potendo certo addossare all’amministrazione un danno loro provocato da terzi, posto che gli immobili, in quanto tali, restavano oggettivamente privi di conformità urbanistica, ben avrebbero potuto, in fatto, avere interesse a cooperare alla più celere regolarizzazione delle opere, anche per conseguire prima l’agibilità; ed in effetti gli stessi si sono parzialmente attivati. In tale logica deve ritenersi che l’amministrazione abbia assecondato le iniziative dei privati, volte comunque al recupero di una conformità urbanistica, ed abbia fatto presente in giudizio l’interesse – di fatto – che i ricorrenti potevano vantare a cooperare o accelerare la soluzione delle problematiche emerse; restava ferma la possibilità dei proprietari, al più, di agire in danno o rivalsa nei confronti del loro dante cause ed effettivo danneggiante. Ne deriva la complessiva infondatezza del ricorso principale e per motivi aggiunti, considerato che le inibitorie (unici atti impugnati e da valutarsi, evidentemente, alla luce della situazione alle medesime coeva) sono state adottate nel rispetto della disciplina applicabile. L’infondatezza della domanda di annullamento comporta la reiezione anche delle pretese risarcitorie. Resta ovviamente in facoltà dei privati dotarsi di nuova ed attualizzata attestazione – alla luce delle sopravvenute modifiche in fatto – previa verifica la sussistenza dei requisiti di legge, quando questi si realizzassero nella loro interezza. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, respinge il ricorso principale e per motivi aggiunti; condanna i ricorrenti in solido a rifondere all’amministrazione resistente le spese di lite, liquidate in € 3000,00 oltre IVA, CPA e rimborso spese generali 15%. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 29 settembre 2021 tenutasi mediante collegamento da remoto, secondo quanto disposto dall’art. 87, comma 4 bis, c.p.a. introdotto dal decreto-legge n. 80 del 2021, convertito con modificazioni in legge n. 113 del 2021 con l'intervento dei magistrati: Riccardo Giani, Presidente FF Pierpaolo Grauso, Consigliere Paola Malanetto, Consigliere, Estensore Riccardo Giani, Presidente FF Pierpaolo Grauso, Consigliere Paola Malanetto, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Edilizia – Agibilità - Conformità urbanistica – Nnecessità.         La conformità urbanistica dell’opera sia requisito imprescindibile anche ai fini dell’agibilità di un immobile (1).    (1) Occorre innanzi tutto chiarire come il termine “agibilità” sia stato in passato utilizzato dal legislatore in un’accezione del tutto diversa da quella attualmente riconducibile alla richiamata disciplina urbanistica, con ciò generando una certa confusione interpretativa ed atecnicità di linguaggio, in particolare in relazione a specifiche tipologie di immobili. Ad essa, ad esempio, si fa ancora oggi riferimento in relazione alla certificazione dei requisiti di solidità e sicurezza che devono possedere i teatri e luoghi di pubblico spettacolo ai sensi dell’art. 80 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, T.U.L.P.S, denominata, appunto, “licenza di agibilità”, nell’art. 1, comma 1, n. 9, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, che ha trasferito la competenza al relativo rilascio ai Comuni. L’art. 220 del r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, invece, disciplinava la c.d. “abitabilità”, ovvero la fruibilità degli immobili a fini abitativi. La norma disponeva che «I progetti per le costruzioni di nuove case, urbane o rurali, quelli per la ricostruzione o la sopraelevazione o per modificazioni, che comunque possono influire sulle condizioni di salubrità delle case esistenti debbono essere sottoposti al visto del podestà, che provvede previo parere dell’ufficiale sanitario e sentita la commissione edilizia». Agli stessi tipi di immobili (“abitazioni”) aveva riguardo anche il d.P.R. 22 aprile 1994, n. 425, contenente il Regolamento recante disciplina dei procedimenti di autorizzazione all’abitabilità. L’art. 4, comma 1, dello stesso prevedeva che ai fini del rilascio del documento di cui all’art. 220 del T.U.L.S. il direttore dei lavori attestasse sotto la propria responsabilità, anche «la conformità rispetto al progetto approvato». Con l’entrata in vigore del d.P.R. n. 380 del 2001, la “abitabilità” cede il passo (a seguito dell’abrogazione sia dell’art. 220 del T.U.L.S. che del d.P.R. n. 425/1994) alla omnicomprensiva “agibilità”, siccome riferita a qualsivoglia tipologia di edificio, non solo di natura abitativa. Il relativo termine sopravvive pertanto esclusivamente nel gergo degli operatori del settore, che continuano ad utilizzarlo in relazione agli immobili a destinazione residenziale per distinguerli da quelli con diversa destinazione d’uso, per i quali quello nuovo di “agibilità” si palesa anche etimologicamente più confacente. L’art. 24, dunque, nella sua stesura originaria, vigente al momento dell’odierna controversia, stabiliva che: «Il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente». La presunta tassatività dell’elencazione non tiene tuttavia conto del fatto che il successivo art. 25, che declina il procedimento di rilascio, nell’elencare le declaratorie a corredo della richiesta, menziona espressamente la «conformità dell’opera rispetto al progetto approvato», ovvero, in buona sostanza, la sua regolarità edilizia e, conseguentemente, urbanistica. ​​​​​​​Come emerge dal delineato quadro normativo, quindi, il rilascio del certificato di agibilità, ovvero, oggi, la sua dichiarazione, presuppone una molteplicità di valutazioni ulteriori rispetto a quelle che erano sottese al vecchio certificato di abitabilità, cui il primo pertanto non può essere del tutto assimilato, siccome affermato dal primo giudice. Di ciò è prova proprio nell’art. 26 del d.P.R. n. 380 del 2001. Nel consentire, infatti, al Sindaco di intervenire comunque dichiarando la inabitabilità di un immobile, già certificato come agibile, ai sensi dell’art. 222 del T.U.L.S., il legislatore ha inteso ribadire le differenze tra i due istituti: altro è, infatti, la strutturale conformità del fabbricato a tutti i requisiti richiesti e, in parte, assorbiti nella conformità al titolo edilizio in forza del quale è stato realizzato, altro la sua (sopravvenuta) carenza di requisiti igienici tale da non consentirne l’occupazione a fini abitativi. Anche prima della riforma che ne ha ricondotto il conseguimento ad una mera segnalazione certificata, il procedimento di acquisizione della agibilità si connotava per la sostanziale attribuzione al privato richiedente dell’onere di dimostrare la regolarità di quanto realizzato, salvo poter richiedere comunque al Comune di “certificarne” i contenuti. Solo a seguito della acquisizione della stessa, peraltro, può considerarsi legittimo l’utilizzo in concreto dell’immobile in conformità con la propria destinazione d’uso, seppure il relativo illecito sia punito con una sanzione pecuniaria di non particolare entità. Al fine, dunque, di non procrastinare indebitamente proprio la fruizione del bene, ovvero la sua commerciabilità, il comma 4 dell’art. 25, nella formulazione vigente ratione temporis, prevedeva che decorsi trenta giorni dalla ricezione della domanda, ovvero, in caso di presenza del richiesto parere della A.S.L., sessanta giorni, l’inerzia dell’Amministrazione abbia validità di assenso….Diversamente opinando, ovvero ritenendo certificabile come agibile anche un immobile abusivo, purché conforme ai requisiti igienico-sanitari e di risparmio energetico previsti, si finirebbe per trasformare la relativa qualificazione in una sorta di ulteriore sanatoria cartolare, ovvero, al contrario, per svuotarne completamente la portata, stante che la natura permanente dell’illecito edilizio ad essa sottesa non ne impedirebbe comunque l’assoggettamento al previsto regime sanzionatorio…In sintesi, la violazione di una convenzione accessiva ad un Piano attuativo urbanistico impatta sulla regolarità dei lavori eseguiti, condizionando la validità del titolo. Essendo la agibilità la summa del possesso dei requisiti sia igienico-sanitari che urbanistico-edilizi di un edificio, essa non può essere conseguita nel caso in cui il titolo edilizio sottostante, seppure esistente, non possa considerarsi efficace, sicché non ne è necessario il preventivo annullamento. 
Edilizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/l-adunanza-plenaria-pronuncia-in-tema-di-concorso-straordinario-per-l-attribuzione-di-sedi-farmaceutiche
L’Adunanza plenaria pronuncia in tema di concorso straordinario per l’attribuzione di sedi farmaceutiche
N. 00001/2020REG.PROV.COLL. N. 00009/2019 REG.RIC.A.P. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9 dell’Adunanza plenaria del 2019, proposto da Elisa Gabriella Orlando e da Sebastiano Scaminaci, entrambi rappresentati e difesi dall’Avvocato Romina Raponi, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Vittoria Colonna, n. 32; contro Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio pro tempore, Regione Siciliana - Assessorato Regionale della Salute, in persona del Presidente dell’Assemblea Regionale pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; Azienda Sanitaria Provinciale di Caltanisetta, non costituita in giudizio;Presidenza Regione Siciliana, non costituita in giudizio;Assessorato Regionale della Salute, non costituita in giudizio;Comune di Gela, non costituito in giudizio; nei confronti Antonella Petrina, non costituita in giudizio;Rosa Scarfone, non costituita in giudizio;Ordine Provinciale dei Farmacisti di Caltanisetta, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza n. 2477 del 27 novembre 2018 del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo, sez. III, resa tra le parti, in seguito alla rimessione all’Adunanza plenaria da parte del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana con l’ordinanza n. 759 del 19 agosto 2019 - concorso per l’assegnazione di 222 sedi farmaceutiche – mancato riconoscimento della titolarità e dell’autorizzazione all’apertura della farmacia n. 21 di Gela. visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visti gli atti di costituzione in giudizio dell’appellata Presidenza del Consiglio dei Ministri e dell’appellata Regione Siciliana – Assessorato Regionale della Salute; visti tutti gli atti della causa; relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 dicembre 2019 il Consigliere Massimiliano Noccelli e uditi per gli odierni appellanti, Elisa Gabriella Orlando e Sebastiano Caminaci, l’Avvocato Romina Raponi e per le pubbliche amministrazioni appellate, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’Avvocato dello Stato Sclafani; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Gli odierni appellanti, Elisa Gabriella Orlando e Sebastiano Scaminaci, hanno preso parte in forma associata alla procedura concorsuale di 222 sedi farmaceutiche bandita, ai sensi dell’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012, conv. in l. n. 27 del 2012, dalla Regione Siciliana con il decreto n. 2782 del 24 dicembre 2012. 1.1. L’art. 4 del bando, per quanto rileva in questa sede, ha previsto che «ciascun candidato può partecipare al concorso in non più di due Regioni o Province autonome» e che «al totale di due concorsi concorre sia la partecipazione in forma singola che associata». 1.2. Essi si sono collocati al 126° posto in graduatoria e sono risultati perciò assegnatari della sede n. 21 sita in Gela, rinviando il decreto dell’Assessorato del 22 gennaio 2018, quanto al riconoscimento della titolarità e all’autorizzazione all’apertura della relativa farmacia, ad un provvedimento da adottarsi, da parte dell’Azienda sanitaria territorialmente competente, previa acquisizione delle necessarie attestazioni e dichiarazioni relative anche ad eventuali cause di incompatibilità. 1.3. Senonché, con la deliberazione n. 1404 del 13 settembre 2018, l’Azienda Sanitaria Provinciale di Caltanissetta, nel richiamare le direttive impartite dall’Assessorato regionale della salute con il decreto n. 99 del 2018, ha dichiarato “improcedibile” la domanda di riconoscimento della titolarità e dell’autorizzazione all’apertura della farmacia n. 21 di Gela, poiché ha ravvisato una causa di incompatibilità per essere i ricorrenti già titolari di una farmacia nella Regione Lombardia. 1.4. Gli odierni appellanti hanno infatti preso parte anche alla procedura concorsuale per l’assegnazione di 343 sedi farmaceutiche, bandita da tale Regione, e si sono utilmente collocati in graduatoria, ottenendo la sede n. 7 del Comune di Mariano Comense. 2. Avverso tale provvedimento e tutti gli atti presupposti e conseguenti – il bando, il decreto del Dirigente Generale n. 99 del 2018, la nota prot. n. 61 del 26 gennaio 2018 dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Caltanissetta – gli odierni appellanti hanno proposto ricorso avanti al Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo, e ne hanno chiesto, previa sospensione, l’annullamento. 2.1. Essi hanno proposto un unico articolato motivo, incentrato sulla violazione dell’art. 112 del R.D. n. 1265 del 1934, degli artt. 11 e 12 della l. n. 475 del 1968, dell’art. 11 del d.l. n. 12 del 2012, degli artt. 7 e 8 della l. n. 362 del 1991, dell’art. 7, comma 4-quater, del d.l. n. 192 del 2014, del d.l. n. 223 del 2006, dell’art. 1, commi 157 e 158, della l. n. 124 del 2017, del d.P.R. n. 445 del 2000, dell’art. 18 della L.R. n. 33 del 1994, degli artt. 1 e 3 della l. n. 241 del 1990, sulla violazione di legge per contrasto con l’art. 39 del T.U.E., sulla violazione del bando di concorso, sull’eccesso di potere anche per carenza di motivazione, sul difetto di istruttoria, sull’irragionevolezza, sull’illogicità, sull’incongruenza, sull’ingiustizia grave e manifesta, sulla violazione del principio di imparzialità e razionalità, sulla violazione degli artt. 1, 3, 4, 32, 36, 41 e 97 Cost. 2.1.1. Gli originari ricorrenti hanno sostenuto e continuano a sostenere, anche nel presente grado di appello, la tesi secondo cui ai farmacisti che concorrono per la gestione associata di due farmacie in due regioni diverse non sia precluso né dall’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012 né da altra disposizione la possibilità di conseguire entrambe le sedi, perché la legislazione vigente, dopo la riforma recata dalla l. n. 124 del 2017, Legge annuale per il mercato e la concorrenza, consente alle società, di persone e ora anche di capitali, di cui siano soci due farmacisti, di essere titolari di due o più farmacie sul territorio nazionale, con il limite del 20% delle farmacie esistenti nel territorio della stessa regione o provincia autonoma, previsto dall’art. 1, comma 158, della stessa l. n. 124 del 2017. 2.2. Si è costituta nel primo grado del giudizio l’Azienda Sanitaria Provinciale di Caltanissetta, eccependo preliminarmente il proprio difetto di legittimazione passiva e contestando, nel merito, le argomentazioni dei ricorrenti. 2.3. Le altre amministrazioni resistenti, costituitesi nel primo grado del giudizio tramite l’Avvocatura Distrettuale dello Stato, hanno chiesto anche esse la reiezione del ricorso. 2.4. Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo, con la sentenza n. 2477 del 27 novembre 2018 resa in forma semplificata tra le parti ai sensi dell’art. 60 c.p.a., ha respinto il ricorso e ha condannato i ricorrenti a rifondere le spese di lite nei confronti delle pubbliche amministrazioni costituitesi. 2.5. Ad avviso del Tribunale, il riferimento alla gestione associata contemplato dal soprarichiamato comma 7 dell’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012 non è teso a delineare un distinto soggetto giuridico rispetto ai singoli farmacisti che rimangono contitolari dei requisiti soggettivi necessari allo svolgimento dell’attività professionale e soggetti alle incompatibilità previste dall’ordinamento. 2.5.1. Il legislatore del 2012, nel richiamare la gestione associata, non avrebbe sicuramente inteso riferirsi alle associazioni previste dall’art. 36 c.c. in ragione: a) della connaturata immanenza dello scopo di lucro nell’attività farmaceutica; b) della specifica regola, contemplata al comma 7 dell’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012, con cui si è prescritta la gestione paritaria tra tutti gli associati, cui consegue implicitamente la comune volontà di ripartire gli utili tra gli stessi, stante il divieto di cui all’art. 2265 c.c. e non potendosi ipotizzare, per puntuale dettato legislativo, forme di collaborazione afferenti a rapporti di lavoro subordinato o comunque privi di poteri gestori paritari. 2.5.2. Tali osservazioni implicherebbero indubbiamente, secondo il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, la riconducibilità della gestione associata nell’alveo del modello societario (Cass. civ., sez. I, 8 marzo 2013, n. 5863). 2.6. Ciò apparirebbe perfettamente coerente con il disposto dell’art. 7, comma 1, della legge 8 novembre 1991, n. 362, secondo cui le farmacie private sono in gestione societaria «quando la titolarità è condivisa tra più farmacisti iscritti all’albo con i requisiti di idoneità, che a tal fine costituiscono una società di persone (società in nome collettivo e società in accomandita semplice)», come questo Consiglio di Stato ha rilevato nel parere n. 69 del 3 gennaio 2018, § 6, reso dalla Commissione speciale. 2.7. Sussisterebbe, pertanto, l’incompatibilità di cui all’art. 8, comma 1, lett. b) della l n. 362 del 1991, secondo cui la partecipazione alle società, qualunque sia il ruolo assunto dal singolo socio, è incompatibile con la posizione di titolare di altra farmacia, laddove la titolarità può essere sia individuale sia condivisa (cfr. Cons. St., parere n. 69 del 3 gennaio 2018, § 41). 2.7.1. La Commissione speciale di questo Consiglio di Stato, ha ricordato ancora la sentenza di primo grado, ha chiarito come la formulazione del citato art. 8, comma 1, lett. b), della legge n. 362 del 1991 impedisca al singolo titolare o a quello in forma collettiva (rectius societaria), di essere titolare – in forma individuale o associata – gestore provvisorio, direttore o collaboratore di altra farmacia. 2.7.2. Incompatibilità che questo stesso Consiglio di Stato, in sede consultiva, avrebbe ritenuto applicabile anche nell’ipotesi di mero socio finanziatore (cfr. Cons. St., parere n. 69 del 3 gennaio 2018, § 41.5). 2.7.3. In altre parole, ha ritenuto ancora il giudice di prime cure, la forma attraverso la quale dei farmacisti possono gestire la relativa attività economica in forma collettiva è quella della società di persone cui, per i partecipanti ai bandi straordinari ai sensi del d.l. n. 1 del 2012, si aggiunge un ulteriore requisito: la paritetica condivisione dei poteri gestori cui inferisce la condivisa contitolarità della farmacia, sicché in capo a tutti i contitolari vige il divieto di ulteriore titolarità contemplato dal citato art. 8. 2.7.4. Tale modello non costituirebbe un tertium genus di titolarità, così come affermato dai ricorrenti in prime cure, ma ha costituito logico corollario della gestione societaria dell’attività farmaceutica in cui la titolarità dell’esercizio di farmacia privata è inscindibilmente concentrato in capo a tutti i soci-farmacisti (cfr. Cons. St., parere n. 69 del 3 gennaio 2018, § 5.3). 2.7.5. Né tale divieto può ritenersi abrogato, come hanno sostenuto gli odierni appellanti nel ricorso di prime cure, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 158, della legge n. 124 del 2017, il quale stabilisce che «i soggetti di cui al comma 1 dell’art. 7 della legge 8 novembre 1991 n. 362, come sostituito dal comma 157, lettera a), del presente articolo, possono controllare, direttamente o indirettamente, ai sensi degli articoli 2359 e seguenti del codice civile, non più del 20 per cento delle farmacie esistenti nel territorio della medesima regione o provincia autonoma». 2.7.6. La Commissione speciale di questo Consiglio di Stato avrebbe infatti precisato come «le due discipline, quella di cui all’art 11 d.l. n. 1/2012 e quella di cui all’art. 7, c. 1, l. n. 362/1991 (come novellata dalla l. n. 124/2017), operino su piani differenti», perché la prima riguarderebbe l’acquisto originario – per concorso – della titolarità della farmacia, fenomeno che tradizionalmente e necessariamente presuppone la personalità fisica (i farmacisti sono professionisti, iscritti all’Ordine) e che, pertanto, richiede i requisiti ad essa collegati (ad es. laurea, iscrizione all’albo dei farmacisti, idoneità in un precedente concorso), mentre la seconda disciplina citata «si occuperebbe delle successive vicende della titolarità della farmacia, consentendone, per l’appunto, l’acquisto anche da parte di società, sia di persone che di capitali» (cfr. Cons. St., parere n. 69 del 3 gennaio 2018, § 24). 2.8. Trattandosi, inoltre, di incompatibilità previste per legge, sarebbe irrilevante, ad avviso del primo giudice, che le stesse siano state espressamente previste nel bando, operando, in tale ipotesi, l’istituto dell’eterointegrazione (Cons. St., sez. III, 24 ottobre 2017, n. 4903). 2.9. Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo, ha per queste ragioni respinto il ricorso degli odierni appellanti. 3. Avverso tale sentenza gli interessati hanno proposto appello al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana. 3.1. Essi, con un unico motivo di censura (pp. 5-23 del ricorso) articolato in ulteriori distinte sottocensure, hanno lamentato l’erroneità della sentenza impugnata, chiedendone, previa sospensione dell’esecutività, la riforma. 3.2. Gli appellanti hanno dedotto la violazione dell’art. 112 del R.D. n. 1265 del 1934, degli artt. 11 e 12 della l. n. 475 del 1968, dell’art. 11 del d.l. n. 12 del 2012, degli artt. 7 e 8 della l. n. 362 del 1991, dell’art. 7, comma 4-quater, del d.l. n. 192 del 2014, del d.l. n. 223 del 2006, dell’art. 1, commi 157 e 158, della l. n. 124 del 2017, del d.P.R. n. 445 del 2000, dell’art. 18 della L.R. n. 33 del 1994, degli artt. 1 e 3 della l. n. 241 del 1990, la violazione di legge per contrasto con l’art. 39 del T.U.E., la violazione del bando di concorso, l’eccesso di potere anche per carenza di motivazione, il difetto di istruttoria, l’irragionevolezza, l’illogicità, l’incongruenza, l’ingiustizia grave e manifesta, la violazione del principio di imparzialità e razionalità, la violazione degli artt. 1, 3, 4, 32, 36, 41 e 97 Cost. 3.3. Gli appellanti hanno sostenuto che dalle disposizioni degli artt. 112 del R.D. n. 1265 del 1934 e dell’art. 8, comma 1, lett. b), della l. n. 362 del 1991 non si desume alcun divieto, per un socio di una società farmaceutica, di essere socio anche di altra società farmaceutica e, quindi, di essere titolare di più farmacie, ma si desume solo il divieto, di cui all’art. 8 citato, che impedirebbe al titolare individuale di essere contestualmente anche socio di altra farmacia. 3.4. E una tale limitazione, rammentano gli appellanti, troverebbe fondamento nelle ragioni esplicitate da una ormai consolidata giurisprudenza, secondo cui il farmacista singolo non potrebbe essere onnipresente e prestare il servizio in maniera adeguata (v., sul punto, Cons. St., sez. V, 6 ottobre 2010, n. 7336, richiamata anche nel citato parere n. 69 del 3 gennaio 2018 di questo Consiglio di Stato). 3.5. Ma tale principio deve necessariamente trovare un contemperamento, come difatti prevede l’ultima parte del comma 2 dell’art. 7 della l. n. 362 del 1991, quanto alle società di capitali, soprattutto in seguito alle modifiche introdotte con la l. n. 124 del 2017, dove i soci possono essere molteplici e il direttore della farmacia può essere uno dei soci o anche un soggetto diverso. 3.6. Dalla disamina della attuale normativa, in seguito alle modifiche apportate dalla l. n. 124 del 2017, emerge, secondo gli appellanti, che non vi sarebbero disposizioni di legge che vietano alle società di essere titolari di più farmacie né ai farmacisti di essere soci in più di una società titolare di farmacie. 3.7. Ebbene, fatta questa premessa, gli odierni appellanti hanno sostenuto che i bandi dei concorsi straordinari per l’assegnazione delle sedi farmaceutiche, più o meno uguali in tutte le regioni, prevedevano la possibilità, per i candidati partecipanti in forma singola o associata, di concorrere a non più di due regioni. 3.8. Detti bandi, però, non avrebbero previsto in nessun modo che, laddove i concorrenti che avessero partecipato in forma associata e fossero risultati vincitori in entrambi i concorsi, sarebbero stati costretti a scegliere una sola sede né una analoga previsione sarebbe contenuta nelle norme di legge vigenti poiché, mentre la necessità di scelta deve considerarsi evidente per i farmacisti tenuto conto del disposto dell’art. 112 del R.D. n. 1265 del 1934, ciò non potrebbe valere per i farmacisti in forma associata, stante la possibilità, ora espressamente riconosciuta, di essere soci di una società titolare di più farmacie, con il limite del 20%. 3.9. La gestione associata sarebbe riconducibile, ad avviso degli appellanti, nel modello societario, come ha ritenuto il primo giudice con un inquadramento sistematico dell’istituto, che gli appellanti mostrano sul punto di condividere, mentre essi contestano l’argomentazione della sentenza impugnata, secondo cui la gestione associata non costituirebbe un soggetto diverso dai singoli farmacisti che la compongono. 3.10. Sarebbe invece inevitabile, essi deducono, che i soggetti che hanno partecipato in forma associata al concorso siano un soggetto giuridicamente distino rispetto alla società da questi costituita ai fini della gestione della farmacia e, in secondo luogo, una volta costituita la società, non vi potrebbe essere alcuna preclusione al rilascio della titolarità della farmacia in capo alla società, perché il regime delle incompatibilità è diverso per i titolari singoli e per la società. 3.11. L’errore che il primo giudice commette, deducono gli appellanti (p. 12 del ricorso), sarebbe quello di «equiparare la titolarità del farmacista individuale a quella della società […] proprio per l’effetto che detta equiparazione comportava, ossia l’applicazione della incompatibilità dei titolari individuali anche alle società». 4. Movendo da tale presupposto, dunque, gli odierni appellanti contestano anche l’interpretazione del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo, nella parte in cui sostiene che il regime della incompatibilità, di cui all’art. 8, comma 1, lett. b), della l. n. 362 del 1991, si applichi anche ai soci e alla società, di persone o di capitali, titolari di farmacia, richiamandosi anche a quanto questo Consiglio di Stato ha affermato nel parere n. 69 del 3 gennaio 2018. 4.1. Gli appellanti sottopongono a serrata critica l’avviso espresso dalla Commissione speciale di questo Consiglio nel § 41 del citato parere (pp. 13-18 del ricorso), che contrasterebbe nettamente con l’evoluzione normativa in materia, che consente alle società, di persone o di capitali, di essere titolari di più farmacie e non vieta al farmacista, che non sia titolare individuale di una farmacia, di essere titolare di più farmacie e hanno chiesto al Consiglio di giustizia della Regione Siciliana, in estremo subordine, di rimettere la questione all’Adunanza plenaria e/o alla Corte di Giustizia (pp. 22-23 del ricorso). 4.2. Essi, infine, censurano la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo, anche nella parte in cui assume che l’unica forma di gestione associata consentita dalla normativa in vigore sarebbe quella delle società di persone e non già anche di capitali (pp. 18-19 del ricorso) nonché nella parte in cui il primo giudice avrebbe affermato che non era necessaria l’espressa previsione di esclusione, nel bando, ignorando peraltro come le diverse regioni si siano comportate molto diversamente in riferimento all’applicazione del regime delle incompatibilità, previste dalla legge, e si siano verificati casi nei quali i farmacisti in gestione associata abbiano ottenuto l’assegnazione di due sedi in distinte regioni. 5. Si è costituito avanti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana l’Assessorato regionale della salute, replicando con una articolata memoria, e ha sottolineato come la funzione pro-concorrenziale dell’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012 riposi essenzialmente sulla possibilità di sommare i titoli dei singoli partecipanti al concorso, mentre la gestione in forma associata sarebbe comunque da imputare direttamente alle persone fisiche dei farmacisti, il che giustificherebbe l’applicazione nei loro confronti del regime di incompatibilità, senza che possa invocarsi la l. n. 124 del 2017, che ha abolito una serie di limiti alla multititolarità, poiché successiva all’indizione del concorso. 5.1. Si è costituita, altresì, l’Azienda Sanitaria Provinciale di Caltanissetta, replicando anche essa con articolata memoria, nel senso della sussistenza dell’incompatibilità a gestire più di una farmacia e della necessità, pertanto, di operare una scelta. 6. Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, dopo aver rinviato al merito l’esame della domanda cautelare, ha disposto attività istruttoria con l’ordinanza n. 277/2019, al fine di acquisire dal Ministero della Salute elementi di conoscenza sulle modalità di attuazione, da parte delle diverse Regioni, dell’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012. 7. Il Ministero della Salute, con la nota prot. n. 18752 del 3 aprile 2019, ha ottemperato alla richiesta istruttoria e ha richiesto agli assessorati alla sanità delle Regioni e delle Province Autonome di Trento e di Bolzano di voler far conoscere la posizione assunta nei confronti dei vincitori in forma associata al concorso in parola che risultino già vincitori della medesima procedura concorsuale presso altra regione e, per questo, già titolari di farmacia. 8. Con la successiva nota prot. n. 26264 del 7 maggio 2019 il Ministero della Salute, nel ribadire come, a suo avviso, operi il divieto di cumulo previsto dall’art. 112 del R.D. n. 1265 del 1934, ha allegato le risposte delle varie Regioni e Province Autonome, ad eccezione dell’Umbria e delle Marche, che non hanno fatto pervenire alcuna comunicazione. 9. Con l’ordinanza n. 759 del 19 agosto 2019 il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana ha rimesso l’esame delle delicate questioni, oggetto del giudizio, all’esame di questa Adunanza plenaria. 10. Il Consiglio di giustizia amministrativa ha premesso come il regime autorizzatorio, che regola l’apertura e l’esercizio delle farmacie, sia stato a lungo sottoposto ad una disciplina, risalente agli anni trenta del secolo scorso, che vietava il cumulo delle autorizzazioni, come anche la loro cessione o il loro trasferimento (art. 112 del R.D. n. 1265 del 1934). 10.1. L’autorizzazione, un tempo riferita unicamente alle persone fisiche, secondo un modello personalistico della professione liberale, in epoca più recente è stata ammessa anche nei confronti di società: dapprima a beneficio di società di persone e cooperative, con la l. 362/1991, ammettendosi poi, già con il d.l. n. 223 del 2006 (art. 5, comma 6), che il farmacista potesse essere socio anche in più di una di esse e, da ultimo, con la l. n. 124 del 2017 anche a società di capitali, che possono ora essere titolari di un numero illimitato di farmacie, fatto salvo il solo limite del 20% delle farmacie presenti nella stessa regione o provincia autonoma (v. art. 7 della l. n. 362 del 1991, a seguito dell’abrogazione dei commi dal 4-bis al 7 disposta dalla ricordata l. n. 124 del 2017). 10.2. Lungo questa evoluzione normativa del settore della distribuzione farmaceutica, che riflette mutamenti non meno noti avvenuti da tempo in seno alla società e nel mondo economico, che ha dato corso a ripetute segnalazioni e sollecitazioni dell’AGCM (sin dalla segnalazione del 1998 – AS 144) e che deve fare i conti con un modello (più) imprenditoriale (e più aperto) nella gestione delle farmacie, funzionale anche (almeno in teoria) ad accrescere l’offerta per gli utenti del servizio, si colloca la disciplina di cui all’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012 preordinata – stando anche alla stessa rubrica dell’articolo – al “Potenziamento del servizio di distribuzione farmaceutica” e, per come recita l’incipit, “a favorire l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti”. 10.3. Intervenendo sulla disciplina degli anni ’60 del secolo scorso, che era nel segno della programmazione e del contingentamento del numero delle farmacie presenti sul territorio nazionale, le disposizioni del 2012 hanno previsto l’aumento delle sedi, incrementandone il numero, e, per la copertura delle nuove sedi, come anche di quelle vacanti, l’avvio di un concorso straordinario per soli titoli. 10.4. Per quanto più rileva in questa sede, osserva ancora il giudice rimettente, l’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012 dispone inoltre, al comma 5, che «ciascun candidato può partecipare al concorso per l’assegnazione di farmacia in non più di due regioni o province autonome» e, al comma 7, che «ai concorsi per il conferimento di sedi farmaceutiche gli interessati in possesso dei requisiti di legge possono concorrere per la gestione associata, sommando i titoli posseduti […]», con la precisazione che «ove i candidati che concorrono per la gestione associata risultino vincitori, la titolarità della farmacia assegnata è condizionata al mantenimento della gestione associata da parte degli stessi vincitori, su base paritaria, per un periodo di tre anni dalla data di autorizzazione all'esercizio della farmacia, fatta salva la premorienza o sopravvenuta incapacità». 11. Il giudice rimettente ha aggiunto, essendo non meno rilevante ai fini del decidere, come l’art. 11 non rechi alcuna previsione concernente un’eventuale incompatibilità tra l’assegnazione nell’una e nell’altra Regione o Provincia autonoma e non chiarisca, a suo avviso, cosa debba intendersi per “gestione associata” della farmacia. 11.1. Il tema della “gestione associata” o in “forma associata” è pertinente nella misura in cui gli odierni appellanti hanno sempre allegato, in termini peraltro abbastanza assertivi, di avere partecipato in tale veste al concorso in questione, sia per la Sicilia che per la Lombardia. 11.2. Tale circostanza è riconosciuta dalla Azienda Sanitaria di Caltanissetta, nelle proprie difese, senza ulteriormente indagarne i contorni e le implicazioni; mentre è oggetto di una riflessione più attenta da parte dell’Avvocatura Generale dello Stato che, nella propria memoria, ha cura di affermare come la gestione in forma associata sarebbe da imputare comunque direttamente alle persone fisiche. 11.3. Di contro, si è osservato ancora nell’ordinanza di rimessione, la premessa dalla quale muove il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo, nella sentenza qui appellata, parrebbe differente, se non proprio antitetica, laddove sembra assimilare la gestione associata piuttosto al modello societario, per poi ricavarne, ad ogni modo, l’incompatibilità (che è) dettata dall’art. 8, comma 1, lett. b) della l. n. 362 del 1991, per cui la partecipazione a società che gestiscono una farmacia è incompatibile con la posizione di titolare di altra farmacia. 11.4. L’Avvocatura Generale dello Stato e il Tribunale amministrativo giungono alla stessa conclusione, nel segno di una regola legale di incompatibilità che integrerebbe ab externo il bando, sebbene procedendo da premesse e seguendo ragionamenti diversi. 11.5. La prima perché risolve la gestione associata in una sorta di sommatoria dei titoli, che non farebbe sorgere un nuovo soggetto e, quindi, venir meno la natura di persona fisica del singolo farmacista, cui si applicherebbe logicamente il divieto del 1934. 11.6. Il secondo in quanto, dopo aver ricondotto la gestione associata (invece) al modello societario, vi scorge comunque un’incompatibilità sulla base di una lettura biunivoca, se non circolare, dell’art. 8, comma 1, lett. b), che troverebbe conforto nel parere n. 69 del 2018, sub § 41, del Consiglio di Stato. 12. In questo contesto e in questo giudizio, osserva ancora l’ordinanza di rimessione, la difesa degli appellanti è volta per lo più a confutare che esista una regola legale di incompatibilità: attraverso una interpretazione sia letterale che per così dire teleologica della disciplina del 2012, nel solco di una evoluzione normativa che avrebbe registrato, nel tempo, il progressivo superamento dei vincoli nella gestione non individuale delle farmacie; vincoli, o meglio, incompatibilità, che rimarrebbero però per il farmacista (ove agisca come) singolo ovvero come persona fisica, stante il disposto dell’art. 112 del R.D. n. 1265 del 1934. 12.1. L’intero ragionamento muove dalla premessa che la gestione (in forma) associata sia altro da quella individuale, e che sia piuttosto da assimilare a quella in forma societaria, per poi criticare l’applicazione che il giudice di primo grado ha fatto dell’art. 8, comma 1, lett. b) della legge n. 362 del 1991. 12.2. Nell’ordinanza di rimessione il Consiglio rileva come il primo problema sia proprio quello di decifrare cosa l’art. 11, comma 7, del d.l. n. 1 del 2012 intenda prevedendo che (gli interessati possono) concorrere in forma associata. 12.3. Se la dimensione associativa si esaurisca nel solo mettere in comune, sommandoli, i titoli posseduti, quindi in una logica per lo più contrattuale che parrebbe ricordare – (si intende) mutatis mutandis – il fenomeno dei raggruppamenti temporanei di imprese tra operatori economici nelle procedure per l’affidamento dei contratti pubblici oppure se schiuda l’orizzonte ad una figura soggettiva autonoma rispetto al singolo, e se e quanto assimilabile alle società del libro V del codice civile. 12.4. Il nodo da sciogliere parrebbe rilevante soprattutto ove si accolga la prima delle due alternative, riducendo la forma associata ad una aggregazione di titoli nell’ambito di una titolarità che resterebbe individuale e che, quindi, dovrebbe fare i conti con le regole di incompatibilità che ancor oggi valgono per i singoli farmacisti. 12.5. Rilevante ma non per questo anche per forza (da solo) determinante – si osserva – nella misura in cui lo stesso rapporto tra la disciplina generale, sopra ricordata, e quella speciale, costituita dall’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012, non è un dato scontato, potendosi sostenere che l’intervento del 2012 abbia inteso, anche per i farmacisti in forma individuale, aprire una prima breccia nella cittadella eretta attorno allo “storico” divieto di cumulabilità o di multititolarità delle farmacie. 12.6. Accogliendo e seguendo la seconda delle alternative sopra tracciate, equiparando la gestione associata al modello societario di cui alla l. n. 362 del 1991, direzione percorsa ad esempio dalla Regione Lombardia come emerge dall’istruttoria condotta, le ragioni a sostegno di una incompatibilità parrebbero più deboli ancora, in assenza di qualunque indicazione testuale in tal senso, mancante nella legge come nel bando di concorso, e a fronte di una evoluzione normativa che si è già ricordata. 12.7. Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana non ignora come le prime applicazioni giurisprudenziali registrino, tuttavia, un indirizzo che è nel segno della perdurante incompatibilità e di cui sono espressione, in particolare, la sentenza n. 2720 del 2018 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, e, in termini più generali e meno centrati sul problema qui in esame, questo Consiglio di Stato nel parere n. 69 del 3 gennaio 2018, reso dall’apposita Commissione speciale. 13. A fronte di quanto prospettato dagli appellanti, in ordine all’esistenza di una prassi amministrativa che avrebbe contraddetto tale indirizzo o, per meglio dire, lo avrebbe confinato all’interno un numero limitato di Regioni favorevoli alla regola di incompatibilità, l’esito dell’istruttoria avrebbe rivelato un quadro più articolato ancora. 13.1. Un quadro nel quale la posizione sposata dalla Regione Siciliana appare obiettivamente (ad oggi) maggioritaria tra le altre Regioni italiane e dove, accanto ad un certo numero di Regioni che non hanno offerto una risposta definit(iv)a o che potrebbero non avere ancora incontrato un simile problema (o delle quale il Ministero potrebbe non essere stato in grado di raccogliere l’esatto punto di vista), si staglia la posizione della Regione Lombardia che è invece chiaramente favorevole alla cumulabilità (si intende limitata a due sole Regioni o Province autonome), ricavando dalla previsione dell’art. 11, comma 5, del d.l. n. 1 del 2012 una regola che facoltizza non solo la presentazione della domanda e, quindi, la partecipazione al concorso ma anche, una volta vinto il concorso, la possibilità di essere assegnatari di farmacia in (non più di) due Regioni o Province autonome. 13.2. Una simile divergenza nella prassi applicativa dell’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012, al pari delle vedute incertezze interpretative che ne sono molto probabilmente all’origine, trattandosi di questione di massima che investe materie e tematiche sensibili e trasversali (in particolare la tutela della salute, da un lato, e la libertà di iniziativa economica e la tutela della concorrenza, dall’altro) hanno indotto il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana di dare corso alla richiesta degli odierni appellanti, volta ad investire l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., al riguardo formulando i seguenti quesiti: a) se il concorrere in forma associata, ai sensi dell’art. 11, comma 5 (rectius: 7), del d.l. n. 1 del 2012, sia da intendere quale una variante della titolarità in forma individuale oppure se sia invece da ascrivere al modello societario, consentendo quindi anche di assegnare la titolarità della farmacia alla società così formata e di applicare il relativo regime (di cumulabilità temperata) quanto alla titolarità di più di una sede farmaceutica; b) se, nel silenzio dell’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012, la previsione di cui al co. 7 (rectius: 5) del medesimo art. 11, che facoltizza la partecipazione al concorso in (non più) di due Regioni o due Province autonome, sia da intendere come contenente anche una regola (implicita) di incompatibilità che vieterebbe di cumulare le due sedi, dovendo per forza scegliere gli interessati di quale delle due avere la gestione, pena l’improcedibilità delle loro domande. 13.3. Il Consiglio ha rimesso alla valutazione di questa Adunanza plenaria se sia necessario o anche solo opportuno integrare il contraddittorio nei confronti delle altre Regioni (diverse dalla Regione Siciliana), sollecitando un più ampio confronto di idee, per quanto si è evidenziato e per le ricadute che la soluzione della questione è destinata a determinare. 14. Gli odierni appellanti e la Regione Siciliana, l’Assessorato regionale della Salute della Regione Siciliana e la Presidenza del Consiglio dei Ministri hanno depositato le rispettive memorie difensive anche di replica, ai sensi dell’art. 73 c.p.a., in vista dell’udienza pubblica fissata avanti a questa Adunanza plenaria, e hanno illustrato ampiamente le proprie difese. 14.1. Infine, nella pubblica udienza dell’11 dicembre 2019 fissata avanti all’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, il Collegio, sentiti i difensori delle parti, ha trattenuto la causa in decisione. 15. L’appello deve essere respinto. 16. Ritiene il Collegio, per il principio della ragione più liquida, di poter prescindere dalla questione, sollevata dall’Avvocatura Generale dello Stato nella memoria di replica depositata il 21 novembre 2019 (pp. 7-11), in ordine all’applicabilità ratione temporis delle modifiche normative introdotte dalla l. n. 124 al 2017 al concorso straordinario bandito nel 2012, in quanto tale questione, per le assorbenti ragioni che tutte qui di seguito si esporranno, è superflua e ininfluente ai fini del decidere. 17. Per un più chiaro e ordinato inquadramento delle questioni controverse occorre, ad avviso del Collegio, invertire l’ordine logico delle questioni poste dall’ordinanza di rimessione che, come poco sopra si è premesso (§ 13.2.) e va qui nuovamente ricordato, sono le seguenti: a) se il concorrere in forma associata, ai sensi dell’art. 11, comma 7, del d.l. n. 1 del 2012, sia da intendere quale una variante della titolarità in forma individuale oppure se sia invece da ascrivere al modello societario, consentendo quindi anche di assegnare la titolarità della farmacia alla società così formata e di applicare il relativo regime (di cumulabilità temperata) quanto alla titolarità di più di una sede farmaceutica; b) se, nel silenzio dell’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012, la previsione di cui al comma 5 del medesimo art. 11, che facoltizza la partecipazione al concorso in (non più) di due Regioni o due Province autonome, sia da intendere come contenente anche una regola (implicita) di incompatibilità che vieterebbe di cumulare le due sedi, dovendo per forza scegliere gli interessati di quale delle due avere la gestione, pena l’improcedibilità delle loro domande. 18. L’Adunanza plenaria ritiene infatti che, solo una volta chiarita la ratio della previsione dell’art. 11, comma 5, del d.l. n. 1 del 2012, secondo cui è possibile partecipare al concorso straordinario in non più di due Regioni o Province autonome, oggetto del secondo quesito, si possa pervenire alla risoluzione del primo quesito, inerente alla possibilità di ottenere due sedi messe a concorso straordinario, in due Regioni, tramite la gestione in forma associata. 18.1. Sicché, nell’affrontare le questioni poste dall’ordinanza, si esamineranno dapprima: a) la ratio della previsione contenuta nell’art. 11, comma 5, del d.l. n. 1 del 2012 (§§ 19-20), che consente la partecipazione al concorso straordinario in non più di due Regioni o Province autonome; b) il significato della partecipazione dei farmacisti singolarmente o “per” la gestione associata, prevista dall’art. 11, comma 7, del d.l. n. 1 del 2012 (§§ 21-23.3.); c) l’eventuale rilevanza, ai fini del decidere, della incompatibilità prevista dall’art. 8, comma 1, lett. b) della l. n. 362 del 1991 (§§ 24-27). 19. L’art. 11, comma 5, del d.l. n. 1 del 2012 prevede, ai fini che qui rilevano e come si è già sopra ricordato, che «ciascun candidato può partecipare al concorso per l’assegnazione della farmacia in non più di due regioni o province autonome» e consente espressamente, quindi, che i farmacisti, persone fisiche, possano prendere parte a non più di due concorsi straordinari banditi dalle varie Regioni o Province autonome. 19.1. È noto che il concorso straordinario previsto dall’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012 per l’assegnazione delle sedi istituite in base ai nuovi criterî da esso introdotti ha avuto il fine, dichiarato nel comma 1, di «favorire l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, aventi i requisiti di legge, nonché di favorire le procedure per l’apertura di nuove sedi farmaceutiche garantendo al contempo una più capillare presenza sul territorio del servizio farmaceutico» (v. ex plurimis, sulle previsioni dell’art. 11, Cons. St., sez. III, 4 ottobre 2016, n. 4085). 19.2. A tale essenziale fine e, cioè, per favorire anzitutto l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, l’art. 11, comma 3, del d.l. n. 1 del 2012 ha previsto espressamente che non possano partecipare al concorso straordinario i farmacisti titolari, compresi i soci di società titolari, di farmacia diversa da quelle di cui alle lettere b) e c) e, cioè, di farmacia rurale sussidiata e di farmacia soprannumeraria. 19.3. In altri termini i farmacisti – anche, e si badi, i farmacisti soci di società titolari di farmacia – già titolari di sede farmaceutica, salve le tassative eccezioni sopra ricordate, non possono partecipare al concorso straordinario. 19.4. In questa prospettiva si colloca la previsione dell’art. 11, comma 5, del d.l. n. 1 del 2012, che consente ai farmacisti, che non siano già titolari di altra sede, di partecipare al concorso straordinario per l’assegnazione di farmacia in non più di due Regioni o Province autonome. 19.5. Questa regola è perfettamente in sintonia con la generale previsione dell’art. 112, commi secondo e terzo, del R.D. n. 1265 del 1934, non abrogata né derogata da alcuna disposizione, nemmeno dall’art. 7, comma 1, della l. n. 362 del 1991 (che fa espressamente salva, per le persone fisiche, la «conformità alle disposizioni vigenti»), siccome riformulato dalla l. n. 124 del 2017, secondo cui è vietato il cumulo di due o più autorizzazioni in una sola persona (fisica), con la conseguenza che chi sia già autorizzato all’esercizio di una farmacia può concorrere all’esercizio di un’altra, ma decade di diritto dalla prima autorizzazione, quando, ottenuta la seconda, non vi rinunzi con dichiarazione notificata al Prefetto entro dieci giorni dalla partecipazione del risultato del concorso. 19.6. È quindi chiaro, secondo le regole generali, di cui l’art. 11, comma 5, del d.l. n. 1 del 2012 costituisce specifica applicazione per il concorso straordinario, che i farmacisti candidati, ammessi al concorso straordinario in quanto non siano già titolari di altra sede, ben possano concorrere, singolarmente o in forma associata, a due distinte sedi, su base regionale o provinciale, ma devono poi scegliere una tra le due sedi, non potendo ottenerle cumulativamente (c.d. principio dell’alternatività), poiché devono dedicare la loro attività personale necessariamente all’una o all’altra, a presidio del servizio farmaceutico erogato sul territorio nazionale e in funzione della salute quale interesse dell’intera collettività (art. 32 Cost.) e non quale bene meramente utilitaristico-individuale, oggetto solo di valutazioni economico-imprenditoriali. 19.7. L’art. 11, comma 5, del d.l. n. 1 del 2012, si noti, non ha inteso derogare alla regola generale dell’art. 112, commi secondo e terzo, del R.D. n. 265 del 1934, di cui costituisce anzi specifica applicazione, ma solo consentire la partecipazione dei candidati, conformemente alle regole generali, in non più di due sedi, con il conseguente obbligo, ancorché non (nuovamente) esplicitato, nel caso di doppia assegnazione, di optare per l’una o per l’altra, obbligo ben noto a tutti i farmacisti persone fisiche, per il generale disposto dell’art. 112 del R.D. n. 1265 del 1934, tuttora vigente, e dell’art. 7, comma 1, della l. n. 362 del 1991 – anche dopo la riforma del 2017 – che, nel riconoscere come possano essere titolari di farmacia anzitutto le persone fisiche, fa – come detto – salva per le sole persone fisiche la «conformità alle disposizioni vigenti». 19.8. La ratio dell’art. 112 del R.D. n. 1265 del 1934, T.U. delle leggi sanitarie è ben nota, come ricordano gli stessi appellanti, ed esprime un principio di carattere generale in tema di gestione di farmacie private, inteso ad evitare conflitti di interesse nonché a garantire il corretto svolgimento del servizio farmaceutico, di rilievo fondamentale per la tutela del diritto alla salute (oggi sancito dall’art. 32 Cost.), la cui validità ed osservanza risulta egualmente necessaria anche con riferimento alle società ed ai soci delle farmacie comunali (Cons. St., sez. V, 6 ottobre 2010, n. 2336, che ha confermato la statuizione resa sul punto dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sede di Napoli, con la sentenza n. 7589 del 2009). 19.9. Una diversa soluzione, la quale conducesse a ritenere che dall’art. 11, comma 5, del d.l. n. 1 del 2012 e, nel caso di specie, dalla pedissequa previsione dell’art. 4 del bando si desuma la possibilità di assegnare due sedi allo stesso o agli stessi candidati, non solo si porrebbe in contrasto con l’interpretazione letterale – secondo l’antico canone ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit – della disposizione in esame, che ha consentito testualmente, ed espressamente, solo la partecipazione al concorso straordinario in non più di due Regioni o Province autonome e non già l’assegnazione di due distinte sedi in deroga alle regole generali in favore dello stesso o degli stessi farmacisti, ma anche sul piano teleologico con la ratio della previsione stessa, che è quella già ricordata di favorire l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, aventi i requisiti di legge. Ciò che, evidentemente, sarebbe reso quantomeno più difficoltoso dal fatto lo stesso o gli stessi farmacisti ottengano la titolarità di due sedi in due diverse Regioni ne sottraggano una ad altri, pure aventi titolo, seppure successivi ad esso o ad essi nella graduatoria. 20. La ragione per la quale l’art. 11, comma 5, del d.l. n. 1 del 2012 prevede, in conformità alle disposizioni generali in materia, che si possa partecipare al concorso straordinario in due e non più di due Regioni e Province autonome sta proprio nella regola fondamentale dell’art. 112, comma terzo, del R.D. n 1265 del 1934, secondo cui chi sia già autorizzato all’esercizio di una farmacia, risultando vincitore nel concorso precedente, può concorrere all’esercizio di un’altra, dovendo scegliere però poi tra l’una o l’altra. 20.1. Se si considera del resto che l’art. 11, comma 3, del d.l. n. 1 del 2012 ha vietato la partecipazione al concorso straordinario a farmacisti che siano già titolari di sede, anche laddove siano soci di società – di persone e oggi, dopo la l. n. 124 del 2017, anche di capitali – titolari di sede, proprio per impedire a chi sia già titolare di sede di ottenere altra sede all’esito del concorso straordinario, sarebbe del resto incongruo e contrario ad ogni principio di concorrenza, sotteso al dichiarato fine di «favorire l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, aventi i requisiti di legge», anche solo ipotizzare che l’art. 11, comma 5, del medesimo d.l. n. 1 del 2012 abbia addirittura consentito l’assegnazione di due sedi ai farmacisti in due distinte Regioni, con il risultato di favorire oltre ogni misura i farmacisti persone fisiche, singolarmente o in forma associata, con l’assegnazione di ben due sedi, in deroga al divieto di cumulo generalmente vigente per tutti i farmacisti ai sensi dell’art. 112 del T.U. leggi sanitarie e ribadito nella procedura in questione per i già titolari di sede. 20.2. L’ottenimento di ben due sedi concretizzerebbe un vantaggio anticompetitivo del tutto ingiustificato, a fronte dello sbarramento previsto dall’art. 11, comma 3, del d.l. n. 1 del 2012 per i farmacisti già titolari di sede, nei confronti dei quali soltanto, e per la mera casualità di essere già titolari di una sede farmaceutica, opererebbe invece il divieto di cumulo dell’art. 112 del R.D. n. 1265 del 1934 e dell’art. 7, comma 1, della l. n. 326 del 1991, certamente e incontestabilmente – nemmeno gli appellanti lo contestano – tuttora vigente quantomeno per il farmacista individuale già titolare di sede. 20.3. La logica proconcorrenziale che presiede all’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012 giammai potrebbe risolversi in un privilegio per i farmacisti vincitori di sede, ma di una sola sede, all’esito del concorso straordinario. 21. Se così è, dunque, né si vede come altrimenti esser possa, e se questa è la risposta, necessitata, che deve darsi al secondo quesito dell’ordinanza, divenuto primo nell’ordine logico delle questioni da esaminarsi (v., supra, § 18.2.), diretto corollario di essa è che ciò che ai farmacisti candidati al concorso straordinario quali persone fisiche non è consentito singolarmente nemmeno può esserlo cumulativamente, pena altrimenti una inammissibile disparità di trattamento interna agli stessi candidati che partecipino in forma associata anziché singolarmente. 21.1. Nel senso dell’applicabilità del divieto del cumulo anche ai farmacisti concorrenti per la gestione associata, peraltro, va ricordato che questo Consiglio di Stato si è già pronunciato, seppure in sede di appello cautelare, con due ordinanze (Cons. St., sez. III, 11 maggio 2018, ord. n. 2127 nonché Cons. St., sez. III, 14 ottobre 2016, ord. n. 4632), mentre ormai constano, come pure ha ricordato l’ordinanza di rimessione, anche numerose pronunce di primo grado, che hanno affermato il divieto di cumulo anche nei confronti della gestione associata (v., ex plurimis, Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione staccata di Latina, 21 febbraio 2019, n. 109; Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sede di Catanzaro, 13 aprile 2018, n. 863; Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, 9 marzo 2018, n. 2720) 21.2. Le questioni circa la natura della c.d. gestione associata, se essa sia riconducibile ad una forma individuale o al modello societario di attività imprenditoriale, vengono a perdere di qualsivoglia decisività alla luce di quanto sin qui si è detto. Questo Consiglio di Stato, per quanto qui occorrer possa, ha già chiarito comunque che la forma associata non è una realtà giuridica diversa dai singoli farmacisti che concorrono alla sede (v., sul punto, Cons. St., sez. III, 27 aprile 2018, n. 2569 e Cons. St., sez. III, 30 aprile 2019, n. 2804; Cons. St., parere n. 69 del 3 gennaio 2018) né un ente o una sorta di associazione temporanea di scopo tra questi per la gestione di una farmacia, assoggettabile alle disposizioni sulle associazioni (v., sul punto, Cons. St., sez. I, parere n. 2082 del 17 luglio 2019, reso in sede di ricorso straordinario, ma anche le considerazioni svolte più in generale nel citato parere n. 69 del 3 gennaio 2018, §§ 20-32). 21.3. In particolare si è già avuto modo di chiarire che la Regione, all’esito del concorso straordinario, deve assegnare anche formalmente la titolarità della sede vinta solo a quegli stessi farmacisti persone fisiche, che hanno a tale titolo partecipato al concorso, salvo, ovviamente, il diritto/dovere, in capo a questi, di gestire poi l’attività imprenditoriale nelle forme consentite dall’ordinamento (art. 2249, comma terzo, c.c.) e, comunque e nello specifico, dall’art. 7, comma 1, della l. n. 362 del 1991, novellato dalla l. n. 124 del 2017, come pure questo Consiglio di Stato ha ampiamente chiarito nel più volte citato parere n. 69 del 3 gennaio 2018 (Cons. St., sez. III, 27 aprile 2018, n. 2569). 21.4. La titolarità della sede, all’esito del concorso straordinario, deve essere assegnata ai farmacisti “associati” personalmente, salvo successivamente autorizzare l’apertura della farmacia e l’esercizio dell’attività in capo al soggetto giuridico (società di persone fisiche o di capitali), espressione degli stessi – e non altri – farmacisti vincitori del concorso e assegnatari della sede, che sarà in grado di garantire la gestione paritetica della farmacia con il vincolo temporale di almeno tre anni (art. 11, comma 7, del d.l. n. 1 del 2012). 22. Occorre quindi sgombrare il campo dell’analisi da ulteriori equivoci che si annidano nell’insidiosa locuzione giuridica di “gestione associata”, ai sensi e per gli effetti dell’art. 11, comma 7, del d.l. n. 1 del 2012, ed evitare di confondere i diversi piani, quello concorsuale e quello, successivo, gestionale. 22.1. I farmacisti concorrono alla sede messa a concorso straordinario «per la gestione associata», come espressamente prevede l’art. 11, comma 7, del d.l. n. 1 del 2012, gestione che, al momento del concorso e fino all’assegnazione della sede, non può essere realizzabile e ciò significa che detta gestione in forma associativa della sede, non conseguibile se non all’esito del concorso, indica solo la finalità della partecipazione in forma associata o, se si preferisce, cumulativa, non già una realtà esistente (del resto impossibile prima che la sede sia ottenuta), sicché è vano sul piano cronologico, prima che ancora errato sul piano giuridico, discettare se la gestione associata sia un quid diverso e ulteriore rispetto ai singoli farmacisti associati o un tertium genus rispetto alla gestione individuale o collettiva. 22.2. L’esigenza razionalizzatrice o, se si preferisce, la naturale espansività delle categorie civilistiche, nella loro indubbia forza ordinante, non deve condurre a fuorvianti letture delle normative pubblicistiche di settore e all’ipostasi di concetti, spesso fluidi o elastici, che descrivono una realtà in divenire e non già ancora entificata o tipizzata dal legislatore, come quello, appunto, della gestione associata la quale, come ha ricordato la Commissione speciale di questo Consiglio, consente con il cumulo dei titoli una ulteriore deroga al principio meritocratico posto a base del concorso ordinario, nell’assegnazione della sede, per l’eccezionalità delle esigenze sottese al concorso straordinario (§§ 20-21 del parere n. 69 del 3 gennaio 2018). 22.3. E se questa fluidità o elasticità del legislatore pubblicistico può creare incertezze e interrogativi, sul piano della coerenza sistematica, i dubbi non possono essere risolti solo con la posizione di alternative secche, di irriducibili anfibologie, o con la forzata riconduzione delle norme di diritto pubblico, secondo armonie prestabilite, ad un sistema – quello civilistico – che può applicarsi alla disciplina del diritto amministrativo solo nei limiti della compatibilità. 22.4. E da questo rischio occorre guardarsi nell’interpretare anche la controversa categoria della gestione associata. 22.5. I singoli farmacisti possono aspirare alla gestione associata della sede, come prevede l’art. 11, comma 7, del d.l. n. 1 del 2012, «sommando i titoli posseduti», e la loro partecipazione “associata” al concorso straordinario, sulla base di un accordo inteso alla futura gestione - assimilabile, forse e a tutto concedere, ad un contratto plurilaterale con comunione di scopo o ad un pactum de ineunda societate- comporta un mero cumulo di titoli in vista -appunto: «per la» – futura gestione associata della sede agognata. 22.6. Solo ove detto cumulo – previsto dal legislatore, anche in questo caso, per «favorire l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, aventi i requisiti di legge», con una ulteriore vistosa deroga al principio meritocratico tipico del concorso, e non già, ancora una volta, per consentire agli stessi farmacisti associati di ottenere addirittura la titolarità di ben due farmacie – risulterà fruttuoso sul piano della graduatoria e condurrà all’assegnazione della sede a quegli stessi farmacisti, persone fisiche, si porrà, poi, l’effettivo problema della gestione della farmacia in forma “collettiva”. 22.7. La titolarità della farmacia attribuita alla società da essi costituita per garantire la gestione associata, nelle forme ora consentite dall’art. 7, comma 1, della l. n. 362 del 1991, sarà peraltro «condizionata al mantenimento della gestione associata da parte degli stessi vincitori, su base paritaria, per un periodo di tre anni dalla data di autorizzazione all’esercizio della farmacia, fatta salva la premorienza o sopravvenuta incapacità» (art. 11, comma 7, del d.l. n. 1 del 2012). 22.8. In altri termini, e più semplicemente, i farmacisti concorrenti per la gestione associata otterranno personalmente e pro indiviso, per così dire, la sede messa a concorso, salvo poi essere autorizzati alla titolarità dell’esercizio in una forma giuridica, tra quelle previste dall’art. 7, comma 1, della l. n. 362 del 1991, che consenta l’esercizio in forma collettiva dell’attività imprenditoriale e la gestione paritetica per almeno tre anni. 22.9. Queste forme, come ha chiarito questo Consiglio di Stato sia in sede consultiva – v. il già citato parere n. 69 del 3 gennaio 2018 – sia in sede giurisdizionale, saranno appunto quelle societarie previste ora dall’art. 7, comma 1, della l. n. 362 del 1991, novellato dalla l. n. 124 del 2017, secondo la generale previsione dell’art. 2249, comma terzo, c.c., purché compatibili con l’esercizio in forma collettiva, paritetica e triennale, della farmacia: ma è evidente che la questione delle forme in cui si eserciterà il sodalizio è un tema diverso, e successivo alla fase concorsuale di cui qui si controverte a monte, dovendo preliminarmente risolversi la questione se sia consentito ai singoli farmacisti, singolarmente o cumulativamente, di ottenere due sedi all’esito del concorso straordinario. 23. La risposta è all’evidenza negativa, per le ragioni già dette, ed è quindi irrilevante nel presente giudizio porsi il problema a valle se, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. b), della l. n. 362 del 1991 siccome novellato dalla l. n. 124 del 2017, una società di farmacisti, che veda quali soci i due farmacisti, possa essere titolare di due sedi farmaceutiche. 23.1. Il problema non si pone perché una società, di persone o di capitali, mai potrebbe concorrere al concorso straordinario, riservato solo ai farmacisti persone fisiche candidati, singolarmente o per la gestione associata, ed essi non possono ottenere, sotto la veste di una distinta soggettività giuridica (come nel caso delle società di persone) o addirittura attraverso lo schermo (successivo) della personalità giuridica quale forma di autonomia patrimoniale perfetta (come nel caso delle società di capitali), nulla di più o di diverso di quanto loro consenta in radice l’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012. 23.2. Non si controverte infatti, nel presente giudizio, della questione se due farmacisti soci di una stessa società, prevista dall’art. 7, comma 1, della l. n. 362 del 1991, possano essere titolari di due distinte farmacie, con la conseguente applicabilità o meno della incompatibilità prevista dall’art. 8, comma 1, lett. b), della stessa legge al farmacista socio di società titolare di due farmacie, ma solo se due farmacisti persone fisiche concorrenti per la gestione associata possano ottenere l’assegnazione di due sedi all’esito del concorso straordinario. 23.3. Il richiamo al regime dell’art. 8, comma 1, lett. b) della l. n. 362 del 1991 e della incompatibilità, da esso prevista, in riferimento alla gestione associata, per la sua pretesa, forzata, assimilazione al modello societario, è dunque del tutto ultroneo e fuorviante e la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo, che pure tale percorso argomentativo ha intrapreso, va quindi confermata nella corretta sua statuizione reiettiva, seppure per la diversa motivazione appena esplicitata. 24. Le ulteriori questioni, anche di costituzionalità o di compatibilità eurounitaria, relative all’art. 8, comma 1, lett. b) della l. n. 124 del 2017, prospettate dagli odierni appellanti, e dell’estensione del regime dell’incompatibilità da esso previsto ai farmacisti soci di società, titolare di due farmacie, sono del tutto irrilevanti ai fini del decidere, proprio alla luce delle ragioni sin qui esplicitate, che pienamente giustificano e anzi impongono il regime dell’alternatività tra l’una e l’altra sede anche nei confronti dei farmacisti che partecipano per la gestione associata, come sono irrilevanti in questa sede le contestazioni mosse al citato parere n. 69 del 3 gennaio 2018. 25. Né sul piano della coerenza sistematica la straordinarietà del concorso, previsto dall’art. 11 del d.l. n. 1 del 2012, consente di porsi eventuali questioni di contrasto con l’indirizzo legislativo assunto dalla l. n. 124 del 2017, inteso a garantire l’apertura del settore farmaceutico anche ai capitali azionari e alla gestione delle farmacie da parte di società di capitali, oltre che di persone. 26. È evidente, infatti, che la ratio del concorso straordinario, come si è visto più volte, è quella di «favorire l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, aventi i requisiti di legge, nonché di favorire le procedure per l’apertura di nuove sedi farmaceutiche garantendo al contempo una più capillare presenza sul territorio del servizio farmaceutico», e non già quella di far conseguire due sedi ad eventuali, successive, società di persone o di capitali, alle quali è precluso in radice di partecipare al concorso straordinario, aperto solo ai farmacisti persone fisiche che non siano già titolari di sede, mentre le generali previsioni della l. n. 124 del 2017 sono invece intese a consentire un cumulo temperato di titolarità, in capo alle società di persone e ora anche di capitali, peraltro nei limiti segnati dall’art. 1, comma 558, della stessa legge e sotto il controllo, ai sensi del successivo comma 559, da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, attraverso l’esercizio dei poteri di indagine, di istruttoria e di diffida ad essi attribuiti dalla l. n. 287 del 1990. 27. Le due normative operano su due piani differenti e non interferenti, nemmeno nell’ipotesi in cui ad ottenere due sedi messe a concorso straordinario siano i singoli farmacisti concorrenti per la gestione associata, piani che non devono essere in nessun modo confusi, sovrapposti o addirittura contrapposti per la specialità o, per meglio dire, l’eccezionalità delle esigenze sottese al regime del concorso straordinario. 28. La circostanza, rappresentata dagli appellanti da ultimo e nuovamente anche nella memoria di replica depositata il 20 novembre 2019 (pp. 5-6), secondo cui alcuni farmacisti concorrenti per la gestione associata avrebbero ottenuto due sedi, in distinte Regioni, se anche provata dalla documentazione versata in atti, non può indurre a diverse conclusioni, poiché la disparità di trattamento non costituisce vizio invocabile a fronte di una questione di interpretazione e corretta applicazione della legge. 29. Quanto, infine, al rilievo che il divieto di cumulo non sarebbe stato previsto nel bando regionale, come in altri bandi in altre regioni, ne è evidente l’infondatezza, perché l’argomento si fonda sul presupposto, erroneo, secondo cui la previsione dell’art. 4 del bando consentirebbe la doppia assegnazione delle sedi, mentre al contrario la previsione del bando altro non è che la riaffermazione di un principio, quello dell’alternatività, che caratterizza a tutt’oggi, indiscutibilmente, il sistema dell’autorizzazione all’apertura della farmacia rilasciata ai farmacisti persone fisiche, indipendentemente dal fatto che, nel caso del concorso straordinario, per la gestione associata della farmacia venga poi costituita una società, di persone o di capitali, all’esito del concorso straordinario, cui conferire la titolarità dell’esercizio. 30. In conclusione pertanto, e per la necessità nomofilattica di sintetizzare i delicati punti qui controversi, l’Adunanza plenaria ritiene di affermare i seguenti principî di diritto: a) l’art. 11, comma 5, del d.l. n. 1 del 2012, conv. in l. n. 27 del 2012, ha inteso riaffermare la regola dell’alternatività nella scelta tra l’una e l’altra sede da parte dei farmacisti persone fisiche che partecipano al concorso straordinario, in coerenza con la regola generale dell’art. 112, comma primo e terzo, del R.D. n. 1265 del 1934, sicché il farmacista assegnatario di due sedi deve necessariamente optare per l’una o per l’altra sede; b) la regola dell’alternatività o non cumulabilità delle sedi, in capo al farmacista persona fisica, vale per tutti i farmacisti candidati, che concorrano sia singolarmente che “per” la gestione associata, prevista dall’art. 11, comma 7, del d.l. n. 1 del 2012, la quale non costituisce un ente giuridico diverso dai singoli farmacisti, ma è espressione di un accordo partecipativo, comportante il cumulo dei titoli a fini concorsuali e inteso ad assicurare la gestione associata della farmacia in forma paritetica, solo una volta ottenuta la sede, nelle forme consentite dall’art. 7, comma 1, della l. n. 362 del 1991. Rimane estranea all’affermazione dei superiori principî rispetto alla vicenda controversa qualsiasi questione di incompatibilità, di cui all’art. 8, comma 1, lett. b) della l. n. 361 del 1991, siccome novellato dalla l. n. 124 del 2017, in ordine alla titolarità di più sedi da parte della stessa società, di persone o di capitali, che veda la partecipazione dei medesimi farmacisti. 31. Alla stregua delle ragioni sin qui esposte, da ritenersi assorbenti di ogni altra questione, l’appello deve dunque essere respinto, con la conseguente conferma della sentenza impugnata, di cui va peraltro corretta la motivazione. Le spese del presente grado del giudizio, attesa la novità delle questioni di cui non constano a questa Adunanza precedenti di questo stesso Consiglio di Stato in termini specifici (se non, come accennato supra al § 21.1., in sede di appello cautelare), possono essere interamente compensate tra le parti. Rimane definitivamente a carico degli appellanti il contributo unificato richiesto per la proposizione del gravame. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando sull’appello, proposto da Elisa Gabriella Orlando e da Sebastiano Scaminaci, lo respinge e per l’effetto conferma, con diversa motivazione, la sentenza n. 4277 del 2018 del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo. Compensa interamente tra le parti le spese del presente grado del giudizio. Pone definitivamente a carico di Elisa Gabriella Orlando e di Sebastiano Scaminaci il contributo unificato richiesto per la proposizione dell’appello. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 11 dicembre 2019, con l’intervento dei magistrati: Filippo Patroni Griffi, Presidente Sergio Santoro, Presidente Franco Frattini, Presidente Giuseppe Severini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere Fulvio Rocco, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere Nicola Gaviano, Consigliere Giulio Veltri, Consigliere Fabio Franconiero, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere, Estensore Elisa Maria Antonia Nuara, Consigliere Filippo Patroni Griffi, Presidente Sergio Santoro, Presidente Franco Frattini, Presidente Giuseppe Severini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere Fulvio Rocco, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere Nicola Gaviano, Consigliere Giulio Veltri, Consigliere Fabio Franconiero, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere, Estensore Elisa Maria Antonia Nuara, Consigliere
L’art. 11, comma 5, d.l. n. 1 del 2012, convertito in l. n. 27 del 2012, ha inteso riaffermare la regola dell’alternatività nella scelta tra l’una e l’altra sede da parte dei farmacisti persone fisiche che partecipano al concorso straordinario, in coerenza con la regola generale dell’art. 112, commi 1 e 3, r.d. n. 1265 del 1934, sicché il farmacista assegnatario di due sedi deve necessariamente optare per l’una o per l’altra sede; tale regola dell’alternatività o non cumulabilità delle sedi vale per tutti i farmacisti candidati, che concorrano sia singolarmente che “per” la gestione associata, prevista dall’art. 11, comma 7, d.l. n. 1 del 2012, la quale non costituisce un ente giuridico diverso dai singoli farmacisti, ma è espressione di un accordo partecipativo, comportante il cumulo dei titoli a fini concorsuali e inteso ad assicurare la gestione associata della farmacia in forma paritetica, solo una volta ottenuta la sede, nelle forme consentite dall’art. 7, comma 1, l. n. 362 del 1991 (1).   La questione era stata rimessa all’Adunanza plenaria dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana con l’ord. n. 759 del 19 agosto 2019.   (1) L’art. 11, comma 5, d.l. n. 1 del 2012 prevede, ai fini che qui rilevano e come si è già sopra ricordato, che «ciascun candidato può partecipare al concorso per l’assegnazione della farmacia in non più di due regioni o province autonome» e consente espressamente, quindi, che i farmacisti, persone fisiche, possano prendere parte a non più di due concorsi straordinari banditi dalle varie Regioni o Province autonome. Il concorso straordinario previsto dall’art. 11, d.l. n. 1 del 2012 per l’assegnazione delle sedi istituite in base ai nuovi criterî da esso introdotti ha avuto il fine, dichiarato nel comma 1, di «favorire l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, aventi i requisiti di legge, nonché di favorire le procedure per l’apertura di nuove sedi farmaceutiche garantendo al contempo una più capillare presenza sul territorio del servizio farmaceutico» (Cons. St., sez. III, 4 ottobre 2016, n. 4085). A tale essenziale fine e, cioè, per favorire anzitutto l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, l’art. 11, comma 3, d.l. n. 1 del 2012 ha previsto espressamente che non possano partecipare al concorso straordinario i farmacisti titolari, compresi i soci di società titolari, di farmacia diversa da quelle di cui alle lettere b) e c) e, cioè, di farmacia rurale sussidiata e di farmacia soprannumeraria.   In questa prospettiva si colloca la previsione dell’art. 11, comma 5, del d.l. n. 1 del 2012, che consente ai farmacisti, che non siano già titolari di altra sede, di partecipare al concorso straordinario per l’assegnazione di farmacia in non più di due Regioni o Province autonome. È quindi chiaro, secondo le regole generali, di cui l’art. 11, comma 5, d.l. n. 1 del 2012 costituisce specifica applicazione per il concorso straordinario, che i farmacisti candidati, ammessi al concorso straordinario in quanto non siano già titolari di altra sede, ben possano concorrere, singolarmente o in forma associata, a due distinte sedi, su base regionale o provinciale, ma devono poi scegliere una tra le due sedi, non potendo ottenerle cumulativamente (c.d. principio dell’alternatività), poiché devono dedicare la loro attività personale necessariamente all’una o all’altra, a presidio del servizio farmaceutico erogato sul territorio nazionale e in funzione della salute quale interesse dell’intera collettività (art. 32 Cost.) e non quale bene meramente utilitaristico-individuale, oggetto solo di valutazioni economico-imprenditoriali.   Una diversa soluzione, la quale conducesse a ritenere che dall’art. 11, comma 5, d.l. n. 1 del 2012 e, nel caso di specie, dalla pedissequa previsione dell’art. 4 del bando si desuma la possibilità di assegnare due sedi allo stesso o agli stessi candidati, non solo si porrebbe in contrasto con l’interpretazione letterale – secondo l’antico canone ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit – della disposizione in esame, che ha consentito testualmente, ed espressamente, solo la partecipazione al concorso straordinario in non più di due Regioni o Province autonome e non già l’assegnazione di due distinte sedi in deroga alle regole generali in favore dello stesso o degli stessi farmacisti, ma anche sul piano teleologico con la ratio della previsione stessa, che è quella già ricordata di favorire l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, aventi i requisiti di legge. Ciò che, evidentemente, sarebbe reso quantomeno più difficoltoso dal fatto lo stesso o gli stessi farmacisti ottengano la titolarità di due sedi in due diverse Regioni ne sottraggano una ad altri, pure aventi titolo, seppure successivi ad esso o ad essi nella graduatoria. L’ottenimento di ben due sedi concretizzerebbe un vantaggio anticompetitivo del tutto ingiustificato, a fronte dello sbarramento previsto dall’art. 11, comma 3, d.l. n. 1 del 2012 per i farmacisti già titolari di sede, nei confronti dei quali soltanto, e per la mera casualità di essere già titolari di una sede farmaceutica, opererebbe invece il divieto di cumulo dell’art. 112, r.d. n. 1265 del 1934 e dell’art. 7, comma 1, l. n. 326 del 1991, certamente e incontestabilmente – nemmeno gli appellanti lo contestano – tuttora vigente quantomeno per il farmacista individuale già titolare di sede. Nel senso dell’applicabilità del divieto del cumulo anche ai farmacisti concorrenti per la gestione associata, peraltro, va ricordato che questo Consiglio di Stato si è già pronunciato, seppure in sede di appello cautelare, con due ordinanze (Cons. St., sez. III, ord., 11 maggio 2018, n. 2127).   Ha aggiunto l’Alto consesso che i farmacisti concorrono alla sede messa a concorso straordinario «per la gestione associata», come espressamente prevede l’art. 11, comma 7, d.l. n. 1 del 2012, gestione che, al momento del concorso e fino all’assegnazione della sede, non può essere realizzabile e ciò significa che detta gestione in forma associativa della sede, non conseguibile se non all’esito del concorso, indica solo la finalità della partecipazione in forma associata o, se si preferisce, cumulativa, non già una realtà esistente (del resto impossibile prima che la sede sia ottenuta), sicché è vano sul piano cronologico, prima che ancora errato sul piano giuridico, discettare se la gestione associata sia un quid diverso e ulteriore rispetto ai singoli farmacisti associati o un tertium genus rispetto alla gestione individuale o collettiva. Ha aggiunto che i singoli farmacisti possono aspirare alla gestione associata della sede, come prevede l’art. 11, comma 7, d.l. n. 1 del 2012, «sommando i titoli posseduti», e la loro partecipazione “associata” al concorso straordinario, sulla base di un accordo inteso alla futura gestione - assimilabile, forse e a tutto concedere, ad un contratto plurilaterale con comunione di scopo o ad un pactum de ineunda societate - comporta un mero cumulo di titoli in vista -appunto: «per la» – futura gestione associata della sede agognata. Solo ove detto cumulo – previsto dal legislatore, anche in questo caso, per «favorire l’accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti, aventi i requisiti di legge», con una ulteriore vistosa deroga al principio meritocratico tipico del concorso, e non già, ancora una volta, per consentire agli stessi farmacisti associati di ottenere addirittura la titolarità di ben due farmacie – risulterà fruttuoso sul piano della graduatoria e condurrà all’assegnazione della sede a quegli stessi farmacisti, persone fisiche, si porrà, poi, l’effettivo problema della gestione della farmacia in forma “collettiva”. La titolarità della farmacia attribuita alla società da essi costituita per garantire la gestione associata, nelle forme ora consentite dall’art. 7, comma 1, l. n. 362 del 1991, sarà peraltro «condizionata al mantenimento della gestione associata da parte degli stessi vincitori, su base paritaria, per un periodo di tre anni dalla data di autorizzazione all’esercizio della farmacia, fatta salva la premorienza o sopravvenuta incapacità» (art. 11, comma 7, d.l. n. 1 del 2012).
Farmacia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/il-consiglio-di-stato-ha-reso-il-parere-con-adunanza-con-collegamento-da-remoto-sull-ambito-di-applicazione-della-sospensione-dei-termini-dall-8-al-22
Il Consiglio di Stato ha reso il parere, con adunanza con collegamento da remoto, sull’ambito di applicazione della sospensione dei termini dall’8 al 22 marzo 2020 previsto dall’art. 3, comma 1, d.l. n. 11 del 2020
Numero 00571/2020 e data 10/03/2020 Spedizione REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato Adunanza della Commissione speciale del 10 marzo 2020 NUMERO AFFARE 00250/2020 OGGETTO: Segretario Generale della Giustizia Amministrativa Quesito sull’interpretazione dell’articolo 3, comma 1, d.l. 8 marzo 2020 n. 11 recante «Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria»; LA COMMISSIONE SPECIALE del 10 marzo 2020 Vista la nota 9 marzo 2020, prot. 1248, con la quale il Segretario Generale della Giustizia Amministrativa ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto; Visto il decreto del Presidente del Consiglio di Stato, 10 marzo 2020, n. 70, di istituzione della Commissione speciale, ai sensi degli artt. 22 r.d. 26 giugno 1924 n. 1054 e 40 r.d. 21 aprile 1942 n. 444; Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Vincenzo Neri, alla presenza anche dei consiglieri Giulio Veltri, Dario Simeoli e Antonella Manzione; 1. Con nota 9 marzo 2020, prot. 1248, il Segretario Generale della Giustizia amministrativa ha formulato quesito circa l’applicazione dell’articolo 3, comma 1, d.l. 8 marzo 2020 n. 11, recante «Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria» (d’ora in poi, decreto). Con decreto del Presidente del Consiglio di Stato, 10 marzo 2020, n. 70, l’affare è stato deferito alla Commissione speciale all’uopo nominata, ai sensi degli artt. 22 r.d. 26 giugno 1924 n. 1054 e 44 r.d. 21 aprile 1942 n. 444. In data 10 marzo 2020 la Commissione speciale si è riunita – tramite conferenza telefonica – alla presenza di tutti i suoi componenti. 2. Il Segretario Generale, dopo aver esposto il contesto nel quale si è resa necessaria l’emanazione del d.l. 8 marzo 2020 n. 11, per quanto di interesse, ha soffermato l’attenzione sull’articolo 3, comma 1, del decreto in questione. In relazione a tale disposizione, ha evidenziato che «dal combinato disposto delle due norme (la richiamante e la richiamata) sicuramente si evince che: a) la sospensione dei termini dall’8 al 22 marzo non si applica per i procedimenti cautelari; b) si applica invece a tutti gli altri procedimenti soggetti a trattazione camerale o in pubblica udienza». Ciò premesso ha rilevato che «tuttavia l’esatto perimetro di quanto previsto sub b) … desta dubbi, in particolare ove - come sembrerebbe dalla lettera della norma - in tale sospensione dovessero ricomprendersi anche i termini per il deposito di atti defensionali ulteriori e diversi dal ricorso introduttivo». Il Segretario generale, dopo aver esaminato le diverse opzioni interpretative, ha formulato apposito quesito ritenendo, dal canto suo, che «alla luce di una interpretazione teleologica, informata anche al principio di proporzionalità delle misure, che la norma debba essere intesa come limitata, nel suo perimetro di applicazione, alla sola attività di notifica e deposito del ricorso, o forse più correttamente solo alla prima, essendo il deposito mera attività telematica». 3. Preliminarmente va affrontata la questione relativa alla possibilità di svolgere l’adunanza della Commissione speciale con conferenza telefonica o con modalità telematiche. Ritiene la Commissione che l’articolo 3, comma 5, del decreto – nella parte in cui consente «lo svolgimento delle udienze pubbliche e camerali che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti mediante collegamenti da remoto con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione dei difensori alla trattazione dell'udienza» – consenta tale possibilità. Peraltro, nel caso dell’attività consultiva, ad avviso della Commissione, non sussistono ostacoli di alcun genere perché le adunanze si svolgono senza la presenza di pubblico e di difensori ma solo con la partecipazione dei magistrati componenti la Sezione o la Commissione speciale. Tale conclusione risulta peraltro in linea con quanto stabilito dall’articolo 1, comma 1, lett. q), d.P.C.M. 8 marzo 2020 (pubblicato sulla g.u. 8 marzo 2020 n. 60, nella parte in cui stabilisce che «sono adottate, in tutti i casi possibili, nello svolgimento di riunioni, modalità di collegamento da remoto»), ora esteso all’intero territorio nazionale dall’art. 1, d.P.C.M 9 marzo 2020. Altre disposizioni di legge, pur non riferite espressamente all’attività consultiva del Consiglio di Stato ma a quella amministrativa, sono la chiara dimostrazione di un indirizzo legislativo volto a potenziare il ricorso agli strumenti telematici. Ed invero nelle norme sotto elencate può trovarsi una conferma: a. articolo 3 bis l. 241/1990 (“Per conseguire maggiore efficienza nella loro attività, le amministrazioni pubbliche incentivano l'uso della telematica, nei rapporti interni, tra le diverse amministrazioni e tra queste e i privati”); b. articolo 14, comma 1, l. 241/1990 (“La prima riunione della conferenza di servizi in forma simultanea e in modalità sincrona si svolge nella data previamente comunicata ai sensi dell'articolo 14-bis, comma 2, lettera d), ovvero nella data fissata ai sensi dell'articolo 14-bis, comma 7, con la partecipazione contestuale, ove possibile anche in via telematica, dei rappresentanti delle amministrazioni competenti”); c. articolo 12 d. lgs. 82/2005 e in particolare comma 1 (“Le pubbliche amministrazioni nell'organizzare autonomamente la propria attività utilizzano le tecnologie dell'informazione e della comunicazione per la realizzazione degli obiettivi di efficienza, efficacia, economicità, imparzialità, trasparenza, semplificazione e partecipazione nel rispetto dei principi di uguaglianza e di non discriminazione, nonché per l'effettivo riconoscimento dei diritti dei cittadini e delle imprese di cui al presente Codice in conformità agli obiettivi indicati nel Piano triennale per l'informatica nella pubblica amministrazione di cui all'articolo 14-bis, comma 2, lettera b)”) e comma 3 bis (“I soggetti di cui all'articolo 2, comma 2, favoriscono l'uso da parte dei lavoratori di dispositivi elettronici personali o, se di proprietà dei predetti soggetti, personalizzabili, al fine di ottimizzare la prestazione lavorativa, nel rispetto delle condizioni di sicurezza nell'utilizzo”); d. articolo 45, comma 1, d. lgs 82/2005 (“I documenti trasmessi da soggetti giuridici ad una pubblica amministrazione con qualsiasi mezzo telematico o informatico, idoneo ad accertarne la provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale”). Il collegamento da remoto per lo svolgimento dell’adunanza è conseguentemente modalità alternativa allo svolgimento in aula dei lavori purché sia garantita la riservatezza del collegamento e la segretezza. Peraltro tale modalità consente di tutelare la salute dei magistrati componenti la Sezione, o la Commissione speciale, senza pregiudicare il funzionamento dell’Ufficio (che continuerà ad operare a pieno regime), rispondendo altresì alle direttive impartite dal Governo, proprio in questa fase di emergenza, in materia di home working o smart working, senza oneri per le finanze pubbliche. 4. Passando al quesito formulato, giova ricordare che l’articolo 3, comma 1, del decreto testualmente stabilisce:«1. Le disposizioni di cui all'articolo 54, commi 2 e 3, del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, si applicano altresì dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 22 marzo 2020. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e sino al 22 marzo 2020, le udienze pubbliche e camerali dei procedimenti pendenti presso gli uffici della giustizia amministrativa sono rinviate d'ufficio a data successiva al 22 marzo 2020. I procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi, su richiesta anche di una sola delle parti, con il rito di cui all'articolo 56 del medesimo codice del processo amministrativo e la relativa trattazione collegiale è fissata in data immediatamente successiva al 22 marzo 2020». Come rilevato dal Segretario generale, «il decreto legge affronta l’emergenza in due fasi: una prima fase, di immediata applicazione, che va dall’8 marzo (giorno della pubblicazione nella G.U.R.I.) al 22 marzo 2020, in cui trovano applicazione misure rigorose previste direttamente in sede di decretazione d’urgenza, quali il rinvio d’ufficio delle udienze pubbliche e camerali; e una seconda fase che giunge sino al 31 maggio in cui si applicano misure derogatorie del codice del processo amministrativo, quali la decisione della causa, di norma, sulla base dei soli scritti difensivi». La disposizione di legge è chiara nella parte concernente l’obbligo di rinvio d’ufficio delle udienze pubbliche e camerali a data successiva al 22 marzo 2020. È altresì chiaro che i procedimenti cautelari, promossi o pendenti tra l’8 e il 22 marzo, sono decisi, su richiesta anche di una sola delle parti, col rito monocratico e la relativa trattazione collegiale dovrà avvenire in data successiva al 22 marzo 2020. Risulta invece di più complessa interpretazione la disposizione in relazione ai termini per il deposito di atti defensionali diversi dal ricorso introduttivo, quali, a titolo esemplificativo, il deposito di documenti, memorie e repliche stabilito dall’articolo 73, comma 1, c.p.a. La norma, come letteralmente interpretata, sembra sospendere i termini sia con riferimento agli atti introduttivi del giudizio sia in relazione agli atti di parte inerenti alla trattazione dei giudizi già incardinati. In tal senso milita il richiamo compiuto dall’articolo 3, comma 1, del decreto ai commi 2 e 3 dell’articolo 54 c.p.a.: il comma 2, infatti, sospende dal 1 al 31 agosto di ciascun anno i termini feriali mentre il comma 3 precisa che tale sospensione non si applica al procedimento cautelare. Tale interpretazione avrebbe come conseguenza la sospensione, nel periodo che va dall’8 al 22 marzo 2020, dei termini anche per il deposito di documenti, memorie e repliche relativi a procedimenti giurisdizionali da trattare in data successiva al 22 marzo 2020, con conseguente dilatazione dei termini previsti dall’articolo 73, comma 1, c.p.a. di un numero di giorni pari alla sospensione feriale decretata d’urgenza. Se così fosse, però, le udienze pubbliche e camerali, già fissate in data immediatamente successiva al periodo di sospensione in cui vige l’obbligo di rinvio, dovrebbero essere rinviate per garantire alle parti (che, nel frattempo, non abbiano espressamente rinunciato alla facoltà di depositare memorie e documenti) un “termine a ritroso” che consenta di “recuperare” i giorni della sospensione, in modo che esso non risulti inferiore a quello previsto dalla legge, con conseguenti evidenti pregiudizi alla normale ed efficiente attività giudiziaria per come programmata, pregiudizi che ricadrebbero ben oltre le due settimane previste dal decreto. L’interpretazione letterale sembra stridere con lo spirito e la ratio del provvedimento legislativo urgente, atteso che con precipuo riguardo al termine per il deposito del ricorso (art. 45 c.p.a.) e soprattutto a quelli endoprocessuali richiamati dal già citato art. 73, comma 1, c.p.a., non si ravvisano le medesime esigenze che hanno giustificato la sospensione delle udienze pubbliche e camerali perché trattasi di attività che il difensore può svolgere in via telematica e senza necessità di recarsi presso l’ufficio giudiziario. Non appare esservi, dunque, alcun pericolo per la salute dei difensori né si moltiplicano le occasioni di contatto sociale e dunque le possibilità di contagio. In sintesi, se la rapida diffusione dell’epidemia giustifica pienamente il rinvio d’ufficio delle udienze pubbliche e camerali, disposto dal decreto nel periodo che va dall’8 al 22 marzo 2020, allo scopo di evitare, nei limiti del possibile, lo spostamento delle persone per la celebrazione delle predette udienze, nonché la trattazione monocratica delle domande cautelari (salva successiva trattazione collegiale), sempre allo scopo di evitare lo spostamento delle persone e la riunione delle stesse all’interno degli uffici giudiziari, non sembra reperirsi adeguata giustificazione, invece, per la dilatazione dei termini endoprocessuali. Appare, pertanto, sicuramente più in linea con la ratio del decreto legge un’altra interpretazione della norma nel senso che il periodo di sospensione riguardi esclusivamente il termine decadenziale previsto dalla legge per la notifica del ricorso (artt. 29, 41 c.p.a.) e non anche i citati termini endoprocessuali. Per tale diversa opzione esegetica è vivo l’auspicio della Commissione che si intervenga prontamente ed urgentemente, alla prima occasione utile, a livello normativo, con provvedimento chiarificatore di carattere interpretativo e quindi di portata retroattiva, in modo da assicurare la certezza nella materia dei termini processuali a beneficio di tutte le parti dei giudizi. La Commissione, ben consapevole in ogni caso delle difficoltà connesse ad un’interpretazione meramente letterale della disposizione, ritiene, per tale ragione, che spetti al Collegio incaricato della trattazione della causa valutare attentamente, di volta in volta, la possibilità di accordare la rimessione in termini, per errore scusabile, alla parte che non ha potuto provvedere agli adempimenti e ai depositi nei termini di legge, possibilità questa prevista in via generale dall’articolo 37 c.p.a. e, con specifico riferimento all’emergenza nazionale, anche dall’articolo 3, comma 7, del decreto (tale ultima norma, pur richiamando solo i commi 2 e 3 del già citato art. 3, non fa venir meno, ad avviso della Commissione, la portata generale dell’istituto di cui all’art. 37 c.p.a. e, dunque, la possibilità di applicarla in via generale). Come è noto, infatti, il giudice, in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto (circostanze entrambe che potrebbero ben ricorrere in casi del genere), può disporre, anche d'ufficio, la rimessione in termini per errore scusabile. P.Q.M. nei termini suesposti è il parere della Commissione speciale. Dispone, ai sensi dell’art. 58 r.d. 21 aprile 1942, n. 444, che il presente parere sia inviato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. IL SEGRETARIO Cinzia Giglio
Consiglio di Stato e Consiglio di Giustizia per la Regione Siciliana - Funzioni consultive – Adunanze - Collegamento da remoto – Possibilità. Processo amministrativo – Termini – Sospensione emergenza Covid-19  - Art. 3, comma 1, d.l. n. 11 del 2020 – Ambito di applicazione.             Il collegamento da remoto per lo svolgimento dell’adunanza è conseguentemente modalità alternativa allo svolgimento in aula dei lavori purché sia garantita la riservatezza del collegamento e la segretezza (1).           Il periodo di sospensione dei termini dall’8 al 22 marzo 2020, previsto dall’art. 3, comma 1, d.l. n. 11 del 2020, riguarda esclusivamente il termine decadenziale previsto dalla legge per la notifica del ricorso (artt. 29, 41 c.p.a.) e non anche i citati termini endoprocessuali (2).   (1) Ha chiarito il parere che tale modalità consente di tutelare la salute dei magistrati componenti la Sezione, o la Commissione speciale, senza pregiudicare il funzionamento dell’Ufficio (che continuerà ad operare a pieno regime), rispondendo altresì alle direttive impartite dal Governo, proprio in questa fase di emergenza, in materia di home working o smart working, senza oneri per le finanze pubbliche. Tale conclusione risulta peraltro in linea con quanto stabilito dall’articolo 1, comma 1, lett. q), d.P.C.M. 8 marzo 2020 (pubblicato sulla g.u. 8 marzo 2020 n. 60, nella parte in cui stabilisce che «sono adottate, in tutti i casi possibili, nello svolgimento di riunioni, modalità di collegamento da remoto»), ora esteso all’intero territorio nazionale dall’art. 1, d.P.C.M 9 marzo 2020. Altre disposizioni di legge, pur non riferite espressamente all’attività consultiva del Consiglio di Stato ma a quella amministrativa, sono la chiara dimostrazione di un indirizzo legislativo volto a potenziare il ricorso agli strumenti telematici. Ed invero nelle norme sotto elencate può trovarsi una conferma: a. art. 3 bis, l. n. 241 del 1990 (“Per conseguire maggiore efficienza nella loro attività, le amministrazioni pubbliche incentivano l'uso della telematica, nei rapporti interni, tra le diverse amministrazioni e tra queste e i privati”); b. art. 14, comma 1, l. n. 241 del 1990 (“La prima riunione della conferenza di servizi in forma simultanea e in modalità sincrona si svolge nella data previamente comunicata ai sensi dell'art. 14-bis, comma 2, lett. d), ovvero nella data fissata ai sensi dell'art. 14-bis, comma 7, con la partecipazione contestuale, ove possibile anche in via telematica, dei rappresentanti delle amministrazioni competenti”); c. art. 12, d.lgs. n. 82 del 2005 e in particolare comma 1 (“Le pubbliche amministrazioni nell'organizzare autonomamente la propria attività utilizzano le tecnologie dell'informazione e della comunicazione per la realizzazione degli obiettivi di efficienza, efficacia, economicità, imparzialità, trasparenza, semplificazione e partecipazione nel rispetto dei principi di uguaglianza e di non discriminazione, nonché per l'effettivo riconoscimento dei diritti dei cittadini e delle imprese di cui al presente Codice in conformità agli obiettivi indicati nel Piano triennale per l'informatica nella pubblica amministrazione di cui all'art. 14-bis, comma 2, lett. b)”) e comma 3 bis (“I soggetti di cui all'art. 2, comma 2, favoriscono l'uso da parte dei lavoratori di dispositivi elettronici personali o, se di proprietà dei predetti soggetti, personalizzabili, al fine di ottimizzare la prestazione lavorativa, nel rispetto delle condizioni di sicurezza nell'utilizzo”); d. art. 45, comma 1, d.lgs. n. 82 del 2005 (“I documenti trasmessi da soggetti giuridici ad una pubblica amministrazione con qualsiasi mezzo telematico o informatico, idoneo ad accertarne la provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale”).   (2) Ha chiarito il parere che la rapida diffusione dell’epidemia giustifica pienamente il rinvio d’ufficio delle udienze pubbliche e camerali, disposto dal decreto nel periodo che va dall’8 al 22 marzo 2020, allo scopo di evitare, nei limiti del possibile, lo spostamento delle persone per la celebrazione delle predette udienze, nonché la trattazione monocratica delle domande cautelari (salva successiva trattazione collegiale), sempre allo scopo di evitare lo spostamento delle persone e la riunione delle stesse all’interno degli uffici giudiziari, non sembra reperirsi adeguata giustificazione, invece, per la dilatazione dei termini endoprocessuali. Appare, pertanto, sicuramente più in linea con la ratio del decreto legge l’interpretazione della norma nel senso che il periodo di sospensione riguardi esclusivamente il termine decadenziale previsto dalla legge per la notifica del ricorso (artt. 29, 41 c.p.a.) e non anche i citati termini endoprocessuali. Per tale diversa opzione esegetica è vivo l’auspicio della Commissione che si intervenga prontamente ed urgentemente, alla prima occasione utile, a livello normativo, con provvedimento chiarificatore di carattere interpretativo e quindi di portata retroattiva, in modo da assicurare la certezza nella materia dei termini processuali a beneficio di tutte le parti dei giudizi. La Commissione, ben consapevole in ogni caso delle difficoltà connesse ad un’interpretazione meramente letterale della disposizione, ritiene, per tale ragione, che spetti al Collegio incaricato della trattazione della causa valutare attentamente, di volta in volta, la possibilità di accordare la rimessione in termini, per errore scusabile, alla parte che non ha potuto provvedere agli adempimenti e ai depositi nei termini di legge, possibilità questa prevista in via generale dall’art. 37 c.p.a. e, con specifico riferimento all’emergenza nazionale, anche dall’art. 3, comma 7, del decreto (tale ultima norma, pur richiamando solo i commi 2 e 3 del già citato art. 3, non fa venir meno, ad avviso della Commissione, la portata generale dell’istituto di cui all’art. 37 c.p.a. e, dunque, la possibilità di applicarla in via generale). Come è noto, infatti, il giudice, in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto (circostanze entrambe che potrebbero ben ricorrere in casi del genere), può disporre, anche d'ufficio, la rimessione in termini per errore scusabile.
Consiglio di Stato e Consiglio di Giustizia per la Regione Siciliana
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/applicabilit-c3-a0-della-l.-n.-68-del-1999-in-materia-di-assunzione-obbligatorie-delle-categorie-protette-presso-le-societ-c3-a0-partecipate-della-reg
Applicabilità della l. n. 68 del 1999 in materia di assunzione obbligatorie delle categorie protette presso le società partecipate della Regione Siciliana
Numero 00130/2021 e data 12/04/2021 Spedizione REPUBBLICA ITALIANA CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Adunanza di Sezione del 16 marzo 2021 NUMERO AFFARE 00035/2021 OGGETTO: Assessorato regionale dell'economia - Dipartimento bilancio e tesoro - Ragioneria generale della Regione Siciliana. Assunzione di personale presso le società partecipate della Regione Siciliana. Applicabilità della l. n. 68/1999. LA SEZIONE Vista la nota prot. n. 6342/S6 del 25 gennaio 2021 dell’Assessorato regionale dell'economia - Dipartimento bilancio e tesoro - Ragioneria generale della Regione Siciliana con la quale viene richiesto il parere sull’affare consultivo in oggetto; Visto il parere interlocutorio n. 79 reso all’Adunanza del 23 febbraio 2021; Vista la nota n. 17933/S6 del 24 febbraio 2021 con la quale l’Assessorato regionale dell’economia trasmette la relazione prot.n. 4626 13.11.2021 del 22 febbraio 2021 dell’Ufficio legislativo e legale; Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Giovanni Ardizzone; Premesso e considerato 1. L’Assessorato regionale dell’economia (d’ora in poi solo “Assessorato”), con nota n. 6342 del 25 gennaio 2021, ha chiesto il parere di questo Consiglio sull’applicabilità della legge n. 68/1999, in materia di assunzione di personale presso le società partecipate della Regione Siciliana. L’Assessorato, in premessa, evidenzia che da parte di talune società partecipate dalla Regione sono giunte richieste di autorizzazione ad assumere personale appartenente alle cosiddette categorie protette ex lege 12 marzo 1999, n. 68, in deroga al divieto di procedere a nuove assunzioni (cosi detto blocco delle assunzioni) previsto dalle vigenti disposizioni normative in materia. L’Assessorato, quindi, atteso il «così detto blocco delle assunzioni presso le società partecipate della Regione Siciliana», pone il quesito «se sia legittima l'assunzione di personale disabile ex legge n. 68/1999» e «in caso positivo [...] se detta assunzione debba ritenersi obbligatoria o facoltativa per le predette società partecipate, nella considerazione che l'Avvocatura Distrettuale dello Stato […] ha ritenuto “ragionevole” la deroga al divieto di assunzione con riferimento alle categorie protette lasciando intendere “che si possa e non che si debba derogare”, e tenuto conto, altresì, che la Giunta regionale», con «le delibere n. 492/2019 e n. 619/2020, ha espresso l'orientamento (con le sole eccezioni ivi indicate) volto al mantenimento del divieto di assunzione per le società partecipate" al fine di “realizzare una congrua riduzione dei costi”». Il Richiedente nel formulare il superiore quesito richiama le seguenti disposizioni, delibere e pareri: - art. 1, comma 10, della legge regionale 29 dicembre 2008, n. 25, che fa divieto «... alle Amministrazioni regionali, istituti, aziende, agenzie, consorzi, esclusi quelli costituiti unicamente tra enti locali, organismi ed enti regionali comunque denominati, che usufruiscono di trasferimenti diretti da parte della Regione, di procedere ad assunzioni di nuovo personale sia a tempo indeterminato che a tempo determinato»; - art. 20, comma 6, della legge regionale 12 maggio 2010, n. 11 che ha ribadito «il divieto alle società a partecipazione totale o maggioritaria della Regione Siciliana, con esclusione delle società affidatarie di servizi pubblici che operano in regime di concessione regolata dalla normativa nazionale, di procedere a nuove assunzioni di personale ivi comprese quelle già autorizzate e quelle previste da disposizioni di carattere speciale […]»; - delibera della Giunta Regionale n. 492 del 30 dicembre 2019 che «ha ulteriormente rafforzato e ribadito il blocco delle assunzioni presso le società partecipate senza deroga alcuna»; - delibera di Giunta regionale n. 257 del 6 febbraio 2020 che ha introdotto una «specifica deroga» per consentire l’espletamento di procedure assunzionali «a favore della società IRFIS Finsicilia» - delibera 31 dicembre 2020, n. 619, che «ha mantenuto il divieto di assunzione per le partecipate ad eccezione di IRFIS, SEUS e per la Sicilia Digitale limitatamente a figure tecnico informatiche da vagliare con l’ausilio di ARIT»; - pareri dell’Ufficio legislativo e legale del 7 ottobre 2009 (n. 144.11.2009) e del 12 maggio 2010 (n. 27.11.2010) concernenti l'applicabilità alle categorie protette ex legge n. 68/1999 del divieto di assunzione disposto dall'art. 1, comma 10, della l.r. n. 25/2008, nei confronti degli enti e delle amministrazioni regionali; - parere dell'Avvocatura distrettuale dello Stato n. 16991 del 19 febbraio 2019, confermato con nota prot. n. 75774 del 10 settembre 2019, che, dopo avere richiamato l’art.7, comma 6, del decreto legge 31 agosto 2013, n. 101, che ha «affermato la cogenza degli obblighi di assunzione delle categorie protette, derogando ai divieti di nuove assunzioni anche in soprannumero», ha ritenuto «ragionevole sostenere che il reclutamento di soggetti appartenenti alle categorie cosiddette protette possa avvenire anche in deroga alle normative in materia di blocchi assunzionali»; 2. Il Presidente di questa sezione consultiva, nell’esercizio dei poteri istruttori monocratici e «con l’esclusiva finalità di velocizzare l’espressione del parere», con nota del 27 gennaio 2021, trasmessa tramite pec all’Assessore regionale dell’economia e per conoscenza all’Avvocatura generale della Presidenza della Regione Siciliana - Ufficio legislativo e legale, ha chiesto, «ai fini di completezza dell’istruttoria e per un più approfondito esame da parte del Collegio», che venissero trasmessi oltre al «consueto parere dell’ULL sulla questione sottoposta al vaglio della sezione», anche le seguenti delibere di Giunta: n. 221 del 30 settembre 2008; n. 492 del 30 dicembre 2019; n. 27 del 6 febbraio 2020; n. 619 del 31 dicembre 2020. 3. Questo Collegio, in occasione dell’adunanza del 23 febbraio 2021, sospendeva l’espressione del parere nelle more della trasmissione della richiesta relazione dell’Ufficio legislativo e legale. 4. L’Assessorato, con nota prot. 17933 del 24 febbraio 2021, ha trasmesso, quindi, la relazione dell’Ufficio legislativo e legale prot. n. 4626 13.11.2021 del 22 febbraio 2021 con i relativi allegati. 5. L’Ufficio legislativo e legale (nel prosieguo, “ULL”), in via preliminare, ha inteso rammentare che sulla problematica rappresentata ha già reso al richiedente Assessorato il parere n. 3.11.2020 del 20 marzo 2020, versato in atti. 5.1. L’ULL, in esso, richiamandosi all’indirizzo espresso dalla Corte dei conti (sez. reg. di controllo per il Veneto, deliberazione n. 310/2019 e sez. reg. Puglia, deliberazione n. 131/2018), ha espresso l’avviso, «in ragione della singolarità della legislazione relativa alle assunzioni obbligatorie, dettata per la tutela di diritti costituzionalmente rilevanti e resa particolarmente stringente dall'espressa previsione di misure sanzionatorie ex art. 15, comma 3, della ... legge n. 68/1999», di non discostarsi dall'orientamento assunto dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo con il parere n. 75774 del 10 settembre 2019. 5.2. Evidenzia che la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica, con circolari n. 6/2009 e n. 11786 del 22 febbraio 2011, «anche a fronte di una norma che includeva nel blocco delle assunzioni, quelle “previste da disposizioni di carattere speciali” (articolo 17, comma 7, del d.1. n. 78/2009), dal medesimo tenore di quella regionale in esame (articolo 20, comma 6, della 1.r. n. 11/2010) “ha in fase applicativa evidenziato il rango costituzionale dei valori tutelati dalla legge n. 68/1999 che conferisce alla stessa una particolare connotazione di specialità, rinforzata peraltro da un impianto sanzionatorio di ampio spettro sul piano penale, amministrativo e disciplinare”, escludendo dal divieto di assumere le categorie protette, nel limite del completamento della quota d'obbligo». Sottolinea che anche la Corte dei conti, Sezione di controllo per la Regione Siciliana, «alla quale sono stati sottoposti quesiti sostanzialmente riconducibili “alla compatibilità tra le disposizioni vincolistiche in materia di spese di personale e gli obblighi assunzionali relativi alle categorie protette” ha posto l'accento sul “principio generale della piena obbligatorietà delle assunzioni riferite alla quota d'obbligo di cui alla l. n. 68/99, la cui cogenza esclude qualsiasi margine di autodeterminazione dell'ente, pur in presenza di limitazioni di spesa o di vincoli al reclutamento di personale”» (Corte dei conti, Sezioni Riunite della Regione Siciliana in sede consultiva, n. 66/2012/SSRR/PAR e n.29/2013/SSRR/PAR). Per l’ULL la medesima Corte, nel richiamare l'art. 7, comma 6, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito con modificazioni dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, che impone alle amministrazioni pubbliche l'assunzione obbligatoria delle categorie protette nei limiti della quota d'obbligo, in deroga ai divieti di nuove assunzioni previsti dalla legislazione vigente, conferma l'avviso secondo cui «i rapporti tra la normativa che prevede le c.d. assunzioni obbligatorie per le categorie protette, da un lato, e le norme finalizzate al contenimento della spesa pubblica ed al risanamento dei bilanci delle amministrazioni pubbliche promulgate negli ultimi anni, dall'altro, ancorché non debbano ritenersi incompatibili o inconciliabili, devono, comunque, risolversi nel senso della prevalenza delle disposizioni che impongono obblighi assunzionali di soggetti appartenenti alle categorie protette, nei limiti della copertura della c.d. quota d'obbligo, sulle previsioni che pongono vincoli e divieti di assunzione, in ragione della singolarità della legislazione relativa alle assunzioni obbligatorie, dettata per la tutela di diritti costituzionalmente rilevanti e resa particolarmente stringente dall'espressa previsione di misure sanzionatorie ex art.15, comma 3, della citata legge n.68/1999» (Sezioni Riunite per la Regione Siciliana in sede consultiva, n. 36/2008/SSRR/PAR del 10 dicembre 2008, n. 49/2011 SSRR/PAR dell’1 luglio 2011, n. 29/SSRR/PAR del 29 agosto 2013, n. 76/SSRR/PAR del 31 ottobre 2012; Sezione di controllo per la regione Lombardia n. 168/2012/PAR e n. 926/2012/PAR). 5.3. Precisa, quindi, che i richiamati indirizzi ermeneutici sono riferiti ai rapporti tra la legge n. 68/1999 e le norme vincolistiche in materia di assunzione volte al contenimento della spesa nelle amministrazioni pubbliche. Reputa che il quadro normativo non è completo senza il riferimento al d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, recante il “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”, che riguardo alla “gestione del personale”, all'art. 19, comma 5, così dispone: «Le amministrazioni pubbliche socie fissano, con propri provvedimenti, obiettivi specifici, annuali e pluriennali, sul complesso delle spese di funzionamento, ivi comprese quelle per il personale, delle società controllate, anche attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni di personale ...». Ritiene, quindi, che il legislatore abbia previsto in capo alle pubbliche amministrazioni socie un dovere di monitorare «il complesso delle spese di funzionamento, ivi comprese quelle per il personale», evocando «anche» il «contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni». Conclude che, fermo restando il rispetto dell'obiettivo volto al contenimento delle spese di amministrazione e gestione con le citate delibere della Giunta regionale, laddove si considerino prevalenti gli indirizzi ermeneutici facenti leva sul «particolare rango dei valori tutelati... che conferisce alla normativa a tutela delle fasce deboli della popolazione una connotazione di specialità e di precettività in relazione alla quota di riserva», sembra possa ritenersi che le assunzioni «obbligatorie» delle categorie protette di cui alla legge n. 68/1999 siano escluse dal blocco assunzionale previsto per le società partecipate. 6. Questo Consiglio, preliminarmente, ritiene di condividere le conclusioni rassegnate nell’esaustiva relazione dell’ULL che, avendo richiamato l’orientamento espresso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato e della Corte dei conti, reputa «che le assunzioni obbligatorie delle categorie protette di cui alla legge n. 68/1999 siano escluse dal blocco assunzionale previsto per le società partecipate». Il Consiglio è dell’avviso che la soluzione della questione, nei termini appena citati, trovi pieno riscontro nei principi di rango costituzionale e di livello comunitario in cui la stessa si inserisce. Il riferimento è in primo luogo all’art. 38, comma 3, della Costituzione in cui si legge che «Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale». Il costituente, nell’inserire tale principio nell’ambito del Titolo dedicato ai rapporti economici, ha evidentemente inteso porre alla base dell’ordinamento l’esigenza di tutelare e supportare le categorie deboli non solo in via assistenziale, ma anche promuovendo l’inserimento di tali soggetti nel mondo del lavoro, pur nell’ambito dell’economia di mercato. Proprio a tale logica risponde, con ogni evidenza, la legge n. 68 del 12 marzo 1999 recante «Norme per il diritto al lavoro dei disabili», la quale, quindi, gode di un fondamento costituzionale. Ma vi è di più. Invero, se la Costituzione sancisce il diritto dei disabili all’avviamento professionale e offre copertura alla normativa di settore (l. n. 68/1999), tale principio trova riconoscimento anche a livello eurocomunitario. Più nello specifico, all’art. 26 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, rubricato «Inserimento delle persone con disabilità» e inserito significativamente nel Titolo dedicato all’Uguaglianza, in cui si legge che «L’ Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità». Peraltro, è giusto il caso di ricordare che, con l’entrata in vigore dell’art. 6 del Trattato di Lisbona, è stato espressamente attribuito alla Carta dei Diritti Fondamentali lo stesso valore giuridico dei Trattati. Sicché se è vero che a norma dell’art. 51 di tale Carta le disposizioni in essa contenute vincolano gli Stati Membri «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione», è nondimeno evidente che la salvaguardia dei diritti di tali categorie deboli, anche sotto il profilo di promozione del loro inserimento nel mondo del lavoro, rappresenta uno dei valori posti a fondamento del progetto euro-unitario. Vincoli più stringenti quanto a politiche attive di integrazione e tutela dei disabili si riscontrano, poi, sul piano del diritto internazionale pattizio. Il riferimento è alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e al relativo protocollo opzionale, sottoscritta dall’Italia già a marzo 2007 e la cui ratifica è stata autorizzata dal Parlamento con legge del 3 marzo 2009 n. 18. In particolare, a norma dell’art. 27 della citata Convenzione «Gli Stati Parti riconoscono il diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri; segnatamente il diritto di potersi mantenere attraverso un lavoro liberamente scelto o accettato in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto, che favorisca l’inclusione e l’accessibilità alle persone con disabilità. Gli Stati Parti devono garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro […] prendendo appropriate iniziative – anche attraverso misure legislative – in particolare al fine di: […] (g) assumere persone con disabilità nel settore pubblico; (h) favorire l’impiego di persone con disabilità nel settore privato attraverso politiche e misure adeguate che possono includere programmi di azione antidiscriminatoria, incentivi e altre misure […]». La centralità che in tale ottica ricopre la l. n. 68/1999 è poi espressamente riconosciuta nel primo Rapporto alle Nazioni Unite trasmesso dall’Italia, in conformità a quanto previsto dall’art. 35 della convenzione, a fine novembre 2012. Invero, in tale rapporto, in relazione all’attuazione del citato art. 27 si legge che «la principale misura legislativa», sotto tale profilo, è rappresentata proprio dalla legge n. 68 del 1999 in quanto volta all’inserimento e all’integrazione lavorativa delle persone con disabilità. In tale documento si evidenzia, tra l’altro, proprio la circostanza che la normativa in parola impone ai datori di lavoro, sia pubblici che privati, che presentino determinati requisiti dimensionali, di avere alle loro dipendenze lavoratori con disabilità individuando a tal fine una “quota di riserva”. Ciò posto, non è poi superfluo evidenziare che, stipulando tale Convenzione, lo Stato Italiano si è obbligato non solo ad adottare le misure adeguate a dare attuazione ai diritti da essa riconosciuti ma anche «ad astenersi dall’intraprendere ogni atto o pratica che sia in contrasto con la presente Convenzione ed a garantire che le autorità pubbliche e le istituzioni agiscano in conformità con la presente Convenzione». Né è possibile dubitare dell’effettiva cogenza degli impegni assunti per il legislatore non solo nazionale ma anche regionale. Invero, gli obblighi internazionali assunti costituiscono, ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., parametri interposti di costituzionalità. È noto, sul punto, il principio espresso dalla Corte costituzionale secondo il quale le norme convenzionali internazionali «integrano il parametro costituzionale», pur rimanendo ad un livello sub-costituzionale ed essendo pertanto necessario verificare la loro conformità non solo rispetto ai principi supremi del nostro ordinamento (come avviene nel caso del diritto dell’Unione Europea), ma rispetto a tutte le norme costituzionali (Corte cost., sent. nn. 348-349/2007, c.d. “sentenze gemelle”). Nel caso de quo, alla luce delle considerazioni svolte, in particolare con riferimento all’art. 38 Cost., è di ogni evidenza l’esito positivo di tale verifica. Dal nuovo sistema delle fonti tracciato dalla Corte costituzionale deriva, in primo luogo e per quanto di rilievo nel caso oggetto del presente procedimento, che il giudice nazionale nell’interpretare le norme interne è tenuto a privilegiare quell’interpretazione che non si ponga in contrasto con il diritto pattizio laddove in caso di irriducibili antinomie lo stesso dovrebbe sollevare questione di legittimità costituzionale per la violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. Pertanto, è innanzitutto in tale ottica che è necessario affrontare la questione, per la quale il presente Consiglio è stato adito, relativa all’operatività del c.d. blocco delle assunzioni per il settore pubblico previsto ai sensi dell’art. 1, comma 10, della l.r. n. 25/2008, anche con riferimento ai soggetti tutelati ex l. n. 68/1999. La questione, in particolare, è venuta in rilievo in quanto la successiva l.r. n. 11/2010, all’art. 20, comma 6, ha previsto, con specifico riferimento alle società a totale o maggioritaria partecipazione della Regione Siciliana, il divieto di procedere a nuove assunzioni di personale «ivi comprese quelle già autorizzate e quelle previste da disposizioni di carattere speciale». Tale divieto sarebbe parso poi ulteriormente rafforzato da due recenti delibere della Giunta Regionale, rispettivamente la n. 492 del 30 dicembre 2019 e la n. 619 del 31 dicembre 2020. Assume, quindi, fondamentale importanza stabilire se tra le disposizioni a carattere speciale richiamate dalla legge regionale debba o meno considerarsi compresa altresì la l. n. 68/1999. Tuttavia, avuto riguardo ai valori sanciti a livello costituzionale ed europeo, nonché alla luce degli obblighi internazionali assunti dallo Stato Italiano come ricostruiti supra, risulta evidente che la soluzione debba essere, e non possa non essere, quella che esclude che il blocco delle assunzioni sancito dal legislatore regionale ricomprenda altresì i lavoratori disabili sia pure limitatamente alle quote di riserva stabilite dalla legge n. 68 del 1999. In altre parole, l’obiettivo di tutela dei soggetti con disabilità, anche sotto il profilo della promozione del loro inserimento nel mondo del lavoro, ha un rilievo a livello non solo costituzionale, ma anche internazionale, tale da impedire che lo stesso venga sacrificato per ragioni di mera opportunità finanziaria. In quest’ottica si pone, d’altra parte, anche la pronuncia della Corte dei conti, Sezioni Riunite per la Regione Siciliana in sede consultiva, opportunamente richiamata dall’Ufficio legislativo e legale, in base alla quale «i rapporti tra la normativa che prevede le c.d. assunzioni obbligatorie per le categorie protette, da un lato, e le norme finalizzate al contenimento della spesa pubblica ed al risanamento dei bilanci delle amministrazioni pubbliche promulgate negli ultimi anni – tra cui chiaramente rientrano anche le disposizioni in materia di blocco delle assunzioni -, dall’altro, ancorché non debbano ritenersi incompatibili o inconciliabili, devono, comunque, risolversi nel senso della prevalenza delle disposizioni che impongono obblighi assunzionali di soggetti appartenenti alle categorie protette, nei limiti della copertura della c.d. quota d’obbligo, sulle previsioni che pongono vincoli e divieti di assunzione». (Sezioni Riunite per la Regione Siciliana n sede consultiva, n. 36/2008/SSRR/PAR del 10 dicembre 2008, n. 49/2011/SSRR/PAR dell’1 luglio 2011, n. 29/SSRR/PAR del 29 agosto 2013, n. 76/SSRR/PAR del 31 ottobre 2012). P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, rende il parere nei termini sopra precisati. IL SEGRETARIO Giuseppe Chiofalo
Società in house - Personale – Sicilia – Blocco assunzioni – Categorie protette – Deroga al blocco assunzionale.      Le assunzioni obbligatorie delle categorie protette di cui alla l. n. 68 del 1999 sono escluse dal blocco assunzionale previsto per le società partecipate della Regione Siciliana (1).    (1) Ha affermato la Sezione che la soluzione della questione, nei termini appena citati, trovi pieno riscontro nei principi di rango costituzionale e di livello comunitario in cui la stessa si inserisce. Il riferimento è in primo luogo all’art. 38, comma 3, Cost. in cui si legge che «Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale».  Il costituente, nell’inserire tale principio nell’ambito del Titolo dedicato ai rapporti economici, ha evidentemente inteso porre alla base dell’ordinamento l’esigenza di tutelare e supportare le categorie deboli non solo in via assistenziale, ma anche promuovendo l’inserimento di tali soggetti nel mondo del lavoro, pur nell’ambito dell’economia di mercato. Proprio a tale logica risponde, con ogni evidenza, la l. n. 68 del 12 marzo 1999, recante «Norme per il diritto al lavoro dei disabili», la quale, quindi, gode di un fondamento costituzionale. Ma vi è di più. Invero, se la Costituzione sancisce il diritto dei disabili all’avviamento professionale e offre copertura alla normativa di settore (l. n. 68 del 1999), tale principio trova riconoscimento anche a livello eurocomunitario. Più nello specifico, all’art. 26 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, rubricato «Inserimento delle persone con disabilità» e inserito significativamente nel Titolo dedicato all’Uguaglianza, in cui si legge che «L’ Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità».  Peraltro, è giusto il caso di ricordare che, con l’entrata in vigore dell’art. 6 del Trattato di Lisbona, è stato espressamente attribuito alla Carta dei Diritti Fondamentali lo stesso valore giuridico dei Trattati.  Sicché se è vero che a norma dell’art. 51 di tale Carta le disposizioni in essa contenute vincolano gli Stati Membri «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione», è nondimeno evidente che la salvaguardia dei diritti di tali categorie deboli, anche sotto il profilo di promozione del loro inserimento nel mondo del lavoro, rappresenta uno dei valori posti a fondamento del progetto euro-unitario. Vincoli più stringenti quanto a politiche attive di integrazione e tutela dei disabili si riscontrano, poi, sul piano del diritto internazionale pattizio. Il riferimento è alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e al relativo protocollo opzionale, sottoscritta dall’Italia già a marzo 2007 e la cui ratifica è stata autorizzata dal Parlamento con legge del 3 marzo 2009 n. 18. In particolare, a norma dell’art. 27 della citata Convenzione «Gli Stati Parti riconoscono il diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri; segnatamente il diritto di potersi mantenere attraverso un lavoro liberamente scelto o accettato in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto, che favorisca l’inclusione e l’accessibilità alle persone con disabilità. Gli Stati Parti devono garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro […] prendendo appropriate iniziative – anche attraverso misure legislative – in particolare al fine di:  […] (g) assumere persone con disabilità nel settore pubblico; (h) favorire l’impiego di persone con disabilità nel settore privato attraverso politiche e misure adeguate che possono includere programmi di azione antidiscriminatoria, incentivi e altre misure […]».  La centralità che in tale ottica ricopre la l. n. 68 del 1999 è poi espressamente riconosciuta nel primo Rapporto alle Nazioni Unite trasmesso dall’Italia, in conformità a quanto previsto dall’art. 35 della convenzione, a fine novembre 2012.  Invero, in tale rapporto, in relazione all’attuazione del citato art. 27 si legge che «la principale misura legislativa», sotto tale profilo, è rappresentata proprio dalla legge n. 68 del 1999 in quanto volta all’inserimento e all’integrazione lavorativa delle persone con disabilità. In tale documento si evidenzia, tra l’altro, proprio la circostanza che la normativa in parola impone ai datori di lavoro, sia pubblici che privati, che presentino determinati requisiti dimensionali, di avere alle loro dipendenze lavoratori con disabilità individuando a tal fine una “quota di riserva”.  Ciò posto, non è poi superfluo evidenziare che, stipulando tale Convenzione, lo Stato Italiano si è obbligato non solo ad adottare le misure adeguate a dare attuazione ai diritti da essa riconosciuti ma anche «ad astenersi dall’intraprendere ogni atto o pratica che sia in contrasto con la presente Convenzione ed a garantire che le autorità pubbliche e le istituzioni agiscano in conformità con la presente Convenzione».  Né è possibile dubitare dell’effettiva cogenza degli impegni assunti per il legislatore non solo nazionale ma anche regionale.  Invero, gli obblighi internazionali assunti costituiscono, ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., parametri interposti di costituzionalità. È noto, sul punto, il principio espresso dalla Corte costituzionale secondo il quale le norme convenzionali internazionali «integrano il parametro costituzionale», pur rimanendo ad un livello sub-costituzionale ed essendo pertanto necessario verificare la loro conformità non solo rispetto ai principi supremi del nostro ordinamento (come avviene nel caso del diritto dell’Unione Europea), ma rispetto a tutte le norme costituzionali (Corte cost., sent. nn. 348-349/2007, c.d. “sentenze gemelle”). Nel caso de quo, alla luce delle considerazioni svolte, in particolare con riferimento all’art. 38 Cost., è di ogni evidenza l’esito positivo di tale verifica.  Dal nuovo sistema delle fonti tracciato dalla Corte costituzionale deriva, in primo luogo e per quanto di rilievo nel caso oggetto del presente procedimento, che il giudice nazionale nell’interpretare le norme interne è tenuto a privilegiare quell’interpretazione che non si ponga in contrasto con il diritto pattizio laddove in caso di irriducibili antinomie lo stesso dovrebbe sollevare questione di legittimità costituzionale per la violazione dell’art. 117, comma 1, Cost.  Pertanto, è innanzitutto in tale ottica che è necessario affrontare la questione relativa all’operatività del c.d. blocco delle assunzioni per il settore pubblico previsto ai sensi dell’art. 1, comma 10, l.reg. Sicilia n. 25 del 2008, anche con riferimento ai soggetti tutelati ex l. n. 68 del 1999.  La questione, in particolare, è venuta in rilievo in quanto la successiva l. reg. società partecipate n. 11 del 2010, all’art. 20, comma 6, ha previsto, con specifico riferimento alle società a totale o maggioritaria partecipazione della Regione Siciliana, il divieto di procedere a nuove assunzioni di personale «ivi comprese quelle già autorizzate e quelle previste da disposizioni di carattere speciale». Tale divieto sarebbe parso poi ulteriormente rafforzato da due recenti delibere della Giunta Regionale, rispettivamente la n. 492 del 30 dicembre 2019 e la n. 619 del 31 dicembre 2020.  Assume, quindi, fondamentale importanza stabilire se tra le disposizioni a carattere speciale richiamate dalla legge regionale debba o meno considerarsi compresa altresì la l. n. 68 del 1999. Tuttavia, avuto riguardo ai valori sanciti a livello costituzionale ed europeo, nonché alla luce degli obblighi internazionali assunti dallo Stato Italiano come ricostruiti supra, risulta evidente che la soluzione debba essere, e non possa non essere, quella che esclude che il blocco delle assunzioni sancito dal legislatore regionale ricomprenda altresì i lavoratori disabili sia pure limitatamente alle quote di riserva stabilite dalla legge n. 68 del 1999. In altre parole, l’obiettivo di tutela dei soggetti con disabilità, anche sotto il profilo della promozione del loro inserimento nel mondo del lavoro, ha un rilievo a livello non solo costituzionale, ma anche internazionale, tale da impedire che lo stesso venga sacrificato per ragioni di mera opportunità finanziaria.  ​​​​​​​In quest’ottica si pone, d’altra parte, anche la pronuncia della Corte dei conti, Sezioni Riunite per la Regione Siciliana in sede consultiva, opportunamente richiamata dall’Ufficio legislativo e legale, in base alla quale «i rapporti tra la normativa che prevede le c.d. assunzioni obbligatorie per le categorie protette, da un lato, e le norme finalizzate al contenimento della spesa pubblica ed al risanamento dei bilanci delle amministrazioni pubbliche promulgate negli ultimi anni – tra cui chiaramente rientrano anche le disposizioni in materia di blocco delle assunzioni -, dall’altro, ancorché non debbano ritenersi incompatibili o inconciliabili, devono, comunque, risolversi nel senso della prevalenza delle disposizioni che impongono obblighi assunzionali di soggetti appartenenti alle categorie protette, nei limiti della copertura della c.d. quota d’obbligo, sulle previsioni che pongono vincoli e divieti di assunzione». (Sezioni Riunite per la Regione Siciliana in sede consultiva, n. 36/2008/SSRR/PAR del 10 dicembre 2008, n. 49/2011/SSRR/PAR dell’1 luglio 2011, n. 29/SSRR/PAR del 29 agosto 2013, n. 76/SSRR/PAR del 31 ottobre 2012). 
Società in house
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/la-pendenza-del-giudizio-dinanzi-alla-cedu-non-incide-sulla-possibilit-c3-a0-di-procedere-alla-sgombero-del-bene-confiscato-alla-criminalit-c3-a0-orga
La pendenza del giudizio dinanzi alla Cedu non incide sulla possibilità di procedere alla sgombero del bene confiscato alla criminalità organizzata
N. 07866/2020REG.PROV.COLL. N. 02849/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2849 del 2020, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Marcello Fortunato, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Agenzia Nazionale per l'Amministrazione e Destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla Criminalità Organizzata, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; nei confronti Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente l'ordinanza di rilascio art. 47, comma 2, del D. Lgs. n. 159/2011; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno e dell’Agenzia Nazionale per L'Amministrazione e Destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla Criminalità Organizzata; Visti tutti gli atti della causa; Visto l’art. 25 del d.l. n. 137/2020; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 novembre 2020, tenutasi da remoto, il Cons. Stefania Santoleri e udito per la parte appellante l’avvocato Marcello Fortunato; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. - Con il ricorso di primo grado, proposto dinanzi al TAR per il Lazio, il ricorrente ha impugnato l'ordinanza di sfratto ex art. 2 decies - comma 2 L. n. 575/1965 (oggi art. 47 - comma 2 del D. Lgs. n. 159/2011), prot. n. -OMISSIS-, con la quale è stata disposta la restituzione di immobili siti in -OMISSIS-, “entro e non oltre il termine perentorio di 120 giorni (trenta) dalla notifica del presente provvedimento” e tutti gli atti del procedimento indicati nell’epigrafe del ricorso. Nell’atto introduttivo del giudizio il ricorrente ha esposto: - di essere comproprietario, in virtù di fondo patrimoniale costituito in data 11.11.12, di un fabbricato sito in -OMISSIS- - che tale immobile, in applicazione della misura di prevenzione patrimoniale di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 159/2011, emessa nei suoi confronti nonché del sig. -OMISSIS-, era stato colpito da confisca, disposta con decreto n. -OMISSIS-, poi confermato con decreto dalla Corte d’Appello n. -OMISSIS- con sentenza della Suprema Corte di Cassazione; - di aver proposto avverso tale decreto incidente d’esecuzione dinanzi al Giudice penale competente nonché ricorso dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, giudizi ancora pendenti al momento della presentazione del ricorso dinanzi al TAR. 1.1 - Con il ricorso di primo grado ha proposto plurime doglianze avverso l’ordinanza di sfratto, chiedendo, in via preliminare, la sospensione del giudizio in pendenza dei giudizi – a suo dire – pregiudiziali dinanzi al giudice penale e alla Corte EDU. 1.2 – Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata chiedendo il rigetto del ricorso. 2. - Con la sentenza impugnata il TAR ha respinto l’istanza di sospensione del processo ed ha rigettato il ricorso. 3. - Avverso tale decisione il ricorrente ha proposto appello, articolato sulla base di cinque motivi, chiedendo la riforma della sentenza impugnata. 3.1 - Si è costituita in giudizio l’Amministrazione appellata chiedendo il rigetto dell’appello. 3.2 – Con memoria depositata il 19/10/2020 l’appellante ha ribadito le proprie tesi difensive chiedendone l’accoglimento. 4. - All’udienza pubblica del 19 novembre 2020, tenutasi da remoto, l’appello è stato trattenuto in decisione. 5. - L’appello è infondato e va, dunque, respinto. 6. – Con il primo motivo l’appellante ha censurato il capo di sentenza con il quale il TAR ha respinto l’istanza di sospensione del giudizio, ritenendola non obbligatoria. L’appellante ha dedotto, in punto di fatto, che il ricorso per revocazione è stato definito durante il giudizio di primo grado; ha però aggiunto che attualmente pende il ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte di Appello di Napoli. Ha sottolineato, inoltre, che risulta ancora pendente il giudizio dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, trasmesso in data 2/5/2018. In punto di diritto ha censurato la decisione del TAR sostenendo che la pendenza dei due gravami configurerebbe certamente una causa pregiudiziale che incide sul provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 295 c.p.c. e dell’art. 79, comma 1, c.p.a., in quanto l’accoglimento anche di uno solo dei due giudizi comporterebbe la restituzione del bene all’appellante. Ha quindi dedotto l’erroneità della decisione del TAR per aver ritenuto insussistenti i presupposti per disporre la sospensione del processo. 6.1 - La doglianza non può essere condivisa. Correttamente il TAR ha richiamato la giurisprudenza di questa Sezione secondo cui: “il codice del processo amministrativo non annovera tra le cause di sospensione necessaria del giudizio amministrativo la pendenza di un procedimento penale, ancorché relativo ai medesimi fatti di cui si controverte in causa (artt. 8 co. 2, 77 c.p.a.). L’attuale codice di procedura penale ha superato l'idea che il giudizio penale dovesse produrre risultati valevoli in qualsiasi altra sede, restringendo l’autorità extra-penale del giudicato penale alle sole ipotesi di cui all’art. 651 c.p.p. Il giudice amministrativo, al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 8 co. 2 e 77 c.p.a., non è dunque affatto tenuto alla sospensione del processo, essendo in questi casi tale scelta rimessa ad una valutazione di opportunità da compiersi in relazione alla rilevanza della pregiudizialità del giudizio penale rispetto al giudizio amministrativo. La sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c. è necessaria soltanto quando la previa definizione di altra controversia civile, penale o amministrativa, pendente davanti allo stesso o ad altro giudice, sia imposta da una espressa disposizione di legge ovvero quando, per il suo carattere pregiudiziale, costituisca l'indispensabile antecedente logico-giuridico dal quale dipenda la decisione della causa pregiudicata ed il cui accertamento sia richiesto con efficacia di giudicato” (Cons. Stato, Sez. III, 4 marzo 2019 n. 1499). 6.2 - A ciò è opportuno aggiungere che il provvedimento di confisca è divenuto definitivo in quanto “ai sensi dell'art. 27, del D.Lgs. n. 159 del 2011, "i provvedimenti che dispongono la confisca dei beni sequestrati (...) diventano esecutivi con la definitività delle relative pronunce"; mentre, secondo le norme del codice di procedura penale (le quali si osservano, in quanto applicabili, anche in caso di confisca, ex art. 10, comma 4, D.Lgs. n. 159 del 2011), le pronunce del giudice penale acquisiscono carattere definitivo, vale a dire passano in giudicato (art. 648 c.p.p.), quando non sono proponibili impugnazioni diverse dalla revisione, ovvero sia decorso inutilmente il termine per proporre impugnazioni, ovvero sia stato dichiarato inammissibile o rigettato il ricorso per cassazione” (cfr. Cons. Stato Sez. III n. 1499/2019). Al di fuori di tali presupposti, la sospensione cessa di essere necessaria e, quindi, obbligatoria per il giudice. Il TAR ha anche ritenuto l’inutilità della sospensione atteso che il giudizio revocatorio non sarebbe idoneo a determinare la restituzione del bene sostenendo che “né la definitività è attenuata dalla possibilità di esperire rimedi straordinari (revisione e istituti similari) che si ritiene consentano una tutela risarcitoria, con esclusione della restituzione del bene”. 6.3 - Nell’atto di appello l’appellante ha censurato quest’ultima la statuizione rilevando che l’art. 28, comma 4, del d.lgs. 159/11 dispone che: “quando accoglie la richiesta di revocazione, la corte di appello provvede, ove del caso, ai sensi dell’art. 46”; quest’ultimo articolo prevede che “la restituzione dei beni confiscati….nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente, può avvenire anche per equivalente, al netto delle migliorie, quando i beni medesimi sono stati assegnati per finalità istituzionali o sociali, per fini di giustizia o di ordine pubblico o di protezione civile di cui alle lettere a), b) e c) dell’art. 48, comma 3, del presente decreto e la restituzione possa pregiudiziare l’interesse pubblico….”: secondo l’appellante, quindi, solo nel caso di beni già assegnati a specifiche finalità l’Agenzia potrebbe optare, in luogo della restituzione, per il risarcimento per equivalente. Nel caso di specie la destinazione non sarebbe avvenuta e, quindi, la sospensione del processo eviterebbe il rischio di non poterla più ottenere in caso di accoglimento dell’istanza di revocazione della confisca. 6.4 - Premesso che – come già rilevato – non sussistono i presupposti per disporre la sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., la tesi dell’appellante non risulta comunque convincente anche a volerla valutare sotto il profilo meramente logico e di opportunità, ove confrontata con il rispetto del principio del giusto processo. 6.4.1 - Innanzitutto – nella tesi dell’appellante – il discrimine per la restituzione del bene è costituito dall’avvenuta destinazione o meno del bene confiscato (in quanto solo in quest’ultimo caso l’Agenzia è chiamata ad operare una valutazione di tipo discrezionale); il potere di destinazione del bene confiscato è conseguente alla definitività della confisca e tale circostanza si è già verificata: occorre considerare, infatti, che i giudizi ancora pendenti costituiscono soltanto rimedi straordinari previsti dalla legge che riguardano, quindi, limitatissimi casi nei quali, in effetti, sia stata emessa la confisca in difetto di presupposti. 6.4.2 - In questi particolari casi può valere il principio espresso dalla giurisprudenza penale (cfr. Cass. Pen. Sez. V, 15/03/2018, n. 32692) secondo cui “colui che abbia ottenuto il provvedimento di revocazione ha diritto alla restituzione di quanto gli è stato confiscato e, in generale, come si desume dalla citata Sez. U, n. 57 del 19/12/2006 - dep. 08/01/2007, Auddino, al ripristino della situazione anteriore alla confisca, privata di effetti ex tunc”. “Nè, in senso contrario, assume rilievo l'inciso contenuto nell'art. 28, u.c., laddove prevede che il tribunale, al quale gli atti sono stati trasmessi dalla corte d'appello che abbia disposto la revocazione, provvede, ai sensi dell'art. 46 "ove del caso". “La norma non introduce valutazioni di opportunità - che sarebbero di dubbia legittimità costituzionale, in quanto sganciate da parametri normativi puntuali e prevedibili negli esiti applicativi - ma rinvia semplicemente ai possibili epiloghi decisori che l'art. 46 prefigura, in relazione alle diverse situazioni che possono verificarsi in concreto” (sent. sopra citata). La Cassazione Penale nella suddetta sentenza ha, infatti, rilevato che le eccezioni alla regola della restitutio in integrum sono rappresentate dai casi nei quali, “per ragioni di efficiente svolgimento dei procedimenti di amministrazione dei beni confiscati, il legislatore si pone il problema della coesistenza di un interesse pubblico che giustifica il sacrificio, peraltro adeguatamente indennizzato, della pretesa restitutoria”. 6.4.2 - Ebbene, tale evenienza, secondo il Collegio è quantomai remota, atteso che: - sono trascorsi circa 10 anni dall’adozione della confisca, periodo nel quale si sono svolti molteplici giudizi avverso tale provvedimento (tutti conclusisi negativamente per l’appellante), in pendenza dei quali l’Agenzia non ha mai provveduto a determinare la destinazione del bene confiscato; - è ormai pendente il solo ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli che ha rigettato l’istanza di revocazione (oltre al giudizio dinanzi alla CEDU che, come è noto, ha tempi molto lunghi, incompatibili con il principio del giusto processo codificato nell’art. 2 c.p.a.); - non sussistano i presupposti per disporre la sospensione del giudizio, tenuto conto, da un lato, del principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 2, comma 2, c.p.a., e dall’altro che, in caso di esito favorevole del giudizio di revocazione, l’Amministrazione provvederà, in via conseguenziale, alla restituzione del bene; - in ogni caso, ove ciò non fosse possibile, verrebbe comunque assicurata la tutela per equivalente. 6.4 - In merito alla pendenza del giudizio dinanzi alla CEDU sono pienamente condivisibili le statuizioni del TAR secondo cui “…La pendenza del procedimento innanzi la Corte Europea dei Diritti Umani non incide sulla possibilità di procedere alla sgombero del bene ed alla sua destinazione ad altro: è infatti evidente che gli articoli 45 e 45 bis del D. L.vo 159/2011, laddove fanno riferimento al “provvedimento definitivo di confisca”, alludono al provvedimento di confisca che sia da ritenersi “definitivo” in base alle norme dell’Ordinamento italiano, e quindi al provvedimento di confisca in relazione al quale non possa essere esperito un rimedio impugnatorio interno. 14. Del resto, se e nel caso in cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo dovesse riconoscere fondatezza al ricorso presentato dai ricorrenti, non per tale ragione verrebbe meno, automaticamente, la validità del decreto di confisca di cui si discute nel presente giudizio: come gli stessi ricorrenti ammettono in ricorso, in tale circostanza lo Stato italiano dovrebbe adottare misure idonee a porre i ricorrenti in una situazione simile a quella in cui si sarebbero trovati ove non vi fosse stata inosservanza alcuna della Convenzione, e tali misure non necessariamente dovrebbero comportare la restituzione della proprietà dell’appartamento del cui sgombero si tratta. 15. Non è peraltro inutile ricordare che la Corte di Strasburgo ha già avuto modo di pronunciarsi sulla legittimità della confisca disposta quale misura di prevenzione antimafia, affermando in particolare che: i) la confisca come misura di prevenzione, non solo non confligge con le norme della CEDU, ma anzi è una misura indispensabile per contrastare il crimine (sentenza 22 febbraio 1994, Raimondo c. Italia, in causa 12954/87; Decisione 4 settembre 2001, Riela c. Italia, in causa 52439/09).; ii) la confisca deve essere, in ogni caso, conforme alle prescrizioni dell'art. 1, primo paragrafo, del Protocollo n. 1 alla Convenzione, ed a tal fine deve rispettare due limiti: deve, cioè, essere irrogata sulla base di una espressa previsione di legge e deve realizzare il giusto equilibrio tra l'interesse generale e la salvaguardia del diritti dell'individuo (sentenza 20 gennaio 2009, Sud Fondi s.r.l. c. Italia, in causa 75909/01); iii) per la Corte inoltre non costituisce di per sé violazione né della CEDU, né del Protocollo n. 1, l'inversione dell'onere della prova, in base al quale è il prevenuto a dover dimostrare l'origine lecita dei beni di cui dispone (Decisione 5 luglio 2001, Arcuri c. Italia, in causa 52024/99 che ha affermato che "la presunzione d'innocenza non è assoluta"), fermo restando, ovviamente, il diritto incoercibile del prevenuto a fornire con ogni mezzo la prova contraria (sentenza 23 dicembre 2008, Grayson e Barnham c. Regno Unito, nelle cause riunite 19955/05 e 15085/06, 40, 41 e 45 della motivazione); iv) la Corte, con riferimento all'ipotesi di confisca ai danni di un terzo, diverso dal reo o dal prevenuto, ha, in varie occasioni, affermato che il requisito del giusto equilibrio è rispettato quando al terzo proprietario dei beni confiscati sia data la possibilità di un ricorso giurisdizionale (per es. Decisione 26 giugno 2001, C.M. c. Francia, in causa 28078/95).” Il primo motivo va, quindi, respinto. 7. - Con il secondo motivo l’appellante ha dedotto l’erroneità del capo di sentenza che ha respinto il secondo motivo di ricorso, con cui era stata contestata la legittimità del provvedimento di rilascio in mancanza della preventiva destinazione del bene confiscato. 7.1 - La doglianza non può essere condivisa alla luce del costante orientamento della giurisprudenza (anche di questa Sezione) secondo cui: “quello dell’Agenzia di ordinare lo sgombero di un immobile confiscato è un “potere-dovere” che non è in alcun modo condizionato dalla previa adozione del provvedimento di destinazione del bene stesso ma risponde ad un interesse concreto alla liberazione dei beni, che viene compiutamente soddisfatto con l’esercizio di un’azione esecutiva complementare ma distinta da quella discrezionale con cui, invece, l’amministrazione decide in ordine all’uso sociale dei medesimi beni mediante il procedimento di destinazione disciplinato dagli artt. 47 ss. d.lgs. n. 159/2011 (cfr. per tutte: Cons. Stato, Sez. III , 25.7.16, n. 3324). L’ordinanza di sgombero, come congegnata dal legislatore, è riconducibile all'esercizio di un potere vincolato e costituisce un “atto dovuto”, strettamente consequenziale rispetto alla confisca definitiva dei beni, da cui consegue un istantaneo trasferimento a titolo originario in favore del patrimonio dello Stato del bene che ne costituisce l’oggetto ex art. 45 co. 1 d.lgs. n. 159/2011 (cfr. Cass. civ., SS.UU., 8.1.07, n. 57). Al momento dell’acquisizione del carattere di definitività del provvedimento di confisca corrisponde, quindi, per l’Agenzia il potere-dovere di ordinare alla parte ricorrente di lasciare libero il bene, avendo lo stesso acquisito, per effetto del provvedimento ablatorio, una impronta rigidamente pubblicistica che non consente di distoglierlo, anche solo temporaneamente, dal vincolo di destinazione e dalle finalità pubbliche. La giurisprudenza ha costantemente affermato che, ai sensi dell'art. 47 comma 2, d.lgs. n. 159/2011, l'adozione dell'ordinanza di sgombero di immobile confiscato alla criminalità organizzata costituisce, per l’ANBSC, un atto dovuto, atteso che essa ha il potere-dovere di ordinare ai ricorrenti di lasciare libero un bene che, per effetto della confisca, acquisisce un'impronta rigidamente pubblicistica, che non consente di distoglierlo, anche solo temporaneamente, dal vincolo di destinazione e dalle finalità pubbliche. Il che determina l'assimilabilità del regime giuridico del bene confiscato a quello dei beni facenti parte del patrimonio indisponibile (Cons. Stato, Sez. III, 5.7.16, n. 2993 e 16.6.16, n. 2682)”. 7.2 - Possono richiamarsi, in aggiunta a quelle indicate dal TAR, le ulteriori decisioni di questa Sezione del 10/4/2019 n. 2364 e 5/2/2020 n. 926 che hanno ribadito che il "potere/dovere" dell'Agenzia di ordinare lo sgombero di un immobile confiscato non è in alcun modo condizionato alla previa adozione del provvedimento di destinazione del bene stesso. 8. - Altrettanto infondato è il terzo motivo di appello, con il quale l’appellante ha lamentato la violazione dell’art. 7 della L. 241/90 e la violazione del giusto procedimento: correttamente il TAR ha ritenuto che, in applicazione di quanto dispone l'art. 21 octies, L. 7 agosto 1990, n. 241, la natura di atto dovuto del provvedimento di confisca rende irrilevante la censurata violazione delle garanzie partecipative, atteso che il contenuto e la forma non avrebbero comunque potuto essere differenti da quelli in concreto adottati. Contrariamente a quanto dedotto in appello la mancata destinazione del bene non avrebbe avuto alcuna concreta incidenza sulle determinazioni dell’Agenzia tenuto conto, da un lato, della natura vincolata del potere, e dall’altro, dall’irrilevanza della preventiva destinazione del bene per le ragioni in precedenza esposte. 9. - Con il quarto motivo l’appellante ha censurato il capo di sentenza che ha respinto la quarta doglianza del ricorso di primo grado, con la quale era stato censurato il provvedimento dell’Agenzia per aver ritenuto – con clausola di mero stile – di dover conseguire in tempi brevi e non dilazionabili la disponibilità del bene al fine di provvedere alla sua destinazione secondo le modalità e le finalità di cui all’art. 2-undicies della L. 575/65. 9.1 - Con il quinto motivo, infine, ha lamentato l’irragionevolezza del termine assegnato per lo sgombero. L’appellante ha, infatti, rilevato che non vi sarebbero ragioni di urgenza per l’acquisizione della disponibilità del manufatto, atteso che a distanza di circa 10 anni l’Agenzia non avrebbe ancora attribuito una qualsivoglia destinazione al bene confiscato. Ha quindi sottolineato che in questi anni egli avrebbe garantito la corretta manutenzione del fabbricato che – altrimenti – si sarebbe deteriorato: in sostanza, secondo l’appellante, l’Agenzia avrebbe dovuto motivare sulle ragioni dello sgombero, tenuto conto che il fabbricato è occupato in virtù di un regolare atto pubblico di costituzione di fondo patrimoniale, e non è stato ancora destinato per il suo successivo utilizzo. 9.2 - Le doglianze, che possono essere esaminate congiuntamente in quanto connesse, non possono essere condivise. Ai sensi degli artt. 45, 47 e 48, D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, nonché dell'art. 823 c.c., il bene acquisito per effetto della confisca ha assunto una impronta rigidamente pubblicistica, che non consente di distoglierlo, anche solo temporaneamente, dal vincolo di destinazione e dalle finalità pubbliche, che determinano l'assimilabilità del regime giuridico della res confiscata a quello dei beni facenti parte del patrimonio indisponibile dello Stato. Come chiarito dalla Sezione (sentenza del 4 marzo 2019, n. 1499) la misura di prevenzione patrimoniale della confisca mira a sottrarre definitivamente il bene dal circuito economico di origine per inserirlo in un altro circuito, esente da condizionamenti criminali che condizionano il primo ed evitare che il soggetto destinatario del provvedimento di sequestro precostituisca dei creditori di comodo, muniti di titoli con data certa anteriori al sequestro, attraverso i quali procedere all'esecuzione forzata sui beni oggetto di confisca, per cercare di riversare nel circuito criminale i proventi della vendita dei suddetti beni. 9.3 - Ne consegue che l'ordinanza di sgombero costituisce esercizio necessitato di un potere autoritativo, dovendo l'Agenzia comunque assicurare al patrimonio indisponibile dello Stato i beni stessi per la successiva destinazione a finalità istituzionali e sociali, sottraendoli ai soggetti nei confronti dei quali è stata applicata, in via definitiva, la misura patrimoniale. Ciò comporta che non sussiste alcun obbligo di motivazione in capo all’Agenzia nel disporre il provvedimento di sgombero dell’immobile confiscato, né di svolgere valutazioni comparative di interessi prima di procedere all’adozione dell’ordinanza di rilascio neppure con riferimento alla tempistica per la sua esecuzione (Cons. Stato, Sez. III, 20 ottobre 2020 n. 6386). 10. – In conclusione, per i suesposti motivi, l’appello va respinto e per l’effetto, in conferma della sentenza appellata, va respinto il ricorso di primo grado. 11. – Quanto alle spese del grado di appello, in considerazione della particolarità della fattispecie, sussistono i presupposti per disporne la compensazione tra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, in conferma della sentenza appellata, respinge il ricorso di primo grado. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte appellante. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2020 con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere, Estensore Raffaello Sestini, Consigliere Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere, Estensore Raffaello Sestini, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
  Criminalità organizzata – Beni confiscati – Confisca – Definitività – Con la definitività delle relative pronunce penali – Sgombero - Pendenza del giudizio dinanzi alla Cedu – Possibilità.         Ai sensi dell'art. 27, d.lgs. n. 159 del 2011, i provvedimenti che dispongono la confisca dei beni sequestrati alla criminalità organizzata, quale misura di prevenzione antimafia, diventano esecutivi con la definitività delle relative pronunce penali; le pronunce del giudice penale acquisiscono carattere definitivo, vale a dire passano in giudicato (art. 648 c.p.p.), quando non sono proponibili impugnazioni diverse dalla revisione, ovvero sia decorso inutilmente il termine per proporre impugnazioni, ovvero sia stato dichiarato inammissibile o rigettato il ricorso per cassazione; la pendenza del giudizio dinanzi alla Corte Europea dei Diritti Umani, proposto avverso la confisca dei beni sequestrati alla criminalità organizzata, non incide sulla possibilità di procedere alla sgombero del bene ed alla sua destinazione ad altro; gli artt. 45 e 45 bis, d.lgs. n. 159 del 2011, laddove fanno riferimento al “provvedimento definitivo di confisca”, alludono al provvedimento di confisca che sia da ritenersi “definitivo” in base alle norme dell’Ordinamento italiano, e quindi al provvedimento di confisca in relazione al quale non possa essere esperito un rimedio impugnatorio interno; qualora la Cedu dovesse riconoscere fondatezza al ricorso presentato, non per tale ragione verrebbe meno, automaticamente, la validità del decreto di confisca, dovendo in tale circostanza lo Stato italiano adottare misure idonee a porre i ricorrenti in una situazione simile a quella in cui si sarebbero trovati ove non vi fosse stata inosservanza alcuna della Convenzione, e tali misure non necessariamente dovrebbero comportare la restituzione della proprietà dell’immobile (1).
Criminalità organizzata
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/affitto-di-ramo-d-azienda-di-durata-inferiore-rispetto-alla-durata-dell-appalto-aggiudicato
Affitto di ramo d’azienda di durata inferiore rispetto alla durata dell’appalto aggiudicato
N. 03585/2020REG.PROV.COLL. N. 00545/2020 REG.RIC. N. 00420/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 545 del 2020, proposto da Estar - Ente di Supporto Tecnico - Amministrativo Regionale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Paolo Stolzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Umberto Richiello in Roma, via Mirabello, 18; contro Studiofarma S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Roberto Invernizzi, Giovanni Corbyons, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Giovanni Corbyons, in Roma, via Cicerone n.44; nei confronti Promofarma Sviluppo S.r.l., Regione Toscana, non costituiti in giudizio; sul ricorso numero di registro generale 420 del 2020, proposto da Promofarma Sviluppo S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Piero Guido Alpa, Angelo Clarizia, Paolo Clarizia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Angelo Clarizia in Roma, via Principessa Clotilde, 2; contro Studiofarma S.r.l. in proprio e quale Mandataria Costituendo RTI con Engineering – Ingegneria Informatica S.p.A., Estar – Ente di Supporto Tecnico-Amministrativo Regionale, non costituiti in giudizio; Studiofarma S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Roberto Invernizzi, Giovanni Corbyons, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Giovanni Corbyons in Roma, via Cicerone n.44; nei confronti Regione Toscana, non costituito in giudizio; per la riforma quanto ad entrambi i giudizi: della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (sezione Terza) n. 1706/2019, resa tra le parti. Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Studiofarma S.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica – tenutasi il 21 maggio 2020 con le modalità di cui all’art. 84 comma 5 d.l. 18/2020 - il Cons. Giulio Veltri; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. ESTAR, ente di supporto tecnico della Regione Toscana, indiceva, ex art. 60 dlgs 50/2016, gara per la stipula di “una Convenzione per la fornitura in locazione operativa di un software unico regionale per la gestione dell’assistenza integrativa e della distribuzione per conto destinato alle Aziende Sanitarie della Regione Toscana”, per la durata di 72 mesi, con base d’asta € 2.400.000,00. Presentavano offerta, i RTI Studiofarma, Promofarma e il costituendo RTI guidato da Technosoft. 2. La gara di concludeva con l’aggiudicazione a Promofarma con 94,18 punti (78,25 tecnici + 15,93 economici); in seconda posizione si classificava Studiofarma con 92,94 punti (72,94 +20,00), e ultimo il RTI Techonsoft con 85,35 punti (67,28 + 18,07). 3. Studiofarma impugnava gli esiti della gara dinanzi al TAR Toscana, proponendo quattro motivi di ricorso e due motivi aggiunti: 1. con il primo, complesso motivo di ricorso, sosteneva, in primo luogo, la sopravalutazione dell’offerta dell’aggiudicatario, in relazione alle “ulteriori integrazioni al sistema”, in quanto asseritamente non previste dalla lex specialis e, comunque, non fornite dalla aggiudicataria; o, comunque, fornite in misura non maggiore e migliore di quelle proposte dalla ricorrente; col medesimo motivo contestava la valutazione della Commissione perché avrebbe ritenuto del tutto assimilabili i sistemi offerti; 2. con il secondo motivo lamentava la presunta illegittimità delle valutazioni rese dalla Commissione in relazione al criterio “D” di valutazione dell’offerta tecnica, sostenendo l’irragionevolezza dei punteggi assegnati sotto diversi profili; 3. con il terzo motivo sosteneva l’illegittima ammissione della aggiudicataria, in quanto il requisito di qualificazione sarebbe stato ottenuto mediante affitto di azienda della Società Goodmen it. S.r.l non sufficiente a coprire l’intera durata dell’appalto; 4. con il quarto motivo deduceva che l’ammissione di Promofarma sarebbe ulteriormente illegittima, in quanto l’aggiudicataria non avrebbe fornito documentazione idonea a comprovare l’avvenuto svolgimento (“per il tramite” della Società Goodmen S.r.l.) di almeno un contratto di fornitura e sviluppo di software, nel triennio precedente alla gara, risultando inadeguata la certificazione prodotta dalla ASL 2 Umbria e non valutabile quella dell’Unione Ligure Associazione Titolari di Farmacia. Studiofarma S.r.l. presentava poi ulteriori due motivi aggiunti di ricorso, mediante i quali: 5. deduceva la contraddittorietà dell’offerta Promofarma nella parte in cui avrebbe dichiarato la capacità del sistema di gestione della privacy per categorie particolari di dati personali, salvo poi negarne l’idoneità in sede di scheda c.d. “check di compliance”; 6. sosteneva che il sistema offerto da Promofarma non sarebbe ridondato, in quanto prevederebbe due “application e web server”, ma solo un “data base” server. 4. Il TAR accoglieva il ricorso. Segnatamente, pur respingendo l’eccezione di inammissibilità in parte qua del ricorso, per violazione dell’art. 120 comma 2 bis del codice dei contratti pubblici, ratione temporis asseritamente applicabile, accoglieva il terzo e il quarto motivo basati rispettivamente sull’inidoneità del contratto di affitto di ramo d’azienda per sostanziare i requisiti di partecipazione (non avendo il contratto, la stessa durata dell’appalto), e sulla non sussumibilità dei contratti pregressi in contratti di “fornitura e sviluppo di un software” o comunque loro inidoneità sotto il profilo temporale; riteneva in parte fondata anche la prima censura nella parte in cui avrebbe ammesso a valutazione “ulteriori integrazioni”, sancendone, per il resto, l’inammissibilità perchè attinente a valutazioni di merito; dichiarava inammissibile per le stesse ragioni il secondo motivo di ricorso; riteneva fondata la censura di cui al primo motivo aggiunto ritenendo il software Promofarma privo di un requisito richiesto dalla lex specialis in tema di trattamento dei dati personali; infine, dichiarava fondato anche il secondo dei motivi aggiunti per incertezza dell’offerta tecnica. 5. Avverso la sentenza hanno proposto appello sia Promofarma che Estar. 6. In entrambi i giudizi si è costituito Studiofarma S.r.l. e ha chiesto la reiezione del gravame. 7. Entrambe le cause sono state trattenute in decisione all’udienza del 21 maggio 2020, tenutasi con le modalità previste dall’art. 84 comma 5 del d.l. 18/2020. DIRITTO 1. Gli appelli concernono la medesima sentenza e necessitano pertanto di una trattazione congiunta. 2. Deve in prima battuta esaminarsi la questione dell’ammissibilità delle censure aventi ad oggetto l’ammissione di Promofarma alla gara; eccezione riproposta da quest’ultima in sede d’appello. 2.1. Com’è noto, l’art. 1, comma 22, lett. a), del d.l. n. 32/2019 (convertito nella legge n. 55/2019) ha abrogato l’art. 120, comma 2 bis, del d.lgs. n. 104/2010; la disposizione abrogatrice, come precisato al successivo comma 23, si applica ai processi iniziati dopo l’entrata in vigore della legge di conversione (id est iniziati dopo il 18.6.2019). Il ricorso in esame è stato notificato nel luglio 2019, quindi dopo l’entrata in vigore della legge abrogatrice, e ha avuto ad oggetto un provvedimento di ammissione del 19 dicembre 2018. 2.2. La tesi di Promofarma è che, essendo decorso il termine decadenziale di 30 giorni dalla pubblicazione del provvedimento di ammissione, la fattispecie si sarebbe consolidata sotto il vigore della norma abrogata, con conseguente irretroattività della nuova norma processuale che ha eliminato l’onere di impugnativa delle ammissioni altrui. 2.3. L’argomentazione, pur suggestiva, non può essere condivisa. Innanzitutto essa non spiega quale sia il margine di applicazione residuo della norma transitoria espressa; soprattutto confonde i piani della fattispecie sostanziale e processuale, obliterando che l’art. 120 bis ha anticipato l’onere dell’impugnazione dell’ammissione, in deroga al principio di necessaria lesività, imponendo, pena l’inammissibilità delle censure postume, l’immediata contestazione di fatti e valutazioni che tradizionalmente potevano (e possono dopo l’abrogazione della disposizione) essere fatti valere in sede di impugnazione dell’aggiudicazione. E’ a questa valutazione processuale di inammissibilità che la norma transitoria si riferisce: nei processi iniziati dopo il 18.6.2019 essa non è più consentita, dovendo il giudice valutare le censure anche se (recte: solo se) proposte avverso l’aggiudicazione. 2.4. Nel caso di specie l’impugnazione dell’aggiudicazione è certamente tempestiva, talchè nel valutarne la legittimità, il giudice, affrancato da preclusioni processuali, ben può vagliare le questioni relative all’ammissione. 3.Tanto chiarito, può passarsi all’esame dei (coincidenti) motivi dei due appelli, secondo l’ordine scelto dal giudice di prime cure e fatto proprio da entrambi gli appellanti. 4. La prima questione da trattare è dunque quella oggetto del terzo motivo dell’originario ricorso: essa riguarda la clausola di cui all’art. 7.3 del disciplinare di gara, richiedente la “dichiarazione di avere realizzato un contratto per fornitura e sviluppo di un software di gestione integrativa e/o della distribuzione per conto effettuato negli ultimi 3 anni antecedenti la data di pubblicazione del bando, compresi contratti iniziati precedentemente ed ancora in corso”. Il giudice di prime cure ha affermato che Promoforma non poteva legittimamente avvalersi, ai fini del possesso del suddetto requisito, del contratto di affitto di ramo di azienda stipulato con Goodmen s.r.l., in quanto, come anche riconosciuto dalla difesa di Estar, esso ha una durata che, pur essendo superiore ai tre anni minimi previsti dall’art. 76, comma 9, del d.p.r. n. 207/2010, è inferiore ai 6 anni di durata dell’appalto aggiudicato. A tal fine ha valorizzato un indirizzo giurisprudenziale (lealmente riconosciuto come non consolidato) secondo il quale “Nel caso in cui il contratto che disciplina l'affitto della azienda o di un ramo di essa, posto in essere al fine di acquisire alcuni requisiti altrimenti non posseduti dal concorrente, rechi una clausola sulla durata del contratto inferiore alla durata del contratto di appalto da eseguire, la stazione appaltante dispone legittimamente l'esclusione dell'operatore economico dalla procedura di gara, poiché la stazione appaltante non può fare affidamento sulla sussistenza dei requisiti di partecipazione per tutta la durata della procedura di gara, e precisamente dalla scadenza del termine della domanda di partecipazione alla procedura e fino all'aggiudicazione, nonché, in seguito, per l'intera fase di esecuzione del contratto di appalto, potendo intervenire una soluzione di continuità nel possesso dei requisiti con conseguente impossibilità di procedere all'aggiudicazione ovvero all'esecuzione del contratto di appalto” (Cons. Stato, V, 4.2.2019, n. 827). 4.1. Gli appellanti contestano il citato orientamento e sostengono che Promofarma, al momento della domanda e per l’intera durata della procedura di gara, era in possesso del requisito di capacità tecnico professionale richiesto dall’art. 7.3 del disciplinare di gara, in virtù del contratto di affitto d’azienda sottoscritto con Goodmen.it s.r.l. in data 6 agosto 2018 avente una durata di cinque anni (fino al 6 agosto 2023). Del resto – aggiungono gli appellanti - il requisito di capacità tecnica (esecuzione di un contratto avente oggetto analogo nel triennio antecedente la pubblicazione del bando) rileverebbe esclusivamente ai fini dell’ammissione dei concorrenti e quindi della partecipazione degli operatori alla procedura. Affermando che l’affitto di ramo d’azienda è inidoneo a dimostrare il possesso del predetto requisito, in quanto di durata inferiore rispetto alla durata dell’appalto aggiudicato, il TAR avrebbe modificato la previsione della lex specialis attribuendo al requisito di partecipazione un rilievo anche in fase di esecuzione che al medesimo non appartiene. 4.2. Ritiene il Collegio che il motivo d’appello sia fondato. La Sezione ha già avuto modo di chiarire che “…il requisito del fatturato specifico ottenuto nel triennio precedente alla pubblicazione del bando rileva ai fini dell’ammissione dei concorrenti alla procedura; sicché, dopo l’aggiudicazione, esso può anche venir meno (perché, per esempio, nell’anno successivo il fatturato è calato), senza che l’impresa patisca alcuna conseguenza rispetto all’esecuzione del contratto. Dunque, qualsiasi ulteriore valutazione in merito al contratto di affitto di ramo di azienda - attinente alla sua eventuale e futura fase esecutiva - non assume valenza ai fini della legittima partecipazione ….. alla procedura di gara..”( Cons. St., III, 6.11.2019, n. 7581). 4.2.1. Invero l'unica disposizione dedicata a disciplinare gli effetti del contratto d'affitto d'azienda sulla qualificazione dell'impresa affittuaria stabilisce, chiaramente ed espressamente, che quest'ultima "può avvalersi dei requisiti posseduti dall'impresa locatrice se il contratto di affitto abbia durata non inferiore a tre anni" (art. 76, comma 9, D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207): “la formulazione testuale di tale disposizione impone una sua esegesi coerente con il dato testuale” (Consiglio di Stato, III, 30 giugno 2016, n. 2952). Essa fissa il punto di equilibrio individuato dal legislatore, nell’intento di coniugare il favor partecipationis, cui le direttive sono ispirate, e la tendenziale stabilità del requisito, così consentendo all’offerente di avvalersi dei requisiti posseduti dall'impresa locatrice solo se il contratto di affitto ha durata non inferiore a tre anni. Una volta soddisfatto tale requisito, non è consentito indagare oltre circa l’esatta corrispondenza tra durata dei due rapporti contratti (contratto di affitto e contratto di appalto). 4.2.2. Del resto, diversamente ragionando, se si desse un rilievo ultratriennale al requisito sol perché trattasi di un requisito mutuato dall’affittuario, allora dovrebbe darsi rilievo anche all’astratta possibilità della risoluzione del contratto d’affitto o altre eventuali e imprevedibili cause di estinzione, ossia a circostanze che, in realtà, il legislatore ha assorbito nella valutazione di sintesi cristallizzata nell’art. 76 cit. 5. La seconda questione ha ad oggetto l’originario quarto motivo di ricorso. Il bando richiedeva quale requisito quello “di aver realizzato un contratto per fornitura e sviluppo di un software di gestione integrativa e/o della distribuzione per conto”. Il primo giudice ha sul punto affermato che “a seguito della certificazione e le precisazioni prodotte dall’USL Umbria risulta documentata la manutenzione e lo sviluppo ma non la fornitura”. Ha dato altresì atto che Promofarma “ha dato esito al soccorso istruttorio di Estar anche con la presentazione della certificazione dell’Unione Ligure delle associazioni titolari di farmacia, la quale attesta l’avvenuta esecuzione, da parte della società Goodmen, di un contratto per fornitura e sviluppo di software” ma sul punto ha evidenziato che “tuttavia, secondo tale attestazione, si tratta di contratto del 1.3.2018, e quindi di contratto che non copre nemmeno uno dei tre anni precedenti la pubblicazione del bando (avvenuta in data 6.9.2018) ai quali fa riferimento l’art. 7.3 del disciplinare di gara. 5.1. Secondo gli appellanti le statuizioni sarebbero errate perché: a) dall’attestazione USL si ricava che gli ulteriori affidamenti sottoscritti hanno bensì riguardato i servizi di manutenzione e sviluppo della piattaforma fornita dalla Goodmen.it s.r.l. ma su un software di proprietà di Goodmen.it s.r.l, il G_Open_Care, in precedenza fornito all’azienda nel 2011; b) inoltre, quanto all’altro contratto eseguito in favore della Unione Ligure delle Associazioni Titolari di Farmacia, e sottoscritto in data 1° marzo 2018, il bando non richiedeva che il contratto dovesse avere una durata minima, ovvero che dovesse ricoprire l’intero triennio. 5.2. Il Collegio condivide siffatte osservazioni. La seconda attestazione USL chiarisce che il software era stato fornito nel 2011 da Goodmen.it, ossia dall’azienda che ha concesso in affitto a Promofarma il ramo d’azienda. Inoltre sono nel giusto le appellanti quando osservano che il bando non prevedeva la durata triennale del contratto. In mancanza di espresse e nette previsioni limitative (e nel caso di specie non erano ravvisabili) è dirimente il principio del favor partecipationis. 6. La terza questione ha ad oggetto il primo motivo dell’originario ricorso. Secondo il primo giudice “emerge, quale profilo di rilevante illogicità, il fatto che la commissione ha attribuito alla ricorrente, per il criterio F, un punteggio inferiore a quello della controinteressata sull’assunto dell’omessa dichiarazione, nell’offerta tecnica della prima, della disponibilità ad effettuare ulteriori integrazioni per i primi 6 mesi senza oneri aggiuntivi. 6.1. Le appellanti ritengono che la censura avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile in quanto afferente al merito delle valutazioni, e comunque infondata poiché il disciplinare di gara si riferiva a servizi ulteriori rispetto a quelli minimi obbligatori, e solo Promofarma ha proposto un piano di rilascio di nuovi servizi per i primi sei mesi dall’aggiudicazione. 6.2. Ad avviso del Collegio anche questo motivo è fondato. Il disciplinare di gara in relazione al criterio “F” denominato “Integrazioni e recupero dati” prevedeva: “sarà valutata la proposta tecnicofunzionale per la realizzazione di quanto richiesto in merito a: Integrazioni infrastruttura di riferimento gestione delle utenze e tracciamento attività recupero dati con particolare attenzione alle soluzioni tecnologiche proposte all’attinenza di quanto offerto all’Allegato B Linee_Guida_IPF_v04.pdf ed agli altri allegati tecnici. Importante rilievo sarà dato all’orientamento all’architettura SOA e alla documentazione dei servizi di interoperabilità forniti senza oneri aggiuntivi e già disponibili nella fornitura, e al piano dei rilasci di servizi per i primi 6 mesi dall’aggiudicazione. Sarà valutata positivamente una proposta che preveda l’utilizzo di prodotti/licenze open source, tanto per i data base che per i sistemi operativi proposti”. 6.2.1. E’ evidente, dal mero tenore letterale, che i servizi di interoperabilità “senza oneri aggiuntivi” e il “piano di rilascio” degli stessi per i primi 6 mesi, non possono che riferirsi ad elementi dell’offerta ulteriori rispetto a quelli previsti dalle disposizioni di gara come obbligatoriamente e necessariamente presenti. Sul punto convincono le spiegazioni delle appellanti circa i diversi concetti di “infrastruttura di riferimento” e “integrazione” della stessa: la “infrastruttura di riferimento” indica il “sistema” (inteso essenzialmente come insieme di server, reti e software di base) necessario al funzionamento del software applicativo oggetto della fornitura; le “integrazioni dell’infrastruttura di riferimento” indicano le caratteristiche del predetto sistema, che consentono al software fornito di “dialogare” con software di altri sistemi e con le banche dati dell’utente. I “servizi di interoperabilità” costituiscono il “mezzo” che rende possibile l’integrazione. 6.2.2. Come visto, la lex specialis ha espressamente incluso tra gli elementi da considerare ai fini del giudizio sulle offerte, i servizi di interoperabilità messi a disposizione, cioè “le integrazioni da effettuare” – a titolo gratuito, sia all’inizio della fornitura, sia nei 6 mesi successivi all’aggiudicazione, con ciò riferendosi a servizi necessariamente “ulteriori”, rispetto a quelli obbligatori. Il riferimento alla circostanza che i servizi di interoperabilità senza oneri aggiuntivi debbano essere “già disponibili nella fornitura” - circostanza sulla quale molto insiste Studiofarma in difesa della sentenza di prime cure – non toglie che si tratti di integrazioni gratuite, dunque aggiuntive. 6.2.3. In ogni caso giova sottolineare che la Commissione nell’assegnare il punteggio per il criterio “F” non ha considerato esclusivamente la mancata dichiarazione da parte di Studiofarma della disponibilità ad effettuare ulteriori integrazioni per i primi sei mesi senza oneri aggiuntivi (come testimonia la congiunzione “anche” contenuta nella motivazione della valutazione), sicchè è veramente arduo sostenere, senza esorbitare dal limiti del sindacato consentito al giudice amministrativo, che la valutazione complessiva, tradottasi in un differenziale di 0,10 punti, sia manifestamente illogica. 7. Quanto al primo motivo aggiunto (riguardante il rispetto della normativa privacy nel trattamento di una particolare categoria di dati), risulta dagli atti di gara, e segnatamente dall’offerta di Promofarma, che il software proposto gestisce tutti i dati personali, ivi comprese categorie particolari di dati personali, ma non gestisce dati relativi a condanne penali e reati, e quelli a maggior tutela (categorie per le quali non v’è, negli atti di gara, espressa richiesta a pena di esclusione, salva la possibilità di adeguamento ove necessario). 7.1. Il TAR ha sul punto sostenuto che “pur non essendo espressamente prevista nel disciplinare di gara la sanzione dell’esclusione per mancata adozione di misure specifiche per tali eventuali categorie di dati, detta mancanza inficia la legittimità del provvedimento di aggiudicazione”. 7.2. Il Collegio è di diverso avviso. Se non v’è sanzione di esclusione, non vi può essere “illegittimità”, semmai un valutazione più bassa in termini di punteggio. Tuttavia, anche a voler considerare una possibile refluenza sul punteggio della mancata (attuale) capacità del software di gestire i dati particolari di cui si è fatto cenno, è dirimente quanto osservato dagli appellanti, ossia che la medesima conseguenza avrebbe dovuto subire anche l’offerta di Studiofarma, atteso che anch’essa ha affermato nella scheda “check di compliance” che il suo sistema non è in grado di gestire né i dati relativi alle sentenze penali, né quelli relativi ai “dati a maggior tutela”. 8. In ordine ai secondi motivi aggiunti, il TAR ha affermato che Promofarma “nell’offerta riguardante il criterio “F” ha previsto 3 server, mentre nell’offerta riguardante il criterio “D” ha previsto 2 server, talché sussiste il profilo di incertezza denunciato con i motivi aggiunti”. 8.1 Anche tale statuizione merita riforma. In disparte ogni considerazione circa la corrispondenza del concetto di “incertezza” evidenziato, rispetto a quello di mancata ridondanza dedotto dall’originaria ricorrente, è ragionevole la spiegazione fornita dalle appellanti circa il diverso perimetro del parametro valutativo di cui alla lettera F rispetto a quello di cui alla lettera D; diversità che rende solo apparente la contraddittorietà denunciata. 9. Da ultimo, deve darsi atti che Studiofarma ha riproposto con propria memoria “per cautela ex art. 101 c. 2 cpa” le censure di prime cure “assorbite” dalla sentenza appellata. In realtà ciò fa riproponendo per intero il quadro delle censure originarie, sulla dichiarata premessa che alcune di esse sarebbero state accolte solo in parte (prima e sesta, ossia seconda dei motivi aggiunti) ovvero respinte (seconda). Trattasi di una scelta processuale equivoca, non essendo chiaro quali delle domande (fra quelle svolte e pedissequamente riproposte) o eccezioni sarebbero state “assorbite”, e comunque evidentemente inammissibile ove a mezzo di essa si pretenda di contestare i capi sfavorevoli della sentenza (contestazione che avrebbe richiesto specifico gravame incidentale). 10 In conclusione gli appelli sono entrami accolti e, per l’effetto, in riforma della sentenza gravata, il ricorso introduttivo è respinto. 11. Avuto riguardo alla complessità e novità di alcune delle questioni trattate, il Collegio ritiene sussistano giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, previa loro riunione, li accoglie entrambi. Per l’effetto, in riforma della sentenza gravata, respinge il ricorso introduttivo del primo grado. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 maggio 2020 con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Giulio Veltri, Consigliere, Estensore Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Franco Frattini, Presidente Giulio Veltri, Consigliere, Estensore Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione - Fatturato specifico - Affitto di ramo d’azienda - Durata inferiore rispetto alla durata dell’appalto aggiudicato – Irrilevanza – Ratio.    Il requisito del fatturato specifico ottenuto nel triennio precedente alla pubblicazione del bando rileva ai fini dell’ammissione dei concorrenti alla procedura; sicché, dopo l’aggiudicazione, esso può anche venir meno (perché, per esempio, nell’anno successivo il fatturato è calato), senza che l’impresa patisca alcuna conseguenza rispetto all’esecuzione del contratto; ne consegue che non rileva, ai fini dell’aggiudicazione, che l’affitto di ramo d’azienda sia di durata inferiore rispetto alla durata dell’appalto aggiudicato  (1).   (1) Ha affermato la Sezione che qualsiasi ulteriore valutazione in merito al contratto di affitto di ramo di azienda - attinente alla sua eventuale e futura fase esecutiva - non assume valenza ai fini della legittima partecipazione alla procedura di gara (Cons. St., sez. III, 6 novembre 2019, n. 7581). Invero l'unica disposizione dedicata a disciplinare gli effetti del contratto d'affitto d'azienda sulla qualificazione dell'impresa affittuaria stabilisce, chiaramente ed espressamente, che quest'ultima "può avvalersi dei requisiti posseduti dall'impresa locatrice se il contratto di affitto abbia durata non inferiore a tre anni" (art. 76, comma 9, d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207): “la formulazione testuale di tale disposizione impone una sua esegesi coerente con il dato testuale” (Cons. St., sez. III, 30 giugno 2016, n. 2952). Essa fissa il punto di equilibrio individuato dal legislatore, nell’intento di coniugare il favor partecipationis, cui le direttive sono ispirate, e la tendenziale stabilità del requisito, così consentendo all’offerente di avvalersi dei requisiti posseduti dall'impresa locatrice solo se il contratto di affitto ha durata non inferiore a tre anni. Una volta soddisfatto tale requisito, non è consentito indagare oltre circa l’esatta corrispondenza tra durata dei due rapporti contratti (contratto di affitto e contratto di appalto). Del resto, diversamente ragionando, se si desse un rilievo ultratriennale al requisito sol perché trattasi di un requisito mutuato dall’affittuario, allora dovrebbe darsi rilievo anche all’astratta possibilità della risoluzione del contratto d’affitto o altre eventuali e imprevedibili cause di estinzione, ossia a circostanze che, in realtà, il legislatore ha assorbito nella valutazione di sintesi cristallizzata nell’art. 76 cit.
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/concessione-enac-all-ares-118-delle-aree-degli-aeroporti-militari-aperti-al-traffico-civile-ex-artt.-15-l.-n.-241-del-1990-e-5-comma-6-d.lgs.-n.-50-de
Concessione Enac all’ARES 118 delle aree degli aeroporti militari aperti al traffico civile ex artt. 15, l. n. 241 del 1990 e 5, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016
N. 06034/2021REG.PROV.COLL. N. 02381/2021 REG.RIC. N. 02414/2021 REG.RIC. N. 02665/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2381 del 2021, proposto da ENAC - Ente Nazionale Aviazione Civile, Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; contro Elitaliana S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avvocati Giuliano Gruner e Federico Dinelli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Regione Lazio, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Fiammetta Fusco, domiciliataria ex lege in Roma, via Marcantonio Colonna, n. 27; Azienda Regionale Emergenza Sanitaria – ARES 118, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avvocati Ilaria Napolitano e Andrea Zappala', con domicilio eletto presso lo studio dell’Avvocato Andrea Zappalà in Roma, via Ludovisi, n. 16; sul ricorso numero di registro generale 2414 del 2021, proposto dalla Regione Lazio, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Fiammetta Fusco, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Elitaliana S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avvocati Giuliano Gruner e Federico Dinelli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti ENAC - Ente Nazionale Aviazione Civile, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; Azienda Regionale Emergenza Sanitaria ARES 118, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avvocati Ilaria Napolitano e Andrea Zappala', con domicilio eletto presso lo studio dell’Avvocato Andrea Zappalà in Roma, via Ludovisi, n. 16; sul ricorso numero di registro generale 2665 del 2021, proposto dall’ Azienda Regionale Emergenza Sanitaria - ARES 118, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avvocati Ilaria Napolitano e Andrea Zappala', con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Elitaliana S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avvocati Giuliano Gruner e Federico Dinelli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Ente Nazionale per L'Aviazione Civile - ENAC, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; Regione Lazio, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Fiammetta Fusco, domiciliataria ex lege in Roma, via Marcantonio Colonna, n. 27; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (sezione Terza) n. 13602/2020, resa tra le parti, concernente l’annullamento della concessione diretta, senza il previo esperimento di gara, di aree demaniali aeroportuali di Latina e di Viterbo, rilasciata dall’ENAC alla Regione Lazio e all’ARES 118 per la gestione del servizio di elisoccorso, nonché degli atti della successiva gara indetta dalla Regione Lazio per la scelta del contraente del servizio di elisoccorso. Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Lazio, dell’Azienda Regionale Emergenza Sanitaria ARES 118 e di ENAC - Ente Nazionale Aviazione Civile; Visto l'atto di costituzione in giudizio ed il ricorso incidentale proposto da Elitaliana S.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 luglio 2021, svoltasi in videoconferenza ai sensi del combinato disposto degli artt. 4, comma 1, del decreto-legge n. 28/2020 e 25, comma 1, del decreto-legge n. 137/2020, il Consigliere Paola Alba Aurora Puliatti e uditi per le parti gli Avvocati Fiammetta Fusco, Ilaria Napolitano, Andrea Zappalà, Giuliano Gruner, Federico Dinelli e l'Avvocato dello Stato Davide Di Giorgio; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1.- Con ricorso al TAR per il Lazio n.r.g. 4178/2020, Elitaliana S.r.l. (già aggiudicataria in RTI con Elilombarda S.r.l. e Inaer Helicopter Italia S.p.a. del servizio medico di emergenza con elicottero sul territorio della Regione Lazio per nove anni dall’ 1.7.2009 al 30.6.2018 e già concessionaria di aree demaniali negli aeroporti di Latina e Viterbo per l’attività HEMS) impugnava le delibere ENAC del 20 febbraio 2020 e del 6 marzo 2020 di concessione delle medesime aree degli aeroporti militari aperti al traffico civile di Latina e Viterbo all’ARES 118 per il successivo affidamento da parte di quest’ultima, mediante gara pubblica, del servizio di elisoccorso nella Regione Lazio. 1.1. - Con motivi aggiunti la ricorrente estendeva l’impugnazione agli atti della Regione Lazio, medio tempore sopravvenuti, relativi all’indizione della gara comunitaria per l’affidamento del detto servizio medico di emergenza in elicottero per conto di ARES 118. 2.- La sentenza in epigrafe ha accolto in parte il ricorso principale ed il ricorso per motivi aggiunti, condannando le Amministrazioni alle spese di giudizio. Il TAR ha ritenuto, alla luce della giurisprudenza comunitaria e interna e del parere ANAC del 7 ottobre 2015, l’insussistenza delle condizioni di cui all’art. 5, comma 6, del D.lgs. n. 50/2016 che configurano un’ipotesi di partenariato pubblico, per il difetto di cooperazione tra l’ente pubblico affidante e l’ente affidatario, in quanto l’ente concedente resta estraneo allo svolgimento dell’attività dedotta in convenzione. Di conseguenza, l’accordo non potrebbe essere sottratto al regime dell’evidenza pubblica. 2.1. - La sentenza ha, invece, escluso che l’ENAC abbia proceduto nel 2016 al rinnovo delle concessioni in favore della ricorrente Elitaliana S.r.l. ed ha affermato che alla scadenza dei titoli concessori si è verificata l’acquisizione al demanio dei manufatti inamovibili realizzati, quale effetto legale automatico della concessione, ex art. 49 cod. nav., rigettando il relativo motivo di ricorso. 2.2. - La sentenza, infine, ha accolto il ricorso per motivi aggiunti ritenendo che la base d’asta è stata formulata al netto di IVA, nonostante che alcune prestazioni (ad es. trasporto di organi, sangue, etc.) non siano esenti, determinando così la formulazione in gara di proposte negoziali irregolari. 3.- Con autonomi appelli insorgono avverso la sentenza l’ENAC, la Regione Lazio ed ARES 118, lamentandone l’ingiustizia ed erroneità e chiedendone la riforma. 4.- Resiste in giudizio Elitaliana S.r.l. che chiede il rigetto degli appelli e propone ricorso incidentale per la riforma della sentenza nella parte in cui ha rigettato alcuni dei motivi proposti col ricorso introduttivo. 5.- Con ordinanza n. 5193 del’11.9.2020, pronunciando sull’appello cautelare, questa Sezione affermava la necessità di approfondimento della questione concernente l’applicabilità dell’art. 5, comma 6, del codice dei contratti pubblici, rimettendo al primo giudice la sollecita fissazione dell’udienza di merito. 6.- Alla pubblica udienza del 15 luglio 2021, gli appelli sono stati trattenuti in decisione. DIRITTO 1.- Preliminarmente, il Collegio dispone la riunione degli appelli proposti avverso la stessa sentenza, ai sensi dell’art. 96, comma 1, c.p.a.. 2.- Gli appelli meritano accoglimento. 3.- ENAC – Direzione aeroportuale Lazio, autorità dell’aviazione civile, è assegnataria (non ancora in modo definitivo) a titolo gratuito di aree del Demanio aeronautico negli aeroporti di Latina e Viterbo. Latina e Viterbo sono aeroporti militari aperti al traffico civile, ai sensi del decreto del Ministro della Difesa del 28.1.2008, e l’attività di aviazione civile vi è consentita subordinatamente alle limitazioni derivanti dalle esigenze operative delle Forze Armate. 3.1.- Le aree demaniali di Latina e Viterbo, gestite provvisoriamente da ENAC, sono state date in concessione, sin dal 2001, ad Elitaliana S.r.l. per il servizio di elisoccorso (di cui era affidataria da parte della Regione Lazio) e, da ultimo, per la durata di 2 anni a decorrere dal 2014, non rinnovabile, ma prorogata nelle more della consegna definitiva da parte del Ministero della Difesa degli aeroporti all’ENAC e della definizione dell’assetto demaniale funzionale al piano d’uso degli aeroporti, nonché fino all’espletamento della gara per l’affidamento delle concessioni successive. 3.2. - Con nota 20.2.2020, l’ENAC comunicava ad Elitaliana S.r.l. che la ARES 118 sarebbe subentrata come concessionaria delle aree aeroportuali in questione, a seguito di istanze della Regione del 16.1.2020 e 4.2.2020, previa dichiarazione regionale di assunzione a proprio carico degli oneri connessi a fabbricati e spazi e con impegno di affidare i servizi HEMS mediante gara e di comunicare, nelle more della procedura, l’operatore aeronautico assegnatario. 4. - Secondo la tesi delle appellanti, la sentenza appellata, che ha accolto il ricorso di Elitaliana S.r.l., erroneamente non avrebbe considerato che i principi dell’evidenza pubblica sono stati rispettati in quanto l’ENAC ha delegato la Regione Lazio -ARES 118, quale titolare del pertinente interesse pubblico (di cura della gestione e coordinamento dell’attività di elisoccorso e del personale sanitario operante sui mezzi addetti) ad espletare la gara per l’affidamento quinquennale (rinnovabile) dei servizi di elisoccorso da espletarsi nelle aree aeroportuali. Dunque, il concreto utilizzatore delle aree sarà individuato all’esito della gara pubblica. 4.1. - Il TAR sarebbe incorso in errore sui presupposti di fatto e di diritto, erronea interpretazione e omessa motivazione. Con la concessione del bene demaniale, l’ENAC si limita a dare in uso ad un operatore pubblico il bene di cui è gestore provvisorio, vincolandolo ad una specifica destinazione d’uso compatibile con la natura demaniale del bene (dietro pagamento di canore e oneri manutentivi) e senza disciplinare la fornitura a terzi del servizio che verrà esercitato sull’area. La concessione del bene demaniale non è “concessione di servizi” (di cui all’art. 3 codice appalti) per cui non trova applicazione il codice degli appalti. Con il Regolamento “Affidamento Aeroporti demaniali per l’aviazione generale”, al Titolo IV, l’ENAC ha disciplinato le c.d. “concessioni dirette” ad operatori economici, affidate mediante procedura ad evidenza pubblica quando con la concessione si attribuisce un vantaggio economico ad un operatore nell’ambito di un mercato limitato, per attività coerenti con la destinazione d’uso conferita dall’Ente. L’evidenza pubblica comporta, in questi casi, come dispone il Regolamento, solo l’applicazione dei principi di pubblicità, trasparenza, parità di trattamento, concorrenza e non discriminazione, ma non impone il rispetto di una specifica e caratterizzata procedura, rimanendo le concessioni demaniali fuori dalla regolamentazione europea sugli appalti, servizi e forniture. Il Regolamento, tuttavia, non troverebbe applicazione finché l’area rimane formalmente del Demanio militare e non si perfeziona il passaggio al demanio civile e ad ENAC. 4.2. - Nella fattispecie, sottolinea l’appellante ENAC, i principi di evidenza pubblica di derivazione comunitaria sarebbero stati rispettati perché i provvedimenti concessori annullati pongono quale esplicita condizione che l’operatore economico – che ottiene un vantaggio concorrenziale – sia selezionato tramite procedura ad evidenza pubblica dal soggetto attuatore dell’accordo, ossia Regione Lazio/ARES 118, come di fatto è avvenuto con la gara impugnata con motivi aggiunti. 5.- La Regione Lazio, con autonomo appello, dopo aver illustrato le ragioni del proprio interesse in questa causa in qualità di ente che ha indetto la gara a procedura aperta per l’affidamento del servizio medico di emergenza in elicottero su delega di ARES 118, ha eccepito il difetto di legittimazione attiva e di interesse di Elitaliana S.r.l., essendo scadute nel 2016 le concessioni in suo favore presso gli aeroporti di Latina e Viterbo senza possibilità di rinnovo, ex art. 19, comma 4 del Regolamento ENAC, e la contraddittorietà della sentenza appellata che non ha pronunciato sull’eccezione di inammissibilità, pur accogliendo il ricorso di Elitaliana S.r.l.. Quanto alle motivazioni dell’accoglimento, la Regione eccepisce che la contestazione circa l’inapplicabilità dell’art. 5, comma 6, D.lgs. n. 50/2016 è stata mossa per la prima volta con i motivi aggiunti, con cui veniva impugnato il bando di gara regionale e, pertanto, in difetto di qualsivoglia attinenza con l’atto impugnato. 5.1. – Nel merito, la Regione sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, nella concessione in questione si realizzerebbe pienamente la “cooperazione tra amministrazione aggiudicatrice ed ente aggiudicatore finalizzata a garantire i servizi pubblici che essi sono tenuti a svolgere nell’ottica di conseguire gli obiettivi che hanno in comune”. 5.2. - La Regione censura la sentenza nella parte in cui ha accolto il secondo motivo aggiunto formulato da Elitaliana S.r.l. ritenendo erroneamente che la lex di gara abbia determinato una indifferenziata sottrazione del servizio de quo all’IVA, senza tenere conto delle due componenti della base d’asta, che invece al paragrafo 2 del Disciplinare di gara sono distinte ai fini del regime IVA. Peraltro, la problematica in questione attiene alla fase esecutiva del rapporto e non è idonea a “rendere di fatto impossibile la formulazione stessa dell’offerta”, tanto che hanno partecipato alla gara 3 operatori, tra cui la stessa Elitaliana S.r.l. Il motivo sarebbe doppiamente inammissibile, sia perché riguardando la fase esecutiva del rapporto non appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, sia perché il presunto vizio non consente la legittima impugnazione di un bando di gara. 5.3.- Anche l’accoglimento del terzo motivo aggiunto di Elitaliana s.r.l. sarebbe erroneo, in quanto dal Capitolato di gara, Allegato B, e dal Regolamento dello scalo di Roma Urbe (punto 2.1) emerge che è possibile individuare nella fascia oraria richiesta uno spazio idoneo dove effettuare il servizio (il Regolamento dello scalo di Roma Urbe alla voce “traffico consentito” prevede che il volo a vista notturno è consentito ai soli elicotteri e la torre di controllo non è necessaria per tale tipo di volo, data l’assenza di altro tipo di traffico nelle ore notturne). Sul punto della congruità della base d’asta anche per profili attinenti l’organizzazione e operatività del servizio H24 non è stata sollevata alcuna contestazione dagli altri concorrenti. 5.4. - Infine, la sentenza andrebbe annullata perché pronunciata in forma semplificata ai sensi degli artt. 60 e 74 c.p.a., nonostante non sussistano i presupposti per ritenere “manifestamente fondata l’impugnazione”. 6.- Analoghe censure e argomentazioni svolge ARES 118. 7.- Ritiene il Collegio che si può prescindere dalle eccezioni di inammissibilità del ricorso introduttivo di primo grado, essendo gli appelli fondati nel merito. 7.1.- Preliminarmente, va rilevato che le concessioni dei beni demaniali, non sono qualificabili come “concessione di servizi” in quanto non ricorrono gli elementi costitutivi del contratto di concessione di servizi come definito dall'art. 3, comma 1, lett. vv, del d.lgs. n. 50 del 2016 ("contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori economici la fornitura e la gestione di servizi diversi dall'esecuzione di lavori di cui alla lettera ll) riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei servizi"). Tuttavia, anche le concessioni di beni demaniali, in quanto rivestono rilevanza economica poiché idonee a fornire un'occasione di guadagno a soggetti operanti nel libero mercato, soggiacciono ai principi discendenti dall'art. 81 del Trattato UE e dalle Direttive comunitarie in materia di appalti, quali quelli della loro necessaria attribuzione mediante procedure concorsuali, trasparenti, non discriminatorie, nonché tali da assicurare la parità di trattamento ai partecipanti. Infatti, anche nell'assegnazione di un bene demaniale occorre individuare il soggetto maggiormente idoneo a consentire il perseguimento dell'interesse pubblico, garantendo a tutti gli operatori economici una parità di possibilità di accesso all'utilizzazione dei beni demaniali. 7.2. - La giurisprudenza, in più occasioni, si è pronunciata nel senso dell’obbligo di attivazione di procedura competitiva in ipotesi di concessioni di beni del demanio marittimo e aeroportuale, pena l’introduzione di una barriera all’ingresso al mercato e conseguente lesione dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza (cfr. C.d.S., sez. IV, 16/02/2021, n.1416; C.d.S., Adunanza Plenaria, 25 febbraio 2013, n. 5; Sez. V, 31.5.2011, n. 3250; sez. VI, 25 gennaio 2005, n. 168; TAR Lazio, sez. III, sez. III, 08/01/2016, n. 188 e sez. III ter, n. 11405/2014 e n. 5499/2015). Il rilascio e la variazione della concessione devono avvenire nel rispetto delle direttive comunitarie in materia, sulla scorta delle sentenze della Corte di Giustizia (cfr. sentenza 14 luglio 2016, cause C-458/14 e C-67/15 sul contrasto con l'art. 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 e con l'art. 49 TFUE, relativi ai servizi nel mercato interno e sull'invalidità di norme nazionali che prevedano proroghe automatiche in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati; C.d.S., Sez. V, 11 giugno 2019, n. 3912). Anche la Corte Costituzionale, con sentenza n. 40 del 24 febbraio 2017, ha ritenuto, con riguardo alla disciplina relativa al rilascio delle concessioni su beni demaniali marittimi, che particolare rilevanza, quanto ai criteri e alle modalità di affidamento delle concessioni, "assumono i principi della libera concorrenza e della libertà di stabilimento, previsti dalla normativa comunitaria e nazionale" (cfr. anche sentenza Corte Costituzionale n. 213 del 2011). 7.3. – Più specificamente, per quanto riguarda le aree del demanio aeronautico, ai sensi del D.lgs. n. 96/2005, che ha modificato il codice della navigazione introducendo una disciplina dei beni del demanio aeronautico e, in particolare, ex art. 693 cod nav. (Assegnazione dei beni del demanio aeronautico) “i beni del demanio aeronautico di cui alle lettere a) e b) del primo comma dell'art. 692 sono assegnati all'ENAC in uso gratuito ai fini dell'affidamento in concessione al gestore aeroportuale”. Ex art. 704 del cod nav. la concessione dell’intera area aeroportuale al gestore aeroportuale è effettuata a seguito di gara ad evidenza pubblica. La norma deve ritenersi applicabile, per coerenza logico-giuridica, anche all’affidamento di porzioni dell’area aeroportuale per lo svolgimento di servizi di pubblico interesse ad opera di soggetti economici affidatari. Il regolamento ENAC pubblicato il 18.11.2014, titolo IV, agli artt. 18 e 19 (disposizioni finali) prevede, difatti, che le concessioni dei singoli beni del demanio civile aeronautico rilasciate da ENAC avvengono con selezioni pubbliche, nel rispetto dei criteri di trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione, in ragione della funzionalità dei beni specificata da ENAC (cfr. doc all. 4 appello di ENAC). 7.4. - Tuttavia, come deduce l’ENAC, la specialità del caso in esame va considerata sotto un duplice profilo. 7.5. - In primo luogo, va tenuto adeguatamente conto della non ancora intervenuta definitiva assegnazione delle aree di sedime degli aeroporti militari di Latina e Viterbo ad ENAC; alcune aree militari dell’aeroporto di Virterbo sono state trasferite alla Direzione Generale Aviazione Civile, le cui competenze sono transitate ad ENAC, con verbali di consegna del 18.11.1964 e, alcune aree dell’aeroporto di Latina sono state trasferite con verbali del 18.12.1985 e del 5.6.1986, solo a titolo provvisorio, rientrando ancora formalmente nel demanio pubblico aeroportuale militare. A decorrere dal 1 luglio 1997, la ex Direzione Generale dell’Aviazione Civile, prima, e l’ENAC, dopo, hanno gestito tali aree affidando le stesse a soggetti privati attraverso rapporti concessori che ne stabilivano condizioni d’uso, obblighi e durata. Tra questi si annoverano anche i rapporti concessori, più volte rinnovati, in favore di Elitaliana S.r.l., scaduti definitivamente nel 2016. Come rileva lo stesso ENAC, con nota del 2.12.2019 indirizzata allo Stato maggiore della Difesa, al Ministero Infrastrutture e Trasporti e al Ministero della Difesa, la modalità di gestione mediante prorogatio di rapporti scaduti è incompatibile col nuovo quadro normativo eurocomunitario e con le norme regolamentari che in applicazione di tali principi ENAC si è data. Si afferma in tale nota che il carattere di provvisorietà del trasferimento delle aree di cui trattasi impedirebbe ad ENAC una regolare gestione delle concessioni in quanto “non consente di fornire ai concessionari le adeguate garanzie di durata, e non solo, della concessione medesima”. Fino all’assegnazione definitiva degli scali ad ENAC, possono essere svolte nei due aeroporti in questione unicamente attività di pubblica necessità compatibili con le esigenze operative delle Forze armate. L’ENAC, ad oggi, non essendo ancora assegnataria definitiva dei beni del demanio militare aeronautico (non più funzionali a fini militari e da destinare all’aviazione civile di cui al comma 3 dell’art. 704 cod. nav.) e, dunque, non essendo gestore diretto di dette aree, non potrebbe procedere ad affidamenti mediante gara di servizi per la loro valorizzazione commerciale (cfr. artt. 18 e 19 del Regolamento ENAC). I provvedimenti di concessione in esame ad ARES 118, così come le passate concessioni, sono stati previamente assentiti dallo Stato maggiore dell’Aeronautica con nota del 20.12.2019. 7.6. - Sotto altro profilo, nel caso in esame, non può trascurarsi che la concessione di porzione del sedime aeroportuale in favore della ARES 118 si caratterizza come concessione di area demaniale ad un ente pubblico, prodromica all’affidamento del servizio pubblico di HEMS da parte della stessa Azienda regionale ad operatori economici da selezionare mediante gara. Come correttamente evidenziano le appellanti, ARES 118, soggetto giuridico responsabile nel Lazio per il servizio di elisoccorso ex art. 4 l.r. 9/2004, ha assunto l’impegno ad espletare la gara per l’affidamento del servizio di elisoccorso (come, di fatto, è avvenuto tramite il bando della regione Lazio impugnato), servizio che ha sicuramente quella valenza economica che comporta l’applicazione del diritto della concorrenza. I principi e le regole dell’evidenza pubblica per la successiva valorizzazione economica delle aree, come prevede la normativa di settore, non sono stati, dunque, obliterati. 7.7. – Tanto premesso, ritiene il Collegio che, in considerazione delle loro caratteristiche, gli affidamenti in esame di aree di sedime presso gli aeroporti militari di Latina e Viterbo ad ARES 118 ben possono inquadrarsi nella categoria giuridica dell’accordo tra pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art. 15 della L. 241/1990 e dell’art. 5, comma 6, D.lgs. n. 50/2016. 7.8. - L’art. 15 della L. 241/1990 consente alle amministrazioni pubbliche di concludere tra loro accordi per disciplinare “lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune". Si ravvisa l’interesse comune a garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico tutte le volte in cui la funzione o il servizio è comune agli Enti, ma anche allorché, più in generale, si realizzi una collaborazione istituzionale per lo svolgimento di attività di interesse pubblico comuni e sempre che le attività non abbiano natura patrimoniale ed astrattamente reperibile presso privati. Il contenuto e la funzione elettiva degli accordi tra pubbliche amministrazioni è, pertanto, quella di regolare le rispettive attività funzionali, purché di nessuna di queste possa appropriarsi uno degli enti stipulanti. Così chiarisce la giurisprudenza di questo Consiglio: “qualora un'amministrazione si ponga rispetto all'accordo come operatore economico, ai sensi di quanto stabilito dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 23 dicembre 2009, in C 305/08, prestatore di servizi ex all. IIA e verso un corrispettivo, anche non implicante il riconoscimento di un utile economico ma solo il rimborso dei costi, non è possibile parlare di una cooperazione tra enti pubblici per il perseguimento di funzioni di servizio pubblico comune, ma di uno scambio tra i medesimi (cfr. in particolare i Par.Par. 27 - 29 della sentenza di rinvio)….(omissis) Come nel contratto, le amministrazioni pubbliche stipulanti partecipano all'accordo ex art. 15 in posizione di equiordinazione, ma non già al fine di comporre un conflitto di interessi di carattere patrimoniale, bensì di coordinare i rispettivi ambiti di intervento su oggetti di interesse comune. Il quale coordinamento può anche implicare la regolamentazione di profili di carattere economico, ma come necessario riflesso delle attività amministrative che in esso sono interessate.” (C.d.S. Sez. V, 15/07/2013, n.3849). L'accordo di cui all'art. 15 della L. 241/1990 deve, dunque, riguardare l'acquisizione di attività erogata da struttura non solo pubblica, ma anche (e soprattutto) priva di alcuna connotazione imprenditoriale, nell'ampia accezione delineata dall'ordinamento europeo (cfr. C.d.S. Sez. III, 25/01/2012, n. 324; Sez. V, n. 4539/2010). L’"interesse comune" tra le due pubbliche amministrazioni esclude che l’una intenda avvalersi delle prestazioni dell'altra dietro pagamento di un corrispettivo (Consiglio di Stato sez. V, 15/07/2013, n.3849 sez. V, 16/09/2011, n.5207). 7.9. – L’art. 5, comma 6, del D.lgs. n. 50/2016 esclude l’accordo concluso esclusivamente tra due amministrazioni dall’applicazione del codice, quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni: “a) l'accordo stabilisce o realizza una cooperazione tra le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori partecipanti, finalizzata a garantire che i servizi pubblici che essi sono tenuti a svolgere siano prestati nell'ottica di conseguire gli obiettivi che essi hanno in comune; b) l'attuazione di tale cooperazione è retta esclusivamente da considerazioni inerenti all'interesse pubblico; c) le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori partecipanti svolgono sul mercato aperto meno del 20 per cento delle attività interessate dalla cooperazione”. 7.10. – In particolare, quanto alla sussistenza di “obiettivi in comune” (essendo palesemente configurabili le condizioni di cui alle lett. b) e c) richiamate) il giudice di primo grado ha escluso che nella fattispecie sia possibile ritenere che l’ENAC partecipi all’interesse pubblico tutelato dall’affidataria delle aree. Il Collegio, ai fini del corretto inquadramento della fattispecie, richiama gli enunciati della Corte di Giustizia UE che ha precisato in quali casi i contratti conclusi nell'ambito del settore pubblico non sono soggetti all'applicazione delle norme in materia di appalti pubblici (Corte giustizia UE sez. IV, 28/05/2020, n.796). Afferma la Corte che “le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero poter decidere di fornire congiuntamente i rispettivi servizi pubblici mediante cooperazione senza essere obbligate ad avvalersi di alcuna forma giuridica in particolare. Tale cooperazione potrebbe riguardare tutti i tipi di attività connesse alla prestazione di servizi e alle responsabilità affidati alle amministrazioni partecipanti o da esse assunti, quali i compiti obbligatori o facoltativi di enti pubblici territoriali o i servizi affidati a organismi specifici dal diritto pubblico. I servizi forniti dalle diverse amministrazioni partecipanti non devono necessariamente essere identici; potrebbero anche essere complementari. Tale chiarimento dovrebbe essere guidato dai principi di cui alla pertinente giurisprudenza della [Corte]. Il solo fatto che entrambe le parti di un accordo siano esse stesse autorità pubbliche non esclude di per sé l'applicazione delle norme sugli appalti. Tuttavia, l'applicazione delle norme in materia di appalti pubblici non dovrebbe interferire con la libertà delle autorità pubbliche di svolgere i compiti di servizio pubblico affidati loro utilizzando le loro stesse risorse, compresa la possibilità di cooperare con altre autorità pubbliche. Si dovrebbe garantire che una qualsiasi cooperazione pubblico-pubblico esentata non dia luogo a una distorsione della concorrenza nei confronti di operatori economici privati nella misura in cui pone un fornitore privato di servizi in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti. I contratti per la fornitura congiunta di servizi pubblici non dovrebbero essere soggetti all'applicazione delle norme stabilite nella presente direttiva, a condizione che siano conclusi esclusivamente tra amministrazioni aggiudicatrici, che l'attuazione di tale cooperazione sia dettata solo da considerazioni legate al pubblico interesse e che nessun fornitore privato di servizi goda di una posizione di vantaggio rispetto ai suoi concorrenti. Al fine di rispettare tali condizioni, la cooperazione dovrebbe fondarsi su un concetto cooperativistico. Tale cooperazione non comporta che tutte le amministrazioni partecipanti si assumano la responsabilità di eseguire i principali obblighi contrattuali, fintantoché sussistono impegni a cooperare all'esecuzione del servizio pubblico in questione. Inoltre, l'attuazione della cooperazione, inclusi gli eventuali trasferimenti finanziari tra le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti, dovrebbe essere retta solo da considerazioni legate al pubblico interesse”. La nozione di «cooperazione» è al centro del meccanismo di esclusione previsto dall'articolo 12, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24, trasfuso dal legislatore nazionale nella disposizione dell’art. 5, comma 6, del D.Lgs 50/2016. La Corte precisa ancora che, in assenza di una nozione comunitaria di “cooperazione”, va valorizzata dall’interprete la circostanza che “l'intenzione del legislatore dell'Unione fosse quella d'instaurare un meccanismo basato su una cooperazione non autentica o d'ignorare l'effetto utile della cooperazione orizzontale tra amministrazioni aggiudicatrici, occorre rilevare che il requisito di «un'autentica cooperazione» emerge dalla precisazione, enunciata al considerando 33, terzo comma, della direttiva 2014/24, secondo cui la cooperazione deve «fondarsi su un concetto cooperativistico». Una siffatta formulazione, all'apparenza tautologica, deve essere interpretata nel senso di rinviare al requisito di effettività della cooperazione così stabilita o attuata. 29. Ne consegue che la partecipazione congiunta di tutte le parti dell'accordo di cooperazione è indispensabile per garantire che i servizi pubblici che esse sono tenute a svolgere siano prestati e che tale condizione non può essere considerata soddisfatta qualora l'unico contributo di talune controparti contrattuali si limiti a un mero rimborso spese”. Inoltre, precisa ancora la Corte che “la conclusione di un accordo di cooperazione tra enti nell'ambito del settore pubblico deve costituire la conclusione di un'iniziativa di cooperazione tra le parti di quest'ultimo (v., in tal senso, sentenza del 9 giugno 2009, Commissione/Germania, C-480/06, EU:C:2009:357, punto 38). L'elaborazione di una cooperazione tra enti nell'ambito del settore pubblico presenta, infatti, una dimensione intrinsecamente collaborativa, che è assente in una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico rientrante nelle norme previste dalla direttiva 2014/24.”. 8.- Ritiene il Collegio che, alla luce delle coordinate ricavabili dalla interpretazione delle norme anche a livello comunitario, analizzato il contesto e i contenuti delle concessioni in esame, sia possibile concludere che gli affidamenti ad ARES 118 si caratterizzano come accordi tra soggetti pubblici essenziali e funzionali all’interesse pubblico al migliore espletamento del servizio di pubblica necessità HEMS, nel preminente interesse alla salute e, nel contempo, compatibilmente con l’interesse pubblico all’utilizzo di aree del demanio militare per funzioni esclusivamente pubbliche, nell’interesse all’ordinato svolgimento del trasporto aereo. 8.1. - Dagli atti di concessione risulta che le aree devono utilizzarsi come basi operative per lo svolgimento di attività di elisoccorso, con l’espressa condizione dell’espletamento da parte della Regione di una procedura di gara pubblica finalizzata all’individuazione del soggetto che fornirà il servizio di elisoccorso, nei limiti di durata parametrati alla durata del contratto di servizio previsto dalla suddetta procedura di gara - 5 anni come da bando pubblicato, eventualmente rinnovabili e l’ARES dovrà comunicare ad ENAC il soggetto aeronautico individuato per l’effettuazione dell’attività di elisoccorso, che dovrà rispettare tutti i requisiti certificativi e operativi previsti e sarà sottoposto alla vigilanza di ENAC. Dunque, l’attività economica che andrà a svolgersi sulle aree demaniali in questione sarà oggetto di affidamento mediante gara nel rispetto delle regole di concorrenza. 8.2. - Il servizio HEMS è finalizzato ad assicurare il tempestivo intervento di soccorso per garantire l'incolumità e la tutela delle funzioni vitali delle persone che, per condizioni sanitarie e/o ambientali, necessitano di un urgente intervento di soccorso tecnico e sanitario, nonché l'eventuale trasporto assistito al presidio ospedaliero idoneo a consentire nel modo più rapido e razionale l'intervento diagnostico - terapeutico. Si tratta, dunque, di servizio integrato di soccorso sanitario, reso da personale del Servizio sanitario nazionale, con quello tecnico "urgente" mediante elicottero (C.d.S., sez. III, 22/02/2018 n.1132). Il servizio presuppone la disponibilità di ben individuate aree di sedime, anche ai fini della legittimità della gara di affidamento del servizio, come rilevato dal TAR per il Lazio con le sentenze n. 3682/2020 e n. 3683/2020 del 27.3.2020 che hanno annullato il precedente bando del 2019 in quanto non abbastanza chiaro, secondo il TAR, come sarebbero state messe a disposizione le basi HEMS “avvantaggiando in maniera illegittima l’attuale gestore del servizio”. L’ARES 118 è il soggetto istituzionalmente deputato a curare “la gestione e il coordinamento dell’attività di elisoccorso” (ex art. 4 L.r. n. 9/2004). Tenuto conto delle funzioni istituzionali di ENAC (organo istituzionalmente preposto proprio alla tutela della sicurezza negli aeroporti e di controllo nel settore dell’aviazione civile), nonché considerata la specifica destinazione conferita da ENAC e dall’Autorità militare alle aree del demanio aeroportuale di Latina e Viterbo, come sopra detto, unicamente per finalità pubbliche compatibili con le esigenze delle attività delle Forze Armate, ritiene il Collegio che le concessioni configurano una collaborazione tra i due soggetti pubblici ai sensi dell’art. 15 della l. 241/1990 e dell’art. 5, comma 6, D.lgs. n. 50/2016. 8.3.- Non rappresenta un ostacolo alla configurazione “dell’interesse comune” la circostanza che l’apporto collaborativo o i servizi forniti dalle amministrazioni non siano identici, bensì complementari. Non può condividersi l’interpretazione del primo giudice secondo cui l’”interesse comune” dovrebbe escludersi perchè ENAC sarebbe del tutto estraneo all’esercizio dell’attività dedotta in convenzione. L’ENAC non può dirsi del tutto estraneo al complesso interesse pubblico sotteso al servizio HEMS; svolge un ruolo certamente differente rispetto ad ARES 118, ma essendo l’Autorità di regolazione tecnica, certificazione, vigilanza e controllo nel settore dell’aviazione civile, preposta al rilascio di concessione delle aree per le basi di elisoccorso, ha certamente interesse all’ordinato svolgimento delle attività HEMS di cui fanno parte anche le attività di trasporto mediante elicottero, tanto da regolamentarne le infrastrutture a servizio (cfr. Regolamento ENAC del 22.12.2016 “ Infrastrutture a servizio delle attività HEMS”) e regolamentare l’operatività del servizio (equipaggio, tempi di servizio, orari etc.). Da qui può desumersi una dimensione intrinsecamente collaborativa tra i due enti pubblici. Ulteriore elemento sintomatico della “collaborazione” intercorsa tra i vari enti pubblici coinvolti si trae dalla nota del Direttore centrale Economia e Vigilanza Aeroporti ENAC indirizzata a vari uffici interni (Direzione Aeroportuale Lazio, Direzione Generale, Direzione Centrale Vigilanza Tecnica, etc.) oltre che alla Regione e all’ARES 118, in data 24 gennaio 2020, da cui si desume che, sin dal dicembre 2019, è in atto un’interlocuzione con lo Stato Maggiore dell’Aeronautica allo scopo di “fornire il supporto alla Regione per le finalità di pubblico interesse in parola” e l’iter di valutazione del passaggio definitivo dei sedimi in argomento alla Regione richiedente (doc. 19 prodotto in giudizio da ARES 118 unitamente al proprio atto di appello). 8.4. - Sotto il profilo del carattere oneroso della concessione, va rilevato che nessuna concreta utilitas di tipo economico ritrae ARES 118 dalla concessione; e, d’altra parte, ENAC percepisce solo un canone compensativo per l’uso speciale del bene, che non può qualificarsi “utile” in senso tecnico, quale risultato di una prestazione di tipo imprenditoriale. Va ricordato, difatti, che l’attività economica sarà quella tecnica di elisoccorso, oggetto della successiva fase di individuazione dell’operatore economico che effettuerà le prestazioni in favore di terzi su concessione del servizio da parte di ARES 118. Pertanto, gli affidamenti delle aree ad ARES 118, nati dalla necessità, al contrario, di consentire il corretto svolgimento della concorrenza nella scelta del contraente che opererà il servizio di elisoccorso, non determinano alcuna distorsione della concorrenza nei confronti degli operatori economici privati. L’ENAC, nell’attuale contesto, non ha attribuito ad ARES 118 alcun vantaggio economico rispetto ad altri operatori con cui potrebbe essere in concorrenza, il che solo richiederebbe il ricorso ad una procedura ad evidenza pubblica (Corte giustizia UE sez. IV, 18/06/2020, n.328; C.d.S. sez. II, 22/04/2015, n.1178). 9.- Conclusivamente, i motivi di appello sul punto, meritano accoglimento. 10.- Fondato è anche il motivo di appello con cui ARES 118 e la Regione Lazio deducono l’erroneità e ingiustizia del capo di sentenza che ha accolto il ricorso per motivi aggiunti con cui Elitaliana S.r.l. censurava l’art. 2 del Disciplinare della gara indetta dalla Direzione Centrale Acquisti della Regione Lazio su delega di ARES, il cui bando è stato pubblicato sulla GUCE il 13.10.2020. La sentenza ha ritenuto illegittima la lex di gara per aver sottratto all’IVA alcune prestazioni di trasporto sanitario che, invece, vi sarebbero assoggettate. Ad avviso delle appellanti, il motivo è stato travisato dal TAR e, comunque, vengono in rilievo questioni di puro diritto soggettivo di natura patrimoniale, la cui cognizione spetterebbe al giudice ordinario. 10.1. - Sulla questione va, preliminarmente, ritenuta la giurisdizione amministrativa, trattandosi di motivo che concerne la correttezza delle modalità di determinazione della base d’asta e la conseguente chiarezza delle regole che presiedono alla formulazione delle offerte da parte dei concorrenti e l’utile partecipazione alla gara (Consiglio di Stato sez. III, 07/06/2021, n.4295). 10.2. - Il TAR ha, effettivamente, travisato la censura proposta da Elitaliana S.r.l., in violazione dell’art. 112 c.p.c., giungendo a conclusioni non condivisibili. La ricorrente aveva contestato il disciplinare per aver considerato “esente IVA il servizio di tenuta a disposizione degli elicotteri connesso ai servizi di volo per trasporto malati/feriti e costretto i concorrenti a formulare un’offerta fiscalmente irregolare e sottoposta ad un’alea tale da rendere di fatto impossibile la formulazione stessa dell’offerta, in violazione dell’art. 10 DPR n. 633/1972, nonché per violazione dell’art. 132 della direttiva n. 2006/112/CE”. Il motivo di appello è fondato. La censura concerne esclusivamente se sia dovuta l’IVA sulla prestazione della messa a disposizione degli elicotteri e delle basi, attività diversa dal volo effettivo e funzionale tanto al trasporto dei malati/feriti (esente IVA), quanto al trasporto di sangue/organi (imponibile IVA). 10.3. - Sul punto Elitaliana S.r.l. aveva dedotto che la soluzione prescelta dal disciplinare era foriera di conseguenze rilevanti nel contesto della gara perché se il servizio è ritenuto interamente imponibile IVA sarebbe possibile per l’aggiudicatario la detrazione dell’imposta corrisposta ai propri fornitori per tutti gli acquisti e servizi strumentali alla gestione del servizio; nel caso contrario, l’IVA graverebbe sull’aggiudicatario quale “consumatore finale”. Quantitativamente tale componente fissa del servizio assume un valore rilevante, ben maggiore rispetto alla componente variabile rappresentata dalle ore volate. L’Agenzia delle Entrate, in situazioni analoghe, avrebbe ritenuto che si applichi l’aliquota IVA al 20% per il canone fisso riguardante la messa a disposizione dei mezzi e delle strutture, mentre l’esenzione, ove prevista in relazione al tipo di trasporto, vada ristretta alle ore di volo effettive. Secondo la ricorrente Elitaliana S.r.l., sarebbe elusiva della normativa tributaria una base d’asta determinata in modo da considerare attratta nel regime di esenzione anche un’attività oggettivamente diversa quale la tenuta a disposizione degli aeromobili. Tra l’altro, non sarebbe possibile stabilire ex ante se la messa a disposizione dei velivoli sia funzionale a prestazioni esenti da IVA o assoggettate al tributo, ma solo sulla base dei dati a consuntivo. Sul punto, in via subordinata, la ricorrente aveva chiesto la rimessione alla Corte di Giustizia UE del quesito circa la compatibilità con l’art. 132 della direttiva n. 2006/112/CE della totale esenzione IVA prevista per il trasporto di malati/feriti anche per la “tenuta a disposizione degli aeromobili”, nonostante che la medesima attività sia funzionale pure all’attività di trasporto sangue/organi, attività imponibile IVA. 10.4. - Il Collegio ritiene che le appellanti abbiano applicato la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate di Roma sugli specifici quesiti controversi proprio nel rapporto concessorio intercorso con Elitaliana S.r.l. (prot. 3056/2016 del 15 .2.2016– doc. 26) e altre risoluzioni ivi citate (16.6.2006, n. 83/E e 114/E del 2000), in cui si afferma che la messa a disposizione del mezzo di soccorso e del personale potrà beneficiare dell’esenzione IVA di cui all’art. 10 punto 15 del DPR 633/1972 solo nel caso in cui la stessa sia finalizzata esclusivamente al trasporto di malati e feriti e lo stazionamento è essenziale e logisticamente preordinato al detto trasporto. Viceversa, lo stesso stazionamento a terra costituirà operazione imponibile con aliquota ordinaria ove preceda un’attività non finalizzata al traporto di malati o feriti. Questo criterio è stato utilizzato nel Disciplinare di gara. La messa a disposizione degli aeromobili e la gestione operativa delle basi non sono prestazioni autonome e inscindibili rispetto alla prestazione principale, consistente nel servizio di soccorso o di trasporto sanitario, per cui appare logicamente corretto, come d’altra parte ritenuto dall’Agenzia delle entrate, che il regime dell’IVA sia quello del servizio cui le prestazioni predette sono funzionali ( cfr. Corte UE 25.2.1999 causa C-349/96, punti 28 e 29; 19.7.2012, causa C-44/11 punto 18). 10.5. - D’altra parte, i concorrenti erano messi al corrente dalla lex di gara degli oneri tributari conseguenti alla componente fissa del servizio, formulati e calcolati in questi termini, con la conseguenza che il calcolo della convenienza economica dell’offerta era certamente possibile ex ante al fine della formulazione di una offerta congrua. 11.- Fondata è anche la censura con cui si lamenta l’erroneo accoglimento del motivo aggiunto concernente l’irragionevole previsione della lex di gara di garantire il servizio 24 ore su 24, nonostante che la base posta all’interno dell’aeroporto Roma Urbe non fosse utilizzabile nelle ore notturne di chiusura dell’aeroporto, nonché per aver impedito alle concorrenti di offrire altre basi nella loro diponibilità. 11.1. - Dal Regolamento dell’Aeroporto Roma Urbe (ordinanza ENAC 15/2011 - all. 28) si evince che nelle ore notturne l’aeroporto sarà utilizzabile per gli elicotteri fino alle ore 22 ( punto 2.7). Tuttavia, il riferimento è agli elicotteri in generale, mentre è in facoltà di ENAC disporre l’apertura dello scalo oltre i normali orari per specifiche e prioritarie necessità quali quelle di assicurare l’operatività notturna del servizio di elisoccorso. A norma dell’art. 687 del codice della navigazione, l’ENAC, nel rispetto dei poteri di indirizzo del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, nonché fatte salve le competenze specifiche degli altri enti aeronautici, agisce come unica autorità di regolazione tecnica, certificazione, vigilanza e controllo nel settore dell'aviazione civile. Dunque, rientra nelle sue funzioni la regolamentazione tecnica e la modifica delle procedure attinenti ai servizi aeroportuali (art. 2 del Decreto legislativo del 25/07/1997 - n. 250). E difatti, con nota del 13.3.2021 prot. 5792 (doc 2 depositato da ARES 118 il 24.6.2021) ENAC ha chiarito, su specifico quesito posto dall’Azienda, le opzioni possibili (da concordare con l’aggiudicatario) al fine di rendere possibile e adeguare lo scalo al volo notturno dei mezzi per elisoccorso. 12. - Infondato è l’appello incidentale di Elitaliana S.r.l.. nella parte in cui ritiene violato il proprio diritto scaturente dalle concessioni a suo tempo assentite. Gli atti di concessione in favore di Elitaliana S.r.l. del 2014 avevano durata biennale, espressamente non rinnovabili alla scadenza, salva la facoltà di ENAC di accordare una proroga per ragioni di pubblico interesse, ed ENAC ha, di fatto, consentito l’utilizzo del bene demaniale successivamente alla scadenza, per evidenti ragioni di pubblico interesse alla non interruzione del sevizio di elisoccorso, nelle more dell’affidamento del bene con procedure di gara, come preannunciato nelle note del 29.3.2016 con cui veniva richiesto alla concessionaria il pagamento del canone aggiornato ( docc. 25 e 26 produzione della ricorrente in I grado). La circostanza che, successivamente, a seguito delle intese intercorse con la Regione Lazio, l’ENAC abbia determinato di affidare le aree alla ARES 118, nell’ottica collaborativa per il raggiungimento dell’obiettivo di rendere possibile il miglior espletamento della gara per l’affidamento del servizio pubblico HEMS, non può interpretarsi come comportamento illegittimo posto che le concessioni ad Elitaliana S.r.l. erano già scadute e l’utilizzazione delle aree, di fatto, è stata consentita solo il tempo strettamente necessario all’individuazione di nuovo concessionario. 12.1.- Tale individuazione non è, poi, avvenuta mediante procedura di evidenza pubblica (come preannunciato da ENAC) per le ragioni sopra ampiamente illustrate. E’ sempre possibile per le pubbliche amministrazioni concludere accordi per la realizzazione di obiettivi comuni, sottratti all’evidenza pubblica, senza che tale diversa scelta, se legittimamente assunta, possa determinare contraddittorietà con precedenti provvedimenti, né tanto meno interpretarsi come “espropriazione” ai danni del precedente concessionario delle basi allestite per il servizio di elisoccorso e delle opere a tal fine realizzate, senza preavviso e senza proposta di pagamento del valore di subentro, come afferma erroneamente Elitaliana S.r.l.. 12.2.- Va osservato, in contrario, che gli atti di rinnovo delle concessioni del 2014 (docc. 11 e 12 della produzione di primo grado della ricorrente) specificavano alla lettera o) l’obbligo della società di restituire in pristino stato l’area con relativi oneri a proprio carico al cessare della concessione “per qualsiasi causa”, fatta salva la facoltà di ENAC di ritenere gratuitamente ai sensi dell’art. 49 del cod. nav. le eventuali opere non amovibili costruite sul demanio, senza che spetti alla Società alcun compenso o rimborso. Peraltro, il preavviso del perfezionamento in corso della concessione ad ARES 118 è stato comunicato da ENAC ad Elitaliana S.r.l. in data 20 febbraio 2020; nessuna garanzia partecipativa era dovuta, in ogni caso, essendo Elitaliana S.r.l. ben a conoscenza della intervenuta scadenza dei titoli, della non rinnovabilità degli stessi, e che era in atto solo un regime di prorogatio. Non è, pertanto, fondata neppure l’ulteriore censura concernente lo sviamento di potere. 13.- Non merita accoglimento neppure il motivo di appello incidentale con cui Elitaliana S.r.l. lamenta l’erroneo rigetto del motivo concernente la mancata manifestazione da parte dell’ENAC della volontà di acquisizione delle opere non amovibili, essendo prevista, a suo avviso, negli atti di concessione, una deroga alla regola della devoluzione automatica al demanio di cui all’ art. 49 cod. nav., secondo cui l’acquisizione delle opere avrebbe costituito oggetto di una facoltà dell’Amministrazione. La ricorrente aveva anche dedotto la rimovibilità dell’hangar, attestata dalla relazione tecnica allegata al ricorso, censura che il TAR non avrebbe considerato. 13.1. - Il Collegio osserva che, ai sensi dell’art. 49 cod. nav., la devoluzione al demanio delle opere inamovibili costituisce un effetto legale automatico, senza necessità di alcuna manifestazione di volontà da parte della P.A., al termine del periodo di concessione ( C.d.S., sez. VI, 03/12/2018, n.6852 e 14.10.2010 n. 7505; Cass. Civ., sez. III, 24.3.2004, n. 5842 e sez. I, 5.5.1998, n. 4504), salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di concessione. Di conseguenza, all'atto di acquisizione dell'Amministrazione, ove adottato, dovrebbe riconoscersi efficacia meramente dichiarativa (e non costitutiva) di un effetto che si produce ex lege sulla base della sussistenza dei presupposti di fatto (inamovibilità delle opere), secondo il noto schema norma-fatto-effetto (C.d.S. Sez. V, 7.2.2018, n. 800). La norma attribuisce all’Amministrazione concedente la facoltà di ordinare la demolizione delle opere inamovibili senza alcun compenso o rimborso e, in questo caso, ove il concessionario non esegua l’ordine di demolizione, l’A. può provvedervi d’ufficio. 13.2. - Dall’esame degli atti di concessione ad Elitaliana s.r.l. del 2014 non emerge alcuna volontà dell’Amministrazione di voler escludere l’effetto acquisitivo allo scadere della durata delle stesse, in deroga all’art. 49 cod. nav. Semmai, la clausola o) degli atti di concessione prevede l’inversione della regola della demolizione a richiesta dell’Amministrazione, prescrivendo, al contrario, che al termine della concessione “per qualunque causa” il concessionario deve procedere alla rimessione in pristino del demanio, ovvero alla demolizione dei manufatti inamovibili, salvo che l’Amministrazione non eserciti la “facoltà” di ritenerli gratuitamente. 13.3. – Peraltro, quanto al carattere inamovibile delle opere, presupposto della devoluzione al demanio del bene, oggetto di contestazione, si tratta di caratteristica confermata dalla stessa Elitaliana S.r.l., in tempi non sospetti, allorchè con la comunicazione del 23.11.2016 prot. 565/2016 (allegato 11 prodotto da ARES in I grado il 16.11.2020) la stessa ricorrente, rispondendo a specifico quesito dell’ENAC, affermava che “i manufatti realizzati a proprie spese sono non amovibili” e nel contempo invitava l’ENAC a riconoscerle la priorità nell’utilizzo delle aree di sedime aeroportuale, diffidandola dal procedere con la preannunciata procedura di evidenza pubblica. In ogni caso, la questione concernente il carattere inamovibile o meno dei manufatti, da cui dipende la lesione della proprietà privata, andrebbe proposta dinanzi al giudice ordinario, trattandosi dell’accertamento dei presupposti da cui dipende l’estinzione della proprietà privata ex lege e la conseguente acquisizione al demanio (cfr. C.d.S.,, Sez. V, n. 800/2018). Come rilevato dal primo giudice, non vale, in senso contrario, richiamare la natura esclusiva della giurisdizione amministrativa sulle concessioni di beni (salvo le controversie relative ad indennità, canoni ed altri corrispettivi), atteso che non viene qui in contestazione il rapporto concessorio, che risulta, come già detto, scaduto per decorrenza del termine di durata. 14. – Va, infine, rigettata l’ultima censura con cui Elitaliana S.rl. lamenta che la decisione della stazione appaltante di imporre agli offerenti di utilizzare necessariamente per il servizio, ove risultassero aggiudicatari, le basi ivi previste sarebbe limitativa dell’autonomia imprenditoriale oltre che pregiudizievole per l’interesse pubblico. Sul punto, è sufficiente ricordare che con le sentenze n. 3682/2020 e n. 3683/2020 del 27.3.2020 del TAR Lazio, che avevano annullato la precedente gara per l’affidamento del servizio di elisoccorso, era stata censurata proprio la mancata individuazione delle basi con certezza e chiarezza e che per conformarsi a tali decisioni la Regione si era attivata a richiedere le concessioni demaniali di cui si discute, in vista della indizione di nuova gara emendata dai vizi riscontrati nella precedente. Non appare, pertanto, censurabile la scelta della Regione di individuare preventivamente le basi per gli elicotteri in funzione del miglior espletamento della gara, senza che tale scelta sia lesiva della libertà imprenditoriale. 15.- In conclusione, gli appelli vanno accolti e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata vanno dichiarati legittimi gli atti impugnati in primo grado. 16.- Va respinto per infondatezza l’appello incidentale. 17.- Le spese di entrambi i gradi di giudizio si possono compensare tra le parti, in considerazione della complessità e novità delle questioni trattate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando riunisce gli appelli in epigrafe ai sensi dell’art. 96, comma 1, c.p.a. e li accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza appellata dichiara legittimi gli atti impugnati; rigetta l’appello incidentale di Elitaliana S.r.l. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 luglio 2021 con l'intervento dei magistrati: Massimiliano Noccelli, Presidente FF Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere, Estensore Solveig Cogliani, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere Antonio Massimo Marra, Consigliere Massimiliano Noccelli, Presidente FF Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere, Estensore Solveig Cogliani, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere Antonio Massimo Marra, Consigliere IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi – Servizio elisoccorso Ares 118 – Aree degli aeroporti militari - Concessione Enac ex artt. 15, l. n. 241 del 1990 e 5, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016 – Legittimità.       Gli affidamenti ad Ares 118 si caratterizzano come accordi tra soggetti pubblici essenziali e funzionali all’interesse pubblico al migliore espletamento del servizio di pubblica necessità HEMS, nel preminente interesse alla salute e, nel contempo, compatibilmente con l’interesse pubblico all’utilizzo di aree del demanio militare per funzioni esclusivamente pubbliche, nell’interesse all’ordinato svolgimento del trasporto aereo, con la conseguenza che è legittima la delibera Enac di concessione delle aree degli aeroporti militari aperti al traffico civile di Latina e Viterbo all’Ares 118 ex artt. 15, l. n. 241 del 1990 e 5, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016 per il successivo affidamento da parte di quest’ultima, mediante gara pubblica, del servizio di elisoccorso nella Regione Lazio (1).    (1) Ha preliminarmente ricordato la Sezione che l’Ares 118, soggetto giuridico responsabile nel Lazio per il servizio di elisoccorso ex art. 4, l. reg. Lazio n. 9 del 2004, ha assunto l’impegno ad espletare la gara per l’affidamento del servizio di elisoccorso (come, di fatto, è avvenuto tramite il bando della Regione Lazio impugnato), servizio che ha sicuramente quella valenza economica che comporta l’applicazione del diritto della concorrenza. I principi e le regole dell’evidenza pubblica per la successiva valorizzazione economica delle aree, come prevede la normativa di settore, non sono stati, dunque, obliterati. Gli affidamenti di aree di sedime presso gli aeroporti militari di Latina e Viterbo ad Ares 118 ben possono inquadrarsi nella categoria giuridica dell’accordo tra pubbliche amministrazioni, ai sensi degli artt. 15, l. n. 241 del 1990 e 5, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016. L’art. 15, l. n. 241 del 1990 consente alle amministrazioni pubbliche di concludere tra loro accordi per disciplinare “lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune". Si ravvisa l’interesse comune a garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico tutte le volte in cui la funzione o il servizio è comune agli Enti, ma anche allorché, più in generale, si realizzi una collaborazione istituzionale per lo svolgimento di attività di interesse pubblico comuni e sempre che le attività non abbiano natura patrimoniale ed astrattamente reperibile presso privati. Il contenuto e la funzione elettiva degli accordi tra pubbliche amministrazioni è, pertanto, quella di regolare le rispettive attività funzionali, purché di nessuna di queste possa appropriarsi uno degli enti stipulanti. In particolare, quanto alla sussistenza di “obiettivi in comune” (essendo palesemente configurabili le condizioni di cui alle lett. b) e c) richiamate) il giudice di primo grado ha escluso che nella fattispecie sia possibile ritenere che l’Enac partecipi all’interesse pubblico tutelato dall’affidataria delle aree. Il Collegio, ai fini del corretto inquadramento della fattispecie, richiama gli enunciati della Corte di Giustizia UE che ha precisato in quali casi i contratti conclusi nell'ambito del settore pubblico non sono soggetti all'applicazione delle norme in materia di appalti pubblici (Corte Giustizia ue, sez. IV, 28 maggio 2020, n.796). La Sezione - alla luce delle coordinate ricavabili dalla interpretazione delle norme anche a livello comunitario, analizzato il contesto e i contenuti delle concessioni in esame - ha quindi ritenuto  che gli affidamenti ad Ares 118 si caratterizzano come accordi tra soggetti pubblici essenziali e funzionali all’interesse pubblico al migliore espletamento del servizio di pubblica necessità HEMS, nel preminente interesse alla salute e, nel contempo, compatibilmente con l’interesse pubblico all’utilizzo di aree del demanio militare per funzioni esclusivamente pubbliche, nell’interesse all’ordinato svolgimento del trasporto aereo. ​​​​​​​Tenuto conto delle funzioni istituzionali di Enac (organo istituzionalmente preposto proprio alla tutela della sicurezza negli aeroporti e di controllo nel settore dell’aviazione civile), nonché considerata la specifica destinazione conferita da Enac e dall’Autorità militare alle aree del demanio aeroportuale, unicamente per finalità pubbliche compatibili con le esigenze delle attività delle Forze Armate, la Sezione ha ritenuto che le concessioni configurano una collaborazione tra i due soggetti pubblici ai sensi dell’art. 15, l. n. 241 del 1990 e dell’art. 5, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016. 
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/rescissione-del-contratto-a-distanza-di-tempo-dall-informativa-antimafia-atipica
Rescissione del contratto a distanza di tempo dall’informativa antimafia atipica
N. 00956/2019REG.PROV.COLL. N. 00338/2014 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 338 del 2014, proposto dal Comune appellante, in persona del Sindaco e legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Luigi Piccione (pec: avvluigipiccione@legalmail.it), con domicilio eletto presso la segretaria del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in Palermo, via F. Cordova , n.76; contro Curatela del Fallimento Società A, in persona del Commissario giudiziale e legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Sergio Rizzo e Giovanni Pappalardo (pec: avv.giovannipappalardo@pec.studiolegalepappalardo.eu), con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Stefano Scimeca in Palermo, via n. Turrisi, 59; nei confronti Ditta B, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Nicolò D'Alessandro, con domicilio eletto presso la segreteria del Consiglio di giustizia amministrativa in Palermo, via F. Cordova, n.76; U.T.G. - Prefettura di Catania, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, presso la cui sede distrettuale, in Palermo, via Villareale n.6, è ex lege domiciliato; per la riforma della sentenza n.-OMISSIS-del 30.12.2013, resa dal del T.A.R. Sicilia, sezione staccata di Catania, sez. III^; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Curatela del Fallimento Società A, nonché della Ditta B e di U.T.G. e della Prefettura di Catania; Visti tutti gli atti della causa; Nominato relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 gennaio 2019 il cons. Carlo Modica de Mohac e uditi per le parti gli avvocati Giovanni Pappalardo e l’avvocato dello Stato Francesco Pignatone; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Prima di procedere alla esposizione dei fatti, il Collegio ritiene opportuno disporre che per ragioni di privacy, i nominativi di alcune parti processuali - che verranno oscurati a cura della Segreteria (salvo, s’intende, che nella versione integrale della presente sentenza, non ostensibile) - vengano sostituiti con pseudonimi (o con segni grafici o lettere) che ne impediscano la identificazione. E precisamente: - il OMISSIS verrà indicato semplicemente come “Comune” o “Amministrazione comunale”, ovvero come “appellante” o come “Comune appellante”; - la -OMISSIS- verrà indicata come “società B”, “ditta B”, ovvero come “appellante incidentale”; - la -OMISSIS- verrà indicata come “società A”, “ditta A”, ovvero come “appellata”; - il sig. -OMISSIS- verrà indicato come “sig. X”. 2. Il 24.10.2008 il Comune appellante chiedeva alla Prefettura di Catania (nota prot.-OMISSIS-del 24.10.2008) la certificazione antimafia per la “società A”, al fine di poter stipulare con la stessa un contratto avente ad oggetto il servizio di igiene ambientale del territorio comunale. Espletata l’attività istruttoria, con nota dell’11.11.2008 (prot. -OMISSIS-) la Prefettura spediva al Comune una informativa antimafia atipica riferita alla “società A”, nella quale riferiva circa “cointeressenze societarie esistite nel tempo con congiunti di pregiudicati per associazione per delinquere di stampo mafioso”. Nella predetta informativa era specificato che l’amministratrice della società conviveva con il sig. X, soggetto pregiudicato per associazione per delinquere di stampo mafioso Cionondimeno, non essendo a conoscenza di ulteriori elementi idonei a rafforzare il valore indiziante di tale informativa atipica, e dovendo procedere con urgenza, il Comune affidava il servizio alla società in questione. 3. I contratti venivano così via via rinnovati fino a quando il Comune veniva a conoscenza che con ordinanza del 28.7.2012 il Tribunale -OMISSIS- aveva disposto una misura cautelare (divieto di soggiorno) proprio a carico del predetto sig. X che era adesso indagato per reati connessi all’esecuzione di un appalto concernente proprio la gestione di rifiuti (nella specie: “truffa aggravata e continuata”, “frode continuata nelle pubbliche forniture” “attività finanziaria abusiva”). Da tale ordinanza l’Amministrazione apprendeva altresì che il predetto soggetto era sospettato anche di essere l’amministratore di fatto della società A. A questo punto, effettuate ulteriori valutazioni in ordine a quanto appreso, con delibera n.-OMISSIS- dell’11.9.2012, la Giunta municipale del Comune disponeva la rescissione del contratto. Conseguentemente, e precisamente in data 16.10.2012, al fine di garantire la continuità del servizio integrato di igiene ambientale nel proprio territorio per la durata di ulteriori diciotto mesi, il Comune indiceva una nuova procedura negoziata. A tale procedura chiedeva di partecipare anche la “ditta A”, che però veniva esclusa per le ragioni che avevano determinato la rescissione del contratto disposto (cfr. verbale del 20/11/2012 che richiama la delibera di G.M. n. -OMISSIS-/2012). 4. Non ritenendo legittimi i provvedimenti adottati dal Comune, tanto con riguardo all’operata rescissione del contratto, quanto in relazione alla sostanziale esclusione della propria offerta dalla nuova procedura, con ricorso notificato il 15.11.2012 la “società A” proponeva ricorso innanzi al TAR Sicilia, sezione staccata di Catania. Si costituivano in giudizio tanto il Comune quanto il Ministero degli Interni. Con decreto presidenziale n.-OMISSIS- del 15.11.2012, il TAR respingeva la domanda cautelare, ferma restando la facoltà della stazione appaltante di “procrastinare i termini per lo svolgimento della selezione indetta con la impugnata delibera di G.M. -OMISSIS-”. Il Comune decideva - tuttavia - di non avvalersi di tale facoltà, per cui con verbale del 20.11.2012 escludeva l’offerta presentata dalla ditta A e aggiudicava il servizio alla ditta B. Tale verbale di aggiudicazione, unitamente alla nota prot. n.-OMISSIS- del 19.11.2012 con cui il Comune aveva comunicato di non voler procrastinare i termini per lo svolgimento della selezione, veniva impugnato dalla società A con ricorso per motivi aggiunti. A questo punto si costituiva anche la società B che eccepiva l’infondatezza delle domande giudiziali della società A. L'istanza cautelare proposta da quest’ultima con il ricorso per motivi aggiunti veniva accolta ai soli fini della fissazione dell’udienza di trattazione nel merito ai sensi dall’art. 55, comma 10 cod. proc. amm., con ordinanza n. 26/2013. Intanto l'Amministrazione portava avanti il procedimento ad evidenza pubblica avviato sul presupposto dell’avvenuta rescissione del contratto con la società A, e perveniva - con la determina dirigenziale -OMISSIS-del 30.1.2013 - alla definitiva aggiudicazione dell’appalto alla società B. La società A impugnava anche i relativi atti con un “secondo ricorso per motivi aggiunti”. L'ulteriore istanza cautelare, volta alla anticipazione della già fissata udienza del 4.12.2013 veniva respinta con ordinanza collegiale n. -OMISSIS-. Nel chiedere l’annullamento dei provvedimenti impugnati, la società A lamentava: - con il primo e con il terzo motivo del ricorso principale, che l’interdittiva non era sufficientemente motivata e che le fattispecie di reato rilevate non ne giustificavano l’adozione (non trattandosi di cc.dd. “reati spia”, indicatori di pericolosità sociale a sfondo mafioso); - con il secondo motivo del ricorso principale, che l’Amministrazione aveva violato le regole procedimentali (art.136 del codice dei contratti) in tema di rescissione, avendo omesso di contestare gli addebiti. E con i due ricorsi per motivi aggiunti reiterava le argomentazioni di cui al ricorso introduttivo, deducendo la illegittimità derivata dei provvedimenti sopravvenuti a quelli originariamente impugnati. 5. Infine, con sentenza n.-OMISSIS-del 30.12.2013 il TAR di Catania ha accolto in parte il ricorso ed i ricorsi per motivi aggiunti della società A, annullando per difetto di motivazione la rescissione del contratto (atto riqualificato come provvedimento di revoca), ma respingendo la domanda risarcitoria. 6. Con l’appello in esame il Comune ha impugnato la sentenza in esame per le ragioni indicate nella successiva parte, dedicata alle questioni di diritto. Ritualmente costituitasi, la Curatela del Fallimento della società A - nel frattempo subentrata ad essa - ha eccepito l’infondatezza del gravame. Anche la società B ha impugnato la sentenza con appello incidentale e ne ha chiesto la riforma per le ragioni che saranno indicate nella successiva parte della presente decisione. Nel corso del giudizio le parti hanno insistito nelle rispettive domande ed eccezioni. Infine, all’udienza fissata per la discussione conclusiva, la causa è stata posta in decisione. DIRITTO 7. Tanto l’appello principale proposto dal Comune appellante, che l’appello incidentale proposto dalla società B, entrambi avverso la sentenza n.-OMISSIS-del 30.12.2013 - con la quale il TAR di Catania, sez. III^, ha annullato la delibera di G.M. n.-OMISSIS- dell’11.9.2012 (avente ad oggetto la rescissione da parte del Comune del contratto stipulato con la “società A”) e gli atti presupposti e consequenziali (fra cui il conseguente affidamento del servizio alla “società B”) - sono fondati. 7.1. Con il primo motivo di gravame dell’appello principale e con il primo mezzo di gravame dell’appello incidentale - che possono essere trattati congiuntamente in considerazione della loro sostanziale identità argomentativa - sia il Comune appellante che la “società B”, lamentano l’ingiustizia dell’impugnata sentenza, deducendo che il Giudice di primo grado ha errato nel ritenere che l’informativa antimafia atipica emessa a carico della “società A” fosse scarsamente motivata e basata su fatti irrilevanti ed inidonei ad evidenziare una pericolosità sociale di tipo mafioso; e (parimenti errato nel ritenere che tale informativa) non potesse costituire un valido presupposto per la rescissione del contratto. La doglianza merita accoglimento. 7.1.1. Dagli atti di causa è emerso che in data 11.11.2008 il Comune appellante ha ricevuto un’informativa antimafia ‘atipica’ dalla Prefettura di Catania, la quale lo ha informato - per le eventuali valutazioni di competenza - del fatto che dagli accertamenti in ordine al pericolo di infiltrazioni mafiose nella “ditta A”, erano emerse “cointeressenze societarie esistite nel tempo con congiunti di pregiudicati per associazione per delinquere di stampo mafioso”; e, più in particolare, che l’amministratrice della società conviveva (attualmente) con il sig. X, pregiudicato proprio per fatti di mafia. In un primo tempo l’Amministrazione comunale ritenne che il quadro indiziario emergente dall’informativa in questione fosse eccessivamente vago, e che non giustificasse l’adozione di misure rescissorie. Allorquando, però venne a conoscenza del fatto che con ordinanza del 28.7.2012 il Tribunale -OMISSIS- aveva disposto una misura cautelare (divieto di soggiorno) proprio a carico del Sig. X; che il medesimo era sospettato di essere l’amministratore di fatto della società A e che era altresì indagato per reati connessi all’esecuzione di un appalto concernente proprio la gestione di rifiuti, l’Amministrazione mutò idea, concludendo - a seguito di una nuova valutazione dei fatti sopraggiunti e di una approfondita ponderazione - che il quadro indiziario fosse tale da giustificare l’adozione della misura rescissoria. Ora, al Collegio non sembra che la condotta dell’Amministrazione sia illegittima, né - comunque - così illogica, contraddittoria o immotivata come la Difesa della società A mostra di ritenere. Com’è noto, nel caso di informativa antimafia atipica spetta all’Amministrazione valutare autonomamente - nell’esercizio del suo potere discrezionale - il ‘peso’ delle informazioni ricevute dalla Prefettura, informazioni di per sé non automaticamente “interdittive”. Il fatto che in un primo momento l’Amministrazione abbia ritenuto che le informazioni ricevute non fossero sufficienti per procedere alla revoca in autotutela del contratto, non è contestato in atti da alcuno, e non è dunque oggetto di disamina. Mentre il fatto che ad un certo punto, a seguito di “sopravvenienze”, l’Amministrazione abbia mutato indirizzo, non può affatto sorprendere. Il mutamento di indirizzo a seguito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico costituisce, infatti, una prassi ammessa dall’Ordinamento, ed a maggior ragione allorquando sopraggiungano fatti o norme che suggeriscano, o che impongano, di riesaminare la questione già affrontata. Ciò è esattamente quanto è avvenuto nella fattispecie: essendo stata informata della circostanza che oltre ad intrattenere una relazione di convivenza con l’amministratrice in carica della società A, il sig. X ne era anche il concreto “amministratore di fatto” e che lo stesso era indagato per una serie di reati (quali il reato di truffa aggravata e continuata, il reato continuato di “frode nelle pubbliche forniture” ed il reato di “attività finanziaria abusiva”) commessi ai danni della Pubblica amministrazione, l’Amministrazione comunale ha ritenuto - com’è logico e corretto - di dover riconsiderare la sua precedente valutazione. Ed all’esito di tale attività valutativa integrativa è giunta alla conclusione - non irrazionale, né contraddittoria, né tampoco immotivata - che la soluzione preferibile, a fronte delle evidenze sopravvenute, era quella di pervenire all’adozione dell’atto rescissorio. 7.1.2. Come correttamente sottolineato dal Giudice di primo grado, non può assumere una sostanziale rilevanza il fatto che l’Amministrazione abbia errato nella qualificazione giuridica dell’atto in questione, indicato come “rescissione” anziché come “revoca”. Che a fronte del quadro informativo descritto, l’Amministrazione avesse il potere di pervenire alla “revoca” del contratto in ragione dell’acclarato pericolo che si determinassero infiltrazioni mafiose - e che tale potere abbia legittimamente esercitato - non appare revocabile in dubbio. La legislazione antimafia applicabile alla fattispecie ratione temporis - e cioè il d,lgs. 6.9.2011 n.159 (poi modificato ed integrato dal d.lgs. 15.11.2012 n.2189) applicabile al momento della adozione del provvedimento rescissorio (11.9.2012) - è sufficientemente chiara nel disporre che “la revoca e il recesso (… omissis …) si applicano anche quando gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto (…)” (art.92, comma 4, del d.lgs. n.159/2011). 7.1.3. L’argomentazione difensiva della società A, secondo cui tra “i fatti di reato” e “l’informativa antimafia atipica” sarebbe trascorso troppo tempo (rectius: secondo cui l’informativa atipica per cui è causa sarebbe illegittima in quanto si riferisce a fatti non più attuali e comunque troppo risalenti nel tempo), non può essere condivisa. Ed invero dal tenore delle frasi riportate in atti emerge che i fatti ai quali si riferisce la Prefettura nell’informativa atipica del novembre del 2008, erano contemporanei (quantomeno nel loro sviluppo) alla emissione dell’informativa in questione; o comunque, se perfezionatisi in precedenza, ancora produttivi di effetti attuali. Così è per la “convivenza” fra il pregiudicato per fatti di mafia e l’amministratrice della società A; o per la vicenda delle cointeressenze societarie, frutto di vendite di quote che seppur effettuate in tempi più risalenti avevano determinato assetti societari ancora stabili. 7.1.4. Né ha pregio l’altra argomentazione della difesa della società A (simile alla precedente), secondo cui in ogni caso sarebbe trascorso un tempo eccessivo tra la comunicazione dell’informativa atipica (avvenuta in data 11.11.2008) e la rescissione (disposta con delibera di G.M. dell’11.9.2012); un tempo talmente prolungato dall’aver determinato l’inattualità e dunque l’inefficacia dell’informativa. La doglianza non merita accoglimento in quanto - com’è noto - lo scopo dell’informativa atipica non è quello di produrre effetti interdittivi (dunque “costitutivi”) automatici ed immediati, ma - più limitatamente - quello di porre all’attenzione dell’Amministrazione destinataria, situazioni abnormi o comunque anomale (o preoccupanti in quanto indicative di rischio di condizionamento mafioso) affinchè la stessa possa vigilare ed eventualmente procedere all’adozione del provvedimento interdittivo o rescissorio anche in un momento successivo, allorquando ne ravvisi la necessità in relazione ad ulteriori e sopravvenienti elementi. In altri termini, con l’informativa atipica la Prefettura si limita a fornire all’Amministrazione (che ne è destinataria) un’informazione su un determinato fatto che può assumere rilevanza al fine di una più generale valutazione; valutazione che ben può essere compiuta anche in un momento successivo. E’ pertanto assurdo discutere in ordine alla scadenza dell’efficacia di un’informazione antimafia atipica: come ogni informazione, essa non è suscettibile di scadenza in quanto non produce nessun effetto se non quello di comunicare - con un’azione che è fisiologicamente diretta a durare per sempre - l’accadimento di un fatto. E, nel descriverlo, di “storicizzarne” - per ogni eventuale effetto ammesso dalla legge - l’avvenimento. Sicchè è fisiologico - e non può stupire - che a fronte di un’informativa atipica il provvedimento rescissorio possa essere adottato anche a distanza di molto tempo, rispetto al momento in cui si realizza il fatto del quale viene dato avviso all’Amministrazione che riceve la notizia. Ciò può dipendere - infatti - dal tempo che il soggetto controllato impiega per determinare le condizioni per l’infiltrazione mafiosa. 7.1.5. Non ha pregio, infine, neanche l’argomentazione difensiva che mira a svalorizzare il “fattore-convivenza”. Ed invero non appare revocabile in dubbio - non ostante la originaria titubanza mostrata al riguardo dall’Amministrazione comunale - che il fatto che il sig. X, pregiudicato per associazione mafiosa, convivesse con l’amministratrice della società A costituiva un elemento sufficiente per presumere che la società in questione fosse soggetta al rischio di condizionamenti. Contrariamente a quanto avviene per la parentela (che non la si può scegliere), la “convivenza” fra maggiorenni si risolve in un fatto comportamentale che esprime una libera opzione. E poiché la convivenza implica - di regola (id est: fino a che non avvenga una dissociazione, che non può che essere foriera della imminente separazione) - la continua, permanente e duratura condivisione delle abitudini e delle prassi di vita, il reciproco coinvolgimento nelle attività quotidiane e la prestazione di atti di reciproca solidarietà, non v’è dubbio che le disposizioni che stigmatizzano negativamente la convivenza con un soggetto pregiudicato mafioso (cfr., al riguardo: art.67, comma 4, l’art.68, l’art.84 comma 4, lett. “f” e l’art.85 comma 3 del codice antimafia) non meritino censura sul piano logico-giuridico e non possano destare dubbi di legittimità costituzionale. 7.1.6. In conclusione, l’argomentazione secondo cui non vi sarebbe alcun collegamento tra i reati contestati al sig. X e la sua “pericolosità qualificata” (id est: la pericolosità a sfondo mafioso), e che tali reati non erano comunque diretti a condizionare la società A (o ad avvantaggiarla illecitamente ed illegalmente), non sembra colpire nel segno. Sotto il profilo dell’analisi oggettiva, essa è neutralizzata dalla circostanza - incontrovertibilmente accertata - che il sig. X, pregiudicato per fatti di mafia, era convivente dell’amministratrice in carica della società in questione (perché ad essa legato da una relazione sentimentale che implicava una comunanza di scelte di vita) ed addirittura sospettato di essere il vero amministratore di fatto della società in questione, il che evidenzia la sussistenza di un reale pericolo che la società subisse un condizionamento mafioso. Sotto il profilo dell’analisi soggettivo/psicologica, l’argomentazione che qui si critica appare poco conducente, posto che - contrariamente a quanto la difesa della società A mostra di credere - la reiterata commissione di reati contro la Pubblica amministrazione costituisce un indice rivelatore importante ai fini di verificare l’affidabilità del contraente; e che la reiterata commissione di reati contro la Pubblica amministrazione (quali, nel caso dedotto in giudizio, il reato di truffa aggravata e continuata, il reato continuato di “frode nelle pubbliche forniture” ed il reato di “attività finanziaria abusiva”) da parte di un soggetto pregiudicato per fatti di mafia costituisce un indice che ne disvela la personalità e la posizione (verticistica o di rilievo) all’interno dell’associazione per delinquere, e dunque il grado di pericolosità. 7.2. Con il secondo mezzo di gravame il Comune lamenta l’ingiustizia dell’impugnata sentenza per intrinseca contraddittorietà, deducendo che una volta dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in merito all’inadempimento ed alla questione della liceità della rescissione (o del recesso), il Giudice di primo grado non avrebbe potuto accogliere il ricorso (né tampoco annullare il provvedimento rescissorio). La doglianza è in parte inammissibile, improcedibile e comunque infondata. 7.2.1. Inammissibile in quanto il Comune non vanta alcun interesse a contestare l’intervenuto annullamento giurisdizionale della delibera di GM con cui è stato rescisso il contratto. 7.2.2. Improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse a coltivarla, in quanto con l’accoglimento del primo mezzo di gravame l’interesse alla caducazione della sentenza di primo grado, perseguito dal Comune, viene soddisfatto pienamente. 7.2.3. E comunque infondata in quanto il Giudice di primo grado ha affermato la propria giurisdizione perchè ha qualificato l’atto di ritiro impugnato come “atto autoritativo” di “revoca” del provvedimento di aggiudicazione, e non già come atto di rescissione di un contratto già stipulato; ragion per cui, ritenuto di poter conoscere della questione (che non concerne l’esatto adempimento di un’obbligazione di fonte contrattuale, ciò che la connoterebbe come “questione privatistica”, di competenza giurisdizionale dell’A.G.O.), ha poi deciso in conseguenza. Sicchè la prospettazione dell’appellante non può essere condivisa, in quanto prende le mosse dalla errata presupposizione che il Giudice di primo grado abbia negato la propria giurisdizione (ed abbia poi contraddittoriamente giudicato), mentre è vero proprio il contrario. 7.3. Con il secondo mezzo di gravame dell’appello incidentale, la società B lamenta l’ingiustizia dell’impugnata sentenza sotto un ulteriore profilo, deducendo che dall’erroneo annullamento giudiziale del provvedimento rescissorio (effettuato dal Giudice di prime cure), è conseguito il parimenti erroneo annullamento - per illegittimità derivata - della nuova gara e della nuova aggiudicazione. La doglianza merita accoglimento. Posto che con la presente decisione ha chiarito, per le conseguenti statuizioni rettificative della sentenza appellata, che l’atto rescissorio adottato dal Comune deve considerarsi legittimo, ne consegue che debbano sopravvivere anche gli atti provvedimentali che l’Amministrazione comunale aveva adottato in conseguenza dello stesso (nella specie: indizione della nuova gara, esclusione della società A e nuova aggiudicazione in favore della società B). E che pertanto nella parte in cui li ha annullati, la sentenza appellata dev’essere rettificata. 8. In considerazione delle superiori osservazioni, tanto l’appello principale che l’appello incidentale vanno accolti; e, per l’effetto ed in riforma dell’impugnata sentenza, il ricorso proposto in primo grado dalla società A va respinto, e va dichiarata la legittimità della procedura di gara conclusasi con l’aggiudicazione definitiva in favore della società B dell’appalto per il servizio integrato di igiene ambientale nel territorio del Comune appellante. La delicatezza delle questioni dibattute, che ha visto impegnate le parti in difese tecniche ed in operazioni ermeneutiche particolarmente analitiche e dettagliate, giustifica pienamente la compensazione delle spese processuali fra le parti costituite. P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, accoglie gli appelli principale ed incidentale proposti, rispettivamente, dal Comune appellante e dalla Ditta B; e, per l’effetto ed in riforma dell’impugnata sentenza, respinge i ricorsi proposti in primo grado dalla società A (ora Curatela del Fallimento Società A) e dichiara legittimi gli atti da essa impugnati. Compensa le spese fra le parti. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il Sig. X, la Società A, il Comune appellante e la Ditta B. Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 16 gennaio 2019 con l'intervento dei signori magistrati: Rosanna De Nictolis, Presidente Nicola Gaviano, Consigliere Carlo Modica de Mohac, Consigliere, Estensore Giuseppe Barone, Consigliere Maria Immordino, Consigliere Rosanna De Nictolis, Presidente Nicola Gaviano, Consigliere Carlo Modica de Mohac, Consigliere, Estensore Giuseppe Barone, Consigliere Maria Immordino, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Informativa antimafia – Presupposti – Informativa antimafia atipica - Informazioni ricevute dalla Prefettura – Valutazione discrezionali dell’Amministrazione – Rescissione del contratto a distanza di tempo dall’informativa - Possibilità.   Nel caso di informativa antimafia atipica spetta all’Amministrazione valutare autonomamente - nell’esercizio del suo potere discrezionale - il ‘peso’ delle informazioni ricevute dalla Prefettura, informazioni di per sé non automaticamente “interdittive”, valutazione che ben può essere compiuta anche in un momento successivo alla comunicazione e portare a rescindere un contratto a distanza di tempo dalla stessa informativa (1).     (1) Ha chiarito il Cga che il fatto che in un primo momento l’Amministrazione abbia ritenuto che le informazioni ricevute non fossero sufficienti per procedere alla revoca in autotutela del contratto, non è contestato in atti da alcuno, e non è dunque oggetto di disamina. Mentre il fatto che ad un certo punto, a seguito di “sopravvenienze”, l’Amministrazione abbia mutato indirizzo, non può affatto sorprendere. Il mutamento di indirizzo a seguito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico costituisce, infatti, una prassi ammessa dall’Ordinamento, ed a maggior ragione allorquando sopraggiungano fatti o norme che suggeriscano, o che impongano, di riesaminare la questione già affrontata. Ha chiaro il Cga che nella specie, essendo stata informata della circostanza che oltre ad intrattenere una relazione di convivenza con l’amministratrice in carica della società, il sig. X ne era anche il concreto “amministratore di fatto” e che lo stesso era indagato per una serie di reati (quali il reato di truffa aggravata e continuata, il reato continuato di “frode nelle pubbliche forniture” ed il reato di “attività finanziaria abusiva”) commessi ai danni della Pubblica amministrazione, l’Amministrazione comunale ha ritenuto - com’è logico e corretto - di dover riconsiderare la sua precedente valutazione. Ed all’esito di tale attività valutativa integrativa è giunta alla conclusione - non irrazionale, né contraddittoria, né tampoco immotivata - che la soluzione preferibile, a fronte delle evidenze sopravvenute, era quella di pervenire all’adozione dell’atto rescissorio. Non può assumere una sostanziale rilevanza il fatto che l’Amministrazione abbia errato nella qualificazione giuridica dell’atto in questione, indicato come “rescissione” anziché come “revoca”. Che a fronte del quadro informativo descritto, l’Amministrazione avesse il potere di pervenire alla “revoca” del contratto in ragione dell’acclarato pericolo che si determinassero infiltrazioni mafiose - e che tale potere abbia legittimamente esercitato - non appare revocabile in dubbio. La legislazione antimafia applicabile alla fattispecie ratione temporis - e cioè il d,lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (poi modificato ed integrato dal d.lgs. 15 novembre 2012, n. 2189) applicabile al momento della adozione del provvedimento rescissorio (11 settembre 2012) - è sufficientemente chiara nel disporre che “la revoca e il recesso (… omissis …) si applicano anche quando gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto (…)” (art. 92, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011). L’argomentazione difensiva della società A, secondo cui tra “i fatti di reato” e “l’informativa antimafia atipica” sarebbe trascorso troppo tempo (rectius: secondo cui l’informativa atipica per cui è causa sarebbe illegittima in quanto si riferisce a fatti non più attuali e comunque troppo risalenti nel tempo), non può essere condivisa. Ed invero dal tenore delle frasi riportate in atti emerge che i fatti ai quali si riferisce la Prefettura nell’informativa atipica del novembre del 2008, erano contemporanei (quantomeno nel loro sviluppo) alla emissione dell’informativa in questione; o comunque, se perfezionatisi in precedenza, ancora produttivi di effetti attuali. Così è per la “convivenza” fra il pregiudicato per fatti di mafia e l’amministratrice della società A; o per la vicenda delle cointeressenze societarie, frutto di vendite di quote che seppur effettuate in tempi più risalenti avevano determinato assetti societari ancora stabili. Né rileva il tempo trascorso tra la comunicazione dell’informativa atipica e la rescissione; un tempo talmente prolungato dall’aver determinato l’inattualità e dunque l’inefficacia dell’informativa. Ed invero, lo scopo dell’informativa atipica non è quello di produrre effetti interdittivi (dunque “costitutivi”) automatici ed immediati, ma - più limitatamente - quello di porre all’attenzione dell’Amministrazione destinataria, situazioni abnormi o comunque anomale (o preoccupanti in quanto indicative di rischio di condizionamento mafioso) affinchè la stessa possa vigilare ed eventualmente procedere all’adozione del provvedimento interdittivo o rescissorio anche in un momento successivo, allorquando ne ravvisi la necessità in relazione ad ulteriori e sopravvenienti elementi. In altri termini, con l’informativa atipica la Prefettura si limita a fornire all’Amministrazione (che ne è destinataria) un’informazione su un determinato fatto che può assumere rilevanza al fine di una più generale valutazione; valutazione che ben può essere compiuta anche in un momento successivo. Aggiungasi che l’informazione antimafia atipica non è suscettibile di scadenza in quanto non produce nessun effetto se non quello di comunicare - con un’azione che è fisiologicamente diretta a durare per sempre - l’accadimento di un fatto. E, nel descriverlo, di “storicizzarne” - per ogni eventuale effetto ammesso dalla legge - l’avvenimento. Sicchè è fisiologico che a fronte di un’informativa atipica il provvedimento rescissorio possa essere adottato anche a distanza di molto tempo, rispetto al momento in cui si realizza il fatto del quale viene dato avviso all’Amministrazione che riceve la notizia. Ciò può dipendere - infatti - dal tempo che il soggetto controllato impiega per determinare le condizioni per l’infiltrazione mafiosa. Non ha pregio, infine, neanche l’argomentazione difensiva che mira a svalorizzare il “fattore-convivenza”. Ed invero non appare revocabile in dubbio - non ostante la originaria titubanza mostrata al riguardo dall’Amministrazione comunale - che il fatto che il sig. X, pregiudicato per associazione mafiosa, convivesse con l’amministratrice della società A costituiva un elemento sufficiente per presumere che la società in questione fosse soggetta al rischio di condizionamenti. Contrariamente a quanto avviene per la parentela (che non la si può scegliere), la “convivenza” fra maggiorenni si risolve in un fatto comportamentale che esprime una libera opzione. E poiché la convivenza implica - di regola (id est: fino a che non avvenga una dissociazione, che non può che essere foriera della imminente separazione) - la continua, permanente e duratura condivisione delle abitudini e delle prassi di vita, il reciproco coinvolgimento nelle attività quotidiane e la prestazione di atti di reciproca solidarietà, non v’è dubbio che le disposizioni che stigmatizzano negativamente la convivenza con un soggetto pregiudicato mafioso (cfr., al riguardo: art.67, comma 4, l’art.68, l’art. 84 comma 4, lett. “f” e l’art. 85, comma 3, del codice antimafia) non meritino censura sul piano logico-giuridico e non possano destare dubbi di legittimità costituzionale.
Informativa antimafia